La selezione e la graduazione dell’ingiusto nella tutela penale degli animali. Tecniche normative e bilanciamento degli interessi politico-criminali
Fabio Fasani
Ricercatore a tempo determinato senior di diritto penale (Rtd-b)
Università degli Studi di Pavia
La selezione e la graduazione dell’ingiusto nella tutela penale degli animali. Tecniche normative e bilanciamento degli interessi politico-criminali.*
English title: The Selection and the Gradation of Unlawful in Criminal Law Provisions Protecting Animals.
Numero DOI: 10.26350/004084_000100
Sommario: 1. Premessa. – 2. La fisionomia del bene-animale nell’intero ordinamento. – 3. La natura degli interessi umani in campo e la necessità di un bilanciamento. – 4. (Segue): La conseguente graduazione dell’ingiusto tra frammentarietà e sussidiarietà. – 5. L’evoluzione storica delle clausole di bilanciamento degli interessi e il loro inquadramento sistematico tra tipicità e antigiuridicità: a) il riferimento all’“assenza di necessità” nella fase tradizionale della tutela dei sentimenti. – 6. (Segue): b) l’emersione di nuovi valori e la necessità di un vero bilanciamento degli interessi. – 7. Tecniche normative e “imbuto punitivo”: gli strumenti dogmatici utilizzati per la stratificazione dell’illecito. – 7.1.La prima parte dell’art. 19-ter disp. coord. c.p. quale norma generale istituzionalmente deputata alla soluzione in astratto delle antinomie ordinamentali. – 7.1.1. La funzione scriminante della prima parte dell’art. 19-ter disp. coord. c.p. (rectius: delle norme puramente autorizzative cui esso rinvia). – 7.1.2. La prima parte dell’art. 19-ter disp. coord. c.p. quale criterio di soluzione dei conflitti tra norme sanzionatorie. – 7.2. La seconda parte dell’art. 19-ter disp. coord. c.p.: un discutibile strumento per filtrare interessi socioculturali di matrice consuetudinaria. – 7.3. L’assenza di necessità quale categoria elastica che consente l’emersione di ulteriori esigenze di bilanciamento in concreto. 7.4. L’incerto ruolo della crudeltà. – 8. Conclusioni e prospettive di riforma.
1. Premessa.
L’animale, inteso come bene giuridico[1], non rappresenta un valore assoluto. L’uomo infatti ha sempre utilizzato e continua a utilizzare gli animali per una pluralità di scopi e molti di essi ne comportano il maltrattamento o l’uccisione.
Le esigenze umane, poste alla base di tale sfruttamento, hanno natura diversa e sono percepite differentemente dalla stessa collettività: da quelle ritenute maggiormente utili e meritevoli, come la sperimentazione scientifica, si passa a quelle che vengono considerate necessarie come l’alimentazione, per poi scendere verso una serie di “esigenze” di matrice meramente estetica, come l’uso di pellicce, o ludica, quali sono quelle che contraddistinguono l’attività dei circhi, le numerose manifestazioni storico-culturali che ancora vengono celebrate in Italia e all’estero, nonché – quando praticata non per esigenze alimentari – anche la caccia[2].
L’ordinamento giuridico eurounitario e quelli dei singoli Paesi tengono conto di queste utilità umane, spesso radicate in consuetudini ancestrali o in precetti di natura religiosa, e prevedono conseguentemente una serie di aree di liceità, all’interno delle quali lo sfruttamento degli animali è consentito anche quando causa, da un punto di vista ontologico, il maltrattamento o la morte degli animali medesimi. Secondo alcuni interpreti, anzi, le aree di liceità sarebbero talmente numerose e ampie da rendere “l’eccezione […] enormemente più regolare della regola”[3]: la tutela degli animali sarebbe quindi annichilita da un sistema giuridico che, nel suo complesso, rende eccezionale la tutela stessa, a fronte di una generalizzata tolleranza nei confronti delle condotte che ledono il bene.
Queste prime suggestioni permettono di inquadrare l’oggetto del presente studio: proiettare l’animale all’interno dell’intero ordinamento giuridico, analizzando la complessa rete dei rapporti tra lecito e illecito. Si tratta di uno sforzo, che si propone due direttrici di sviluppo.
Dal punto di vista politico-criminale, il percorso permetterà di rilevare le scelte valoriali effettuate dal legislatore, di ordinarle secondo un criterio logico e, seppur brevemente, di impostare un percorso teso a sindacarne la razionalità.
Dal punto di vista dogmatico, poi, l’esigenza di inquadrare, nella dimensione della struttura del reato, i fattori che innervano i complessi rapporti tra condotte lecite, condotte sanzionate a livello amministrativo e condotte penalmente rilevanti si rivela indispensabile per una corretta esegesi delle fattispecie penali in discorso.
Seguendo quest’ordine, si analizzeranno i due profili citati, per poi trarre alcune conclusioni.
2. La fisionomia del bene-animale nell’intero ordinamento.
Tanto a livello internazionale, quanto a livello comunitario sono ormai numerosi gli strumenti, vincolanti per il nostro Paese[4], attraverso i quali si sono disciplinati profili più o meno settoriali della protezione degli animali[5].
A livello pattizio possono essere ricordate, tra le altre, le seguenti convenzioni, risalenti ai decenni centrali del secolo scorso: la Convenzione sulla preservazione della fauna e della flora allo stato naturale (Londra, 8 novembre 1933); la Convenzione europea sulla protezione degli animali nei trasporti internazionali (Parigi, 13 dicembre 1968); la Convenzione sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora selvatiche in pericolo di estinzione (Washington, 3 marzo 1973); la Convenzione europea sulla protezione degli animali da allevamento (Strasburgo, 10 marzo 1976); la Dichiarazione universale dei diritti dell’animale (Parigi, 15 ottobre 1978); la Convenzione europea sulla protezione degli animali vertebrati utilizzati a fini sperimentali o ad altri fini scientifici (Strasburgo, 18 marzo 1986); la Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia (Strasburgo, 13 novembre 1987)[6].
In una fase più recente la tutela si è spostata in ambito comunitario, ove meritano menzione una serie di importanti fonti di diritto derivato, tra cui, sempre a livello esemplificativo, possono essere ricordati: la Direttiva 1999/22/CE del Consiglio del 29 marzo 1999, relativa alla custodia degli animali selvatici nei giardini zoologici; il Regolamento (CE) n. 1223/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio del 30 novembre 2009 e la Direttiva 2003/15/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 febbraio 2003 in materia di prodotti cosmetici testati su animali; la Direttiva 2009/147/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 30 novembre 2009 sulla conservazione degli uccelli selvatici; la Direttiva 93/119/CE del Consiglio del 22 dicembre 1993 e il Regolamento (CE) n. 1099/2009 del Consiglio del 24 settembre 2009 sulla protezione degli animali durante la macellazione o l’abbattimento; il Regolamento (CE) n. 1/2005 del Consiglio del 22 dicembre 2004 sulla protezione degli animali durante il trasporto e le operazioni correlate; la Direttiva 98/58/CE del Consiglio del 20 luglio 1998, riguardante la protezione degli animali negli allevamenti; la Direttiva 2010/63/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 settembre 2010 sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici; il Regolamento (CE) n. 1007/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 settembre 2009 sul commercio dei prodotti derivati dalla foca[7].
Queste fonti e altre ancora generano un vasto e complesso tessuto normativo, che investe la maggior parte dei settori del vivere umano all’interno dei quali è previsto l’utilizzo di animali. Purtroppo, l’economia del presente lavoro non consente di soffermarsi, se non nei limiti che saranno necessari per lo sviluppo del discorso penalistico, né sui contenuti specifici di ciascun corpus regolatorio, né sulle plurime prospettive di tutela che connotano la legislazione in materia di animali[8].
Interessa però un dato decisivo. Molti di questi strumenti, specialmente i più recenti, non si limitano a porre tecnicistiche condizioni alle modalità con cui l’uomo può sfruttare gli animali per i suoi innumerevoli scopi, ma giungono almeno in parte, sotto un profilo più generale e di principio, a riconoscere un valore all’animale in sé come essere senziente, al cui benessere devono essere improntate le azioni umane[9]. A prescindere dal dibattito sui diritti degli animali[10], infatti, è ormai evidente l’importanza che agli animali è stata riconosciuta, quali oggetti (se non addirittura soggetti) di una più ampia “teoria della giustizia”[11].
Il parametro di riferimento nella cui prospettiva interpretare le vecchie e le nuove normative in materia di protezione degli animali viene ora correttamente individuato nell’art. 13 del Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, ove si indica agli Stati membri di tenere “pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti”[12].
Il recepimento in Italia e all’estero di questi strumenti internazionali e comunitari ha condotto all’approvazione di specifiche normative di settore, di natura amministrativa e penale, che disciplinano i diversi ambiti nei quali gli animali vengono utilizzati dall’uomo: la caccia, la pesca, l’allevamento, il trasporto, la macellazione, la sperimentazione scientifica, l’attività circense, i giardini zoologici, gli spettacoli storico-culturali. Pur essendo fortemente permissive rispetto alle esigenze umane, siffatte discipline introducono una serie di criteri valutativi incentrati sull’animale, sulla sua natura, sul suo benessere e sulle sue caratteristiche etologiche, aprendo così la strada al “riempimento” del bene-animale almeno in parte attraverso i bisogni dell’animale stesso e non soltanto di quelli dell’uomo.
Sia le fonti internazionali e comunitarie, sia le pedisseque fonti nazioni affrontano, in particolare, la questione animale secondo una prospettiva chiara. Da un lato, esse evitano di entrare nella complessa discussione circa l’attribuibilità agli animali di veri e propri diritti[13], della cui irrilevanza in ambito penalistico già abbiamo detto altrove[14]. Dall’altro lato, è innegabile come queste fonti abbiano in parte alterato la tradizionale impostazione antropocentrica, attribuendo un valore all’animale in quanto tale e impedendo che l’uomo lo utilizzi come una cosa di sua proprietà, secondo il tradizionale ius utendi et abutendi[15].
La logica di questo corpus normativomultilivello in costante evoluzione pare dunque essere quella di creare uno “statuto degli animali”, inteso come “insieme di regole che il sistema giuridico dedica agli animali nei loro rapporti con l’uomo, dei doveri che quest’ultimo deve osservare nei loro confronti, e dei diritti che ancora l’uomo ha verso gli animali”[16]. Posto che “al cane, al topo-cavia, al cavallo che soffre poco importa delle categorie giuridiche dentro le quali l’uomo si intestardisce di volerlo sistemare”[17], la ratio delle norme già introdotte e di quelle della cui introduzione si discute sembra essere quella di creare un sistema di protezione per l’animale, che vincoli l’uomo a rispettare determinate caratteristiche dell’animale stesso, quale portatore di un valore autonomo.
In questo senso, come osserva Luigi Lombardi Vallauri, è ormai enorme il numero delle “testimonianze […] implicite ed esplicite” che la legge reca a favore di una valorizzazione degli interessi animali, il cui rispetto viene imposto all’uomo. Tra le prime l’Autore menziona le basi razionali e le strutture normative di quasi tutte le più recenti discipline in materia. Quanto alle seconde, sono ormai decine le spie lessicali che concentrano il focus di tutela sull’animale in sé, sulle sue caratteristiche interiori, sulla sua capacità di percepire il dolore e non solo sulla sua materialità corporea quale strumento per soddisfare esigenze umane. In quest’ottica, prendendo in considerazione alcuni settori (allevamenti, sperimentazione, abbattimenti, trasporti, macellazione e animali da compagnia), Lombardi Vallauri enuclea una pluralità di concetti fortemente “animalisti”, abbondantemente impiegati dal legislatore: benessere, sofferenze fisiche e morali, esigenze etologiche e fisiologiche, dolore, esigenze comportamentali, sensibilità, angoscia, coscienza[18].
Si tratta, peraltro del medesimo approccio tenuto dal legislatore penale italiano con la legge n. 189/2004 che, per la prima volta, ha introdotto nel codice penale un intero titolo a tutela degli animali in quanto tali[19]. Un approccio cui solo la dottrina e la giurisprudenza penalistiche sono rimaste sinora poco attente, restando per lo più ancorate all’antiquata categoria del sentimento di pietà verso gli animali[20].
Tale attenzione verso l’animale è garantita tramite una regolamentazione spesso estremamente minuziosa delle modalità con cui devono essere svolte le attività che possono comportare o che sicuramente comportano la morte degli animali o il loro maltrattamento. In quest’ottica il legislatore italiano, sulla scia di quello eurounitario, parte dagli studi scientifici sul benessere animale per fissare, nel modo più preciso possibile, i modi nei quali l’animale medesimo può essere detenuto ed eventualmente soppresso. L’obiettivo tendenziale è quello di mantenere il massimo livello di benessere compatibile con la realizzazione delle utilità umane che all’uso dell’animale sono connesse e che sono – come vedremo – ritenute dal legislatore stesso a loro volta meritevoli di tutela. Un esempio chiaro di questo approccio si ha in materia di sperimentazione scientifica, ove, in attuazione della direttiva 2010/63/UE, il D. Lgs. 26/2014 ha introdotto una serie di rigorosissimi parametri, tesi ad autorizzare le sole procedure sperimentali che: “a) richiedono il minor numero di animali; b) utilizzano animali con la minore capacità di provare dolore, sofferenza, distress o danno prolungato; c) sono in grado di minimizzare dolore, sofferenza, distress o danno prolungato; d) offrono le maggiori probabilità di risultati soddisfacenti; e) hanno il più favorevole rapporto tra danno e beneficio” (art. 13 D. Lgs. 26/2014)[21].
Va subito precisato come i principi sinora enunciati non abbiano valore assoluto. Essi si adattano infatti solo a una parte delle disposizioni legislative concernenti gli animali. Certo, si tratta ormai di una larga maggioranza e segnatamente di tutte le norme più recenti, che risentono positivamente della graduale presa di coscienza animalista della società e del legislatore. Di questa famiglia, oltre al già menzionato decreto sulla sperimentazione animale, possiamo citare, in ragione della loro importanza pratica (oltreché teorica), il D. Lgs. 151/07 in materia di trasporto, il D. Lgs. 73/05 in tema di giardini zoologici, il D. Lgs. 131/13 in materia di macellazione, il D. Lgs. 146/01 in materia di allevamento in generale, il D. Lgs. 122/11 sulla protezione dei suini. Si tratta, come anticipato, di una mera elencazione esemplificativa, posto che anche altri testi condividono la medesima filosofia e verosimilmente molti a venire la condivideranno.
Si diceva, tuttavia, che esistono provvedimenti legislativi, tuttora in vigore, che appaiono (ancora) impostati secondo logiche affatto differenti, che poco o nulla hanno a che vedere con la tutela del benessere animale e con l’attribuzione al medesimo di un valore autonomo. Tali norme regolamentano altri settori di “utilizzo” umano degli animali secondo perduranti prospettive schiettamente antropocentriche: nella migliore delle ipotesi, siffatte prospettive sono connesse alla volontà di salvaguardare l’ambiente e la biodiversità per un interesse tutto umano alla vita in un contesto favorevole; nella peggiore delle ipotesi, esse guardano a valori strettamente patrimoniali.
Questa diversa impostazione, del tutto sorda alla questione animale, si ritrova per lo più in provvedimenti normativi che risalgono a tempi nei quali non era minimamente sentito il problema a livello sociale. Quanto ai contenuti, tali normative difettano di qualsivoglia regolamentazione tecnica, tesa a limitare le sofferenze degli animali, e gli scarni contenuti sono diretti a disciplinare esigenze squisitamente umane. Basti sul punto il riferimento alla legge n. 337/68 in materia di circhi (tuttora in vigore), i cui articoli si propongono di fissare le tariffe per l’occupazione del suolo pubblico e per l’energia elettrica adoperata, limitandosi per il resto alla semplice autorizzazione dell’attività circense, compresa quella che sfrutta gli animali per la realizzazione degli spettacoli[22].
La stessa impostazione regressiva si nota peraltro anche in talune altre normative più recenti, risalenti ad anni nei quali il legislatore comunitario e nazionale già poneva l’animale al centro della propria opera regolatrice. Il riferimento va, ad esempio, alla nota legge sulla caccia del 1992, la quale ha un impianto “quasi solo conservazionista”[23] e tratta la materia in modo totalmente elusivo, come se nell’attività venatoria non si ponessero problemi di tutela della vita e del benessere degli animali. È difficile in questi casi non ammettere come alla base della scelta legislativa vi sia una precisa presa di posizione politica sul tema del benessere animale e non la semplice necessità di aggiornare una legge, come quella sull’attività circense, il cui rationale è semplicemente sorpassato dai tempi, come conferma anche la recente esperienza comparatistica[24].
Quello di emersione del bene-animale è, in definitiva, un percorso ormai iniziato, ma tutt’altro che semplice e scontato posto che – come è stato correttamente osservato – “se il diritto si rivolge in modo sgraziato e insidioso già agli uomini, non può essere mite nei confronti delle creature non umane”[25]. D’altronde, l’emersione di istanze di protezione a favore dell’animale è resa ancor più faticosa da forti ragioni storico-culturali: la linea di separazione tra uomo e animale, infatti, ha rappresentato per lunghissimo tempo il luogo simbolico, oltreché giuridico, di contrapposizione tra umano e dis-umano, tra ciò che occorre proteggere e ciò da cui occorre essere protetti[26].
Le distinzioni sin qui operate non sono naturalmente fini a sé stesse, ma torneranno utili nei prossimi paragrafi, laddove occorrerà valutare, secondo diverse prospettive, quali aree di liceità tali fonti normative aprano e come esse incidano sulla tutela penale accordata dalle fattispecie che proteggono gli animali in quanto tali.
A conclusione di questo breve percorso è possibile trarre alcune sintetiche conclusioni. Con l’esclusione di alcune eccezioni, delle quali occorrerà tenere conto, l’intero ordinamento giuridico (nazionale e comunitario) rende, sempre più con l’evoluzione dei tempi, l’immagine di un animale tutelato non solo per le utilità che arreca all’uomo, ma anche per una pluralità di valori intrinseci di cui è foriero. Secondo le cadenze dell’animal welfare[27], a prescindere dalla complessa (e forse superflua) questione dei “diritti”, emerge così la scelta dell’uomo-tutelante di proteggere l’animale stesso come essere senziente, dotato della capacità di provare dolore[28].
Questa più ampia prospettiva sull’intero ordinamento non contrasta in alcun modo e anzi sembra confermare le conclusioni, da noi tratte altrove, sulla questione del bene giuridico tutelato dalle fattispecie penali poste a protezione degli animali in quanto tali[29]. La punizione di chi cagiona la morte o una lesione all’animale o di chi comunque lo maltratta (artt. 544-bis e ter c.p.p.), unitamente ai molteplici riferimenti alla natura etologica dell’animale e alla sua sofferenza, chiarisce infatti inequivocabilmente come i beni specifici che riempiono di contenuto il generico bene-animale possano essere inquadrati nella vita, nella salute e nell’integrità psico-fisica dell’animale stesso[30]. In questo modo il legislatore traduce “l’interesse alla sopravvivenza e l’interesse alla minore sofferenza possibile” dell’animale, che una parte della dottrina, anche penalistica, ha indicato quale oggetto del giudizio umano di valorizzazione[31].
Si tratta, in altri termini, di una nuova conferma della correttezza della tesi, secondo la quale il bene-animale rappresenta ormai il vero oggetto di tutela delle fattispecie in parola. Le numerose spie normative, presenti anche nella legislazione extrapenale (nazionale ed extranazionale),che indirizzano verso caratteristiche etologiche (anche non esteriormente manifeste) dell’animale, non posseggono infatti alcuna connessione logica con il presunto sentimento umano che il legislatore penale tutelerebbe, in base all’impostazione tradizionale.
Detto altrimenti, se le vecchie fattispecie penali, attraverso il loro riferimento a forme più “rozze” ed evidenti di maltrattamento fisico dell’animale, potevano in effetti dirsi indirizzate a proteggere la sensibilità umana da spettacoli ripugnanti o compassionevoli, lo stesso non può più dirsi in riferimento alle nuove. Esse infatti, tanto ex se quanto a fortiori se lette unitamente allo scenario extrapenale ora abbozzato, rendono un quadro di tutela concentrato sull’animale, che viene protetto anche rispetto a forme di violenza del tutto impalpabili, che non possono in alcun modo ledere il sentimento dell’uomo-osservatore[32].
3. La natura degli interessi umani in campo e la necessità di un bilanciamento.
Le norme extrapenali, nazionali e sovranazionali, concorrono così a definire i contenuti del bene protetto dal legislatore e offrono importanti parametri interpretativi destinati a valere anche nell’analisi della legge penale. Deve, tuttavia, ribadirsi che il sempre più marcato riconoscimento degli interessi animali si pone in un generale quadro di correlativa soddisfazione di un’ampia gamma di interessi umani contrapposti. I secondi, che trovano la propria realizzazione solo nella lesione dei primi, vengono salvaguardati dal legislatore tanto attraverso alcuni elementi della tipicità delle fattispecie penali, quanto (e soprattutto) all’interno delle medesime discipline extrapenali citate, che autorizzano l’uomo a sfruttare gli animali in numerosi contesti produttivi, commerciali e persino ludici.
Vi è chi ha osservato come tale riconoscimento non sia riconducibile al paradigma di una vera e propria approvazione da parte del legislatore. Le attività comportanti l’uccisione e ancor più quelle comportanti lo strazio degli animali, in effetti, “sembrano venir sopportate – ma non caldeggiate – dall’ordinamento”, quale “resa di fronte alla “necessità” – o meglio: ineluttabilità – della sofferenza animale provocata, in quei contesti, dall’uomo”[33].
Questa idea, teleologicamente proiettata verso un’impostazione maggiormente animalista, non sembra però pienamente condivisibile. L’attuale politica del diritto degli animali pare piuttosto attraversare un convulso periodo di transizione, all’interno del quale si manifestano spinte centrifughe. Da un lato, l’emersione prepotente del bene-animale ha formalmente determinato una tutela molto ampia, attraverso fattispecie che sulla carta si configurano come reati causalmente orientati verso la morte e la lesione dell’animale, oltreché tese a scongiurarne il maltrattamento. Dall’altro lato, tuttavia, le tradizionali esigenze umane, dall’alimentazione all’abbigliamento, dallo sport alla “detenzione” di animali domestici, vengono ancora viste con favore dal legislatore, quali forme di estrinsecazione della natura umana, cui spesso è ricollegato un valore positivo o quantomeno neutro.
Si pensi, per tutti, al settore dell’alimentazione, nel quale, a dispetto delle numerose riflessioni sull’opportunità delle diete vegane[34], l’uso di prodotti di origine animale – certo sottoposti a rigorosi controlli di qualità – continua a essere caldeggiato da importanti settori della scienza e conseguentemente sostenuto (e non solo tollerato) dallo Stato. Sul punto, basti citare la valorizzazione e la protezione che quest’ultimo attua in riferimento ai prodotti italiani di origine animale, oltreché l’uso che dei medesimi si fa nella ristorazione gestita direttamente o indirettamente dagli enti pubblici.
È superfluo precisare come questo tormentato “spirito delle leggi” derivi da un evidente dissidio esistente all’interno del corpo sociale, dove divergenti pulsioni di matrice latamente culturale si traducono in spinte contrapposte. E così, infatti, se è vero che “l’apparato statuale coercitivo non può non essere in relazione con un assetto sociale e culturale storicamente determinato”[35], va da sé che un corpo sociale ideologicamente disunito non può che produrre un quadro normativo frammentato, deputato alla faticosa composizione delle alterne posizioni[36].
L’assenza di un “«accordo armonico» garantito da un «comune sentire»” rende, così, più difficile per il diritto penale lo sfruttamento della “forza motivazionale del giudizio morale”, con evidenti ripercussioni sul rispetto del principio di effettività. È noto infatti come il diritto penale “debba considerare l’istanza morale tutte le volte in cui sia intenzionato – ma soprattutto vincolato dai suoi principi – a convincere i destinatari dei precetti […] circa la necessità dell’osservanza” ed è noto, per converso, come il raggiungimento di tale obiettivo si complichi nel momento in cui vi siano delle crepe nella “ricettività, emozionalmente condizionata, alla pretesa normativa penale”[37].
L’effetto di questa impostazione politico-criminale, tesa a bilanciare un palese conflitto di interessi (rectius: una serie di conflitti di interessi) incistiti nel corpo sociale, è quello di accettare come lecite solo quelle forme di lesione del bene-animale che siano necessarie, nell’an e nel quantum, per il perseguimento delle correlative esigenze umane, ritenute meritevoli di tutela in quanto utiliper la piena realizzazione della personalità umana. “Il principio è ancipite: vieta di causare dolore inutile/innecessario, autorizza a causare dolore utile/necessario”[38].
Nel descritto meccanismo di discernimento tra lecito e illecito esiste ovviamente un livello di matrice squisitamente politica, che deve essere assunto come postulato in sede di analisi de lege lata, mentre dovrà essere posto in discussione volendo ragionare de lege ferenda. Ci si riferisce alla scelta di cosa sia giusto e/o necessario, di quali obiettivi umani cioè possano giustificare il sacrificio del bene-animale. Si può anticipare, tuttavia, che quantomeno rispetto a talune attività aventi natura meramente ludica questo bilanciamento di interessi appare fortemente criticabile, non tanto in ragione dell’argomento secondo il quale tale disallineamento deriverebbe dal fatto che le scelte sono compiute dall’uomo e cioè da una delle parti in causa[39], quanto piuttosto dal fatto che tali scelte appaiono di per sé marcatamente irrazionali e ormai incoerenti con il sistema nel suo complesso.
Così inquadrato in generale il tema degli interessi umani e del loro necessario bilanciamento con il confliggente bene-animale, è utile procedere a una sintetica partizione tassonomica, tesa a ordinare, secondo criteri razionali, le disposizioni delle leggi speciali che autorizzano la lesione dello stesso bene animale.
La partizione, in particolare, mira a distinguere le differenti leggi speciali in base al loro fondamento razionale, ai motivi cioè per i quali l’uomo ha stabilito la liceità delle condotte lesive dell’animale in esse previste.
Ebbene, pur nella consapevolezza che si tratta di temi delicati e altamente dibattuti nel presente momento storico, crediamo possano essere distinte due fondamentali tipologie di norma autorizzative: quelle che prevedono la lesione del bene animale in vista del soddisfacimento di esigenze umane essenziali, cioè necessarie per la vita dell’uomo in condizioni di benessere, e quelle che la prevedono allo scopo di esaudire bisogni umani di natura meramente voluttuaria.
Alla prima categoria appartengono, tra le altre, le leggi sulla sperimentazione scientifica, quelle che prevedono l’uso di animali quale ausilio per persone con minorate capacità psico-fisiche[40], quelle in materia di alimentazione umana e quelle che prevedono l’uso degli animali per la realizzazione di capi di abbigliamento. In tutti i casi, si tratta infatti di esigenze umane essenziali, in assenza della cui soddisfazione l’uomo perderebbe utilità fondamentali per la sua stessa esistenza in salute. Curare le malattie, alimentarsi e vestirsi sono infatti alcune tra le necessità primarie dell’uomo.
Il fatto che un’esigenza umana essenziale possa essere soddisfatta attraverso l’uso degli animali non implica ovviamente che questa sia la sola modalità per farlo. L’essenzialità dell’esigenza lascia cioè del tutto aperto il diverso discorso circa l’eventuale sostituibilità degli animali e dei prodotti che da loro derivano.
Tale fungibilità, dipendente anche e soprattutto dallo stato delle ricerche scientifiche, può, in un certo momento storico, essere: impossibile, come la maggior parte della comunità scientifica (non senza aspre critiche[41]) dice oggi in relazione alla ricerca sugli animali[42]; difficile, come potrebbe essere la diffusione ubiquitaria di una dieta vegana[43]; semplice, come nel caso delle pellicce, appartenenti certo alla categoria del vestiario, ma facilmente rimpiazzabili da capi di abbigliamento differenti e ugualmente efficaci[44].
Alla seconda famiglia, quella delle leggi che consentono la lesione del bene animale per la soddisfazione di bisogni umani di natura meramente voluttuaria, è riconducibile invece una pluralità di altre norme autorizzatorie, fra cui, a titolo esemplificativo, quelle in tema di circhi, quelle che consentono l’esposizione al pubblico di animali, quelle che autorizzano le manifestazioni storico-culturali con la presenza di animali (palî, corse e giochi vari), quelle infine che regolano il possesso di animali da compagnia (e i connessi trattamenti: castrazione, addestramento ecc.).
Anche in quest’ultimo settore, contrariamente a quanto si possa credere, si pongono infatti delicate questioni relative al rispetto del bene-animale, posto che sovente l’interesse totalmente antropocentrico al possesso di un animale domestico pone a rischio il benessere psico-fisico e le caratteristiche etologiche dell’animale medesimo. Come è stato osservato da parte della letteratura filosofica, anzi, proprio nel particolare settore degli animali da compagnia, “non c’è alcuna «liberazione» dell’animale, del «divenire-animale». Al contrario, c’è piuttosto un sempre interrotto «divenire-uomo», una «ominizzazione» dell’animale: l’animale è un oggetto familiare, a cui ci si rivolge con affetto, confidenza. L’animale viene privato di animalità, per divenire un semplice oggetto luttuoso, «emozionale», un «oggetto d’affezione». Il diritto non tutela l’animale, ma la persona che ha «addomesticato» l’animale entro un rapporto umano”[45].
In tutti i casi in cui il bisogno umano è meramente voluttuario, occorrerà interrogarsi con attenzione ben maggiore circa l’opportunità di consentire tout court la lesione del bene animale, non corrispondendo ad essa l’affermazione di un’esigenza umana che possa dirsi di rango elevato.
A queste due categorie di norme autorizzative deve esserne aggiunta una terza, per così dire gregaria, che giustifica tutte le attività prodromiche, o comunque connesse, all’espletamento delle attività principali sopra definite. In questa famiglia rientrano, sempre in via esemplificativa, tutte le norme sul trasporto, sull’abbattimento, sulla macellazione, sulla detenzione e sull’addestramento degli animali.
Tali attività godono ovviamente dello stesso livello di importanza delle attività di cui sono ausiliarie. E così la detenzione di un animale, il suo addestramento in condizioni non compatibili con la sua etologia o, addirittura, il suo abbattimento possono avvenire in nome di esigenze essenziali per le quali l’uso di animali è non o difficilmente sostituibile (ricerca scientifica, alimentazione); in nome di esigenze essenziali per le quali l’uso di animali è facilmente sostituibile (produzione di pellicce); o, ancora, in nome di interessi umani meramente ludico-voluttuari (ad es. detenzione e addestramento degli animali nei circhi).
In questa sede si è tentata esclusivamente una sintetica tassonomia delle diverse norme autorizzative, attraverso l’impiego di criteri il più possibile oggettivi. Essa lascia naturalmente del tutto impregiudicate le scelte politiche che, a partire da tale partizione, possono essere effettuate. Su ciò si tornerà brevemente in sede di conclusioni, laddove si tenterà di impostare un futuro percorso di verifica razionale delle scelte politico-criminali.
4. (Segue): La conseguente graduazione dell’ingiusto tra frammentarietà e sussidiarietà.
Tornando per ora alla descrizione dell’esistente, vanno ora chiarite, in termini più precisi, le linee generali del paradigma, attraverso il quale il legislatore attua, a livello normativo, gli obiettivi politico-criminali appena accennati.
Il quadro, da questo punto di vista, appare marcatamente condizionato dai due presupposti valoriali che governano la materia: la natura fortemente cedevole e subvalente del bene-animale, che assume un rango non certo primario nella scala approntata dal legislatore; l’esistenza di interessi umani confliggenti che - come visto - pervadono l’intero ordinamento e vengono talvolta presi in considerazione dallo stesso legislatore e bilanciati con le opposte esigenze di tutela degli animali.
Ciò determina, nel complesso, la tendenza a un uso moderato dello strumento penale nella tutela del bene-animale; un uso che appare fortemente improntato al rispetto dei principi di frammentarietà, sussidiarietà e proporzionalità, quali canoni materiali di politica criminale, fondati sull’“idea che la pena non sia assoluta, ab-soluta da uno scopo, ma relativa in rapporto all’obiettivo di diminuire il numero dei reati e, mediamente, contribuire alla protezione dei beni giuridici”[46].
In questo settore il diritto penale è anzitutto frammentario nella misura in cui tutela il bene-animale solo rispetto a determinate forme di aggressione[47]. Al di là della protezione della vita e dell’integrità fisica, infatti, il legislatore vieta solo quelle forme di utilizzo dell’animale che ne determinano un significativo nocumento etologico, reso attraverso i concetti di “sevizie”, “comportamenti, fatiche e lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche”, “gravi sofferenze”. Restano così estranee all’ottica legislativa tutte le altre possibili lesioni del bene-animale, cui può ad esempio ricondursi il generico interesse alla libertà che l’animale può vantare[48].
Una seconda forma di limitazione dell’area di penale rilevanza delle condotte lesive del bene-animale, sempre riconducibile al paradigma della frammentarietà latamente intesa, è data poi dal già citato riconoscimento legislativo di numerose fra le condotte umane di sfruttamento dell’animale. Quando l’uomo uccide, ferisce, provoca gravi sofferenze all’animale, ma lo fa rispettando le regole imposte dalle leggi speciali, la condotta è lecita e l’arma penale non viene impiegata.
In terzo luogo, una volta all’interno dell’area delle condotte che il legislatore concretamente decide di reprimere entrano in gioco i citati criteri di sussidiarietà e proporzionalità. Come vedremo, infatti, l’esigenza che lo strumento penale venga utilizzato solo se strettamente necessario[49] e quella che “la reazione al reato sia proporzionata all’offesa che questo ha prodotto”[50] portano l’ordinamento a differenziare la risposta punitiva in un crescendo che parte dalla sanzione amministrativa, passa dalla contravvenzione e giunge sino al delitto, a seconda, però, non soltanto del livello di disvalore oggettivo e soggettivo della condotta, ma anche del diverso grado di contemperamento degli interessi confliggenti.
In sostanza, l’effetto è quello di una progressiva graduazione dell’ingiusto che dalla piena liceità arriva sino alla rilevanza penale della condotta a titolo di delitto, punito con la minaccia della pena detentiva. A governare questa scala di grigi si pongono criteri di graduazione eterogenei, che dovranno in seguito essere meglio esplorati nelle loro ripercussioni sistematiche. In primo luogo, emerge ovviamente un criterio legato alla gravità oggettiva del fatto e dunque al disvalore della condotta e dell’evento. In secondo luogo, viene in evidenza “l’efficienza graduante delle situazioni di conflitto: di beni’, di ‘doveri’, o, in generale, di ‘valori’”[51]. In terzo luogo, la diversificazione della risposta sanzionatoria è anche dovuta (in modo maggiormente problematico) alla riprovevolezza soggettiva dell’azione dell’uomo, che può ledere il bene-animale per motivi e con atteggiamenti psicologici del tutto diversi.
Tutti questi criteri posseggono ovviamente una notevole importanza e verranno, in seguito, esaminati. Nel settore del nostro attuale interesse, tuttavia, il più significativo dei tre criteri è sicuramente il secondo, quello cioè ancorato al tentativo del legislatore di rendere nel complesso l’ordinamento sistematicamente coerente. Si tratta di uno sforzo notevole, teso a risolvere le antinomie[52] che emergono con forza in un contesto giuridico che appare – come visto – fortemente frastagliato, in ragione del riconoscimento contestuale di interessi assiologicamente confliggenti[53].
In quest’ultimo senso, la graduazione dell’ingiusto ha naturalmente risentito, nel corso della storia recente, dell’estrema dinamicità dei valori in gioco e del progressivo riconoscimento socio-politico della questione animale. L’introduzione di nuove fattispecie penali, il processo di trasfigurazione del bene-sentimento nel bene-animale e la correlativa emergenza di una pluralità di normative settoriali sulla tutela degli animali hanno infatti velocemente scompaginato equilibri secolari, mutando la collocazione del baricentro tra lecito e illecito in senso qualitativo e quantitativo.
Al di là delle direttrici generali già tratteggiate, il modo migliore per seguire questo percorso è quello di analizzare più nel dettaglio, in senso diacronico, gli strumenti tecnico-normativi utilizzati dal legislatore penale per bilanciare gli interessi in campo, al fine di saggiarne la ratio, la collocazione sistematica e la resa pratica.
5. L’evoluzione storica delle clausole di bilanciamento degli interessi e il loro inquadramento sistematico tra tipicità e antigiuridicità: a) il riferimento all’“assenza di necessità” nella fase tradizionale della tutela dei sentimenti.
L’originaria posizione del legislatore penale italiano, a partire dall’unità d’Italia, è stata nel senso di tutelare il sentimento umano di pietà nei confronti degli animali. Questa impostazione, espressamente contenuta nei lavori preparatori ai codici Zanardelli e Rocco, ha fortemente condizionato la dottrina penalistica. Essa ha infatti sposato tale tesi, in modo sostanzialmente unitario, per oltre un secolo e continua, a larga maggioranza, a farlo ancora oggi, nonostante il mutato quadro normativo e socio-politico porti ormai inequivocabilmente a enucleare un nuovo bene-animale[54].
È opportuno pertanto soffermarsi anzitutto sulla fase storica, terminata tra gli anni Novanta e gli anni Duemila, durante la quale nessun dubbio sembrava sussistere circa la tutela indiretta degli animali, mediata dalla sensibilità umana rispetto alle condotte che comportassero strazio per le bestie stesse[55].
In questo periodo, la questione animale non era ancora emersa e l’esclusiva attenzione dell’ordinamento all’uomo e ai suoi sentimenti poteva essere ricavata da una serie di indici chiarissimi, che escludevano quasi del tutto l’animale dal fuoco della tutela. Basti il riferimento a due dati inequivoci.
Da un primo punto di vista, il legislatore penale, focalizzando la tutela sul sentimento, ometteva di tipizzare condotte palesemente lesive del bene-animale, quali soprattutto l’uccisione[56] e la lesione dell’animale stesso[57]. Il reato di riferimento era la contravvenzione di maltrattamento di animali (art. 727 c.p.), la quale, nella versione allora vigente, si limitava a reprimere l’incrudelimento verso gli animali o la sottoposizione degli stessi a torture o fatiche eccessive. La ragione della scelta appare evidente: il legislatore dell’epoca riteneva che mentre una tortura genera tendenzialmente pietà e compassione nell’uomo, lo stesso non potrebbe dirsi in relazione a una morte incruenta, rispetto alla quale l’uomo medio resterebbe indifferente.
Da un secondo punto di vista, anche la normativa extrapenale si disinteressava quasi completamente del benessere animale. Come visto poc’anzi, in quegli anni, mancava un corpus normativo, ricco e strutturato come l’odierno, teso a far emergere la capacità di soffrire dell’animale e a proteggerne le caratteristiche etologiche, limitando al contempo i diritti di sfruttamento dell’uomo. La maggior parte delle poche fonti normative vigenti avevano scopi del tutto diversi e sempre schiettamente antropocentrici.
In definitiva, l’animale era tutelato (in via indiretta) solo nei ristrettissimi margini della morale soggettiva e gli usi umani, implicanti la sua sofferenza o la sua morte, erano ritenuti talmente preminenti rispetto al bene debolmente protetto dal legislatore penale, da non sussistere nemmeno la necessità di precisarne le condizioni di liceità in maniera puntuale.
Non stupisce come, in un siffatto contesto, il compito (oggi delicatissimo) di bilanciare i confliggenti interessi in gioco fosse affidato alla semplice locuzione “senza necessità” che compariva tanto nell’art. 727 c.p., quanto nel delitto di cui all’art. 638 c.p., che tutela, peraltro, il diverso bene del patrimonio, leso dall’uccisione di un animale altrui avente valore economico. Tutte le volte in cui sussisteva una necessità,ogni condotta lesiva nei riguardi dell’animale era lecita, non venendo integrati gli estremi dei reati di riferimento.
Non stupisce nemmeno che questa clausola venisse interpretata dalla dottrina e dalla giurisprudenza in maniera molto ampia e flessibile, sì da destrutturare ulteriormente la già scarsa e indiretta protezione che l’animale riceveva.
Quanto alla dottrina, gli Autori nel corso dei decenni hanno mantenuto una posizione compatta, sostenendo che la necessità, contemplata dagli artt. 638 e 727 c.p., dovesse essere interpretata in termini molto più estensivi rispetto alla vera e propria necessità di cui all’art. 54 c.p., che ovviamente, a sua volta, rendeva il fatto lecito[58]. Si trattava, in altri termini, di una necessità non assoluta ma relativa, “cioè determinata da bisogni sociali o da pratiche, generalmente adottate, di una determinata industria, di un mestiere o di uno sport”[59]. Con ancora maggior ampiezza, talvolta, il riferimento era inteso a tutti “quei comportamenti che la coscienza comune normalmente accetta in relazione all’impiego degli animali da parte dell’uomo”[60].
In definitiva, il concetto di necessità era interpretato come un tentativo del legislatore di tipizzare, in questo particolare settore, il criterio extralegale dell’adeguatezza sociale, ampiamente esplorato dalla dottrina tedesca e, in seguito, anche dai fautori nostrani della concezione finalistica dell’illecito[61]. Lo scopo era quello di adattare in via interpretativa “ai valori giuridici della vita le astratte e insufficienti formulazioni della legge”[62], così da legittimare ogni forma di maltrattamento che intervenisse nello svolgimento di un’attività umana ritenuta socialmente accettabile per motivi storico-culturali e, dunque, in definitiva, consuetudinari.
Solo due erano i limiti comunemente riconosciuti a questa “onnicomprensiva” necessità: che il fatto non fosse “espressamente vietato da una norma giuridica speciale”[63] e che non vi fosse eccesso nei maltrattamenti, ma piuttosto proporzione, ossia che gli stessi fossero attuati entro i limiti dello stretto rapporto di mezzo a fine rispetto al diritto umano esercitato (rectius: all’uso socialmente accettabile)[64].
Venendo alla giurisprudenza, identici concetti erano veicolati dalle sentenze di legittimità, le quali sostenevano che “ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti di animali, la ‘necessità’, richiesta perché sia lecito sottoporre gli animali a fatiche eccessive o a tortura, deve essere intesa come necessità non assoluta ma relativa, cioè determinata anche da bisogni sociali o da pratiche, generalmente adottate, di una determinata industria, di un mestiere o di uno sport, quando il fatto non sia espressamente vietato da una norma giuridica speciale o non eccede dal consentito”[65].
Nell’assenza quasi completa di specifiche normative di settore (aventi le predette caratteristiche contenutistiche e teleologiche), ogni ragionamento circa le modalità di “trattamento” dell’animale da parte dell’uomo doveva necessariamente filtrare attraverso le nebulose e discrezionali maglie del concetto di necessità. Ne derivava un quadro confuso, connotato da fortissima arbitrarietà, all’interno del quale la giurisprudenza di merito era chiamata a vagliare i mezzi adottati da allevatori, trasportatori, macellatori ecc. secondo i criteri sopra enunciati. Questo generava situazioni di assoluta discrezionalità giudiziale, all’interno delle quali i tribunali erano chiamati a decidere le condizioni alle quali dovevano ritenersi “necessarie” le modalità con cui venivano realizzate pratiche di per sé accettate, come l’allevamento all’ingrasso di vitelli o lo spiumamento di oche vive[66].
Ciò non stupisce affatto, posto che la principale critica che, da un punto di vista sostanziale, la dottrina maggioritaria da sempre muove all’ipotesi di un parametro ultralegale liceizzante, fondato sull’adeguatezza sociale, è proprio legata al rischio di un assoluto “arbitrio soggettivo […] attraverso il rinvio del giudice ai parametri della «cultura vivente» e dei «valori etico-sociali» dominanti”, connotati da una “incontrollabile malleabilità e vaghezza”[67]. Nel nostro caso la tipizzazione del parametro, attraverso il riferimento all’assenza di necessità, in nulla muta evidentemente i problemi di indeterminatezza concettuale in discorso.
Prove ancor più nitide dell’inidoneità selettiva del concetto di necessità erano rinvenibili in quelle sentenze che cercavano di limitare l’estensione potenzialmente infinita della nozione, distinguendo la stessa dalla consuetudine, attraverso criteri spesso arbitrari. Un esempio interessante è rinvenibile nelle sentenze che si sono occupate della cd. Carrese di Ururi[68], rispetto alla quale la Pretura di Larino prima[69] e la Cassazione poi[70] avevano ritenuto necessaria, in quanto socialmente accettata, la manifestazione storica in sé, pur comportante il maltrattamento di buoi, mentre avevano ritenuto non necessario il fatto che gli stessi animali fossero stimolati con puntali acuminati, pur essendo anche tale ultima pratica consuetudinariamente accettata come componente della manifestazione stessa.
Così abbozzata, a livello contenutistico, l’estensione della locuzione “senza necessità”, quale unico criterio di bilanciamento degli interessi in conflitto in questa prima fase di tutela (indiretta) degli animali, vale la pena di fare un cenno all’interessante inquadramento dogmatico che la stessa possedeva nell’economia della fattispecie di cui all’art. 727 c.p. (e anche 638 c.p.).
Alla luce del bene giuridico in quegli anni tutelato e, più in generale, dell’assetto dei valori propugnati dal legislatore, non sorprende come la ponderazione di interessi tutti antropocentrici seguisse l’inconsueto sentiero dell’illiceità speciale[71].
La dottrina maggioritaria ha sempre riconosciuto infatti nel riferimento all’assenza di necessità, presente nelle fattispecie predette, un elemento normativo del fatto tipico, caratterizzato “per il peculiare connotato di illiceità rispetto […] a un parametro di qualificazione […] extragiuridico”[72]. Tale elemento rinvierebbe cioè a un canone di illiceità di matrice non giuridica e, segnatamente, alla citata adeguatezza sociale, che affonda le proprie radici nella coscienza comune, ossia in ciò che la collettività ritiene necessario al fine di perseguire le proprie finalità.
Questo peculiare strumento tecnico consentiva di ottenere un duplice risultato, del tutto coerente con l’originaria impostazione codicistica. Da un lato, la clausola di illiceità speciale favoriva l’emersione del conflitto di interessi posto alla base dell’alternativa tra lecito e illecito, secondo cadenze tipiche del giudizio di antigiuridicità. Dall’altro lato, tuttavia, siffatto discernimento restava collocato nell’ambito della tipicità, appunto quale elemento normativo del fatto tipico. Tale impostazione, peraltro, era del tutto logica alla luce del fatto che in quel periodo, all’ombra del bene-sentimento, il legislatore era costretto ad aprire delle faglie di frammentarietà, laddove la sussistenza di una condivisa utilità sociale del maltrattamento annichiliva (e non si limitava a controbilanciare) la lesione del sentimento umano di pietà. Diversamente da quanto – come vedremo – accadrà in seguito, in questa fase, in altri termini, era naturale che la partita si giocasse all’interno di tipo, pur attraverso il peculiare strumento tecnico-normativo ora in esame, per la ragione che, in presenza di un’uccisione socialmente adeguata, non vi era più alcun bene confliggente da salvaguardare[73], non scuotendosi in questi casi il sentimento (sempre umano) di pietà e compassione[74].
A tali obiettivi si prestava, in definitiva, perfettamente l’illiceità speciale, la quale, introducendo “già all’interno del fatto tipico un particolare giudizio in termini di contrasto tra la condotta ed un interesse confliggente con quello dell’autore”[75], istituisce “un profilo di interconnessione tra tipicità ed antigiuridicità”[76], mutuando caratteristiche proprie dei due elementi del reato.
A tal proposito, nell’impossibilità di approfondire a dovere un tema tanto complesso[77] e lasciando da parte la posizione dei fautori della teoria bipartita[78], basti delineare le coordinate che i più lucidi sostenitori della teoria tripartita – qui condivisa – hanno offerto per spiegare queste particolari clausole, dall’evidente natura ibrida. Si tratta infatti di punti di riferimento essenziali per definitivamente comprendere il ruolo e la funzione della locuzione “senza necessità” all’interno delle fattispecie di cui discutiamo.
Ebbene, in questo senso, una felice sintesi si trova nel manuale di Francesco Palazzo, il quale, pur con un uso terminologico in parte diverso, illustra con chiarezza le caratteristiche di questi particolari elementi negativi della tipicità[79], i quali:
a) “concorrono alla delimitazione del fatto tipico e, dunque, a rigore attengono al piano della tipicità più che a quello dell’antigiuridicità”, pur non mancando numerosi “punti di contatto con la categoria concettuale dell’antigiuridicità”;
b) evocano “una situazione di conflitto di interessi, tra l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice e un altro interesse antagonista per la realizzazione del quale si rivela “funzionale” la realizzazione del fatto”;
c) aprono dunque “a un interesse (antagonista) che il legislatore non ha potuto o voluto tradurre in termini positivi e specificamente determinati di descrizione della fattispecie”.
L’Autore conclude, quindi, ravvisando una situazione fortemente analoga a quella che si pone alla base delle cause di giustificazione. Nota però che questi elementi costruiti negativamente, che dimorano all’interno della tipicità, “presentano un grado di determinatezza assai più basso delle cause di giustificazione: mentre queste ultime, proprio perché derivanti dalle norme extrapenali, finiscono per consistere in facoltà giuridiche attribuite da specifiche norme, certamente numerose e diversificate ma di regola sufficientemente puntuali, invece gli elementi costruiti negativamente rimandano pressoché integralmente al giudice l’individuazione sia dell’interesse sia delle condizioni della sua prevalenza”.
Anche le ragioni politico-criminali, poste a fondamento di questa scelta tecnica, sono chiarite con precisione, laddove si osserva che le clausole in oggetto rivelano “un legislatore che, già nella formulazione della fattispecie e dunque nella delimitazione della tutela del bene, ‘ha presente’ l’eventuale insorgenza di un conflitto con altri interessi, in un certo senso criminologicamente ‘contigui’ a quello protetto; ma ciò nonostante, il legislatore non riesce a cristallizzare le situazioni di conflitto con specifici elementi positivi di fattispecie”.
Pur con queste accortezze concettuali, la teoria tripartita riesce perfettamente a metabolizzare l’illiceità speciale, quale entità borderline, senza bisogno di contestarne la dignità dogmatica. Chi si dirige in quest’ultima direzione infatti si trova per lo più a parlare del diverso istituto dell’illiceità espressa, la quale effettivamente il più delle volte, scontato il suo vizio di superfluità, si scioglie nell’antigiuridicità generale[80].
Tornando alla necessità, oggetto della nostra attenzione, il quadro è così definitivamente chiaro.
Nella fase del bene-sentimento, il legislatore ha lasciato che il bilanciamento tra due interessi schiettamente antropocentrici (l’uso umano dell’animale per motivi plurimi e il sentimento umano di pietà nei riguardi degli animali) si giocasse tutto sul piano della tipicità (seppure – come visto – in quella parte di tipicità finitima all’antigiuridicità) e che filtrasse attraverso il nebuloso prisma della necessità, da intendersi come adeguatezza sociale. In questo modo, poteva essere rimesso alla discrezionalità giudiziale un bilanciamento di interessi che il legislatore non aveva volutamente inteso risolvere in via preventiva, in ragione dell’inesistenza (all’epoca) di una vera questione animale e della conseguente convinzione che un basso grado di determinatezza portasse giustamente a relegare lo strumento penale ai casi marginali di maltrattamenti del tutto innecessari[81].
6. (Segue): b) l’emersione di nuovi valori e la necessità di un vero bilanciamento degli interessi.
Con l’emergere prepotente della questione animale, con la progressiva codificazione del vastissimo corpus regolatorio extrapenale citato e, soprattutto, con la riforma dei reati in materia di tutela degli animali nel 2004, il rapporto tra gli interessi in campo muta in maniera netta e irreversibile. Il nuovo quadro normativo, tuttavia, stimola posizioni molto differenti in dottrina e in giurisprudenza, delle quali occorre dare conto prima di offrire un nuovo punto di vista.
È bene precisare, prima di scendere nel dettaglio, che il frastagliato quadro esegetico discende, più che altro, dalla scadente tecnica legislativa impiegata nel 2004 e dallo scarso impegno che il legislatore ha mostrato nel definire i rapporti tra lecito e illecito.
Da un lato, infatti, attraverso la l. 189/04 il legislatore ha ampliato notevolmente l’ambito di operatività delle fattispecie a tutela degli animali in quanto tali, specie attraverso i delitti di uccisione (art. 544-bis c.p.) e di lesione/maltrattamento (art. 544-ter c.p.), che si affiancano ora alla residuale contravvenzione di cui all’art. 727 c.p., colmando buona parte degli spazi di frammentarietà precedentemente lasciati a livello di fatto tipico. Parallelamente il legislatore si è dovuto anche confrontare con l’ormai copiosa normativa extrapenale e, soprattutto, con la sua capillare precisione. In netta antitesi rispetto al passato, infatti, molte delle attività umane, comportanti l’uso degli animali, sono ora regolare in modo piuttosto preciso, secondo parametri che ponderano utilità umana e benessere animale.
In quest’ottica, la stessa l. 189/04 introduce l’art. 19-ter delle disposizioni di coordinamento e transitorie del codice penale, rubricato “Leggi speciali in materia di animali”: “Le disposizioni del titolo IX-bis del libro II del codice penale non si applicano ai casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia, di pesca, di allevamento, di trasporto, di macellazione degli animali, di sperimentazione scientifica sugli stessi, di attività circense, di giardini zoologici, nonché dalle altre leggi speciali in materia di animali. Le disposizioni del titolo IX-bis del libro II del codice penale non si applicano altresì alle manifestazioni storiche e culturali autorizzate dalla Regione competente”. La prima parte della norma sembra fungere da ponte di raccordo tra le nuove fattispecie penali e l’intero ordinamento giuridico, ricordando la liceità di quelle condotte di uccisione/maltrattamento che si svolgono entro i limiti previsti dalle leggi speciali in materia di animali.
Dall’altro lato, tuttavia, il legislatore mantiene, nei citati artt. 544-bis e ter c.p., il tradizionale riferimento all’assenza di necessità, subordinando la sussistenza del reato alla circostanza che le condotte ivi indicate siano commesse “per crudeltà o senza necessità”. Nel muta
Fasani Fabio
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