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Il saggio si propone di analizzare il significato e l’efficacia del divieto di discriminazione per razza posto dall’art. 3, primo comma, della Costituzione italiana. La tesi che si vorrebbe dimostrare si incentra fondamentalmente nell’idea che sia opportuno, in senso politico e culturale, ma soprattutto necessario sul piano giuridico, conservare in Costituzione l’espresso richiamo al concetto di razza come causa di diseguaglianza di trattamento, così da poterne inequivocabilmente inferire il definitivo e inoppugnabile rifiuto. Proprio la collocazione dell’idea di razza come causa di discriminazione in una disposizione compresa tra i principi fondamentali, ne rende possibile la cognizione da parte giudice costituzionale, il quale dispone dello strumento giuridico per decretare l’annullamento di leggi o atti con forza di legge contrastanti con quel divieto. Per sostenere tale posizione, oltre all’inquadramento sintetico del percorso di sviluppo delle teorie filosofico-politiche che hanno costituito il retroterra del dibattito in Assemblea Costituente, opportunamente ricostruito nel saggio, sono prese in esame le decisioni più significative della Corte costituzionale, nelle quali il divieto di discriminazione per razza ha funzionato come parametro di legittimità costituzionale, in coppia con la lingua e con la religione.

Il presente lavoro intende mettere in evidenza il legame che intercorre tra la normativa civile, canonica e pattizia in materia di archivi, biblioteche e musei ecclesiastici, intesi anche quali collezioni di beni.

La teoria sociologica dell’isomorfismo organizzativo presenta inattesi profili di rilevanza in ordine ad alcune categorie fondanti del diritto pubblico. In particolare, muovendo dalla riflessione weberiana intorno alle immagini del mondo e al loro rapporto con il fenomeno del potere, la duplicazione dei modelli organizzativi individuata dai teorici dell’isomorfismo appare utile per dare conto di alcune regolarità giuspubblicistiche implicate nei processi di legittimazione.

Lo scritto è dedicato alla responsabilità civile sanitaria al tempo del Covid-19. Esso ha riguardo sia alla responsabilità del medico, sia alla responsabilità della struttura ospedaliera: disciplinate dalla legge 8 marzo 2017, n. 24 secondo regole differenti. Dette regole sembrano idonee a rispondere alle esigenze poste dalla pandemia, anche se resta l’obiezione di fondo sull’adeguatezza della responsabilità aquiliana quando si tratti della responsabilità del medico dipendente da struttura ospedaliera. Particolare attenzione è dedicata alla responsabilità della struttura sanitaria e al suo fondamento, che, anche alla luce della centralità che esso assume nella recente riforma, parrebbe essere il rischio.

Il saggio prende occasione dal cinquantesimo anniversario dell’introduzione del neologismo che denomina la Bioetica per proporre un’analisi della sua attuale crisi ed una riscoperta delle sue matrici teoretiche e delle sue originarie finalità. Assieme alla Biogiuridica, la Bioetica continua a costituire un sapere normativo necessario per affrontare le sfide della civiltà biotecnologica, e questo articolo cerca di suggerire alcune possibili linee per il suo sviluppo futuro.

L’ordinanza della Corte di cassazione di rinvio alla Corte di giustizia ex art. 267 TFUE interviene sulla questione della sindacabilità, sotto il profilo del difetto di giurisdizione, di pronunce del Consiglio di Stato in violazione grave e manifesta del diritto UE. In particolare, viene in considerazione la prassi del G.A., in caso di contestuali ricorsi volti alla reciproca esclusione di offerenti in una procedura di appalto pubblico, di esaminare prima il ricorso incidentale rispetto a quello principale, in contrasto con la giurisprudenza comunitaria che impone, invece, l’esame di entrambi i ricorsi. In passato, la Corte di cassazione ammetteva questo tipo di ricorsi ex art. 111, c. 8 Cost., sul presupposto di una nozione ampia ed evoluta di giurisdizione e in omaggio al principio di effettività della tutela. La pronuncia della Corte costituzionale 6/2018 si frappone a questa “lettura” e induce la Corte regolatrice ad interrogare la Corte di giustizia in materia.

L’Autore analizza, dal punto di vista politico criminale e dogmatico, i criteri e gli strumenti normativi attraverso cui il legislatore imposta e gradua il rimprovero nei confronti delle condotte che ledono il benessere degli animali.

Il tema affrontato in questo articolo, che rappresenta un capitolo di una più ampia ricerca, è quello del compromissum aribitri, in particolare sotto il profilo di quelli che sono i due aspetti che si presentano più problematici. Tenendo conto dei risultati raggiunti dalla dottrina moderna, segnata profondamente dalle opere di due grandi studiosi, Giorgio La Pira e Mario Talamanca, si analizza, da un lato, il rapporto fra l’accordo delle parti (conventio) e le stipulazioni con le quali le stesse parti si promettevano reciprocamente una somma per il caso in cui l’una o l’altra non avesse rispettato quanto convenuto, dall’altro, la questione del diniego dell’exceptio pacti alla parte convenuta in giudizio nonostante il compromesso.

Il contributo tratta dell'accusatio adulterii. In particolare, dopo aver ricostruito la disciplina dell'adulterio prevista dalla lex Iulia de adulteriis coercendis, l'articolo si sofferma sul caso dell'adulterio commesso da una donna con uno schiavo del marito. Per quanto riguarda questo caso, il contributo propone un'esegesi di Ulp. 3 de adult. D. 48.2.5 e Marc. 1 de publ. iudic. D. 48.5.34 pr. Partendo dalle informazioni che ci offrono i due frammenti del Digesto, il lavoro tratta brevemente il significato del termine praeiudicium nel processo romano. Nelle conclusioni, vengono prese in considerazione le tendenze umanitarie della giurisprudenza classica, in considerazione del trattamento dello schiavo indicato da Ulpianus e Aelius Marcianus.

Il contributo si focalizza sugli aspetti palingenetici del frammento conservato in D. 50.17.109 (Paul. 5 ad ed.) mettendo in evidenza in particolare come lo stesso Otto Lenel mostri ripensamenti sulla collocazione del brano nelle diverse edizioni del suo Edictum Perpetuum e come la scelta effettuata dallo studioso tedesco nella Palingenesia iuris civilis si discosti dalla sequenza inserita da Krüger nelle edizioni stereotipe del Digesto.
