Studi sul compromissum arbitri. I. La letteratura e l’exceptio pacti
Stefania Fusco
Ricercatore di diritto romano, Università degli Studi di Sassari
Studi sul compromissum arbitri.
I. La letteratura e l’exceptio pacti*
English title: Studies on the compromissum arbitri. I. Literature and the exceptio pacti.
Numero DOI: 10.26350/004084_000099
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Compromesso e litis contestatio nell’opera del La Pira. - 3. La critica del Talamanca: conventio e stipulatio compromissi. - 4. L’opera dello Ziegler. - 5. La letteratura più recente: 5.1. Un seminario di Massimo Brutti. - 5.2. Le opinioni di Matteo Marrone. - 5.3. Le «funzioni giudicanti» nella monografia di Natale Rampazzo. - 5.4. Arbitrato e iudicium in un saggio di Tommaso Dalla Massara. 6. Il problema dell’exceptio pacti.
1. Introduzione.
Il presente articolo rappresenta un capitolo di una ricerca più ampia, destinata ad affrontare i diversi temi connessi con l’arbitrato in diritto romano. Mi è sembrato in ogni caso interessante fare il punto sui risultati raggiunti dalla dottrina moderna, in particolare su due aspetti che presentano profili rilevanti e problematici: il rapporto fra l’accordo delle parti (conventio) e le stipulazioni con le quali le stesse parti si promettevano reciprocamente una somma per il caso in cui l’una o l’altra non avesse rispettato quanto convenuto, e la questione del diniego dell’exceptio pacti alla parte convenuta in giudizio nonostante il compromesso. Non ci si occuperà, in questa sede, dell’intervento pretore volto ad indurre l’arbitro, che avesse accettato di giudicare quella controversia, ad assolvere il compito che si era assunto[1].
La giurisprudenza, tuttavia, affronta il tema dal punto di vista del pretore: se egli debba o no costringere l’arbitro che ha accettato ad emettere sentenza, e quindi esaminando le diverse ipotesi e verificando se vi è stato un accordo e se le parti hanno compiuto le stipulazioni reciproche. Solo in questo caso il pretore interverrà, come riportato da Ulpiano in D. 4.8.11.1-2 (13 ad ed.):
Arbitrum autem cogendum non esse sententiam dicere, nisi compromissum intervenerit. Quod ait praetor: "pecunia compromissa", accipere nos debere, non si utrimque poena nummaria, sed si et alia res vice poenae, si quis arbitri sententia non steterit, promissa sit: et ita Pomponius scribit.
Il giurista severiano continua esaminando diversi possibili contenuti delle stipulazioni reciproche:
D. 4.8.11.2: Quid ergo, si res apud arbitrum depositae sunt eo pacto, ut ei daret qui vicerit, vel ut eam rem daret, si non pareatur sententiae, an cogendus sit sententiam dicere? Et puto cogendum. Tantundem et si quantitas certa ad hoc apud eum deponatur. Proinde et si alter rem, alter pecuniam stipulanti promiserit, plenum compromissum est et cogetur sententiam dicere.
Quindi il compromissum è plenum solo quando vi sia stato l’accordo e le parti abbiano compiuto le stipulazioni reciproche[2]. Su questo punto la giurisprudenza è più volte intervenuta prospettando diverse ipotesi in quanto al contenuto delle stipulazioni, con una certa tendenza ad allargarne il concetto, come già si potuto notare dall’esame dei frammenti sopra citati, in modo da garantire la tutela pretoria del receptum a situazioni non perfettamente coincidenti con il modello[3].
L’accordo poteva presentare i contenuti più diversi: oltre alla scelta dell’arbitro, e talvolta più di uno[4], poteva riguardare una sola controversia fra le parti, o più di una o tutte[5], fissare un luogo ed un termine per la pronuncia della sentenza[6], stabilire che, nel caso di morte di una o di ambedue le parti, subentrassero gli eredi[7], prevedere la possibilità che la sentenza venisse resa in assenza di una o di entrambe le parti[8], contenere una clausola che prevedesse il dolo[9], e così via. D’altra parte l’arbitro, nel rendere la sentenza, doveva attenersi strettamente a quanto stabilito nel compromesso:
D. 4.8.32.15 (Paul. 13 ad ed.):
De officio arbitri tractantibus sciendum est omnem tractatum ex ipso compromisso sumendum: nec enim aliud illi licebit, quam quod ibi ut efficere possit cautum est: non ergo quod libet statuere arbiter poterit nec in qua re libet nisi de qua re compromissum est et quatenus compromissum est[10].
Vista l’ampiezza dei contenuti che potevano essere inseriti nell’accordo e la libertà delle parti nel determinarli, sarebbe interessante chiedersi se un compromesso che non contenesse tutti requisiti atti a garantire l’intervento del pretore contro l’arbitro che rifiutasse di rendere la sentenza pur avendo accettato la designazione, potesse comunque arrivare alla sua naturale conclusione. In questo caso si tratterebbe di verificare in che misura valesse la regolamentazione che emerge dal titolo 4.8 del Digesto[11].
2. Compromesso e litis contestatio nell’opera del La Pira.
La letteratura in tema di compromesso, ed in particolare intorno al rapporto fra quanto stabilito nelle clausole compromissorie e le stipulazioni penali, non è abbondante[12]. Particolare rilevanza rivestono, anche se tutt’altro che recenti, due opere in cui vengono sostenute tesi profondamente diverse. Si tratta di uno studio di Giorgio Pira[13] e di uno scritto di Mario Talamanca[14]. Il La Pira, sviluppando una ipotesi già sostenuta da alcuni Autori[15], ritiene che il momento centrale del processo formulare fosse rappresentato dall’accordo delle parti, che trovava espressione nella litis contestatio, e vi assimila il compromissum: litis contestatio e compromissum vengono qualificati ambedue come negozi solenni, realizzati attraverso l’adibizione di formulari, per la prima contenuti nell’editto, per il secondo elaborati dalla prassi.
Punto di partenza del La Pira è l’affermazione che il compromissum non è un patto in senso tecnico, perché da esso non nasce una exceptio pacti, come risulta da un passo della Consultatio ed affermato esplicitamente da Ulpiano:
Cons. 9.17: Item ex corpore Gregoriani. Qui contra arbitri sententiam petit sola in eum poenae actio ex compromisso competit, non etiam exceptio pacti conventi;
D.4.8.2 (Ulp. 4 ad ed.): Ex compromisso placet exceptionem non nasci, sed poenae petitionem.
Il compromesso secondo il La Pira sarebbe non un patto, una di quelle conventiones che transeunt in aliud nomen[16] e non hanno quindi rilievo giuridico come tali, ma solo in quanto trasfuse nel corrispondente negozio formale o causale: perciò la conventio che sta alla base del compromissum assume rilevanza giuridica solo in quanto trasfusa nelle due stipulazioni reciproche. Con le parole dell’A.: «la struttura classica del compromissum è quella di un negozio formale bilaterale o plurilaterale, concluso mediante due o più stipulazioni con cui le parti sottopongono una loro controversia alla decisione di un arbitro da esse scelto, obbligandosi reciprocamente a rispettare la sententia»[17]. Il compromissum offre all’arbitro un programma preciso cui egli deve attenersi, ed esso quindi deve essere solennemente esplicitato nella formula stipulatoria pronunciata dalle parti, formula che consta di varie clausole secondo schemi tipici[18].
Emerge quindi l’identità di funzione e di struttura tra litis contestatio e compromissum, secondo l’A. comprovata dal passo di Paolo che apre il titolo 4.8. del Digesto:
D.4.8.1 (Paul. 2 ad ed.): Compromissum ad similitudinem iudiciorum redigitur et ad finiendas lites pertinet.
Ambedue tendono pertanto alla composizione, giudiziale o extragiudiziale, della controversia[19], e si tratta di negozi ugualmente solenni, aventi natura di accordo concluso mediante una formula in cui le parti fissano solennemente i termini di una controversia che rimettono alla decisione di un terzo, iudex o arbiter, cui si obbligano a sottostare, in base all’efficacia vincolante della sentenza o in base alla promissio poenae[20]. Data l’affermata identità di funzione e di struttura fra il processo formulare e la procedura arbitrale, l’A. tenta quindi di elaborare, sulla falsa riga dei giudizi corrispondenti, alcuni esempi di formule stipulatorie, basandosi sullo schema del iudicium finium regundorum, della reivindicatio, e dell’actio communi dividundo,individuando in queste formule stipulatorie le stesse parti della formula delle azioni formulari[21].
3. La critica del Talamanca: conventio e stipulatio compromissi.
Il Talamanca, nell’opera già citata[22], critica radicalmente le affermazioni del La Pira[23]. La constatazione che compromissum e iudicium tendono ambedue alla soluzione di una controversia, come è affermato dal già citato passo di Paolo[24], non è sufficiente a suffragare le affermazioni dell’A. Per dirlo con le parole di Talamanca: «dalla constatazione, innegabile, che il procedimento ordinario e quello arbitrale servono ad una identica funzione, e che taluni aspetti dell’uno e dell’altro sono regolati, a questo riguardo, in maniera analoga, non è legittimo inferire che questi aspetti siano regolati, anche sotto il profilo strutturale, in modo identico, quando, come nel caso, il lato funzionale non impone necessariamente quella determinata struttura»[25].
Le critiche del Talamanca, per altro, trovano conferma da quanto risulta dai documenti di compromesso rinvenuti ad Ercolano negli anni ’50[26], quindi successivamente al periodo in cui il La Pira aveva elaborato la sua tesi. In particolare il confronto fra il formulario proposto dal La Pira per una contesa di confine e quanto contenuto in TH 76[27] dimostra l’inconsistenza della tesi di una identità di struttura fra processo ordinario e procedimento arbitrale: nella tavoletta in questione non si fa nessun riferimento alla formula del processo ordinario, e la elezione dell’arbitro non costituisce fondamento del procedimento, tanto che la sua nomina viene data per presupposta, e non viene neppure ricordata in modo specifico. La sua attività decisoria, poi, viene indicata con un generico sententiam dicere. Va aggiunto che l’esame delle altre tavolette mostra l’esistenza di formulari di compromesso diversi, elaborati dalla giurisprudenza cautelare[28].
Il punto fondamentale delle argomentazioni del Talamanca è rappresentato dalla approfondita ed accurata analisi dei reciproci rapporti fra la conventio e la stipulatio compromissi, che costituiscono gli elementi essenziali del negozio compromissorio. Respinta la tesi del La Pira che, come ho accennato, nega all’accordo fra le parti la natura di pactum, l’A. preliminarmente sottolinea chealla base di qualsiasi stipulatio (così come di ogni negozio reale o formale) vi è una conventio, e cioè l’accordo delle parti su un determinato assetto di interessi perseguito con la stipulatio. I rapporti fra i due elementi, tuttavia, si articolano in modo diverso se la conventio di per sé è atta a produrre effetti giuridici, oppure no, ed in relazione a come è concepita la stupulatio penale, se astratta o accessoria.
Il Talamanca esamina i vari tipi di stipulatio[29], distinguendo una stipulazione nella quale le parti assumono direttamente gli impegni derivanti dall’accordo, ed una con la quale essi assumono l’obbligazione di pagare una determinata somma di denaro al verificarsi di una determinata condizione nella quale è versato l’assetto di interessi predisposto: si tratta della stipulatio poenae, che dalle fonti risulta essere il modello normalmente utilizzato nel compromesso. A sua volta la stipulatio poenae può essere principale, nella quale le parti assumono l’obbligazione a pecuniam dare in caso di mancata esecuzione della prestazione, oppure congiunta, quando si assume l’obbligazione ad eseguire l’obbligazione primaria, e, in caso di mancata esecuzione si promette anche di pagare la penale. Nel compromesso la forma usata sembra essere quella della stipulazione penale principale, come risulta dai documenti della prassi[30]. In sostanza si ha qui un’applicazione particolare delle stipulazioni penali[31], che assumono una fondamentale funzione di garanzia, in quanto garantiscono l’adempimento di una serie di obblighi, fissati nella conventio sottostante, che non sarebbero altrimenti coercibili.
Nel compromesso l’accordo delle parti concerne da un lato la costituzione del tribunale arbitrale per il deferimento ad esso della controversia nei termini da loro stabiliti, ed eventualmente l’indicazione delle norme di procedura da seguire, dall’altro la determinazione dei termini della controversia e l’impegno a compiere tutti gli atti necessari affinché il procedimento si concluda con una sentenza, nonché l’impegno a conformarsi ad essa. Gli accordi della prima serie fanno parte della conventio compromissi, ma non vengono ricompresi nella stipulatio penale, mentre vi rientra l’assetto di interessi predisposto dalle parti e gli ulteriori impegni, come condizione rispetto alla stipulatio, che è accessoria e ha per oggetto il pagamento di una pena. Sostanzialmente la conventio assume rilevanza giuridica attraverso le stipulazioni, ma non si risolve completamente in esse.
L’accessorietà della stipulatio rispetto alla conventio è provata chiaramente dalle fonti a noi pervenute, fra le quali ricordiamo una costituzione di Caracalla:
C. 2.55.1 (Imp. Antoninus A. Nepotianae): Ex sententia arbitri ex compromisso iure perfecto aditi appellari non posse saepe rescriptum est, quia nec iudicati actio inde praestari potest et ob hoc invicem poena promittitur, ut metu eius a placitis non recedatur.
La pena, che serve solo a garantire alle parti il rispetto degli impegni assunti con la conventio, è evidentemente con essa in relazione di accessorietà, e si applicherà solo in caso di violazione degli accordi.
Interessante anche un passo di Ulpiano, in cui il giurista distingue nettamente l’accordo dalla stipulatio poenae:
D. 44.4.4.3 (Ulp. 76 ad ed.): Item quaeritur si cum eo, a quo tibi sexaginta deberentur, compromiseris, deinde per imprudentiam poenam centum stipulatus fueris[32](…).
Il Talamanca trova poi conferma alla sua opinione nell’esame dei casi di estinzione del compromesso, che provano ancora una volta l’accessorietà delle stipulazioni penali rispetto alla conventio compromissi, e la possibilità che la stessa conventio reagisca sulle stipulazioni[33]. Le cause di estinzione menzionate nelle fonti sono la scadenza del termine, la morte di una delle parti, l’acceptilatio, il iudicium e il pactum de non petendo[34]: l’A. analizza le singole cause[35], e ne trae importanti conseguenze in ordine ai rapporti fra conventio compromissi e stipulazioni. In particolare per quanto riguarda le cause di estinzione unilaterali, nelle quali l’estinzione di una delle stipulazioni comporta l’estinzione anche dell’altra, il Talamanca osserva che - essendo la stipulatio una obligatio verbis, che trae validità ed efficacia solo dalla pronuncia delle parole - il fenomeno si spiega solo considerando l’efficacia dell’estinzione unilaterale sull’intero compromesso, che viene meno in tutto il suo impianto.
La ricerca dell’A. prosegue con l’esame della exceptio pacti ex compromisso, sulla quale ritorneremo[36], cui segue un denso capitolo in cui il Talamanca esamina le condizioni di validità dal compromesso e la sua idoneità a ricevere la coercitio del pretore[37]. Nell’ultimo capitolo egli illustra l’evoluzione dell’istituto in età postclassica, giustinianea e nel diritto bizantino, delineando la diversa concezione che si viene formando intorno alla poena compromissi[38].
4. L’opera dello Ziegler.
Le opinioni del La Pira sono state in parte riprese dallo Ziegler[39], il quale svolge una analisi dettagliata e completa delle fonti che si riferiscono all’arbiter ex compromisso, organizzata sulla base di una periodizzazione storica, ed incentrata su due elementi essenziali, il compromissum e il receptum arbitri[40]. Per quanto attiene al compromesso classico l’A. manifesta un certo scetticismo circa la possibilità di cogliere la struttura del negozio in questione: egli afferma infatti che non è possibile dare una risposta pienamente soddisfacente ai giuristi moderni circa la struttura del compromissum nel diritto romano classico, in quanto si tratta di un istituto che si colloca nella «terra di nessuno» tra il diritto privato e il diritto processuale[41]. In altri punti, invece, sembra convinto della possibilità di ricostruire tale struttura, in senso contrario alla ricostruzione del Talamanca, soprattutto nell’affermazione della non emersione della conventio come elemento rilevante nel compromissum[42], e nella considerazione che la ricostruzione del Talamanca sarebbe idonea ad esprimere la struttura del negozio in questione solo per il periodo postclassico e giustinianeo[43].
Lo Ziegler pertanto esclude fermamente che il compromissum classico fosse un pactum, affermando invece che si trattava dell’unione di stipulazioni reciproche e interdipendenti, per la soluzione di una controversia fra le parti[44]. Questa impostazione sembra avvicinarsi a quella rigidamente seguita dal La Pira il quale, pur considerando l’accordo delle parti necessariamente sotteso alle stipulatione compromissi, in esse risolveva l’intero negozio. Lo Ziegler, nondimeno, respinge le ipotesi dello stesso La Pira relative alla formulazione delle stipulationes compromissi in analogia con le formule dell’ordo iudiciorum[45], ed in alcuni punti della sua ricerca non può evitare di tenere conto dell’accordo delle parti e della sua dialettica con le stipulazioni penali. E’ questo però un aspetto che l’A. non approfondisce, in quanto, identificando il vero compromesso formale del diritto romano classico con le stipulazioni penali, ritiene che tutto il programma della controversia incluso nella condicio stipulationis costituisse una sorta di compromesso informale, privo di rilevanza giuridica[46].
Vi è quindi una impostazione profondamente diversa da quella del Talamanca: quest’ultimo considera la ricostruzione dei rapporti fra l’assetto di interessi predisposto dalle parti e le stipulazioni penali come preliminare ad ogni attenta indagine sul compromissum, ed essenziale per una sua esatta configurazione[47], mentre lo Ziegler rinuncia ad approfondire e discutere criticamente tale problematica in quanto risolve l’intero negozio nelle stipulazioni penali, considerando l’accordo fra le parti rilevante solo nei limiti in cui sia dedotto nella condicio stipulationis. La conventio a suo avviso rappresenta un momento preparatorio, sicuramente necessario, ma non produttivo di effetti autonomi rispetto alle stipulazioni, quindi non rilevante dal punto di vista giuridico.
Si può citare ad esempio l’interpretazione di C. 2.55.1[48], nella quale secondo il Talamanca è evidente la dialettica fra poenam promittere e a placitis recedere, a riprova della natura accessoria della stipulazione penale già nell’età classica, mentre lo Ziegler colloca la costituzione nel capitolo dedicato agli sviluppi postclassici, ed è solo in questo contesto che l’A. ammette che il redattore avesse chiaro il concetto che si trattava di un patto da garantire attraverso stipulazioni penali[49]. Per converso lo Ziegler a proposito (TH 76, I ll.1-2) non respinge l’integrazione proposta dagli editori[50] ed accettata dal Talamanca[51], e giunge a constatare che ciò fornirebbe un indizio per l’unione di patto e stipulazione[52]. Il Talamanca, nelle osservazioni critiche[53] nei confronti dell’opera dello Ziegler, al proposito rileva come tale affermazione mal si concili con il complessivo rigetto della sua tesi, rilevando un certo ondeggiamento nelle prese di posizione dello studioso tedesco[54].
5. La letteratura più recente:
5.1. Un seminario di Massimo Brutti.
Le opere degli Autori che sono state ricordate, in particolare quelle del La Pira e del Talamanca, hanno profondamente influenzato la dottrina successiva, tanto che chi si è occupato dopo di loro del compromissum in diritto romano non ha potuto prescinderne.
Al La Pira si ispira anche, ad esempio, il Linares Pineda[55], il quale sostiene, specificatamente contro l’opinione del Talamanca, che il compromissum non è un patto seguito da stipulazioni penali accessorie, bensì l’incrocio di due stipulazioni penali, alle quali, come in qualsiasi altra stipulazione, sottostà una conventio, che funziona come dato per una «interpretazione integrativa» delle stesse stipulazioni[56]. Piena adesione alle opinioni del Talamanca viene invece manifestata J. Daza Martinez[57], ed anche M. Scogliamiglio[58] fa propria la sua impostazione, affermando che un uso pressoché tipico della stipulatio poenae si riscontra nel compromissum, consistente nell’accordo fra due o più soggetti per deferire la loro controversia ad un arbitro, alla cui sentenza si impegnavano a sottostare. Le stipulazioni penali reciproche avevano lo scopo appunto di impegnare le parti al rispetto della sentenza arbitrale, la quale per tutto il periodo classico non ebbe di per sé alcun valore giuridico[59]. Più articolata la posizione di G. Buigues Oliver, il quale mette a confronto quasi punto per punto le posizioni del La Pira e del Talamanca, generalmente aderendo alle opinioni del secondo[60].
Più vicino alle posizioni del Talamanca Massimo Brutti, il quale osserva, in un saggio dedicato alle controversie arbitrali, che nel passo di apertura del titolo 4.8 la definizione di compromissum[61] è alquanto breve e insufficiente. Questa, infatti, si limita a proporre un’analogia e una funzione, ma non dà conto minimamente della complessità del compromissum, caratterizzato essenzialmente dalla combinazione di reciproche stipulationes, così come si trae dall’editto perpetuo, che parla di pecunia compromissa[62].
Lo studioso osserva che i giuristi hanno cercato di ampliare il concetto di pecunia (Pomponio parla di alia res ed Ulpiano di res depositate[63]), così come è stato ampliato lo stesso concetto di compromissum: non solo Ulpiano afferma che le stipulazioni possono anche essere in faciendo[64], ma Pomponio lo riconosce anche in assenza di stipulationes[65].
Nonostante ciò, l’autore è dell’avviso che la fattispecie tipica del compromissum, trattata di regola nelle fonti, sia proprio quella risultante da reciproche stipulazioni penali, insieme all’altro atto essenziale per la validità stessa dell’accordo compromissorio: la capacità di ottenere il receptum arbitri.
La sua analisi affronta, in primo luogo, l’ipotesi del La Pira dell’analogia di struttura tra compromissum e litis contestatio formulare, rispetto alla quale è assai critico.
Dopo avere evidenziato come tale idea nasca da una ricostruzione del processo formulare, nella quale si accentua, in particolare nella litis contestatio, l’elemento convenzionale, così come sostenuto dal Wlassak, ritiene che lo studioso non abbia colto le profonde differenze di struttura tra compromissum e litis contestatio.
Intanto non tiene conto del fatto che non esiste una formula negoziale per il compromissum, già predisposta a fondamento dell’attività di accertamento dell’arbitro, mentre, caratteristica della procedura giudiziaria è la formula, nella quale sono fissati i termini dell’attività di accertamento del giudice.
Inoltre, non è possibile parlare di analogia fra due negozi giuridici solenni, perché né la litis contestatio, né la doppia stipulatio possono ricondursi facilmente all’immagine di un negozio giuridico solenne.
In particolare, è assai critico nell’interpretazione del passo contenuto in D. 4.8.1[66], che per il La Pira è fondamentale in quanto documenterebbe, espressamente, l’analogia strutturale fra compromissum e litis contestatio. Per lo studioso siciliano, infatti, nell’inciso redigitur ad similitudinem, il verbo redigere si riferirebbe ad un’attività di scrittura, mentre il termine iudicium sarebbe sinonimo di formula, cioè del documento scritto redatto dal pretore e base del iudicium. Inoltre, accanto all’analogia strutturale, nel passo risulterebbe attestata anche quella funzionale, giacché sia il compromissun che il iudicium tendono a dirimere una lite.
Il Brutti solleva forti dubbi sull’interpretazione data al redigitur dal La Pira, sulla base del fatto che redigere non comprende in sé il riferimento alla scrittura, ma vuol dire ‘raccogliere secondo un ordine’. Egli ammette che vi sarebbe un’analogia limitata al fatto che vi è una ‘organizzazione secondo un ordine’, una composizione, ma sarebbe comunque vaga, giacché i due tipi di rapporto tra contendenti sono molto diversi fra loro: mentre nel iudicium l’attore può costringere la controparte a venire davanti al pretore, esiste un sistema giudiziario ufficiale e si produce un documento che formerà la base dell’accertamento e della sentenza del giudice, nel compromissum non vi è niente di tutto ciò.
Anche l’analogia di struttura, consistente nel solo fatto che, in entrambi i casi, si determina fra le parti un accordo su un documento, sarebbe alquanto approssimativa, se si tiene presente che neanche la rilevanza dell’accordo è la medesima. Nel caso del iudicium, infatti, l’accordo non è l’unico elemento essenziale del procedimento: accanto ad esso vi è l’attività del pretore, la redazione della formula e lo iussum iudicandi rivolto al giudice.
Infine, seppure in entrambi i casi oggetto dell’accordo fosse o potesse essere un documento scritto, la sua funzione era molto diversa, in quanto il compromissum si componeva il più delle volte di stipulationes penali, che potevano essere trascritte in un documento che aveva funzione probatoria, mentre nella procedura formulare vi era un documento scritto, che però non aveva funzione probatoria, ma serviva solo a trasmettere al giudice l’ordine di pronunciare la sentenza, sulla base di un accertamento rigorosamente delimitato: diversi erano dunque l’oggetto e il valore del documento.
Il Brutti prosegue la sua disamina del compromissum enucleando quelli che sono i dati certi che emergono, in modo chiaro, dai testi giurisprudenziali: il compromissum è un accordo fra le parti che ha per oggetto il deferimento della controversia ad un arbitro e la scelta della persona a cui affidare questo incarico; questi, accettando, si obbliga a pronunciare una sentenza, ma tale obbligo non può essere fatto valere mediante un’azione, perché l’inottemperanza dà luogo ad un tipo di sanzioni di natura pubblicistica. Il pretore può, purché il compromissum fosse valido, costringere l’arbitro a pronunciare la sentenza, a non procrastinarla, a non sottrarsi all’impegno assunto, mentre la determinazione del contenuto della decisione rimane libera.
Partendo, dunque, dal fatto incontrovertibile che il compromissum è dato dall’accordo delle parti, che si riversa nelle due stipulationes, lo studioso si sofferma sull’elemento dell’accordo.
In tal senso ritiene opportuno riportare un testo di Ulpiano, in cui il giurista si rifà alla teoria elaborata da Sesto Pedio, ripresa da Giuliano, secondo la quale esistono varie forme in base a cui assume rilevanza l’accordo tra le parti, il semplice incontro di volontà: conventio significa in unum venire, giungere ad un accordo su una determinata sistemazione del rapporto fra le parti[67].
Nel testo in questione il giurista, dopo aver affermato che il pactum in termini generali si può definire come duorum pluriumve in idem placitum consensus, prosegue affermando che conventionis verbum generale est ad omina pertinens, de quibus negotii contrahendi transigendique causa consentiunt qui inter se agunt (…). La conventio pertanto si concretizza in due attività: il contrahere negotium e il transigere negotium, in cui, secondo il Brutti, nell’una negotium è sinonimo di contratto, di attività di scambio giuridicamente organizzata; nell’altra negotium è sinonimo di rapporto controverso, di lite potenziale o in atto, che viene risolto attraverso una transactio, cioè attraverso concessioni reciproche.
Ulpiano utilizza anche una metafora: la conventio è come recarsi da punti di partenza diversi in uno stesso luogo e richiama, di seguito, il pensiero di Pedio[68], secondo il quale non vi è obligatio che non abbia in sé una conventio, compresa la stipulatio.
Alla luce di questa fonte, il Brutti ritorna al compromissum ed afferma che anche in questo caso si ha una conventio, che confluisce entro due stipulationes. Non manca, tuttavia, di notare che nelle fonti vi è una certa oscillazione, perché la combinazione tra queste due stipulationes viene a volte ricondotta ad un solo factum, l’incontro delle volontà dei due soggetti che sono d’accordo nel deferire la controversia ad un arbitro.
Questa riflessione spiegherebbe, a suo avviso, un passo molto rilevante di Ulpiano[69], che riprende un’idea di Pomponio, in cui il concetto di compromissum viene ricondotto, appunto, all’idea di un solo fatto. Secondo quanto dichiarato sarebbe possibile parlare di compromissum, nonostante, come è abbastanza chiaro, si tratti di ‘un caso limite’, persino in un caso in cui vi è solo il nudum pactum, ovvero un «accordo informale, che non è passato in aliud nomen, che non è diventato stipulatio, o meglio non si è tradotto nelle mutue stipulationes»[70].
Si tratta dell’ipotesi in cui tra le parti del compromissum vi sono debiti dell’una nei confronti dell’altra ed ognuna stringe con l’altra un pactum de non petendo, per mezzo del quale si impegna a non esercitare l’azione nel caso in cui non abbia obbedito alla decisione dell’arbitro.
Ogni parte non potrà esercitare l’azione nei confronti dell’altra, insoddisfatta a causa del fatto che l’altra non ha adempiuto alla decisione dell’arbitro, se non dopo aver obbedito essa stessa alla sentenza. In questo modo, sottolinea il Brutti, attraverso il meccanismo dei due reciproci pacta de non petendo, si dà rilevanza a quanto è stato deliberato dall’arbitro, perché chi non obbedisce rimane privo di qualsiasi mezzo di soddisfazione nei confronti della controparte, in quanto vedrà paralizzata la propria azione da una exceptio pacti.
Lo studioso, infine, pone in relazione a questo caso una costituzione di Antonino Caracalla datata 213 d.C.[71], secondo la quale non è possibile esercitare appello nei confronti della sentenza pronunciata da un arbiter ex compromisso.
Egli ritiene che sollevare un problema d’impugnabilità rivela come, probabilmente, il sistema delle controversie arbitrali poteva approssimarsi a quello processuale, forse perché di frequente coloro che ricoprivano l’incarico di arbitri erano le stesse figure istituzionali che svolgevano funzione di giudici. Nonostante ciò, è chiaro che quando alla sentenza si giungeva sulla base di un compromissum, dal momento che l’arbiter non era inserito entro l’ordinamento giurisdizionale, amministrativo e gerarchico che consentiva l’impugnazione all’istanza superiore, non era proponibile appellatio.
La fonte è, a suo avviso, interessante in quanto, nel ribadire il meccanismo secondo il quale non vi è actio iudicati né vi è possibilità di appello sulla base della decisione dell’arbitro, ma vi è invece la promessa di una pena reciproca, introdotta ut metu eius a placitis non recedatur, si conferma che al centro delle stipulazioni penali vi è un accordo, o, per usare le parole della costituzione, vi sono due accordi, due placita, che sono quelli che stanno dentro le due stipulationes. Placita che, evidentemente, fanno parte di un incontro di volontà comune, dal quale non ci si deve allontanare, perché altrimenti subentra l’obbligo a pagare la pena.
Conclude, pertanto che, nel pensiero giuridico romano il compromissum è un incontro di volontà che si riversa in due stipulationes; entro ognuna di queste due stipulationes vi è, secondo la teoria che risale a Pedio, una conventio o, come dice Antonino Caracalla, due placita, che però partecipano di un unico incontro di volontà, tanto è vero che le fonti parlano di un compromissum che si produce nudo pacto, dove l’accordo di volontà è uno solo, anche se realizzato con due pacta de non petendo.
5.2. Le opinioni di Matteo Marrone.
Più ampie le considerazioni di Matteo Marrone[72], che si pone da un punto di vista diverso rispetto al Talamanca. Egli infatti non si pone in modo specifico il problema del rapporto fra conventio e stipulatio, anche se dalle sue affermazioni sembra potersi dedurre che riconosce la natura di patto all’accordo delle parti, le quali sarebbero ricorse alle stipulazioni reciproche su suggerimento della giurisprudenza, allo scopo di garantire l’osservanza dello stesso accordo. L’A., che in diversi punti si richiama allo Ziegler, traccia una storia dell’arbitrato romano, e afferma che la pratica dell’arbitrato risale in Roma ad un periodo molto antico, e che fu ampiamente utilizzato fra cives e fra romani e stranieri per quei rapporti che non trovavano tutela nel sistema delle legis actiones, e nei quali giocava un ruolo determinante la buona fede. La concessione della tutela giurisdizionale, attraverso il processo formulare, alle più diffuse tra queste convenzioni, determinò in un primo tempo il venir meno dell’interesse all’arbitrato meramente privato. D’altra parte il pretore, mostrando maggior favore per il suo processo, negava tutela alle mere convenzioni private, e questo atteggiamento continuò anche quando la pratica dell’arbitrato ricominciò a diffondersi. Da qui il suggerimento della giurisprudenza di avvalersi di stipulazioni penali, per garantire tutela agli accordi.
«Ebbene» - aggiunge il Marrone – «il fenomeno dovette ad un certo momento assumere consistenza non trascurabile», tanto che il pretore, pur continuando a non dare tutela alla mera convenzione arbitrale, si preoccupò di dare una forma di tutela qualora le parti avessero compiuto il compromesso e le stipulazioni penali, attraverso il receptum arbitri, e cioè la promessa di intervenire a costringere l’arbitro che avesse accettato l’incarico ad emanare la sentenza, inappellabile, mediante forme di coazione indiretta. Di conseguenza, soprattutto ad opera della giurisprudenza, si andarono formando diversi formulari di compromesso, e si determinarono le materie per le quali esso non era ammesso. Si stabilì chi non poteva essere indicato come arbitro, si definirono norme procedurali, e si identificarono le situazioni nelle quali l’una o l’altra parte poteva agire ex stipulatu. Pur con tutto ciò per tutta l’età classica secondo il Marrone non si può certo parlare di un favore per l’arbitrato né da parte del pretore, né da parte della giurisprudenza, dato che non era concessa una azione esecutiva della sentenza arbitrale, e neppure era ammessa una excetio pacti sulla base del compromesso.
Valutati i vantaggi e gli svantaggi della procedura arbitrale rispetto al processo ordinario, il Marrone, sulla base delle fonti giuridiche e non a noi pervenute, afferma che nel il periodo che va dal I sec. a.C. al III sec. d.C. l’arbitrato dovette avere una buona diffusione, comunque inferiore a quella del processo ordinario.
In età postclassica, in seguito all’instaurarsi di un sistema di governo «dispotico ed assoluto», si individua la tendenza, a partire dal IV secolo, ad una graduale avvicinamento della regolamentazione del giudizio arbitrale ai criteri propri del processo ordinario (ormai ben diverso dal processo formulare), tendenza che si accentua nell’età giustinianea. In ogni caso, allo sfavore del pretore verso l’arbitrato si sostituisce un atteggiamento di favore, e d’altra parte il confronto con i costi e la durata del processo ordinario, nonché i tanti vincoli cui le parti dovevano sottostare, inducono a ritenere che anche in questo periodo non di rado i privati preferissero ricorrere alla procedura arbitrale.
A conclusione delle sue osservazioni il Marrone sottolinea che in ogni caso la diffusione dell’arbitrato a Roma in ogni tempo fu determinata non tanto dal favore o sfavore del legislatore, o dai maggiori o minori vantaggi rispetto alla procedura ordinaria, quanto dall’esistenza di formazioni sociali libere e spontanee, nelle quali i soggetti si identificavano, ed erano fra di loro solidali[73].
5.3. Le «funzioni giudicanti» nella monografia di Natale Rampazzo.
Al compromissum è riservato il primo capitolo della monografia di Natale Rampazzo, dedicata alle funzioni giudicanti nel diritto romano classico[74].
L’A. prende le mosse dal passo di apertura del titolo 8 del libro IV dei Digesta che, pur essendo a suo avviso destinato, nelle intenzioni dei compilatori, a proporre una definizione del compromissum, è stato alla base di numerosi equivoci. Si tratta di D. 4.8.1 (Paul. 2 ad ed.), che abbiamo più volte citato[75], del quale egli accoglie la traduzione italiana più recente[76], e che, nell’indicare l’obiettivo del compromesso, la cessazione delle liti, rimanda al modello offerto dal processo civile.
Dopo aver analizzato l’uso del termine finire nel linguaggio comune e in quello prettamente giuridico, l’A. ritiene che finire lites possa essere interpretato «nel senso di chiara impostazione dell’area oggettiva di incidenza della pronuncia arbitrale, oltre che di individuazione della portata degli obblighi delle parti contraenti e delle eventuali regole di procedura»[77].
Propone come significato quello di «oggetto di regolamento di interessi concepito dalle parti in vista del deferimento dell’onere decisionale ad un terzo da esse scelto», dal momento che, con il compromesso, «le parti si promettono vicendevolmente una serie di attività condizionate, tessendo una ragnatela di obbligazioni che si intrecciano e si dipanano solo in conseguenza della sententia emanata da un arbiter»[78].
Secondo il Rampazzo compromissum rappresenterebbe il termine descrittivo di un ‘fenomeno giuridico’ ove le parti assumono vincoli reciproci, la cui unione in vista di uno scopo comune, delinea la base necessaria affinché possano produrre i loro effetti, che sono sospesi finché l’arbitro non emana la sentenza. In ciò starebbe, appunto, il tratto caratteristico del compromissum: gli impegni delle parti sono rivolti alla «soluzione pacifica (ovvero senza avvalersi degli strumenti predisposti dall’autorità) di una disputa, non potendo tale atto bilaterale di per sé produrre alcun effetto dirimente, ma meramente ricognitivo della controversia: esso non è in grado di porre fine ad essa, ma solo di precisarne i profili»[79].
Tanto è vero che il compromissum non determina effetti stringenti in modo diretto e indipendente, piuttosto si configura come la stesura di un programma formato da obbligazioni interdipendenti e, solitamente garantite per mezzo di stipulazioni penali, che sottostanno, per la loro efficacia, sia all’accettazione dell’incarico da parte del soggetto nominato come arbitro, che alla sua decisione.
Intendere il compromissum come la definizione del volere delle parti verso il raggiungimento di un risultato, unitamente al dovere di attenersi alla composizione degli interessi decisa dall’arbitro, rende agevole la pronta somiglianza con lo strumento processuale della litis contestatio. E alla stessa soluzione porterebbe coerentemente il passo esaminato, nel quale si offre una corrispondenza, dal punto di vista della struttura, tra il compromissum e il iudicium, sulla base di una redactio similare.
Si propone, a questo punto, il tema dell’analogia tra compromissum e iudicium del La Pira[80], che secondo lo studioso è pervenuto a risultati innovativi rispetto all’inquadramento della dottrina precedente, istituendo un parallelismo tra due fenomeni negoziali complessi di coordinamento di atti orientati verso analogo scopo.
Tuttavia risulta evidente che l’elemento della conciliazione è più forte nella procedura arbitrale rispetto a quella giudiziale condotta dal pretore, la cui opera è un mezzo essenziale per la sintesi delle posizioni delle parti cristallizzata nella formula. Pertanto, il livello di consenso davanti all’arbitro è necessariamente superiore e, probabilmente, si realizza anche attraverso «la pacifica narrazione dei fatti sottostanti rispetto a cui le parti, da sole, non erano in grado di raggiungere un risultato dirimente»[81].
Per quanto riguarda, invece, la natura giuridica del compromissum, l’A., dopo aver riportato la teoria del Roussier[82] - secondo il quale questo sarebbe dato dall’intreccio di promesse aventi per oggetto una somma di denaro, la cui efficacia era subordinata alla condizione sospensiva che una delle parti si sottraesse all’attuazione del provvedimento arbitrale - ne riconosce senz’altro il valore, in particolare per la sua rappresentazione di un momento evolutivo delle dichiarazioni verbali, ma la ritiene sbilanciata, in quanto portatrice di una tipologia unitaria che non comprenderebbe, contrariamente a quanto emerge dalle fonti, strutture diverse[83].
In seguito, viene analizzata l’idea di La Pira[84], che ritiene il compromesso consistente in due o più stipulazioni, del quale il Rampazzo apprezza l’uso fortemente sintomatico del termine, pur obiettando che il suo ragionamento appare discutibile sotto il profilo logico laddove tenta di ricostruire il pensiero classico, negando che un compromissum possa essere costituito anche nella forma di un nudum pactum e ritenendo alterato il passo contenuto in D. 4.8.11.3[85].
L’A. prosegue la discussione, andando ad analizzare il caso che è stato utilizzato dal Talamanca[86] per opporsi a questa idea del La Pira, nel quale, ad avviso dello studioso romano, l’uso del termine compromissum non è necessariamente collegato alla prestazione di stipulazioni reciproche e interdipendenti[87]. Il Rampazzo, tuttavia, definisce contraddittorio il ragionamento del Talamanca nella misura in cui, da un lato afferma che il compromesso è libero nella forma, dall’altro sostiene la difformità dal modello per escluderne la sussistenza in una fattispecie[88].
Il Rampazzo osserva, a questo punto, che il termine compromissum, ed anche il verbo corrispondente, compare molto raramente nelle fonti giuridiche, e sempre in contesti collegabili alla procedura arbitrale. Esso sarebbe pertanto un termine tecnico e specifico, che trarrebbe origine proprio dall’esigenza di rappresentare un intento condiviso, assumendo una struttura bi o plurilaterale, configurandosi sempre come un atto mai unitario, ma composto.
In relazione a ciò pone il passo di Ulpiano, che, al riguardo, citando l’opinione di Pomponio, esclude l’eventualità che alla pena stabilita in caso di violazione del patto reciproco sia sottoposta una sola parte: si (…) te poenam sim stipulatus, videndum ne non sit compromissum[89]. Sappiamo bene che il quesito di Pomponio era più ampio ed investiva anche l’oggetto del compromesso che, nel caso prospettato, coincideva con la risoluzione delle controversie di una sola parte: si de meis solis controversiis sit compromissum. La soluzione offerta nel prosieguo del paragrafo, vale a dire la combinazione degli interessi delle due parti, l’una tutelata dalla stipulatio, l’altra da una veluti pacti exceptio, risulta insoddisfacente per Ulpiano.
L’A. ammette che il frammento, che ha interessato diversi studiosi soprattutto per il riferimento all’exceptio pacti e per la posizione di veluti, solleva forti dubbi circa la sua genuinità. Egli si chiede, in primo luogo che senso avrebbe far convergere due stipulazioni tese ad ottenere la nomina di un arbitro che decida delle controversie o delle pretese che interessano solo una delle parti, e, in seconda battuta, sottolinea una manifesta incongruenza nel testo nella parte in cui si cerca di spiegare l’espressione de unius controversiis con il compromesso de una re, ed ulteriori sospetti cadono anche sul commento che segue.
L’A. ravvisa in Ulpiano una certa prudenza relativamente alla qualificazione come plenum di un compromissum dove solo una parte si sia fatta promettere il rispetto della sententia arbitrale, per mezzo di una stipulatio: la conseguenza sarebbe infatti che, in caso di inosservanza, l’attore avrebbe un’actio basata sulla stipulatio, mentre al convenuto rimarrebbe la veluti pacti exceptione, ed il giurista respinge la soluzione affermando che con la semplice eccezione non si può costringere l’arbitro ad emettere la sentenza.
Lo studioso propone l’idea che il compromissum, a partire da come questo viene utilizzato nella giurisprudenza, non coincide con la mera somma degli impegni reciproci delle parti, ma piuttosto con la loro sintesi integrata da un quid pluris. Conferma, infatti, che si tratta di un fenomeno complesso produttivo di una serie di obbligazioni per le parti, che restano tuttavia sospese fino al completamento della fattispecie negoziale, raggiunto con l’accettazione dell’incarico da parte dell’arbitro e al corretto adempimento dei suoi doveri.
Il nucleo centrale dell’accordo delle parti circa il deferimento ad uno o più arbitri della soluzione della controversia che li riguarda è, secondo lo studioso, rappresentato da una conventio concepita come negozio autonomo contenente, come elementi essenziali, l’indicazione delle parti e delle res su cui inciderà il futuro dispositivo arbitrale, la designazione dell’arbitro, la precisazione del luogo e del tempo della pronuncia. Essa troverebbe, tra l’altro, un’autonoma efficacia giuridica solo in stipulazioni da cui scaturiscono obbligazioni in dando, oppure in stipulazioni che, pur non prevedendo la corresponsione di una somma, comportino comunque un’obbligazione in faciendo, a carico del promittente, segnatamente di adempiere alla sentenza arbitrale, attraverso una cooperazione costante nella procedura diretta alla sua emanazione, secondo precisi doveri di condotta.
Tra le attestazioni della forma giuridica assunta dal compromissum e dalle relative clausole, che scarseggiano, l’A. ritiene rilevanti due passi di Ulpiano.
Il primo, in D. 4.8.11.3[90], tratta di un patto in cui non viene fissata espressamente un’apposita pena, ma la conseguenza negativa si articola nella rinuncia, implicita nel patto, e nella determinazione dell’ammontare per relationem, sulla base della misura del credito menzionato nell’atto presupponente. Secondo lo studioso, qui emergerebbe che, per l’esistenza di un valido compromesso, non era necessaria la presenza di una struttura formalmente multilaterale, consistente in più atti convergenti che contengano gli impegni delle parti, ma era sufficiente un semplice patto, che avesse però un meccanismo di protezione della decisione finale, producendo l’effetto di dissuadere la parte renitente attraverso la prospettiva di non poter far valere il credito di cui egli è titolare.
Nell’altro frammento, contenuto in D. 4.8.27.7[91], si ravvisa, invece, la possibilità che esista un compromesso valido ed efficace anche senza l’aggiunta di una penale, purché si sia manifestato l’intento di accettare l’esito del procedimento e di adoperarsi per realizzarlo. Con questa considerazione, ad avviso dello studioso, si arriva ad eliminare dal novero degli elementi essenziali del compromesso la pena, pur restando aperta la questione se sia necessario, oltre alla conventio, qualche altro atto di impegno.
Nel capitolo dedicato al compromissum, infine, non poteva mancare un accenno alle Tavolette di Ercolano, in particolare alla TH 76[92], che secondo la dottrina maggioritaria offrirebbe un modello di compromissum attendibile. Nella tavoletta si riporta il resoconto sull’assetto di interessi raggiunto dalle parti, con la ricognizione dei suoi elementi essenziali e la menzione delle stipulazioni penali. Secondo il Rampazzo, però, tutto ciò non certificherebbe la forma in cui ebbero a manifestarsi le volontà delle parti, ma solamente il loro prodotto, codificato in un sistema di clausole che riproducevano l’accordo verbale già raggiunto a mezzo di conventio e/o stipulazioni separate e indirizzato all’arbitro designato per riceverne l’approvazione.
Il punto più interessante ad avviso dello studioso sarebbe un altro, sarebbe rappresentato dall’ambiguità che si riscontra nel passaggio in cui si fa menzione dell’arbitro, poiché in questo punto si menziona anche la fonte della sua designazione, cioè il compromissum stesso. L’ambiguità starebbe nel fatto che un atto costitutivo di un effetto indicasse nominativamente sé stesso come propria causa giuridica: per l’A. potrebbe risiedere proprio in questo circuito logico l’origine delle diverse interpretazioni sulla natura giuridica del compromesso, atto che risulta contestualmente di sintesi e completamento di una fase e di apertura di una nuova[93].
5.4. Arbitrato e iudicium in un saggio di Tommaso Dalla Massara.
Ricordiamo ancora un saggio di Dalla Massara dedicato al rapporto tra arbitrato e iudicium, inserito nell’opera collettanea dedicata ad Alberto Burdese[94].
Qui l’A. dopo un’ampia introduzione sulle origini del processo formulare e una prima delineazione dei confini del iudicium, passa ad un’analisi approfondita dell’arbitrato, partendo dal compromissum, quale figura che lo caratterizza.
Come per tutti gli studiosi che hanno affrontato l’argomento, il primo passo è il riferimento al testo contenuto in D. 4.8.1[95], ritenuto dall’autore complessivamente affidabile e molto utile per offrire lo sfondo più congeniale per la comparazione fra i due fenomeni, credendo sia più importante la prospettiva funzionale in esso contenuta, piuttosto che quella strutturale.
Nel ricordare come il compromissum sia stato l’oggetto di alcune fondamentali indagini del passato, in specie gli studi di La Pira e di Talamanca, che hanno inevitabilmente definito gli sviluppi del dibattito successivo, ripropone lo schema delle reciproche stipulazioni effettuate dalle parti, con cui ognuna si impegnava a pagare, di regola, una somma di denaro determinata, in funzione di pena, per l’ipotesi in cui l’uno o l’altro non avesse tenuto fede in maniera aderente alla pronuncia arbitrale.
In tal senso, l’espressione cum-promittere rimanderebbe all’idea dell’incontro delle promesse stipulatorie, che potevano avere diverse strutturazioni[96], senza però trascurare il fatto che il compromesso era anche un programma di giudizio. Dai testi[97] si evincerebbe, infatti che, al momento della sua conclusione, le parti definivano la fattispecie su cui l’arbitro avrebbe dovuto pronunciarsi, potendo d’altronde stabilire, in base alle necessità, le modalità di decisione della controversia, lasciando naturalmente all’arbitro discrezionalità di giudizio.
L’inadempimento di una parte dell’impegno assunto con la stipulatio determinava, per l’altra parte, la possibilità di esperire l’actio ex stipulatu. Di regola, per mezzo delle reciproche stipulazioni le parti si promettevano una certa somma di denaro, tuttavia, come mostra Paolo in D. 4.8.28[98], poteva anche essere una somma non determinata. Oppure l’oggetto della stipulazione poteva essere una res, come si evince da Ulpiano in D. 4.8.11.2[99]: in questi casi, sostiene l’autore, in adesione a Talamanca[100], la promessa era coercibile tramite l’actio ex stipulatu incerti.
Lo studioso sottolinea poi che il compromesso in quanto tale rimase per tutta l’epoca classica una forma convenzionale atipica, che mai arrivò a ricevere tutela per mezzo di un’azione, a parte la tutela scaturente dalle stipulationes, e che non si giunse a concedere la tutela contrattuale dell’accordo compromissorio neppure quando la giurisprudenza arrivò concedere la riconoscibilità generale delle convenzioni non rientranti nei nomina edittali.
Inoltre per tutta l’epoca classica il compromissum non ricevette tutela neppure in via di eccezione: nonostante la regola generale espressa sia in D. 2.14.7.4[101] che in D. 2.14.10.1[102], secondo la quale dal patto nasce l’eccezione, in D. 4.8.2 (Ulp. 4 ad ed.), troviamo la perentoria affermazione secondo cui ex compromisso placet exceptionem non nasci, sed poenae petitionem, che trova conferma in Cons. 9.17, item ex corpore gregoriani. Qui contra arbitri sententiam petit sola in eum actio ex compromisso competit, non etiam [conceptio]
Si è in presenza di un accordo atipico che non genera azione, ma neppure dà luogo ad eccezione: nonostante ciò un celebre testo di Ulpiano, D. 4.8.13.1[103], parla di un’exceptio veluti pacti nascente da compromesso, che, secondo l’autore, rappresenta un’ipotesi del tutto singolare.
Il Dalla Massara è critico nei confronti di La Pira quando questi afferma che solo alla luce della regola in base alla quale il patto riceve protezione in via di eccezione, il testo acquisterebbe senso, e che questa regola è giustinianea: a suo avviso lo stesso La Pira appare troppo preoccupato a negare in ogni modo che il compromissum fosse un patto, in connessione con il nucleo centrale della sua tesi, secondo la quale il compromissum si risolve solo ed esclusivamente nella reciprocità delle due stipulazioni.
Secondo l’A. il punto cruciale è che nel passo di Ulpiano la stipulazione era stata realizzata soltanto da una delle due parti, pertanto la particolarità sarebbe stata data dalla unilateralità della stipulazione penale: essendo qui l’attore l’unico ad essersi fatto promettere con stipulazione, colui che subisce l’azione risulterebbe privo di mezzi a sua tutela, giacché non disporrebbe, a suo vantaggio, di una corrispondente azione nascente da stipulatio. Il problema posto da D. 4.8.13.1 sarebbe quindi quello della ‘mancata simmetricità delle pretese’ cui il compromesso dava luogo normalmente e, solo per compensare tale mancanza, riemerge la presenza della conventio sottostante all’arbitrato.
Egli ritiene, a questo punto, che l’unico modo per comprendere il passo sia quello di abbracciare l’idea che la conventio, nell’ipotesi del compromesso, non diversamente che per gli altri accordi atipici, meritasse di trovare volta per volta forme giuridiche che fossero in grado di assicurare a essa un riconoscimento. Ed anche se l’assetto strutturale del compromesso sarebbe potuto variare, non sarebbe stato comunque possibile prescindere dalla considerazione della conventio sottostante. Così la conventio che di regola assumeva rilevanza attraverso la costruzione delle due stipulationes reciproche, poteva trovare tutela in altre forme non ultima certamente, quando la stipulatio fosse da un solo lato, quella dell’opponibilità dell’exceptio pacti.
6. Il problema dell’exceptio pacti.
Uno dei più vivaci argomenti per negare al compromissum il carattere di pactum è costituito dalla esclusione dell’opponibilità dell’exceptio pacti in caso di deductio in iudicium della controversia[104]. Le fonti infatti negano al soggetto già assolto dalla sentenza dell’arbitro la facoltà di eccepire il patto e limitano la sua protezione all’esperimento dell’actio ex stipulatu, che gli deriva dalla commissio poenae per la deductio in iudicium, da parte dell’avversario, della pretesa compromessa. Questa disciplina emerge senza alcun dubbio dal contenuto di due testi, già più volte citati in questo contributo:
Cons. 9.17: Item ex corpore Gregoriani: Qui contra arbitri sententiam petit sola in eum poenae actio ex compromisso competit, non etiam exceptio pacti conventi;
D. 4.8.2 (Ulp. 4 ad ed.): Ex compromisso placet exceptionem non nasci, sed poenae petitionem.
Su questi passi sono stati avanzati dubbi in relazione alla forma[105], ma nella sostanza vengono ritenuti genuini[106]. Per quanto attiene al frammento di Ulpiano, poi, è interessante la collocazione che gli viene a
Fusco Stefania
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