Accusandi necessitas incumbet domino servum suum. Questioni pregiudiziali in caso di accusatio adulterii
Fausto Giumetti
Assegnista di ricerca, Università degli Studi di Firenze
Accusandi necessitas incumbet domino servum suum.
Questioni pregiudiziali in caso di accusatio adulterii.*
English title: Accusandi necessitas incumbet domino servum suum. Preliminary rulings in case of accusatio adulterii.
Numero DOI: 10.26350/004084_000098
Sommario: 1. Premessa – 2. La disciplina dell’adulterium tra accusa privilegiata e accusatio iure extranei – 3. Accusatio adulterii e repudium – 4. Ulp. 3 de adult. D. 48.2.5 e Marc. 1 de publ. Iudic. D. 48.5.34 pr.: ipotesi di lettura – 5. Praeiudicium: tentativi definitori – 6. Conclusioni.
1. Premessa.
È noto che l’accusatio adulterii si strutturò sulla complessa parabola evolutiva che involse la lex Iulia de adulteriis coercendis[1] attraverso linee prospettiche di matrice sia giurisprudenziale che retorica, le quali, in rottura con la tradizione[2], rimodellarono il corrispondente crimen[3].
La punibilità della condotta adulterina – socialmente percepita come «la più grave infrazione della morale familiare»[4] – venne affrancata dall’avita competenza repressiva di carattere ‘privato’ racchiusa entro le mura del ‘nebuloso’[5] tribunale domestico[6], riservandola alla giurisdizione di un publicum iudicium[7]; innovazione descritta da Theodor Mommsen come: «einer der eingreifendsten und dauerndsten strafrechtlichen Neuschöpfungen welche die Geschichte Kennt»[8]. Ben consapevole della portata innovatrice della propria riforma[9] Augusto si preoccupò di presentarla personalmente all’approvazione del concilium plebis[10]; premura del tutto comprensibile se si considera la funzione di pietra angolare che il provvedimento, annoverato da Quintiliano tra le leges diligentissimae pudoris custodes[11] le quali, per Giovenale, avrebbero incusso terrore persino in Venere e in Marte[12], ebbe nell’edificazione di quella cura legum et morum[13]assicurata dal princeps ad una città spossata da continue lotte intestine[14] e nella quale si avvertiva sempre più pressante l’esigenza di una regolamentazione organica dei reati sessuali[15]. Ma credere di estirpare dal tessuto sociale una condotta di tal fatta per mezzo di un intervento legislativo si manifestò, ben presto, una mera illusione, soprattutto per l’eterogeneità con la quale la fattispecie criminosa poteva trovare concreta realizzazione.
La configurabilità materiale del reato divenne, infatti, soprattutto in età postclassica, oggetto di un intenso sforzo concettuale che arrovellò le menti dei giuristi, occupò le cancellerie imperiali e mise a dura prova l’abilità suasoria dei retori, come dimostrano, in modo vivace, le declamationes minores quintilianee[16].
Il presente contributo cercherà di analizzare due testimonianze accolte nel Digesto, l’una di Ulpiano (D. 48.2.5), l’altra di Elio Marciano (D. 48.5.34 pr.), tra loro apparentemente antinomiche, che riguardano l’adulterium commesso dalla uxor con un servo del marito[17].
Pur nella consapevolezza di non poter riuscire a sciogliere con certezza una simile eventuale antinomia, l’esegesi delle due testimonianze consente di evidenziare ancora una volta la controversialità che innerva ontologicamente il diritto romano e che trova due distinte dimensioni epistemologiche.
Quella ‘giurisprudenziale’, magistralmente descritta da Mario Talamanca[18] e da Mario Bretone[19], prodotto di una speculazione scientifica radicata nella concretezza dei fatti; e quella ‘giudiziale’ scaturente dalle sententiae dei giudici ed il cui vigore prescrittivo, come le ha tributato autorevole e appassionata dottrina[20], non era di certo inferiore a quello del primo formante[21].
2. La disciplina dell’adulterium tra accusa privilegiata e accusatio iure extranei.
L’analisi di alcuni aspetti del dettato legislativo della lex Iulia de adulteriis – redatta “ne quis posthac stuprum adulterium facito sciens dolo malo”[22] – si rendono indispensabili onde delinearne il perimetro normativo entro il quale si tenterà di scoprire il senso dei due responsa ai quali si è fatto per ora solo cursorio cenno. A tal fine, in via del tutto discrezionale, si ritiene proficuo iniziare la trattazione della normativa partendo dalla repressione dell’adulterio non flagrante; questa era demandata in primo luogo al padre o al marito (alieni o sui iuris)[23] dell’adultera, i quali godevano di una legittimazione attiva che assicurava loro un’accusa cd. privilegiata[24] attivabile intra dies sexaginta[25] a decorrere dalla dichiarazione di divorzio (Scaev. 4 reg. D. 48.5.15.2)[26]. Nell’eventualità in cui sia il padre che il marito avessero voluto attivare entrambi l’accusa, sarebbe stato preferito il secondo e ciò anche qualora questi fosse stato anticipato dal primonella notificazione del libellus accusationis[27]; Ulpiano giustifica una simile preferenza per il fatto che il marito sarebbe stato il vero soggetto maggiormente leso dal reato[28]:
Ulp. 8 disp. D. 48.5.2.8[29]: Si simul ad accusationem veniant maritus et pater mulieris, quem praeferri oporteat, quaeritur. Et magis est, ut maritus praeferatur: nam et propensiore ira et maiore dolore executurum eum accusationem credendum est, in tantum, ut et si pater praevenerit et libellos inscriptionum deposuerit, marito non neglegente nec retardante, sed accusationem parante et probationibus instituente atque muniente, ut facilius iudicantibus de adulterio probetur, idem erit dicendum.
La stessa ratio informa due rescritti contenuti nella Collatio[30], l’uno di Marco Aurelio e di Commodo, l’altro di Antonino Pio[31], con i quali si ritenne iustus l’impetus doloris che avesse mosso la mano del marito uxoricida, qualificando un simile stato d’animo come circostanza attenuante idonea a sottrarre il reo dalla pena de capite civis prevista dalla quaestio Cornelia de sicariis per i casi di omicidio volontario[32]. Che la natura dell’accusatio adulterii iure mariti vel patris fosse percepita come eccezionale[33] è un dato provato dalla circostanza, riferibile con probabilità ad elaborazione giurisprudenziale successiva, per la quale l’accusa privilegiata avrebbe potuto essere esperita non soltanto dal padre e dal marito ma altresì dal filiusfamilias, pur in mancanza dell’auctoritas paterna, e dal liberto nei confronti del patronus[34].
Spirato l’intervallo di tempo di sessanta giorni l’accusa sarebbe divenuta ‘popolare’ ed in quanto tale esercitabile da tutti i cives entro quattro mesi[35] dal dies commissi delicti, restando in ogni caso accessibile anche al padre e al marito, i quali avrebbero potuto concorrere ad accusare iure extranei o intervenire in una eventuale divinatio. Il dato corrobora appieno la tesi di Fabio Botta il quale opponendosi ad una idea di duplicità delle accusationes sostiene convincentemente l’univocità dell’accusa servente il pubblico interesse, che veniva accordata in via privilegiata solo in quanto vir e pater erano ritenuti i soggetti idoneiores a sostenerla stante l’iniuria subita[36].
Strutturalmente l’accusatio adulterii si presenta all’attenzione del giurista contemporaneo come atto a “formazione complessa” sol che si pensi che si rendeva indispensabile, sia nella sua configurabilità in via privilegiata sia, in parte, in quella iure extranei, lo scioglimento preliminare del vincolo matrimoniale[37]. Scrive Papiniano a tal riguardo:
Pap. l. s. de adult D. 48.5.12.10: Volenti mihi ream adulterii postulare eam, quae post commissum adulterium in eodem matrimonio perseveraverit, contradictum est. quaero, an iuste responsum sit. respondit: ignorare non debuisti durante eo matrimonio, in quo adulterium dicitur esse commissum, non posse mulierem ream adulterii fieri: sed nec adulterum interim accusari posse.
Solo nell’accusa iure extranei era possibile, stando a quanto si legge in un responso ulpianeo[38], aggirare il problema del mancato divorzio attraverso una pregiudiziale accusa di lenocinium avverso il marito (prius lenocinii maritum accusaverit) che, scoperto l’adulterio, non avesse provveduto tempestivamente ad allontanare la moglie fedifraga, sul cui perdono, soprattutto nel periodo tardoantico, si è interrogato, con il consueto acume, Renzo Lambertini. Riferendosi al dettato augusteo lo Studioso ha osservato che: «è dato notorio che il marito non poteva perdonare la moglie adultera colta in flagrante, in quanto se l’avesse tenuta con sé intendendo proseguire nel rapporto matrimoniale si sarebbe reso responsabile di crimen lenocinii»[39]. Pertanto, il marito che si fosse dimostrato refrattario al divorzio avrebbe potuto esservi ‘agevolmente’ indotto da chiunque con la minaccia di intentargli un’accusa di lenocinio[40].
L’azione penale si sarebbe in ogni caso prescritta dopo il quinquennio a die commissi criminis che le legge aveva stabilito cometermine massimo non solo per la persecuzione dell’adulterium[41] ma anche per quella dello stuprum[42] e, in generale, omnibus admissis ex lege Iulia venientibus[43].
Nell’eventualità in cui gli adulteri fossero stati colti in fragranza di reato si apriva sia al padre che al marito della adultera una via alternativa ben più cruenta e che seguendo Giunio Rizzelli si potrebbe definire eufemisticamente ‘stragiudiziale’[44]: l’uccisione di entrambi gli adulteri nel caso del pater[45] (adottivo o naturale)[46]; o del solo adultero, ma esclusivamente di bassa estrazione sociale[47], nel caso del marito, al quale non era consentito uccidere la moglie:
Coll. 4.10.1: Si maritus uxorem suam in adulterio deprehensam occidit, an in legem de sicariis incidat, quaero. Respondit: nulla parte legis marito uxorem occidere conceditur: quare aperte contra legem fecisse eum non ambigitur[48],
e ciò poiché – specifica Pap. 1 adult. D. 48.5.23(22).4 – il marito avrebbe agito in preda a incontrollabili calor et impetus, che avrebbero assunto la qualifica di circostanze attenuanti in un eventuale giudizio avverso il marito che non si fosse trattenuto dall’uccisione l’adultera. Affinché l’uccisione (della moglie o dell’amante di questa di elevata condizione sociale) perpetrata dal marito fosse legittima erano richiesti due ulteriori elementi: il ripudio della moglie e la notificazione al magistrato di quanto accaduto entro tre giorni dal fatto[49]. Le ragioni di simili presupposti processuali appaiono chiare: il ripudio dell’adultera era teso a dimostrare la bona fides del marito e ad allontanare, chiarisce Eva Cantarella, il dubbio che vi fosse stata una complicità tra i coniugi[50]. Alla donna per converso, a leggere Aulo Gellio, non era permesso alzare un dito contro il marito fedifrago:
Gell. 10.23.5: In adulterio uxorem tuam si prehendisses, sine iudicio inpune necares; illa te, si adulterares sive tu adulterarere, digito non auderet contingere neque ius est.
Una disparità di trattamento[51] tra marito e moglie che si conservò a lungo se si pensa che Lattanzio ne testimonia la vigenza quale caratteristica del diritto umano rispetto a quello divino:
Lact., inst. 6.23.23-25: [23] ut cum quis habeat uxorem, neque servam neque liberam habere insuper velit, sed matrimonio fidem servet. [24] Non enim, sicut iuris publici ratio est, sola mulier adultera est quae habet alium, marurus autem, etiam si plures habeat, a crimine adulterii solutus est. [25] Sed divina lex ita duos in matrimonium, quid est in corpus unum, pari iure coniungit, ut adulter habeatur quisquis compagem corporis in diversa distraxerit[52].
La trasposizione in termini più propriamente giuridici dell’assunto espresso dall’apologista si riscontra in un passo di Ulpiano nel quale il giurista ritiene profondamente ingiusto (periniquum) che il marito esiga dalla moglie quanto lui stesso non è in grado di assicurare:
Ulp. 2 de adult. D. 48.5.14.5: Iudex adulterii ante oculos habere debet in inquirere, an maritus pudice vivens mulieri quoque bonos mores colendi auctor fuerit: periniquum enim videtur esse, ut pudicitiam vir ab uxore exigat, quam ipse non exhibeat: quae res potest et virum damnare, non rem ob compensationem mutui criminis inter utrosque communicare.
Il giudice dunque avrebbe dovuto tener conto della condotta del marito che avesse accusato di adulterio la moglie e ciò essenzialmente – a nostro giudizio – al fine dell’imputazione in un possibile iudicium de moribus dell’individuazione della culpa discidii onde poter procedere ad un quanto più equa quantificazione delle retentiones dotali. Sia nell’esperimento della eventuale actio rei uxoriae che nell’actio ex stipulatu si presentava infatti il problema di stabilire l’esistenza della culpa mulieris o della speculare culpa viri. A tale riguardo si precisa come quest’ultima sebbene fosse in concreto equivalente di fatto all’assenza della precedente venisse comunque individuata nei Tituli ulpianei in simmetria a quella mulieris:
Tit. Ulp. 6.10: Propter liberos retentio fit, si culpa mulieris aut patris, cuius in potestate est, divortium factum sit; tunc enim singulorum liberorum nomine sextae retinentur ex dote; non plures tamen quam tres. Sextae in retentione sunt non in petitione,
e ciò in ossequio ad un’ispirazione ideologica che affrancava la culpa discidii all’iniziativa di repudium come si legge nei Topica ciceroniani[53]:
Cic., Top. 4.19: Si viri culpa factum est divortium, etsi mulier nuntium remisit[54], tamen pro liberis manere nihil oportet,
e che rinveniamo in forma più matura in Iul. 16 Dig.D. 24.3.30.1, Paul. 5 quaest. D. 24.3.44.1 nonché in Pap. 8 resp. D. 35.1.101.3. Tutt’altro che inusuale dunque che il marito davanti all’istanza di restituzione della dote reagisse, in presenza di figli, provocando un iudicium de moribus, cioè, in pratica, una valutazione della condotta femminile che si può solo ipotizzare venisse ad inserirsi in via incidentale nel giudizio complessivo. Autori come August Bechmann[55] e Karl Czyhlarz[56] hanno ipotizzato che l’actio de moribus fosse uno strumento concesso ad entrambi i coniugi volto a paralizzare o la pretesa ad una restituzione integrale della dote da parte della donna o quella ad una ritenzione esclusiva della stessa da parte del marito. È da aggiungere al riguardo che l’individuazione o meno della culpa mulieris si basava su un giudizio soggettivo dello iudex fondato sulla comparazione della condotta dei due coniugi. Criterio, questo, che poteva portare anche a pronunzie eterogenee come si legge sia in Ulpiano[57] che in Papiniano[58]
Sulla possibilità poi per il marito di accusare la propria moglie, ed eventualmente il correo, in costanza di matrimonio, sembra prevalere la teoria dell’origine classica di tale diritto[59]. Sicuramente aveva il diritto di accusare la moglie con la quale era ancora unito in matrimonio colui che fosse contemporaneamente anche il patrono della donna come si può evincere dal commento ulpianeo alla legislazione matrimoniale augustea[60], ma al di fuori di questa fattispecie l’esistenza di un diritto d’accusa in capo al marito ancora sposato è negata da un rescritto di Alessandro Severo[61]. Come già accennato, agli estranei non era concesso accusare la donna che il marito avesse tenuto presso di sé, a meno di non aver ottenuto la condanna del marito stesso per lenocinium: la condanna del marito diveniva così presupposto processuale anche per la condanna del correo.
3. Accusatio adulterii e repudium.
Quello che possiamo ritenere pacifico dalla lettura delle fonti, è il fatto che il marito al fine di assicurarsi la legittimazione attiva privilegiata all’accusa avrebbe dovuto rompere il vinculum matrimoniale, con la conseguente restituzione dei beni dotali al netto delle eventuali retentiones a vario titolo conteggiate[62].
La pendenza dell’unione non avrebbe reso possibile sottoporre a publicum iudicium la donna la quale dal punto di vista della legittimazione passiva doveva essere di condizione sociale rispettabile[63]. In proposito resta tutt’ora discusso in dottrina il caso dell’applicabilità della fattispecie a una donna che non fosse una uxor iusta, come, per esempio, una concubina o una moglie straniera o ancora una sponsa[64]. Se l’unilateralità o meno dello scioglimento del matrimonio non aveva rilevanza, ricopriva al contrario una posizione sostanziale la pubblicità con la quale si notiziavano i terzi del venir meno dell’affectio maritalis come testimoniano i seguenti passi:
Paul. 2 de adult. D. 24.2.9: Nullum divortium ratum est nisi septem civibus romanis puberibus adhibitis praeter libertum eius qui divortium faciet […],
e
Ulp. 47 ad ed. D. 38.11.1.1: Item Iulia de adulteriis, nisi certo modo divortium factum sit, pro infecto habet.
Paolo precisa che nessun divortium è da ritenersi ratum se non avvenuto alla presenza di sette cittadini romani puberi, e Ulpiano conferma che se lo scioglimento del vincolo matrimoniale non si è realizzato certo modo allora non può ritenersi efficace. La ratio della prescrizione è stata messa in relazione da Patrizia Giunti con le limitazioni delle alienazioni del fondo dotale previste dalle leges Iuliae[65] e Carlo Venturini ha sostenuto che l’introduzione di un certo grado di formalità per il divorzio fosse assolutamente necessaria per operare una distinzione quanto più possibile univoca tra le unioni lecite e quelle illecite, perché intrattenute da una donna ancora sposata[66]. Simile pubblicità era resa imprescindibile proprio al fine d’individuare il dies a quo dal quale far decorrere il termine decadenziale di sessanta giorni entro il quale il coniuge tradito o il pater della fedifraga avrebbero potuto radicare in via privilegiata il giudizio[67]. Come più volte precisato il marito che venuto a conoscenza dell’adulterio avesse retenta in matrimonio la uxor sarebbe stato perseguibile per il crimen di lenocium[68], reato in cui sarebbe incorso anche l’eventuale successivo marito che avesse contratto nuove nozze pur essendo a conoscenza della condanna in capo alla donna o l’ex marito che avesse restaurato l’antico legame coniugale. A mitigare la portata della norma era però intervenuta l’attività prudenziale dei giuristi, che, facendo leva sulla necessaria sussistenza del dolo per la configurabilità della fattispecie criminosa aveva ristretto le maglie di applicazione della previsione normativa a qui de adulterio uxoris suae quid ceperit, item in eum, qui in adulterio deprehensam retinuerit[69].
Il crimen si configurava, pertanto, osserva Venturini, nel più ristretto caso del marito che avesse costretto la uxor ad una forma di meretricium o avesse proceduto «ad una pacifica dimissio dell'adultero sorpreso in flagrante (D. 48.5.30 pr.; PS. 2.26.8 = Coll. 4.12.7 : cfr. D. 48.2.3.3; D. 48.5.34.1)»[70]. Era rimasto sanzionabile pertanto solo il comportamento di colui che: «excusare ignorantiam suam non potest vel adumbrare patientiam praetextu incredibilitatis (D. 48.5.30 pr.), restando escluso quello del marito che patiatur uxorem suam delinquere non ob quaestum, sed neglegentiam vel culpam vel quandam patientiam vel nimiam credulitatem (D. 48.5.30.4)»[71]. Lo Studioso ha ipotizzato che Costantino, proprio al fine di reprimere più efficacemente l’adulterio, abbia abbandonato questa via in modo tacito, pur lasciandola formalmente percorribile, per sollecitare l'interesse economico del marito, prospettandogli la conservazione dell'intera dote dell'adultera condannata[72].
4. Ulp. 3 de adult. D. 48.2.5 e Marc. 1 de publ. Iudic. D. 48.5.34 pr.: ipotesi di lettura.
È venuto il momento di analizzare i passi di Ulpiano e Marciano[73], conservati in uno dei libri terribiles del Digesto[74], relativi al caso in cui una donna avesse commesso adulterio con un servo del proprio marito. I due giuristi elaborarono al riguardo due responsa che, ad una prima lettura, potrebbero far sorgere alcuni dubbi relativi all’accusatio.
Si seguirà nell’esposizione la sistematica giustinianea e pertanto s’inizierà la trattazione con il frammento di Ulpiano. Il giurista severiano rinvia ad un rescritto di Marco Aurelio[75] con il quale l’imperatore vincolava (necessitas) il dominus a promuovere dapprima l’accusa avverso lo schiavo infedele:
Ulp. 3 de adult. D. 48.2.5: Servos quoque adulterii posse accusari nulla dubitatio est: sed qui prohibentur adulterii liberos homines accusare, idem servos quoque prohibebuntur. sed ex rescripto Divi Marci etiam adversus proprium servum accusationem instituere dominus potest. post hoc igitur rescriptum accusandi necessitas incumbet domino servum suum: ceterum iuste mulier nupta praescriptione utetur.
Viene precisato che innanzi all’azione promossa dal marito l’adultera qualora si fosse risposata (mulier nupta)[76] avrebbe potuto legittimamente (iuste) sollevare la praescriptio volta a paralizzarla[77] in quanto discussa preliminarmente, come si legge in Ulp. 2 de adult. D. 48.5.16.7[78], alla sua inscriptio inter reos. Parrebbe d’intendere dal passo che contro la donna che successivamente al divorzio si fosse risposata non avrebbe potuto essere esperita l’accusatio adulterii se prima non si fosse agito contro lo schiavo. In questo caso la praescriptio non sarebbe stata quella propria del processo formulare, ma si sostanziava in quelle «difese opponibili all’accusatore in un processo penale nel corso della fase preparatoria del processo stesso e che ante solent tractari quam quis inter reos recipiatur (Ulp. 2 de adult. D. 48.5.16 [15].7)»[79]. Si può presumere, azzardandosi ad applicare alla procedura di allora le categorie della moderna processualistica, che si trattasse di una questione “pregiudiziale di rito”, che, se risolta in accoglimento delle ragioni della donna, avrebbe reso improcedibile l’accusa[80].
Nel passo di Ulpiano viene enunciato inoltre un precetto di non poca rilevanza: l’imputabilità di uno schiavo in un publicum iudicum per un reato suscettibile di repressione d'ufficio in via di cognitio extra ordinem attivatasi a seguito di delatio[81]. Occorre allora chiarire come e perché sia possibile un’accusa in un pubblico processo nei confronti di una persona di condizione servile. Costituisce infatti dato sin troppo noto che in sede di processo penale non era previsto che uno schiavo fosse processato come gli uomini liberi[82] e ciò stante la possibilità di applicargli, in quanto res[83], in via diretta una misura coercitiva da parte del dominus quale titolare della dominicia potestas o da parte di altri soggetti – magistrati o tresviri capitales – che fossero investiti di publica potestas.
Perché, allora, per Ulpiano il servo avrebbe dovuto essere accusato dal dominus come se si fosse trattato di un qualsiasi uomo libero?
Si rende necessario, per cercare di rispondere alla domanda, chiarire il significato che il sintagma iudicium publicum assume nel pensiero di Ulpiano e per fare ciò resta imprescindibile lo studio che Botta ha condotto sul complesso tema dell’accusa nei pubblica iudicia[84]. Lo Studioso evidenzia, partendo dall’esegesi di Ulp. 1 ad l. Iul. et Pap. D. 23.2.43.10 concernente il divieto statuito attraverso un senatus consultum di nuptiae legitimae tra i membri del Senato e le donne accusate in un publicum iudicium, come venga qualificato publicum iudicium ciò che iudicio cuilibet ex populo experiri licet, sottolineando il criterio qualificativo della legittimazione diffusa. Botta analizza anche i casi d’incapacità all’accusa verso uomini liberi e tra i soggetti impossibilitati a rivestire il ruolo di pubblico accusatore vengono ricordati, per l’età repubblicana, donne[85], pupilli[86] ed infami.
Pertanto, in ragione della natura diffusa della legittimazione ad esperire l’accusatio adulterii, la configurabilità di un publicum iudicium avverso uno schiavo può giustificarsi in ragione dell’improcedibilità della medesima accusa contro la donna correa. E ciò perché potevano verificarsi alcune situazioni nelle quali la donna non fosse (più) accusabile, ad esempio, la già richiamata eventualità di nuove nozze antecedentemente l’esperimento dell’accusatio[87]. In questa circostanza solo dopo aver ottenuto la condanna dell’adultero sarebbe stato lecito procedere contro la donna e ciò anche qualora si fosse risposata. È possibile alla luce di queste considerazioni ricostruire il significato del passo: se l'adulterio fosse stato commesso con lo schiavo e la donna fosse convolata a nuove nozze, la condanna dell’adultera si sarebbe potuta conseguire a condizione che lo schiavo fosse stato precedentemente processato.
E perché ciò?
Per tentare di rispondere alla domanda è indispensabile leggere il seguente parere di Marciano nel quale il giurista riporta un rescritto di Antonino Pio che, a detta di Hans Ankum, avrebbe costituito «une mesure exceptinelle de protection de la femme suspecte d’adultère»[88]:
Marc. 1 de publ. iudic. D. 48.5.34 pr.: Si quis adulterium a servo suo commissum dicat in eam, quam uxorem habuit, Divus Pius rescripsit accusare potius mulierem eum debere, quam in praeiudicium eius servum suum torquere.
Marciano chiarisce che qualora qualcuno affermi che la propria uxor abbia commesso adulterium con un suo servo allora il divino Antonino Pio ha stabilito, tramite rescritto, che il marito tradito debba accusare mulierem piuttosto che sottoporre a tortura (torquere) il servo. Tra i due passi sembrerebbe emergere una possibile antinomia: l’uno (quello di Ulpiano) prevede l’accusa verso il servo prima di quella contro la ex moglie; l’altro (quello di Marciano) richiama il dispositivo di Antonino Pio che stabilisce la poziorità dell’azione contro la moglie rispetto alla reazione verso lo schiavo al fine – parrebbe leggersi – di precostituirsi un praeiudicium. Dunque per meglio comprendere la portata precettiva dei due passi l’esegeta si deve interrogare sul significato del vocabolo praeiudicium per poi precisarne la portata semantica nella cornice dell’inciso: […] accusare potius mulierem eum debere, quam in praeiudicium eius servum suum torquere.
5. Praeiudicium: tentativi definitori.
Forse perché ritenuta materia per oratori (ed ancor peggio per advocati), i giuristi romani non hanno dedicato al tema del praeiudicium il dovuto interesse che avrebbe meritato. Anche per questo motivo è impresa quantomai ardua cercare di tracciare i contorni dell’istituto che stante l’ambiguità semantica che lo connota sfugge ad ogni tentativo definitorio. Ed infatti nel lessico giuridico romano il vocabolo praeiudicum viene utilizzato per indicare una serie di circostanze eterogenee[89] ma che possono essere accumunate per la loro strumentalità nell’influenzare il giudice nella valutazione dei fatti dedotti in giudizio[90]. Per questo motivo attraverso l’uso del termine praeiudicia è possibile rinvenire nelle fonti sia espedienti retorici (vita anteacta)[91] che mezzi più propriamente giuridici. E relativamente a questa seconda accezione un dato sembra registrabile dalle stesse fonti: il ricorso al termine riferendosi alle res iudicatae[92].
Per meglio intendere come venisse adoperato il termine praeiudicium è necessario ricercare l’uso che se ne fa nelle opere retoriche.
Cicerone più volte si trova a dover smontare il castello accusatorio edificato a danno dei propri assistiti attraverso un astuto rinvio ai praeiudicia[93] e nel lessico ciceroniano il significato del termine praeiudicia pare avvicinarsi molto a quello di res iudicatae; queste sono elencate dall’Arpinate nel suo trattato sull’oratore[94] tra le prove ´documentali´ inartificiali:
Cic., de orat. 2.27.116: tabulae, testimonia, quaestiones, pacta conventa, leges, senatus consulta, res iudicatae, decreta, responsa.
Così Quintiliano in due passaggi delle Institutiones oratoriae[95], ai quali, per il loro valore epistemologico sulla dottrina delle prove, Giovanni Cossa ha dedicato una recente e fine analisi[96], ricomprenderà i praeiudicia tra le prove atecniche. Infatti, l’oratore distingue, riprendendo una classificazione già operata da Aristotele[97], tra mezzi di prova ‘atecnici’ (άτεχνοι o probationes inartificiales) e ‘tecnici’ (έντεχνοι o probationes artificiales) o ‘artificiali’:
Quint., inst. or. 5.1.1-2: [1] Ac prima quidem illa partitio ab Aristotele tradita consensum fere omnium meruit, alias esse probationes quas extra dicendi rationem acciperet orator, alias quas ex causa traheret ipse et quodam modo gigneret; ideoque illas atechnous, id est inartificiales, has entechnous id est artificiales, vocaverunt. [2] Ex illo priore genere sunt praeiudicia, rumores, tormenta, tabulae, ius iurandum, testes, in quibus pars maxima contentionum forensium consistit. Sed ut ipsa per se carent arte, ita summis eloquentiae viribus et adlevanda sunt plerumque et refellenda. Quare mihi videntur magnopere damnandi qui totum hoc genus a praeceptis removerant.
Le probationes ‘atecniche’ (o inartificiali) sono quelle che venivano presentate al giudice così com’erano, senza alcuna elaborazione da parte del retore, essendo indipendenti dalla propria ars (ut ipsa per se carent arte); quelle artificiali erano invece costruite o ‘inventate’ dal retore, secondo lo scema argomentativo che in termini moderni si può identificare con quello della prova presuntiva o indiziaria di cui parlano gli artt. 2727 e 2729 c.c. e l’art. 192, II comma, c.p.p[98]. Tra le prime compaiono i praeiudicia,i rumores, i tormenta, le tabulae, il iusiurandum, i testes. Proprio per la loro origine extraprocessuale questi strumenti di prova debbono essere confutati attraverso un ancor più faticoso impegno persuasivo da parte dell’oratore (ita summis eloquentiae viribus et adlevanda sunt plerumque et refellenda).
Nel paragrafo successivo intitolato De praeiudiciis Quintiliano precisa che vi sono tre tipi diversi di praeiudicia.
Quint., inst. or. 5.2.1: Iam praeiudiciorum vis omnis tribus in generibus versatur: rebus quae aliquando ex paribus causis sunt iudicatae, quae exempla rectius dicuntur, ut de rescissis patrum testamentis vel contra filios confirmatis: iudiciis ad ipsam causam pertinentibus, unde etiam nomen ductum est, qualia in Oppianicum facta dicuntur et a senatu adversus Milonem: aut cum de eadem causa pronuntiatum est, ut in reis deportatis et adsertione secunda et partibus centumviralium quae in duas hastas divisae sunt.
Alcuni praeiudicia sono chiamati comunemente exempla per il loro valore paradigmatico e consistono nei fatti giudicati in fattispecie affini e che perciò sono utilizzabili in ipotesi simili, sebbene diverse, da quelle per le quali sono stati emessi[99]; altri sono quelli che hanno attinenza con la causa discussa (ad ipsam causam pertinentia) e dai quali deriva il nome stesso di praeiudicia (unde etiam nomen dictum est). Quintiliano in riferimento a questi rinvia a fini esemplificativi ad alcune delle più note orazioni ciceroniane: la pro Cluentio[100] e la pro Milone[101]. Cicerone inferisce la correttezza della condanna di Oppianico, fratellastro dell’imputato, dal fatto che fossero già stati condannati per veneficium ai danni di Cluenzio, sia Scamandro che Fabrizio, fedelissimi alleati ed amici di Oppianico. In questo caso il praeiudicum presenta una natura ‘ibrida’ in quanto fa riferimento non solo ad una sentenza emessa precedentemente in una quaestio presumibilmente de veneficiis ma pure alla vita anteacta di Cluenzio, dipinto come incallito corruttore di giudici. Nel caso di Milone l’oratore si sforza di dimostrare che il senatus consultum de republica defendenda[102] qualificante le uccisioni avvenuta sulla via Appia alla stregua di crimina contro la repubblica non avrebbe dovuto influenzare i giudici contro Milone. Il fatto che emerge da entrambi questi esempi è l’applicabilità del praeiudicium come strumento probatorio, privo di valore vincolante[103], discrezionalmente valutabile dal giudice alla stregua di una qualsiasi altra prova documentale o testimoniale.
Infine, l’ultima categoria di praeiudicia elencati da Quintiliano, come ha evidenziato Franca De Marini Avonzo e più di recente la Biccari, si riferisce «a ipotesi non perfettamente chiarite, e inoltre di carattere eccezionale»[104] sulle quali la dottrina si è da tempo interrogata, come testimoniano i contributi al riguardo di Heinrich Siber[105], Giovanni Pugliese[106] e Matteo Marrone[107], le cui posizioni vengono analizzate dalla Biccari nel suo recente studio sulla formazione dell’advocatus[108]. Si tratta di casi che aiutati dal tenore del seguente passo potremmo ricondurre in parte alle res iudicatae:
Quint., inst. or. 5.2.2.: Confirmantur praecipue duobus: auctoritate eorum qui pronuntiaverunt, et similitudine rerum de quibus quaeritur; refelluntur autem raro per contumeliam iudicum, nisi forte manifesta in iis culpa erit; vult enim cognoscentium quisque firmam esse alterius sententiam, et ipse pronuntiaturus, nec libenter exemplum quod in se fortasse reccidat facit.
Si tratterebbe di decisioni che assumono una loro vincolatività per due motivi: l’autorità di coloro che le hanno emesse e la affinità (similitudo) con il caso nel quale vengono utilizzate. Infatti secondo Quintiliano i giudici sono soliti recepire e confermare le sentenze dei loro colleghi, soprattutto se particolarmente autorevoli, ciò facendo però trasmettono talvolta eventuali errori giudiziari. Infatti nessun giudice vorrà, rendendo una sentenza difforme rispetto a quelle precedenti, infrangere una continuità valoriale per il timore che qualcun altro possa riservare lo stesso trattamento alla sua stessa decisione[109]. Ciò costituiva una delle ragioni a detta del retore del consolidarsi di un “diritto giudiziale” che nasceva per l’appunto dalla reiterazione delle res iudicatae le quali, come afferma Palma, «nel loro ripetersi conforme, con il supporto delle argomentazioni giurisprudenziali e l’avallo degli organi giudicanti, spesso conducevano al formarsi di un principio giuridico dotato di una forza normativa analoga a quella della consuetudine»[110]. Quintiliano indica pertanto ai suoi allievi come possano evitare che il giudice si basi su precedenti decisioni giudiziarie nel formare il proprio convincimento, avendo nello stesso tempo cura di non offenderne la suscettibilità. A questo scopo consiglia di non formulare alcuna critica sulla erroneità della res iudicata, o se ciò è impossibile allora imputarla all’incapacità e trascuratezza delle parti e dei loro avvocati, oppure sull’inattendibilità dei testimoni escussi. Dovranno puntare invece sulle differenze tra la fattispecie anteriore e quella che loro interessa ed infine, eventualmente, ricordare alcuni famosi esempi di errori giudiziali, pregando il giudice di volersi formare un’opinione personale piuttosto che seguire quella altrui[111].
La considerazione d’ordine psicologico con la quale Quintiliano spiega la frequenza dell’impiego di sentenze anteriori come mezzo per formare il proprio convincimento da parte di un secondo giudice non dovette troppo impressionare i Romani: il rispetto per la suscettibilità della classe giudicante, sul quale Quintiliano mette l’accento, doveva essere equilibrato, da un lato, dal più importante e obiettivo rispetto per l’interesse generale, e, dall’altro lato dall’osservazione di vantaggi che indiscutibilmente ha una costante e concorde giurisprudenza.
Da quanto teorizzato da Quintiliano possiamo trarre la conclusione che il giudice può liberamente servirsi del praeiudicium come mezzo di prova; spetta invece all’avvocato cercare di scartarlo quando esso sia sfavorevole al cliente. Ciò corrisponde pienamente a quanto sappiamo sul regolamento dell’istruzione probatoria nel processo romano dell’ordo iudiciorum: è noto che mentre la valutazione delle prove è totalmente lasciata all’arbitrio del giudice, questi non ha invece nessuna possibilità di iniziativa all’assunzione di esse, dovendosi accontentare di quelle presentate dalle parti[112]. Mutuando dalle categorie dogmatiche elaborate dal pensiero giusnaturalistico sviluppatosi in Germania tra le fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, si potrebbe dire che la Verhandlungsmaxime avrebbe informato il processo romano a discapito di quella disciplina della prova basata sulla Untersuchungsmaxime[113], e ciò soprattutto nel processo di cognitio[114].
6. Conclusioni.
Fatta questa ricognizione sull’utilizzo del termine praeiudicium come poter combinare in modo armonico – al netto della natura controversiale del diritto raccolto dai giustinianei – il rescritto di Antonino Pio tramandato, in modo tutt’altro che univoco[115], dal passo di Marciano con quello di Marco Aurelio riportato da Ulpiano?
Le considerazioni svolte potrebbero far suppore, con un certo grado di probabilità, che la legislazione di Marco Aurelio avesse incamerato la precedente disposizione perfezionandone la portata normativa: non solo il padrone non doveva sottoporre a tortura il servo ma doveva instaurare a suo danno un publicum iudicium alla stregua di un uomo libero[116]. L’innovazione normativa si rese probabilmente necessaria proprio per permettere la successiva accusa contro l’adultera risposatasi, così come il medesimo testo sembra lasci chiaramente intendere osservando che post hoc … rescriptum accusandi necessitas incumbet domino servuum suum: ceterum iuste mulier nupta praescriptione utetur[117].
In simile prospettiva pare potersi affermare che il praeiudicium a cui fa menzione Marciano rinvî ad una eventuale res iudicata originata da un processo contro lo schiavo e che l’ex marito avrebbe potuto utilizzare avverso la moglie fedifraga che avesse contratto nuovo matrimonio, la quale senza questo presupposto processuale avrebbe potuto ottenere una dichiarazione di improcedibilità della domanda schermandosi, in via di praescriptio, con le nuove nozze. A detta di Valerio Marotta invece Ulpiano avrebbe fatto riferimento ad una quaestio pregiudiziale, fatta eseguire dal proprietario degli schiavi, assistito da un consilium di amici, che durante il processo contro la ex moglie avrebbero reso testimonianza dei risultati ottenuti[118].
Entrambe le ricostruzioni si sposerebbero ad ogni modo con la personalità dei due imperatori richiamati, promotori di una nuova humanitas, che a partire da Claudio passando per Adriano[119], stava sempre più maturando nella sensibilità giuridica delle cancellerie imperiali e che trovava piena corrispondenza nella elaborazione responsoriale dei giuristi[120]. Di questa nuova sensibilità gli schiavi, rappresentanti nell’ordinamento romano il “degré zéro”[121] nella divisio personarum, rappresentarono i destinatari privilegiati. Motore delle scelte di politica del diritto di età imperiale, il favor dimostrato verso lo schiavo ha consentito agli studiosi di affermare l’esistenza di quell’atteggiamento umanitario del diritto romano di età imperiale, di quella sua peculiare inclinazione al riconoscimento della dignità dell’Uomo[122], da cui i teorici degli antichi Human Rights traggono il loro principale argomento[123]. Ciò ha permesso a Tony Honoré di disegnare il profilo di un giurista quale Ulpiano nei termini di un autentico “pioneer of Human Rights”[124] nel riconoscimento dei diritti dell’individuo, al centro di una catena di elaborazioni concettuali capaci di fare del valore della persona umana e del richiamo all’humanitas l’asse portante del sistema politico-ideologico di età imperiale. In questo nuovo orizzonte ideologico giuristi e principi si collocano sullo stesso piano, palesando un’evidente tensione a coniugare il rispetto della tradizione con una nuova attenzione a valori poggianti sull’humanitas che non poteva consentire il perpetuarsi della tortura come mezzo di prova. I due passi analizzati segnalano nel combinato disposto argomentativo proposto una palese penetrazione della ratio humanitatis nello strumentario responsoriale di Ulpiano e di Marciano. Ha recentemente osservato Lauretta Maganzani che: «Ulpiano, Marciano […] nelle loro opere istituzionali […], sempre sulla scorta degli ideali stoici di cosmopolitismo e unità del genere umano, contrappongono la condizione di libero e quella di servo, ascrivendo la prima alla natura – per cui tutti gli uomini sono uguali – e la seconda al ius gentium: il che, da quanto possiamo sapere, non accadeva nelle opere giurisprudenziali dei secoli precedenti»[125].
In particolare analizzando alcuni passi dei due giuristi severiani, la Studiosa evidenzia come nel loro pensiero la libertas individuale sia conforme alla natura in quanto vi è l’espresso riconoscimento dell’uguaglianza fisica, morale e intellettuale tra tutti gli uomini[126]. Dalle due testimonianze analizzate emergerebbe, pertanto, non solo la complessità della riflessione giurisprudenziale maturata sull’applicazione della lex Iulia de adulteriis ma si può pure ragionevolmente concludere sull’appartenenza alla cultura giuridica del terzo secolo di valori di equilibrio assorbiti ed adottati a fondamento di decisioni che superavano il ius strictum e che indirizzavano non solo la riflessione giurisprudenziale ad un nuovo modo d’intendere l’Uomo.
Abstract: The paper deals with the accusatio adulterii. In particular, after having reconstructed the discipline of adultery provided for by lex Iulia de adulteriis coercendis, the article dwells on the case of adultery committed by a woman with a slave of her husband. With regard to this case, the contribution proposes an exegesis of Ulp. 3 de adult. D. 48.2.5 e Marc. 1 de publ. Iudic. D. 48.5.34 pr. Starting from the information that the two fragments of the Digest offer us, it briefly deals with the meaning of the term praeiudicium in Roman trial. In the conclusions, the humanitarian tendencies of classical Jurisprudence are taken into consideration, in consideration of the treatment of the slave indicated by Ulpianus and Aelius Marcianus.
Key words: adulterium; lex Iulia de adulteriis coercendis; accusatio adulterii iure mariti vel patris; accusatio adulterii iure extranei; Ulpianus; Aelius Marcianus; slavery in Roman society; praeiudicum; humanitas.
* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] Il cui contenuto viene ricostruito attraverso testimonianze sia letterarie (Hor., carm. 3.6.17-36; 45-48; 3.24.17-36; 4.5.15-24; Ov., am. 3.4.1-12; 25-48; Liv., praef.; Flor., epit. 2.34; Suet., Tib. 35; Tac., ann. 2.85; 3.25; Cass Dio. 54.16.1-7) sia giuridiche; le une e le altre attentamente analizzate da G. Rizzelli, La lex Iulia de adulteriis: studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, Lecce 1997, passim e da M. Bettinazzi, La legge nelle declamazioni quintilianee. Una nuova prospettiva per lo studio della lex Voconia, della lex Iunia Norbana e della lex Iulia de adulteriis, Saarbrücken 2014, spec. p. 98 nt. 438.
[2] La punibilità dell’adulterio affonda le proprie radici nei primordia civitatis; Dionigi di Alicarnasso attribuisce a Romolo una lex regia che avrebbe permesso la soppressione fisica della uxor. Patrizia Giunti ha supposto che una simile disposizione non sia attribuibile al fondatore della città ma a Numa Pompilio (P. Giunti, Adulterio e leggi regie. Un reato fra storia e propaganda, Milano 1990, pp. 55 ss. e 155 ss.). A detta della Studiosa fiorentina, il rinvio a Romolo da parte di Dionigi sarebbe spiegabile alla luce del fatto che l’Alicarnense si sarebbe lasciato influenzare dalla pubblicistica augustea intenta a rappresentare il princeps riformatore del diritto di famiglia come “novello Romolo”. Su una tale ricostruzione v. T. Spagnuolo Vigorita, rec. di P. Giunti, Adulterio e leggi regie. Un reato fra storia e propaganda, Milano 1990, in Iura, 41 (1990), pp. 150 ss. Maria Virginia Sanna, partendo dalla lettura di Coll. 4.2.2: Et quidem primum caput legis prioribus legibus pluribus obrogat, si è interrogata sull’esistenza di leggi sanzionatorie dell’adulterio precedenti al plebiscito giulio (Matrimonium iniustum, accusatio iure viri et patris e ius occidendi, in AUPA, LIV (2010-2011), pp. 203-230; Ead., Matrimonio e altre situazioni matrimoniali nel diritto romano classico. Matrimonium iustum – Matrimonium iniustum, Napoli 2012, pp. 143 ss.). Rizzelli analizzando la stessa testimonianza della Collatio evidenzia come ivi si registri il verbo obrogat e non abrogat e pertanto lo Studioso propone di tracciare una linea di continuità tra la lex Iulia e precedenti norme in tale materia, anche se lo stesso esclude che queste punissero direttamente l’adulterio, riservato alla giurisdizione domestica sino all’età del principato (Stuprum e adulterium nella cultura augustea e la lex Iulia de adulteriis, in BIDR, 90 (1987), pp. 355 ss.). Scrive al riguardo Carla Fayer: «purtroppo non siamo in grado di identificare le plures leges che avrebbero preceduto la lex Iulia de adulteriis; Plutarco Comp. Lys et Sulla 3,2 scrive che Silla introdusse leggi riguardanti le nozze e la morigeratezza dei cittadini, mentre lui viveva nella lussuria e in continui adulterii, ma la notizia è troppo indeterminata per poter supporre una lex Cornelia de adulteriis et de pudicitia»: C. Fayer, La Familia Romana. Aspetti giuridici ed antiquari concubinato divorzio adulterio, vol. III, Roma 2005, p. 215.
[3] In linea del tutto generica, il termine adulterium indicava l’unione sessuale di un uomo con una donna consenziente come si legge in Fest., s.v. Adulter (ed. Lindsay, p. 20); sulla configurazione della condotta orbitante nell’adulterium resta imprescindibile lo studio di G. Rizzelli, La lex Iulia de adulteriis …, cit., p. 176; Id., Le donne nell’esperienza giuridica di Roma antica. Il controllo dei comportamenti sessuali. Una raccolta di testi, Lecce 2000, p. 13.
[4] L. Minieri, «Vini usus feminis ignotus», in Labeo, 28 (1982), pp. 150-163.
[5] Per utilizzare un’icastica espressione mutuata da P. Giunti, Consors vitae. Matrimonio e ripudio in Roma antica, Milano 2004, p. 100.
[6] Per quanto concerne la composizione di simile consilium le fonti sono parche: Val. Max. 2.9.2; 5.8.2-3; 5-9.1; 6.1.1; Gell. 17.21.44; Liv., per. 48; Tac., ann. 2.50.3; 13.32.2. Sulla configurazione dell’istituto, oltre ai classici contributi di E. Volterra, Il preteso tribunale domestico in diritto romano, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche, (1948), 85, pp. 103-153, spec. pp. 114 ss. (= Id., Scritti giuridici, vol.II, Napoli 1991, pp. 127-177); G. Wesener, voce Iudicium domesticum, in PWRE, (1962), suppl. 9, pp. 373 ss.; W. Kunkel, Das Konsilium im Hausgericht, in ZSS, 83 (1966), pp. 219-251, si rinvia anche alla più recente dottrina: C. Russo Ruggeri, Ancora in tema di iudicium domesticum, in IAH, 2 (2010), pp. 51-101; Ead., Iudicium domesticum e iudicium publicum in Cic. de fin. 1,7,24, in LXXV SDHI, (2009), pp. 515-534; N. Donadio, «Iudicium domesticum», riprovazione sociale e persecuzione pubblica di atti commessi da sottoposti alla «patria potestas», in Index, 40 (2012), pp. 175-195.
[7] P. Giunti, Adulterio e leggi regie, cit., p. 261 e K. Galinsky, Augustus’ Legislation on Morals and Marriage, in Philologus, 125 (1981), pp. 126-144 per cui: «The main objective of the Lex Iulia de adulteriis was to preserve the dignity of marriage by trasferring the jurisdiction concerning marital delinquency from the private to the public sector», ibidem, p. 128. Circa la procedura dei publica iudicia v. R.A. Bauman, Crime and Punishment in Ancient Rome, London – New York 1996, pp. 116 ss., le cui tesi vengono attentamente vagliate, e in parte contraddette, da F. Botta, Legittimazione, interesse ed incapacità all’accusa nei publica iudicia, Cagliari 1996, pp. 36 ss., su cui v. rc. di L. Garofalo, in Iura, 46 (1995 – pubb. 2000), pp. 107 ss. (= Id., Piccoli scritti di diritto penale romano, Padova 2008, pp. 195 ss.). Sempre di Botta v. Opere giurisprudenziali “De publiciis iudiciis” e cognitio extra ordinem criminale, in Studi in onore di Remo Martini, vol. I, Milano 2008, pp. 281-322, nel quale lo Studioso sottolinea che il rapporto tra crimina ex legibus iudiciorum publicorum e relative pene durante il principato debba essere oggetto di «un ripensamento complessivo proprio tenendo in considerazione la possibilità che anche nell’ambito della sanzione una rinnovata visione della dinamica ordo ed extra ordinem conduca a risultati non necessariamente e completamente conformi a quelli finora raggiunti e maggiormente consolidati»: ibidem, p. 313 nt. 73. A detta di Fabio Botta il iudicium adulterii sembrerebbe non imbrigliabile nella summa divisio tra iudicum publicum e iudicium non publicum, inteso quale «giudizio introdotto da un’accusa concessa alla sola vittima del reato» (F. Botta, Legittimazione, interesse ed incapacità, cit.,p. 169), essendo la legittimazione all’accusa né generale né ristretta ma, almeno per un primo intervallo di tempo, privilegiata. Sul sintagma calato nella procedura per quaestiones, la dottrina, escludendone la coincidenza con quella di “geschärfte Zivilprozess” di conio mommseniano (Th. Mommsen, Das römisches Strafrecht, Leipzig 1899, 190 nt. 4), presenta un variegato ventaglio di posizioni, differenziandosi, tra l’altro, nell’ancorare la qualità di iudicium publicum al carattere pubblico dell’istanza punitiva e nel ritenerla, perciò, applicabile in età repubblicana alle sole quaestiones perpetuae (così B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano 1998, 2a ed., p. 165) oppure nel ritenerla estensibile anche alle quaestiones pregraccane (v. D. Mantovani, Il problema d’origine dell’accusa popolare. Dalla “quaestio” unilaterale alla “quaestio” bilaterale, Padova 1989, pp. 24 s. nt. 67; 59 nt. 9). Ampia discussione sull’argomento si trova in S. Pietrini, Sull’iniziativa del processo criminale romano (IV-V secolo), Milano 1996, pp. 13 ss. e F. Botta, Legittimazione, interesse ed incapacità, cit.,pp. 37 ss.; L. Garofalo, La persecuzione dello stellionato in diritto romano, Padova 1998, pp. 30 ss. Di occupa dello stilema iudicium publicum in un contesto d’indagine molto interessante D. Mantovani, ‘Quaerere’, ‘quaestio’. Inchiesta lessicale e semantica, in Index, 38 (2009), pp. 25 ss.
[8] Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig 1899, p. 691.
[9] Consapevolezza diffusa tra gli stessi autori antichi, basti leggere: Dio Cass. 54.19; Hor., carm. 4.5.21; 4.15.9 ss. – sul passo orazione illuminante F. Stella Maranca, Orazio e la legislazione romana, in Conferenze oraziane, Milano 1936, p. 53 – Ov., Fast. 2.139; ars. 3.613 s.
[10] Ulp. 1 de adult. D. 48.5.1: Haec lex lata est a divo Augusto. Ciò avvenne tra il 18 e il 17 a.C.; sull’esatta datazione del provvedimento rientrante nella politica augustea di riforma dei costumi v. P. Giunti, Adulterio e leggi regie, cit., pp. 223 s.; G. Rizzelli, La lex Iulia de adulteriis, cit., p. 10; T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus. Un seminario sulla legislazione matrimoniale augustea, Napoli 2010, p. 34; Id., La data della lex Iulia de adulteriis, in Iuris Vincula. Studi in onore di Mario Talamanca, vol. VIII, Napoli 2001, pp. 79-96; S. M. Treggiari, Roman marriage. Iusti coniuges from the time of Cicero ti the time of Ulpian, Oxford 1991, pp. 263-319.; da ultimo, P. Buongiorno, Storia di un dialogo. La data della lex Iulia de adulteriis, in P. Buongiorno – S. Lohsse (a cura di), Fontes Iuris. Atti del VI Jahrestreffen Junger Romanistinnen und Romanisten, Lecce 30-31 marzo 2012, Napoli 2013, pp. 274-290, con bibliografia ivi indicata. La legge entrava nella cura morum operata nella prassi da Augusto ma che formalmente il princeps rifiutò, come si legge nelle sue Res Gestae Divi Augusti (6.21) consulibus M. Vinicio et Q. Lucretio et postea P. Lentulo et Cn. Lentulo et tertium Paullo Fabio Maximo et Q. Tuberone senatu populoque Romano consentientibus ut curator legum et morum summa potestate solus crearer, nullum magistratum contra morem maiorum delatum recepi; sul punto v. T. Spagnuolo Vigorita, Casta domus, cit., pp. 13-15.Nell’ottica di innervare il nuovo Stato di una struttura familiare più solida, Svetonio ci informa che: […] leges retractavit et quasdam ex integro sanxit, ut sumptuariam et de adulteriis et de pudicitia, de ambitu, de maritandis ordinibus […] (Suet., Augu. 34), riprendendo una politica riformista iniziata da Cesare e da questi lasciata, giocoforza, interrotta, v., nella magmatica produzione scientifica sul tema, T. Spagnuolo Vigorita, La repubblica restaurata e il prestigio di Augusto. Diversioni sulle origini della cognitio imperiale, in Studi per Giovanni Nicosia, vol. VII, Milano 2007, pp. 521-543 (= Id., Imperium mixtum. Scritti scelti di diritto romano, con una nota di lettura di F. Grelle, Napoli 2013, pp. 397-419).
[11] Quint., inst. or. 8.5.19.
Giumetti Fausto
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