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Il saggio muove dalla recente introduzione nel codice penale del principio di riserva di codice e si interroga sull’individuazione di un possibile criterio di definizione sul piano sistematico dei rapporti tra codice penale e legislazione complementare. Anche sulla scorta del fondamento teorico della nuova previsione di cui all’art. 3-bis c.p., che può essere rinvenuto nel principio di riconoscibilità, uno schema di riferimento viene individuato nel modello piramidale, cui si coordinano – in chiave dinamica – le strategie di pyramidal enforcement e responsive regulation. La praticabilità di simile criterio di raccordo tra diritto penale e accessorio è verificata alla luce di alcuni dati emergenti dalla legislazione complementare.





Nell’epoca odierna la coscienza, condizionata dalla cultura e dalla società, va considerata come “una specie di autoregolazione del sistema attraverso la sua interiorizzazione nell’uomo”. In altri termini, il concetto di coscienza varia in dipendenza da ciò che sostiene in merito il soggetto.
In questo contesto, all’obiezione autenticamente dettata dagli scrupoli d’origine religiosa si aggiungono le motivazioni d’ordine filosofico o politico, secolarizzando il fenomeno dell’obiezione di coscienza.
L’obiezione all’aborto, in particolare, consiste nel rifiuto di eseguire le pratiche abortive e di collaborare alla loro riuscita.
Attualmente, l’obiezione di coscienza è al centro di accesi dibattiti in vari paesi. Pertanto, il presente scritto si prefigge di affrontare adottare una prospettiva comparata al fine di affrontare le questioni relative alla misura in cui un medico può rifiutare di partecipare alle procedure abortive.

Lo scopo di questo contributo è presentare in modo analitico-sintetico la vigente normativa canonica e alcune problematiche recenti in merito alla questione in oggetto, ciò – viste pochissime pubblicazioni al riguardo – sembra essere molto utile non soltanto per i cultori di diritto canonico o per i liturgisti, ma anche per i chierici e i fedeli laici. Pertanto, dopo aver presentato l’etimologia della parola latina altare, i brevi cenni storici sull’altare e la relazione che intercorre fra il diritto canonico e quello liturgico, sarà illustrata la normativa canonica, non escluso a volte il riferimento alla codificazione del 1917, in modo che si possano affrontare le sfide cui la Chiesa si trova di fronte. Con questo intento si cercherà di mettere in evidenza soprattutto gli aspetti pratici, tralasciando il più profondo esame speculativo.
La questione della disciplina giuridica dell’altare è, infatti, di notevole rilievo e attualità, perché molti edifici sacri vengono oggi chiusi di fatto, demoliti, venduti, trasformati almeno parzialmente in una sala parrocchiale o in un cimitero, destinati a uso sordido e così via. Gli altari, però, non perdono la dedicazione o la benedizione per il fatto che la chiesa o altro luogo sacro siano ridotti a usi profani (cf. can. 1238, § 2); pertanto, essi possono essere e di fatto spesso sono facilmente profanati. Quest’ultimo evento, tuttavia, avviene anche per altri motivi. La Chiesa odierna, quindi, deve impegnarsi, con la dovuta attenzione, a promuovere la dignità degli altari e a tutelare la loro sacralità, perché l’altare non rappresenta un semplice arredo o un coronamento dell’edificio sacro, ma il fattore conformante e qualificante l’identità della costruzione. Infatti, l’altare «è la croce del Signore dalla quale scaturiscono i sacramenti del mistero pasquale. Sull’altare, che è il centro della chiesa, viene reso presente il sacrificio della croce sotto i segni sacramentali. Esso è anche la mensa del Signore, alla quale è invitato il popolo di Dio. In alcune liturgie orientali, l’altare è anche il simbolo della tomba (Cristo è veramente morto e veramente risorto)».

La conservazione, protezione e trasmissione alle generazioni future del patrimonio culturale ereditato dal passato ha conosciuto una crescente regolamentazione, a livello sia nazionale sia internazionale, a partire almeno dall’inizio del ventesimo secolo. Oggi temi quali il contrasto al traffico di beni culturali e la restituzione di oggetti illecitamente (o ‘ingiustamente’) esportati dai Paesi di origine presentano una rilevanza sempre maggiore nell’agenda politica e legislativa di molti Stati e organismi internazionali. Questo saggio vuole indagare come un approccio ‘giusletterario’ (con un’enfasi sul concetto di Giustizia) al diritto del patrimonio culturale possa giovare al dibattito attualmente in corso, il quale tocca, oltre a questioni giuridiche assai complesse, anche implicazioni simboliche, profondamente radicate e assai sfaccettate, di natura storica, politica e socio-economica, di estrema attualità. Attraverso l’analisi di alcuni rilevanti esempi di letteratura di viaggio e di narrativa del diciottesimo e diciannovesimo secolo, il presente contributo si propone di evidenziare l’importanza di una corretta ‘contestualizzazione’ per il raggiungimento di ‘giuste’ soluzioni ai conflitti che sorgono in esito a ‘crimini’ contro il patrimonio culturale, e di suggerire come un approccio più ‘narrativo’ a tali conflitti potrebbe favorire un’efficace applicazione di modelli di alternative dispute resolution e, più specificamente, di programmi di giustizia riparativa, ai sempre più numerosi casi di richieste di ‘rimpatrio’ di beni culturali.

Il presente lavoro costituisce parte di uno studio più ampio, di cui si vogliono anticipare alcune riflessioni, riguardanti il cosiddetto Archivio di Babatha. Il ritrovamento stesso, nonché le vicende che ne sono alla base, sono note oramai agli studiosi[1] e sono esposte nelle seguenti pagine.
Non di meno, a fini di chiarimento, si vuol brevemente ricordare che lungo la sponda occidentale del Mar Morto, in una grotta, detta Grotta delle Lettere, negli anni sessanta del secolo scorso, tra gli altri, furono rinvenuti dei papiri costituenti un archivio privato[2], appartenuto a una giovane donna, Babatha, probabilmente rifugiatasi nella grotta a seguito di una rivolta antiromana, e lì avrebbe trovato la morte.
Tali documenti costituiscono una fonte di cognizione eccezionale, in quanto riportano atti di natura giuridica che segnano, consentendone anche la ricostruzione, la vita della giovane donna. Tra essi è presente anche la riproduzione di una formula processuale romana, segnatamente Yadin[3] 28-30, datata circa 132 d. C., oggetto della presente disamina.
Per cogliere il tenore letterale del testo, sembra opportuno inserire il papiro nel contesto delle vicende che ne segnano il contenuto e che riguardano la proprietaria dell’archivio. Babatha sarebbe rimasta due volte vedova. Una prima si sarebbe trovata ad essere sola con un figlio minore, per cui furono istituiti due tutori. Una seconda volta, vedova con una figliastra di primo letto del defunto marito.
Ciascuna delle vicende è costellata di cause, delle quali la donna è, in modo alternato, ora parte attiva, ora parte passiva. Dal primo marito aveva ricevuto dei terreni fruttiferi in base a un testamento, impugnato dagli altri eredi. In relazione al secondo matrimonio, la vedova risulta coinvolta in altrettanti processi. Uno riguardava un prestito che la donna aveva erogato al marito per costituire la dote della figliastra: si tratterebbe di un probabile mutuo con una garanzia sui beni del coniuge. Morto costui prima che tale debito fosse estinto, Babatha si impossessa dei beni immobili dati in garanzia, ossia coltivazioni di datteri da cui traeva rendite. Anche in questo caso è tratta a giudizio dai parenti del secondo marito, oltre che da un’altra sua presunta moglie, per i terreni.
Tale documentazione, frammentaria e complessa, fa da sfondo a Yadin 28-30, ove si legge di una richiesta riguardante l’attribuzione di una somma di denaro, in favore di un soggetto, avverso i suoi tutori.

L’articolo discute sull'esaurimento semantico della parola dignità conseguito anche alla diffusione di un atteggiamento secolarista in ambito filosofico e giuridico; mette in evidenza alcune conseguenze concrete di questa evoluzione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani in materia biogiuridica e propone alcune linee di riflessione volte al suo ripensamento.
