fbevnts Babatha, an experience on the outskirts of the Empire, first notes about Yadin 28-30

Babatha, un’esperienza alla periferia dell’impero primi appunti su Yadin 28-30

29.06.2019

Lucia di Cintio

Docente di Storia del Diritto Romano, Università degli Studi di Salerno

 

Babatha, un’esperienza alla periferia dell’impero, primi appunti su Yadin 28-30

 

Babatha, an experience on the outskirts of the Empire, first notes about Yadin 28-30

 

SOMMARIO: 1. L’archivio di Babatha 2. Processo romano, diritti locali e cittadinanza ebraica 3. Lo status di ebreo 4. La ripartizione di competenza nelle province  5. Edictum provinciale  6. σὺν ὐμῖν, una precisazione 7. Processo formulare in provincia: un possibile compromesso tra potere e volontà 8. Altre peculiarità nella formula 9. Yadin 28-30 e giurisprudenza in provincia 10. Prime considerazioni su Yadin 28-30: un’ipotesi.

 

  1. L’archivio di Babatha.

 

Il presente lavoro costituisce parte di uno studio più ampio, di cui si vogliono anticipare alcune riflessioni, riguardanti il cosiddetto Archivio di Babatha. Il ritrovamento stesso, nonché le vicende che ne sono alla base, sono note oramai agli studiosi[1] e sono esposte nelle seguenti pagine.

Non di meno, a fini di chiarimento, si vuol brevemente ricordare che lungo la sponda occidentale del Mar Morto, in una grotta, detta Grotta delle Lettere, negli anni  sessanta del secolo scorso, tra gli altri, furono rinvenuti dei papiri costituenti un archivio privato[2], appartenuto a una giovane donna, Babatha, probabilmente rifugiatasi nella grotta a seguito di una rivolta antiromana, e lì avrebbe trovato la morte.

Tali documenti costituiscono una fonte di cognizione eccezionale, in quanto riportano atti di natura giuridica che segnano, consentendone anche la ricostruzione, la vita della giovane donna. Tra essi è presente anche la riproduzione di una formula processuale romana, segnatamente Yadin[3] 28-30, datata circa 132 d. C., oggetto della presente disamina.

Per cogliere il tenore letterale del testo, sembra opportuno inserire il papiro nel contesto delle vicende che ne segnano il contenuto e che riguardano la proprietaria dell’archivio. Babatha sarebbe rimasta due volte vedova. Una prima si sarebbe trovata ad essere sola con un figlio minore, per cui furono istituiti due tutori. Una seconda volta, vedova con una figliastra di primo letto del defunto marito.

Ciascuna delle vicende è costellata di cause, delle quali la donna è, in modo alternato, ora parte attiva, ora parte passiva. Dal primo marito aveva ricevuto dei terreni fruttiferi in base a un testamento, impugnato dagli altri eredi. In relazione al secondo matrimonio, la vedova risulta coinvolta in altrettanti processi. Uno riguardava un prestito che la donna aveva erogato al marito per costituire la dote della figliastra: si tratterebbe di un probabile mutuo con una garanzia sui beni del coniuge. Morto costui prima che tale debito fosse estinto, Babatha si impossessa dei beni immobili dati in garanzia, ossia coltivazioni di datteri da cui traeva rendite. Anche in questo caso è tratta a giudizio dai parenti del secondo marito, oltre che da un’altra sua presunta moglie, per i terreni.

Tale documentazione, frammentaria e complessa, fa da sfondo a Yadin 28-30, ove si legge di una richiesta riguardante l’attribuzione di una somma di denaro, in favore di un soggetto, avverso i suoi tutori, come si vedrà ora.

 

Yadin, 28-30:

 

με̣[τα]ξὺτοῦ [δεῖνοςτοῦδεῖν]ος

ἐνκαλοῦν̣[τοςκαὶτ]οῦδεῖνος

ἐνκαλουμέ[νουμ]έχρ[ι] (δηναρίων) Βφ

ξενο[κρί]τ̣α̣ιἔ̣[στωσαν]. ἐπεὶ

ὁδεῖνατ̣[οῦ] δεῖ̣ν[ο]ς̣ [ὀρ]φανοῦ

ἐπιτροπ[ὴ]ν̣ ἐχείρισε̣ν̣,

περὶ̣ ο̣[ὗ] π̣ράγματοςἄγεται,

ὅτανδιὰ̣ τ̣[ο]ῦ̣τοτὸπρᾶγμα

τὸνδεῖ̣ν̣α̣ τῷδεῖνιδοῦναι

ποιῆσα̣ι̣ δέῃἐκκ[α]λῆς

πίστεως, τούτου οἱξενοκ̣ρίται

τὸνδ̣ε̣ῖ̣ν̣α τῷδεῖνιμέχρ̣ι̣

δην(αρίων) Βφ̣ κατακρειν[ά]τω-

σα̣ν, ἐ̣[ὰνδὲ] μ̣ὴφ[αί]ν̣η̣τ̣α̣ιἀπ̣ο̣-

[λυσ]άτωσαν.

 

‘Tra un tale ‘accusatore’ figlio di un tale, e tale ‘accusato[4]’, si costituiscano gli Xenocritai, fino a 2500 denarii. Poiché un tale figlio di un tale (convenuto) ha esercitato la tutela dell’orfano, e  si agisce su questo fatto, un tale (convenuto) venga obbligato a dare o fare a un tale (l’orfano) per buona fede, i giudici emettano sentenza contro tale (convenuto) (in favore) di tale orfano, fino a 2500 denarii. Qualora non sembri, assolvano’.

Dalla ricostruzione emerge che il fatto alla base della causa consisterebbe in una pretesa di dazione di denaro in favore di un minore da parte di due tutori, entro un limite massimo di 2500 denari.

 

  1. Processo romano, diritti locali e cittadinanza ebraica.

 

Lo schema giuridico in Yadin 28-30, nel suo complesso, rispecchia la formula dell’actio tutelae, che Gaio qualifica come iudicium ex fide bona in I. 4.62[5].

Sebbene la dottrina maggioritaria[6], alla luce anche di altri ritrovamenti che nel tempo hanno confortato tale impostazione[7], vi ravvisi l’applicazione della formula dell’ actio tutelae, tuttavia la corrispondenza di Yadin 28-30 e I 4.47 non è perfetta, essendo individuabili delle differenze che saranno sottoposte a vaglio nelle pagine seguenti.  

Nonostante le differenze, variamente leggibili, ciò che risulta significativo è, comunque, la presenza stessa di un modello formulare[8]nell’Oriente Mediterraneo romanizzato nella prima metà del II  sec. d. C., a rivestire particolare valore.

Da un lato, infatti, tale dato fornisce una prova che smentisce quell’impostazione dottrinale, sostenuta specialmente in passato ma ancora largamente diffusa, per cui la cognitio extra ordinem avrebbe soppiantato il processo formulare proprio in provincia, -ove sarebbe nata-[9], già in questa fase storica. Contro tale teoria, così netta, erano stati avanzati dubbi[10], sulla scorta di analisi e prove indirette, in favore di una visione maggiormente problematica della precedente, che apriva nuovi scenari, come quello di una coesistenza delle due procedure[11] (problema da tenere distinto, a mio avviso, rispetto a quello di una loro possibile interazione)[12], che però non prescindeva dall’assunto per cui “già verso la metà del II sec. d. C., il processo formulare era in inarrestabile decadenza nelle province, anche senatorie”[13].

La constatazione della presenza di Yadin 28-30 va, non di meno, coordinata con il quadro storico giuridico in cui si colloca, per quanto possibile. Si tratta di una situazione molto complessa, di difficile ricostruzione, dal momento in cui i diversi elementi si intersecano tra di loro.

 

  1. Lo status di ebreo.

 

Così, l’applicazione del diritto romano va coordinata con lo status delle parti di nazionalità ebraica[14], in un territorio influenzato dalla cultura e dal diritto ellenico. Infatti, il trattamento giuridico degli ebrei, all’interno dell’impero romano nel II d. C., è stato oggetto di diverse ricostruzioni e valutazioni, connotate, in una fase iniziale, da un certo scetticismo, dovuto al fatto che a darne conto sono per lo più fonti letterarie, ritenute in passato scarsamente affidabili[15].

La letteratura odierna, nell’ambito di un mutamento metodologico generale, ritenendo attendibili tali testimonianze -seppur atecniche-, sottolinea come la comunità ebraica fosse soggetta a una regolamentazione particolare, consistente in una serie di privilegi, ancora al tempo di Adriano[16]. Tali disposizioni avrebbero riguardato, non solo la materia di culto, ma anche quella giudiziaria e organizzativa[17]. In specifico, le Antichità Giudaiche[18] ci informano come, già a partire da Cesare, agli ebrei della diaspora sarebbe stato concesso di praticare il proprio culto e organizzarsi secondo le regole ad esso conseguenti, che in quel tempo iniziavano a trovare una razionalizzazione scritta[19].

 Ciò non ostava all’utilizzo di una propria giurisdizione, per quelle materie che non fossero attratte nella sfera di competenza romana[20]. Gli ebrei, nell’eventualità che fossero divenuti cittadini romani in modo pieno o parziale, sarebbero stati sottoposti inevitabilmente al diritto romano.

 Alla luce di tali considerazioni, la presenza della formula potrebbe lasciar credere che le parti processuali fossero ebree per nascita o origo, ma residenti in un territorio municipale, o romanizzato comunque, da Adriano, come quello di Petra, divenuta Petra Adrianea[21]. Tuttavia, Yadin 28-30 deve essere correlato con l’altra documentazione dell’archivio, che consta anche di atti privati di diritto sostanziale, in cui è applicata la normativa ebraica, e sono stesi in nabateo, aramaico ed ebraico[22]. Rispetto alla questione trattata, questi ultimi papiri non si connotano per un valore risolutivo, potendo essere stati confezionati, anche solo in base a prassi non rilevanti in un eventuale giudizio, nella autonomia che la natura dell’atto stesso avrebbe consentito. Diversamente, è nella parte dell’archivio riguardante i processi, che si riscontra una costanza nell’adire la giurisdizione romana[23]. In particolare in Yadin 26 concernente il regime della dote, si trova applicato il diritto ebraico[24]. Senonché, proprio tale punto è impugnato in giudizio dinanzi all’autorità romana[25]. Pertanto, sotto un profilo squisitamente giuridico, attinente all’istituto dotale, si potrebbe pensare che il lascito sarebbe stato viziato, poiché in conflitto con il diritto romano. Ciò si collocherebbe verso la direzione di considerare una possibile acquisizione di uno status,in qualche misura, romano anche per le parti della vicenda giudiziaria.

Al contempo, vi è da sottolineare un dato ulteriore, ossia che una disposizione imperiale, antecedente Adriano e ancora vigente al tempo dello stesso, imponeva agli ebrei l’uso di tribunali interni per dirimere liti riguardanti lo status personae[26], di cui i rapporti di bigamia sono ovviamente parte. Ebbene, in proposito, in Yadin 26.34, troviamo resti di un contenzioso con una presunta[27] moglie del secondo marito defunto di Babatha. I papiri sono frammentari e non è possibile ricostruire il quadro dell’intera vicenda processuale, ma è presumibile che, pur se di natura patrimoniale, essa avrebbe in qualche modo implicato anche che si prestasse attenzione alla questione sulla eventuale bigamia del de cuius, pertanto, pregiudiziale rispetto a qualsiasi altra. Non di meno, nell’archivio non vi è alcun accenno alla adizione di tribunali locali, anzi i papiri attestano che la lite tra le due vedove si svolge di fronte al legatus Augusti,in una forma che non segue quella del processo ordinario. In altri termini, in questo contesto, la competenza sulla causa ricade sempre nella sfera di potere dell’autorità romana che si rifà, in questo caso, a una procedura genericamente extra ordinem[28].

Le caratteristiche e la natura della documentazione contenuta nei papiri di Yadin, dunque, se non possono essere probanti dell’ordinamento a cui erano sottoposti i vari soggetti in essa presenti, non appaiono nemmeno in contrasto con la possibile acquisizione della cittadinanza, piena o parziale, romana per i medesimi.

Ulteriori considerazioni non strettamente giuridiche, però, rendono difficilmente accoglibile una tale possibilità; tra queste, una attinente proprio al luogo del ritrovamento, ossia un rifugio ‘anti romano’ per gli ebrei coinvolti nella rivolta di Bar Kochba[29]. Condizione per ricevere la cittadinanza romana era l’accettazione e la pratica dei culti romani[30], il che avrebbe comportato una frattura con la comunità ebraica di appartenenza; perciò, in tal modo, difficilmente si spiegherebbe la presenza di Babatha e del suo archivio nella Grotta.

 

  1. La ripartizione di competenza nelle province.

 

Dopo aver valutato l’elemento dello status personale dei soggetti coinvolti nella formula, si tratta, a questo punto, di esaminare l’applicazione del diritto romano in provincia nel II secolo.

In linea generale, nell’archivio di Babatha il ricorso all’autorità romana è costante; trova, pertanto, conferma l’idea di una veloce romanizzazione, sotto il profilo giuridico, dell’Arabia Petrea. Tuttavia, dall’esame dei papiri, si deduce che, nell’ambito delle azioni processuali, sono mantenute alcune formalità provinciali, come l’impiego in duplice o triplice copia in diverse lingue nella redazione degli atti[31], o come anche alcuni elementi nei vari atti processuali che rinviano al processo greco, almeno prima facie.

Alla luce di un quadro così complesso, occorre modulare l’esposizione, dapprima cercando di capire i limiti normativi di applicazione dei diritti locali rispetto a quello romano; quindi cercare di conferire una ratio alla presenza della formula rispetto alla cognitio.

  A mio avviso, per una comprensione del complesso fenomeno circa l’evoluzione della procedura romana nel contesto dato, si deve partire da quelle che mi sembrano possano essere considerate le coordinate principali della gestione delle province, ossia l’Edictum provinciale e le leggi a carattere organizzativo, la Lex Malacitana, Salpensana, la Lex Irnitana[32], oramai ben note alla comunità scientifica e di cui la Lex Irnitana risulta la più importante.

Quest’ultima, seppur indirizzata al municipio della Betica, si è dimostrato che presentava una base comune con le altre normazioni di altri territori provinciali, elevandosi, in tal modo, a modello, per quanto concerne l’organizzazione giudiziaria nelle province occidentali[33]. Ma non vi sono motivi per ritenere che un siffatto schema non fosse applicabile, in epoca Flavia, anche ai territori a oriente di Roma, come appunto l’Arabia Petrea, quand’anche non risultino, dalla documentazione a disposizione, organizzati in municipi[34].

Nello specifico, dalle leggi emergono dei richiami alla norme augustee; così la dottrina[35], in modo oramai comune[36], ritiene che l’organizzazione dell’amministrazione della giustizia avrebbe seguito, almeno nelle linee generali, l’ordo, da identificarsi in una delle duae leges ricordate in Gai 4.30[37], adattate ai territori conquistati[38].

Anche la ricostruzione del cap. 91[39] della legge Irnitana, confrontato con le altre fonti, attesta l’emersione di un modello generale[40], il quale si differenziava a seconda dei territori, limitatamente a specifiche disposizioni, che non intaccavano i criteri generali del sistema romano. In particolare, tali schemi assegnavano la sfera di attribuzione in campo giurisdizionale a soggetti delegati dal governatore o dall’imperatore, per materia e valore[41] della res dedotta in giudizio[42].

Così si può ritenere che i funzionari (duoviri nel caso di Irni)[43], in altre civitates, sarebbero mutati nel nomen, ma non nel modus di gestire il diritto romano, che si estrinsecava su basi, le quali, in definitiva, erano quelle dettate da Augusto. Ciò spiegherebbe, in parte, la presenza del processo formulare anche in Arabia Petrea, che comporta, di fatto, l’applicazione dell’ordo per i giudizi privati, come si vedrà meglio avanti[44].

Resta ancora, non di meno, il nodo dell’applicazione concreta della giurisdizione, comprensiva degli inevitabili adattamenti del modello urbano alla realtà provinciale. Si innesta, così, in modo complementare alla lex, l’Edictum provinciale, per il quale era imposto l’obbligo di ricezione e applicazione ai funzionari imperiali [45].

 

  1. Edictum provinciale.

 

Sull’esistenza e sulle caratteristiche dell’Edictum provinciale, parte della letteratura risalente propendeva per la sua non genuinità[46], basandosi principalmente sul fatto che i riferimenti a esso provenissero soltanto da frammenti del Digesto, per di più tutti dello stesso giurista; pertanto si sarebbero trattati di testi estrapolati da uno pseudo Gaio.

Una tale posizione, però, appare affatto superata e uno degli argomenti a favore della possibilità della sua esistenza consiste proprio nella presenza residuale di frammenti nel Digesto dedicati ad esso, segno di mancanza di interesse della commissione per tali documenti, forse obsoleti. E ciò contrasta con una loro fattura compilatoria.

Inoltre, anche i termini e i riferimenti a cariche non più esistenti al tempo di Giustiniano lasciano credere alla classicità del commento gaiano, dunque alla esistenza dell’editto provinciale[47]. Oggigiorno, la documentazione recente, già in parte ricordata[48], ha poi contribuito a fugare altri dubbi. Nonostante ciò, restano irrisolti alcuni nodi ricostruttivi, in particolare se tali editti si differenziassero in base alle province o il testo fosse unico. Una questione che muta in base alla sua collocazione cronologica. In tal senso, mi sembra significativo, come già in epoca repubblicana alcune fonti attestino l’uso della formula, adattata ai diritti locali; emblematico il caso della Sicilia[49]. Il dato conforta la possibilità che anche nelle province orientali, come l’Arabia Petrea, la formula fosse impiegata adattata alla realtà e alle esigenze locali, in base alle linee guide dettate dall’Edictum provinciale.

Infatti, mi sembra significativa la datazione della vicenda, il 132, epoca in cui si inserisce anche la redazione dell’editto perpetuo. Così, al tempo della formula di Babatha, si può ritenere che quel processo di cristallizzazione graduale dello editto si fosse compiuto, verso anche un’unificazione delle emanazioni pretorie[50]. Ciò si pone in coerenza anche con i frammenti di Gaio che nella inscriptio indicano il commento all’editto provinciale, al singolare.

Non mi sembra privo di significato, che tali frammenti risultino selezionati e inseriti nelle Pandette dai commissari, al pari dei commentari all’editto urbano, senza distinzione, per delineare una fattispecie o un istituto[51]. Si potrebbe far ipotizzare, ala lue di quanto premesso, che l’editto provinciale si differenziasse in diversi punti da quello urbano, e che a seguito dell’estensione della cittadinanza per opera di Caracalla, i contenuti dei due, editto urbano e provinciale, si sarebbero fusi in un corpus e che il lavorìo dei commissari di Giustiniano rispecchiasse una fusione avvenuta già in precedenza, a partire dagli Antonini[52].

Pertanto, si può ipotizzare che, in generale, il sistema giudiziario, in cui inserire la presenza della formula dell’actio tutelae, pur complesso e variegato, prevedesse l’applicazione del diritto romano sulla base normativa dell’Edictum provinciale e, su quella organizzativa, dei delegati dal potere centrale, (ossia princeps o i suoi rappresentanti nelle province). Inoltre, si può credere che per l’azione di tutela si potesse registrare una regolamentazione simile nei vari territori, come si vedrà a breve.

 

  1. σνμν, una precisazione.

 

I dati ora rilevati, trovano conferma anche in altri punti dell’archivio di Babatha, segnatamente in Yadin 25[53] del 131, attestante una lite giudiziaria che vede come parti una donna romana, appartenente alla classe dirigente, Iulia Crispina[54], tutrice dei nipoti di Yehudah (marito defunto di Babatha), e Babatha. Entrambe adiscono la giustizia romana nella persona del governatore.

Ma vi è un passaggio in cui di fronte al legatus Augusti romano è presentata una controversia riguardante un esposto a carico di Babatha, da parte della stessa Crispina, per presunte illegalità nella gestione del patrimonio del minore. Il passaggio, in questa sede interessante, è quello in cui l’organo romano ricusa la sua stessa cognitio e invita le parti, a risolvere la controversia che gli era stata presentata σνμν.

L’espressione σνμν riveste, a mio parere[55], un senso non univoco che la lacunosità del papiro non aiuta a comprendere. Innanzi tutto potrebbe rinviare all’idea di un accordo, una sorta di giurisdizione privata, ove fosse intesa non tanto come ‘con voi’, quanto piuttosto come ‘tra voi’. Tale ipotesi è suffragata da alcuni provvedimenti imperiali precedenti, in base ai quali agli Ebrei si sarebbe concesso o imposto persino di risolvere determinate questioni all’interno della loro comunità, come visto[56].

Diversamente, il σνμν potrebbe essere collegato a un processo extra ordinem, vicino al modello ellenico, (oltre alla procedura, anche la terminologia, rinvia al modello greco, come l’uso del termine παραγγέλλω, e i suoi derivati, presente nel papiro) per cui le parti dovevano essere tutte presenti[57], e σν indicherebbe la necessaria contemporaneità delle stesse in giudizio.

 

  1. Processo formulare in provincia: un possibile compromesso tra potere e volontà.

Quanto esposto sono spiega ancora il problema della possibile scelta tra cognitio extra ordinem e processo ordinario[58].

Un elemento di aiuto, per risolvere tale questione, può essere trovato sempre nel testo di Yadin 28-30. Così, superata l’idea che nel periodo adrianeo il processo formulare fosse in disuso nelle province al tempo di Adriano[59], si può verificare se la presenza della formula fosse legata al particolare organo competente, ossia gli Xenocritai.

Sulla identificazione di tali soggetti, la letteratura formula diverse ipotesi. Ciò che secondo me può riflettersi sul piano sostanziale, invece, riguarda l’espressione Xenocritai, che letteralmente starebbe a significare ‘giudici stranieri’. Se si segue la traduzione letterale, che caratterizza il papiro, allora il lemma originale sarebbe iudices peregrini a cui la dottrina passata, più che giuridica, filologica[60], ha conferito il senso di ‘giudici stranieri’, ossia non romani, perciò locali. Un siffatto senso ha destato non poche perplessità, e la letteratura romanistica, al fine di individuare gli Xenocritai, ha apportato considerazioni sostanziali, ipotizzando che potessero essere iudices pedanei[61] o recuperatores[62]. In proposito, è stato notato che tale tesi, sui recuperatores, “sembra poco probabile, se si pensa sia all'età in cui ci troviamo, cioè l'età adrianea, sia alla zona di provenienza, una provincia imperiale, sia anche alle parti coinvolte nel processo, che non sono cittadini romani ma peregrini, per i quali appare assai più ovvio il ricorso a giudici locali a ciò delegati dal governatore provinciale, abitualmente residente nella lontana fortezza di Bostra, piuttosto che nella metropoli di Petra, dove soltanto annualmente egli tiene il suo conventus giudiziario”[63].

Peraltro, i recuperatores giudicavano su azioni penali o popolari, che, quindi, rivestivano un interesse pubblico, mentre i iudices pedanei gestivano cause di poco conto e, all’epoca di Adriano, non solo tra stranieri, come noto. Anche se non vi sono dati certi in merito, si può ipotizzare che la tutela non rientrasse nella sfera di competenza di tali giudici, dal momento in cui era considerata un officium, esentata anche dai munera, proprio in provincia[64]. Così nessuna delle ipotesi prospettate collima senza lasciare perplessità, con il caso di Yadin 28-30.

Come si vede, i dati generali non sono di grande aiuto nell’identificare nemmeno un eventuale riparto di competenza rispetto agli Xenocritai.

 Dal punto di vista semantico, il termine ‘Xenocrites’ non è nuovo, sembra essere comune nel bacino dell’Oriente Mediterraneo ellenizzato[65] ed è pur vero che, seguendo una traduzione letterale, esso equivale a peregrini, come voluto dai primi editori dei papiri. Senonchè, secondo un uso tipico dei prudentes, il termine peregrini non indica il giudice straniero, ma quello competente per cause di stranieri. Una tale accezione si confà parimenti alla tradizione romana, poiché, in modo simile, anche il praetor peregrinus indicava il giudice romano preposto alle liti in cui almeno una parte fosse stata straniera, non civis[66].

Inoltre, un tale significato trova riscontro, non solo a livello terminologico, ma anche sostanziale, nelle norme provinciali. Infatti, come visto, le stesse conferivano, per mezzo di delega di competenza, il potere di decidere su questioni determinate per materia e per valore, a giudici, per così dire minori. In alcuni casi ci si serviva degli uffici preesistenti locali, adattati però al potere romano, anche se erano conservate spesso le denominazioni originali di tali organi.

Vi è una ulteriore ipotesi sugli Xenocritai che potrebbe raccordarsi a un riparto di competenze in favore del processo ordinario. Yadin 28-30 è dello stesso periodo storico di un brano di Modestino presente in D. 27.1.6.14 (2 excus.): Evnous hierarxia, ohion asiarxia, bivunarxia, kappadokarxia, parexei aleitourgysian apo epitropwn, tout' estin hews an arxy[67], in cui si elencano i soggetti e gli uffici esentati dai munera. Tra questi sono menzionati gli asiarchi[68] che sono esentati dai munera relativi alla tutela. Dunque, si deduce che l’asiarca fosse il funzionario competente per la tutela (che come detto, pur conservano una denominazione ellenica, era adattato al potere romano), e che tale officium rivestisse una particolare importanza, anche nella parte orientale dell’impero in epoca Flavia. Ciò si pone in linea, traendone ulteriore argomentazione positiva, anche con Lex Irnitana, in particolare nel capitolo 84, (oltre che con la Lex Salpensana) ove vi è un elenco di materie sottratte alla competenza dei giudici locali, tra cui proprio la tutela[69].

È probabile che, data la natura della tutela considerata un officium, e dato il carattere infamante dell’azione, una tale esclusione non fosse derogabile, imponendosi per converso il processo ordinario, nell’impero tutto, con gli adeguamenti opportuni[70].

In altri termini, per le materie elencate nel capitolo 84, escluse dalla competenza locale, si sarebbe richiesto il processo non solo romano, ma ordinario. Tale eccezione sarebbe valsa per tutte le civitates dei territori a controllo giuridico imperiale, compresa, dunque, l’Arabia Petrea.

 A mio parere, entrambi i sensi visti di Xenocritai si coordinano a un’eventuale riserva di legge, per cui la tutela sarebbe stata sottratta a giudici locali delegati, ciò se si guarda al luogo ‘in senso giuridico’ in cui il lemma è collocato, indicativo della loro funzione all’interno della procedura. In altre parole, si deve tener presente che tali iudices sono menzionati in una formula processuale. Pertanto, come noto, all'inizio, nella parte riservata alla datio iudicis, si ha una peculiare specificazione della competenza per valore, quindi, in corrispondenza di questa, si stabilisce un limite massimo per l’eventuale condanna, e la conseguente coincidenza, in ciò, della datio iudicis con la taxatio. Pertanto, essi si riferiscono alla fase apud iudicem e a soggetti delegati dal pretore, non necessariamente titolari di iurisdictio, potendo essere anche privati, come noto.

La partecipazione di organi giudicanti per peregrini avrebbe rappresentato una garanzia di tutela maggiore per i locali, e ciò contribuirebbe a spiegare la volontà, che si deduce dal tenore testuale della formula, come visto,  a che il processo restasse di loro competenza, seppur nella seconda fase. In tal modo non si sarebbe violata la eventuale riserva di competenza per la tutela, essendo il pretore-funzionario a gestire la fase in iure e la formula.

Yadin 28-30 rappresenta, a mio parere, un compromesso tra processo romano ed esigenze provinciali.

Così, si potrebbe anche ipotizzare che il termine ‘Xenocritai’ mantenesse una connotazione volutamente generica, in quanto poco rilevante per la formula che era un modello astratto privo anche dei nomi delle parti e che interessasse delimitare la competenza, da un lato, ed evitare una pluris petitio dall’altro.

Come detto, occorre giustificare la presenza della formula anche alla luce degli altri papiri dell’archivio. Infatti, sebbene essi attestino il ricorso alle autorità romane, gli altri atti processuali non sono immediatamente collegabili a procedure formulari, anzi i termini e le modalità di svolgimento dei vari passaggi rinviano al processo ellenico, modellato al caso concreto, dunque alla cognitio extra ordinem.

In base a tale contesto, ossia un archivio di atti processuali e sostanziali, di una donna non certo colta con ogni probabilità analfabeta, la presenza delle formula può essere difficilmente spiegata per un uso scolastico o che non riguardasse un suo pratico utilizzo[71], dimostrando, perciò, l’effettività della procedura ordinaria.

Le argomentazioni sin qui condotto ipotizzano che l’applicazione della formula potesse essere stata imposta, ma la taxatio e altri fattori (come altre formule dello stesso periodo rinvenute altrove) lasciano credere che potesse essere anche frutto di una scelta, in quanto il processo ordinario aveva un carattere dispositivo, era frutto di un accordo, mentre le cognitiones, segnatamente quelle dell’archivio, sono imposte dal funzionario, dominus della procedura, offrendo, così, minori garanzie.

 

8. Altre peculiarità nella formula.

 

La formula è resa in greco, essendo la lingua raccomandata anche dall’autorità romana nelle terre della koinè[72]. La traduzione è, però, letterale; così accade che, nel testo, alcuni istituti non siano trasposti in modo corretto dal sistema giuridico romano a quello ellenico[73]. Evidenti esempi, in tal senso, sono la traduzione del verbo agatur, che, se per il diritto romano indica l’azione processuale civilistica, in greco è resa con agetai[74], parola che riveste un senso atecnico, in quanto l’azione processuale nel greco del tempo era indicata con il lemma αγγέλλω che si trova anche nello stesso archivio, come visto in Yadin 25.

Altro esempio, visto in apertura, si può ravvisare nell’impiego di termini generici, accusatore e accusato, in luogo dei tecnici, attore e convenuto. In base tali imprecisioni, si potrebbe pensare a uno scriba non esperto di diritto[75] ellenico. E ciò si porrebbe nella direzione di considerare il luogo in cui avvennero i fatti, sottoposto a una significativa romanizzazione sotto il profilo giuridico, tanto più che la stessa Petra nel 130 si trasformò in metropoli adrianea[76].

Ancora, proseguendo nella lettura, si nota un’ulteriore diversità linguistica che consiste nell’uso di ‘tale’ e ‘figlio di tale’, anziché i classici nomi usati nelle formule A.A., N.N, come nel rispetto della tradizione romana. A mio avviso, queste differenze non incidono sull'aspetto sostanziale, ossia che si tratti di modello romano creduto da molti in disuso, ci indicano che la formula non sarebbe stata trascritta da un tecnico[77], ma ideata da un giurista e adattata a specifiche esigenze attraverso la demonstratio, la taxatio.

 

9. Yadin 28-30 e giurisprudenza in provincia.

 

La formula dell’actio tutelae appare, dunque, (astratta nella identificazione delle parti, ma modellata su alcune esigenze specificate, nella datio iudicis, nella presenza della taxatio e nella demonstratio resa da un quod con l’indicativo) opera di un giurista romano, di un tecnico. Ciò conferma la presenza di prudentes romani anche in una provincia così lontana da Roma, e d’altro canto l’editto provinciale poteva essere trasfuso ai peregrini e raccordato con le leges provinciae solo da tecnici.

In tale ottica, Yadin 28-30 pone in luce un dato nuovo e in parte contrastante con quanto consolidato sino ad ora, ossia quello per cui la giurisprudenza romana si sarebbe rivolta alle elites romane[78]. La presenza della formula nell’archivio di una vedova ebrea che lavorava, coltivava datteri, per vivere, analfabeta, mi sembra possa allargare il campo di indagine e lasciar emergere come, non solo il processo romano ordinario ma anche l’ausilio dei giuristi fosse più diffuso, e più democratico, di quanto sino ad ora creduto.

Anzi, dall’analisi della formula si conferma che il loro apporto sarebbe stato determinante nel far confluire diritti o modelli negoziali provinciali in schemi romani[79].

 

10. Prime considerazioni su Yadin 28-30: un’ipotesi.

 

La formula di Babatha mi sembra raccordarsi alle leggi provinciali che, ancora al tempo di Adriano, prescrivevano l’uso generale dell’ordo, da un lato e sottraevano alcune materie, come la tutela, a processi extra ordinem.

In tutto l’impero, non solo in Occidente, il processo romano sarebbe stato largamente impiegato come schema procedurale, scelto dagli stessi peregrini, a scapito dei tribunali locali, come lamentava già Plutarco[80]. In questo contesto, mi sembra che il modello formulare rappresentasse uno schema che si basava sulla possibilità di precisare i fatti, modellato sull’accordo, lasciando, in tal modo, spazi alla dialettica tra le parti.  Altresì, la garanzia per i peregrini era rafforzata dalla presenza, seppur nella fase apud iudicem, di iudices delegati[81] più vicini alla realtà provinciale.

Di qui anche il senso della taxatio,come sottesa a una volontà a che la causa restasse nell’alveo della formula. La procedura formulare appare, così, sotto una nuova veste: non quale meccanismo astruso per i peregrini, ma quale schema evoluto e ‘garantista’, scelto dagli stessi provinciali, non soltanto imposto.

Nell’archivio di Babatha si è visto, inoltre, che l’uso di cognitiones extra ordinem nasce spesso per volontà dello stesso funzionario imperiale e si caratterizza per un’autorità maggiore rispetto al processo ordinario. Esse, infatti, erano gestite dal libero apprezzamento del giudice-funzionario, sia per quanto concerne la qualificazione sia per la qualificazione del fatto. 

Una simile diffusione del processo formulare impone di rivedere, credo, anche l’evoluzione della cognitio rispetto all’ordo.

Da una prima disamina dell’archivio di Babatha, pertanto, emerge che nel II secolo non vi sarebbe stata ancora una decadenza del processo formulare, né mi pare che esso fosse riservato alle elites (a cui Babatha non apparteneva), come opinione diffusa vuole.  In tale contesto i prudentes rivestono un ruolo di primo piano, nella loro attività di cavere, anche in queste periferie estreme dell’impero. L’esperienza giurisprudenziale romana, pertanto, appare un fenomeno che coinvolge molti soggetti a vari strati e riguarda tutto l’impero. Il Digesto, così, sembra restituirci un quadro parziale e frammentario di una realtà giuridica molto più vivace e diffusa a vari livelli, ma non per questo meno rigorosa, stando alla applicazione della formula dell’actio.

Inoltre, come si vedrà meglio nel prosieguo degli studi, mi sembra che nei papiri nella Grotta delle Lettere si confermi una coesistenza della cognitio extra ordinem e del processo formulare. Infatti, per quanto detto, è possibile che i papiri siano indice di una coesistenza tra applicazione delle formule e procedure informali, o che seguono una forma, ma diversa dall’ordo, ossia quella della provincia interessata[82].

Queste cognitiones si attuano, come in Yadin 25, per velocizzare l’amministrazione in alcuni aspetti non fondamentali. Lo svolgimento in un’unica fase della procedura sarebbe dovuta, non a una scelta di una diversa tecnica tipicamente provinciale, ma alla mancanza di un modus legalmente definito, in epoca adrianea, che il funzionario -lontano da Roma- esercitava in base al suo imperium. Si crea, così, anche un distacco con quel doveroso rispetto che caratterizzava l’operato dei magistrati giusdicenti verso l’antico ius civile e i boni mores. Altresì, nella cognitio l’autonomia delle parti nel processo tende a diminuire sempre più, in quanto l’esigenza di tutela delle parti andava contemperata con quelle di controllo in questi territori.

A tal proposito, i papiri Yadin, a mio avviso, sarebbero un esempio comprovante del fatto che le varie cognitiones  nascevano anche in modo estemporaneo (svolgendosi nella lingua locale, assorbendo, anche per questo tramite, i modelli giuridici corrispondenti), e non si sovrapponevano alla formula. Quando quella della cognitio fosse divenuta la procedura usuale, alle soglie del Dominato, allora avrebbe assorbito gli schemi della formula, ma con l’avvertenza che stesse denominazioni, e simili fasi processuali, potevano presentare valenze giuridiche diverse, considerate alla luce degli interventi del potere centrale. Sono le costituzioni imperiali tarde che operano questa sorta di trasfusione, sostituzione, incasellando nelle proprie costituzioni le cognitiones, in un modello quanto più possibile fisso. Ed è nell’attuazione di tale meccanismo che le cognitiones si trasfondono negli schemi del processo formulare, persistendo così le denominazioni e le fasi proprie di questo, adattate e trasformate, ma solo parzialmente, come la litis contestatio[83].

La presenza di Yadin 28-30, unitamente ad altri ritrovamenti e documentazione, lascia credere che il disuso delle fomulae sarebbe stato indotto, in gran parte, dal modo di amministrare i processi da parte dei funzionari imperiali, più che dalla volontà dei privati, i quali avrebbero trovato nelle formule maggiori garanzie per un giudizio equo. Diversamente i funzionari imperiali avrebbero esercitato il loro potere liberamente, privando la procedura dello schema formulare. Pertanto, la progressiva affermazione delle cognitiones e la loro successiva reductio ad unitatem, attraverso le costituzioni tarde, andrebbero lette come sintomo di esercizio di potere assoluto, e non soltanto come una trasformazione storica spontanea.

 

 

Abstract. The following investigation aims to be the anticipation of a more articulated work, concerning the legal experience in the ancient Mediterranean East, which starts from the so-called Babatha archive.

In the Babatha archive there are papyri that report the transposition of an actio tutelae formula. The formula is analyzed in its internal structure, linking it, not only to the context of Arabia Petrea, but also to municipal laws, such as the Lex Irnitana. In fact, from the point of view of the method, these rules, in the following pages, have been elevated to a model valid also for the whole Empire.

It has thus been hypothesized that the presence of the said formula leaves open the possibility that the 'ordinary' process, contrary to what was considered until now, was widespread and used also by pilgrims, from the moment in which it responded well to the needs of protection. Thanks to its structure, which left room for the conduct of individuals and followed canons typified by the praetor (therefore certain), there would have been greater guarantees with respect to the cognitio, remitted, at that time, substantially to the discretion of the imperial official. Consequently, the expansion of the cognitio extra ordinem on the one hand and the relative decadence of the process formulated on the other should also be seen in a new light.

This also presupposes the existence of lively jurisprudence in the province and that was not reserved only for the elites.

 

Keywords. Babatha, Provinciae, per formulas iurisdiction, Papyrus.

[1] Esaustivo è il contributo di D. Hartman (cur.), Archivio di Babatha, Brescia, 2016, consistente in una traduzione dei papiri, ove sono affrontati aspetti storici, e in parte giuridici dell’archivio, i cui papiri sono trascritti e tradotti.

[2] Si tratta di una raccolta di 36 papiri, trovata nella cosiddetta Grotta delle Lettere, racchiusi, in una sorta di borsa di pelle, contenenti atti di diversa natura, in particolare processuali, ma anche vendite, contratti vari. 

[3] I papiri sono così denominati dal nome del loro scopritore, Yigael Yadin.

[4] Come si vedrà meglio nel corso dell’indagine, la schema riprodotto in lingua greca solleva diverse problematiche, per via dell’adozione di determinati termini tecnici che non trovano l’esatto corrispondente in greco. Così, le parole ‘accusatore’ e ‘accusato’ dovrebbero essere rese, rispettivamente, con ‘attore’ e ‘convenuto’. Difatti, A. Biscardi, Nuove testimonianze di un papiro arabo giudaico per la storia del processo provinciale romano, in Studi in onore di G. Scherillo, 1, Milano, 1972, p. 111 ss., scrive, in merito, inter actorem quem et reum quem usque ad MMD denariorum iudices peregrini sunto. Sui problemi linguistici della traduzione della formula, si veda avanti, §8.

[5] La formula dell’actio tutelae non è individuata in modo diretto, ma attraverso dei rinvii, all’interno delle Istituzioni di Gaio, segnatamente in I 4.47: Sed ex quibusdam causis praetor et in ius et in factum conceptas formulas proponit, ueluti depositi et commodati. Illa enim formula, quae ita concepta est: Iudex esto. Quod Aulus Agerius apud Numerium Negidium mensam argenteam deposuit, qua de re agitur, quidquid ob eam rem  Numerium negidium Aulo Agerio dare facere oportet ex fide bona, eius, iudex, Numerium Negidium Aulo Agerio condemnato. Si non paret, absolvito, in ius concepta est. Come si vede, nel brano è descritto lo schema processuale dell’actio depositi quale esempio di iudicium ex fide bona, tra quelli elencati in I 4.62: Sunt autem bonae fidei iudicia haec: ex empto uendito, locato conducto, negotiorum gestorum, mandati, depositi, fiduciae, pro socio, tutelae, rei uxoriae.

[6] Negli anni immediatamente successivi al ritrovamento, avvenuto nel 1966, alcuni studiosi, segnatamente Biscardi, Nuove testimonianze, cit., p. 111 ss., lessero Yadin 28-30 come un esempio di cognitio, in particolare di paraggelia, tipica del processo greco. Non di meno, tale procedura si trova in altri documenti dell’archivio, come si vedrà a breve, e presenta una struttura completamente diversa rispetto a questa esaminata. Sembra una forzatura, pertanto, il voler collocare quella che è la riproduzione di uno schema formulare, tipico e noto, nell’ambito di una cognitio extra ordinem,mabifasica, dunque peculiare, tanto è che la teoria dello studioso, seppur articolata e argomentata in modo approfondito, trovò diversi oppositori contemporanei, tra cui M. H. J. Wolff, Le droit provincial dans la province romaine d’Arabie, in RIDA., 23, (1976), p. 271 ss., Id., Römisches Provinzialrecht in der provinz Arabia (Rechtspolitik als Instrument der Beherrschung), in ANRW., 2.13, (1980),  p. 763. Sulla individuazione della formula, cfr., per tutti, L. Maganzani, ‘Edictum provinciale’ e processi locali nella Sicilia nell’età di Cicerone,  in Studi in onore G. Nicosia, 5, Milano 2007, p. 1 (estr.) ss., su cui anche avanti nt. 47; Ead., La formula con ‘intentio incerta’ della ‘lex rivi Hiberiensis’ (§15III.39-43), in L. Maganzani, C. Buzzacchi (curr.), Lex Rivi Hiberiensis. Diritto e tecnica in una comunità di irrigazione della Spagna romana, Napoli 2014, p. 181 ss., con approfondita discussione dottrinaria e a cui si rinvia per la bibliografia. Si vedano, inoltre, le ntt. 43 ss. Anche se la posizione di Biscardi è superata, (lo stesso autore, nei sui scritti successivi  a quello del 1972, ripensa la sua teoria iniziale in molti aspetti) e oramai si ritiene comunemente che in Yadin 28-30 sia ravvisabile la riproduzione di una formula, tuttavia nel papiro permangono delle differenze rispetto allo procedura ordinaria che non possono essere trascurate.

[7] Ci si riferisce al testo della Lex Rivi Hiberiensis, su cui cfr. nt. successiva.

[8] All’interno dell’impero romano, il papiro della Grotta delle lettere non è l’unica attestazione di processo formulare. Anche in Occidente, è stato trovato uno schema formulare, nella Lex Rivi Hiberensis, III. 29-37 (in particolare, in III. 31, si legge: Iurisdictio[ni] municipii aut coloniae praeerit), che contiene una formula con intentio incerta. Il dato è significativo, non solo quale prova dell’uso invalso delle formule al tempo di Adriano e nei secoli successivi, ma anche perché dimostra una certa coerenza e omogeneità procedurali tra est e ovest, in tempi diversi. Per la legge si veda Maganzani, La formula con ‘intentio incerta’,  cit.,  p. 181ss. 

[9] Sull’impostazione, per molto tempo predominante, per cui la cognitio avrebbe soppiantato l’agere per formulas nelle province, attraverso un processo rapido che si sarebbe compiuto all’epoca di Babatha, cfr.: A. Pernice, L’’ordo iudiciorum privatorum’ e l’’extraordinaria cognitio’, in AG. 35 (1886) p. 116 ss.; L. Raggi, La ‘restitutio in integrum’ nella ‘cognitio extra ordinem’. Contributi di rapporti di diritto pretorio e di diritto imperiale in età classica, Milano, 1965, passim;  M. Kaser, Gli inizi della ‘cognitio extra ordinem’,  Milano, 1968, p. 116 ss.; A. Palazzolo, Processo civile e politica giudiziaria nel principato. Lezioni di diritto romano, Torino, 1999, p. 93. Molto approfondito è lo studio di F. Arcaria, Oratio Marci. Giurisdizione e processo civile nella normazione di Marco Aurelio, Torino, 2003, p. 277, che analizza gli interventi di Marco Aurelio in favore di categorie svantaggiate, delineando alcuni punti di evoluzione del processo di fronte al pretore.

[10] Sul punto cfr. ntt. seguenti.

[11] In modo complesso e storicamente orientato, si pone G. Coppola Bisazza, Dal ‘iussu domini’ alla ‘contemplatio domini’, Milano, 2008, p. 342, che, nel suo contributo dedicato alla rappresentanza, parla di sovrapposizione iniziale, più che di coesistenza, tra processo formulare e cognitio.

A mio avviso, le teorie non sono facilmente dimostrabili, per considerazioni in merito alla tematica, alla luce di Yadin 28-30, si veda il termine della presente disamina.

[12] Su tale aspetto si veda avanti nel testo.

[13] Così, M. Talamanca, Isitituzioni di diritto romano, Milano, 1990, p. 364. Lo studioso ribadisce la sua posizione anche altrove. Il medesimo, in Diritto e prassi nel mondo antico, in Règle et Pratique du Droit. Atti Copanello 1997, Soveria Mannelli, 1999, p. 194, considera la provincia, un luogo: “dove le forme dell’ordo, a partire dal II sec. d.C., erano, dal punto di vista meramente procedurale, con ogni probabilità obsolete”.

[14] A. M. Rabello, La giurisdizione civile in Iudaea fra il 63 a.e.v. ed il 135 e.v., in Ebraismo e diritto, I, Soveria Mannelli, 2009, p. 520 ss.; Id., La situazione giuridica degli ebrei nell’impero romano, in Ebraismo e diritto cit., p. 127 ss., descrive la situazione della Giudea e degli Ebrei della diaspora, servendosi di fonti romane e rabbiniche. In particolare, una riflessione dello studioso può chiarire o lasciare spazio a ipotesi, anche per quanto riguarda la gestione giudiziaria dell’Arabia Petrea nel 130 d. C., ossia che la Giudea, così come la Macedonia, godevano di particolari autonomie, mantenimento di leggi nazionali, e delle magistrature locali. Nonostante ciò, Rabello sottolinea come la giurisdizione civile fosse esercitata comunque dal pretore, “in primo luogo tra cittadini romani, con poteri simili a quelli del praetor urbanus di Roma, seguendo generalmente le norme dell’edictum, e la altre norme particolari stabilite dalle leges provinciae” (p. 520). E aggiunge, “Gli ebrei anche quelli della diaspora rappresentavano una singola entità chiamata ethnos e godettero dello status di stranieri appartenenti a una cittadinanza riconosciuta, peregrini alicuius civitatis”. Per Rabello “la convivenza tra i due mondi giuridici si atteggia di volta in volta diversamente, dando vita talora a fenomeni di giustapposizione o di reciproca influenza tra gli stessi, tal altra di vera e propria concorrenza, non soltanto dal punto di vista sostanziale, ma anche e soprattutto sul terreno giurisdizionale… (p. 528)”. L’osservazione dello studioso si addice perfettamente all’archivio di Babatha, ma, credo che tanta fluidità non seguisse la volontà dei soggetti privati, anche ebrei, piuttosto quella del potere imperiale che si esprimeva attraverso le leges provinciae e l’editto divenuto, o che sarebbe divenuto di lì a poco, perpetuo. Per Rabello, loc. cit., dunque, Babatha avrebbe scelto di rivolgersi al magistrato locale, in quanto la procedura romana, essendo riconosciuta in tutto l’impero, avrebbe dato maggior sicurezza. Rispetto al caso trattato, però, non mi sembra che Babatha avesse intenzione di recarsi oltre i confini del suo mondo.

[15] A far propendere parte della letteratura per la non attendibilità delle Antichità Giudaiche, più che la atecnicità della fonte, sarebbero state le numerose imprecisioni storiche in essa contenute. In particolare, una simile posizione appartiene agli studiosi degli inizi del secolo scorso, tra cui cfr.: H. Guttmann, Der Darstellung der jüdischen Religion bei Flavius Josephus, Breslau Manau, 1928; L. Troiani, Per un’interpretazione della storia ellenistica e romana contenuta nelle ‘Antichità Giudaiche’ di Giuseppe Flavio (libri XII-XX), in Studi Ellenistici, Pisa, 1984, p. 39 ss. In tempi recenti, altresì, l’opera è stata rivalutata in termini di attendibilità, almeno per quanto riguarda i provvedimenti imperiali nei confronti degli ebrei che interessano in questa sede.

[16] Secondo Gius. Flav. Ant. 16.1.2, Cesare avrebbe riservato agli ebrei un trattamento normativo peculiare, consentendo loro anche l’adozione di tribunali interni per quanto concerneva le materie religiose.

[17] Rabello, La giurisdizione, cit., p. 521 ss.; Id., La situazione giuridica degli ebrei, cit., p. 127 ss., che sottolinea come la concessione dei privilegi si applicasse agli ebrei che non erano cittadini romani. La linea politica per cui si riteneva opportuno, per una questione di pace sociale, concedere privilegi in materia organizzativa agli ebrei prese le mosse già con Cesare, stando a quanto riportato da Giuseppe Flavio Ant., 14. 10.2.3; 11.20.

[18] Gius. Flav. Ant., 14.10.2.3; 11.20.

[19] Come riferimento temporale, basti pensare che la redazione finale della Mishnah risale al 217 d.C.

[20] In modo accurato, lo stesso Rabello, La giurisdizione, cit., p. 527, ricorda come i saggi fossero orientati nel vietare agli ebrei di adire le corti romane (ad esempio, T. B. Ghittin 88b). in tal senso, lo studioso prende in considerazione anche le parole di Rabbi Tofan ricordate da Rabello stesso. E dalle parole rabbiniche si conferma che, nel periodo tra la guerra di distruzione del Santuario e la guerra di Bar-Kochba, gli ebrei godessero ancora di autonomia giuridica, per materie delegate dall’autorità romana.

[21] La mancanza di attestazioni sulla persistenza di tribunali locali nabatei, nel periodo adrianeo, ha indotto molti studiosi a ritenere che vi sia stata, sotto il profilo giudiziario, una celere romanizzazione della provincia di Arabia. In tal senso cfr.:  A.M. Rabello, Jewish and roman Jurisdiction, in N.S., Oxford, 2000, p. 141 ss., E. Lo Cascio, I valori romani tradizionali e le culture delle periferie dell’Impero, in Athenaeum 95 (2007) p. 75 ss.; H. Cotton, Continuity of Nabatean Law in the Petra Papyri: a methodological Excercice, Cambridge, 2009, p. 154 ss. Rabello, La giurisdizione, cit., p. 520 ss., afferma che, “in seguito alla provincializzazione dell’Arabia, il greco divenne la lingua ufficiale dei documenti legali, e le affinità con istituti del vicino Egitto confermano la koinè greca del periodo contaminata da ricorrenti latinismi e semitismi”. E continua: “Si usa il greco nonostante la maggioranza degli scribi fosse di lingua ebraica o aramaico. Inoltre essi erano usualmente depositati in pubblici archivi come in Egitto, così che, dopo essere stati registrati, potessero essere prodotti a fini probatori in sede giurisdizionale”.

[22] Atti stesi in giudeo-nabateo sono: Yadin 1-4 e 6-9, gli altri sono duplice copia o triplice, in greco nabateo e aramaico o greco e nabateo.

[23] Sono atti giudiziari: Yadin, 14.23, 25, 33, 34, 35.

[24] Il papiro è steso in aramaico e non v’è dubbio tra gli studiosi che si tratti di un vero e proprio ketubbah, ossia un contratto matrimoniale ebraico dettagliato, che prevedeva anche l’eventualità in cui la donna, come accadde, sarebbe rimasta vedova, (Yadin 10). Per tutti, cfr. J.G. Oudshoorn, The relationship between Roman and local Law in the Babatha and Salome Komaise Archives. General Analysis and Three Case of Studies on Law of Succession, Guardianship and Marriage, in STDJ. 69 (2007) p. 379 ss.

[25] Yadin 20-26. Invero, il ricorso all’autorità romana, di per sé non avrebbe implicato l’applicazione del diritto romano. Faceva parte dei privilegi concessi agli ebrei, infatti, l’applicazione del diritto ebraico anche presso corti romane, stando anche a una fonte rabbinica ebraica, Rabbi Eleazhar ben Azharìa, Mekhilta Derabbi Ishmael, Mishpatim, Exodus 21, ricordata da Rabello, La giurisdizione,cit., p. 525.

[26] Su tale punto, cfr. V. Colorni, Legge ebraica e leggi locali, Milano, 1945, p. 106, Rabello, La giurisdizione, cit., p. 9 ss., Id., La situazione giuridica,cit. , p. 139.

[27] ‘Presunta’ in quanto non è affermato in alcun luogo leggibile dei papiri che il marito di Babatha fosse bigamo. L’ipotesi si fonda su di una affermazione che ricorre negli atti giudiziari in tema, e che tradotta equivale ‘a mio e tuo marito’. La frase, da sola, non offre la certezza sullo status del defunto.

[28] In Yadin 20 si evince l’applicazione del diritto ebraico per quanto concerne la disciplina dotale, ma romano per quanto riguarda la tutela su di una donna maggiorenne. Per una ricognizione sul tema cfr. Hartman, Archivio di Babatha, cit.,  p. 43 e nt. 4. Invero, la questione riguardante il tipo di diritto applicato dalle autorità romane, anche sulla base degli archivi di Babatha e Salome Komaise, non è pacifica in letteratura, alla luce della diversa interpretazione delle fonti. Così, come sopra anticipato, Rabello, La giurisdizione civile, cit., p. 534 sostiene: “Da Babatha emerge la forte e rapida romanizzazione amministrativa e giuridica di questa nuova provincia… gli elementi, gli istituti, i principi di diritto romano si trovano così nei nostri documenti sovrapposti al sistema giuridico ebraico, che proprio nel corso di quei secoli, attraverso le interpretazioni formulate nelle scuole rabbiniche, stava procedendo verso la sua codificazione per diventare un vero e proprio sistema normativo”. Sempre lo studioso medesimo nota come “i papiri redatti in aramaico seguano il diritto ebraico. Inoltre, nella parte greca, si trovano attestazioni di prassi e istituti stranieri, greci, in ragione con la vicinanza dell’Egitto ellenizzato, ma dopo la conquista romana, anche romani, e non in quantità inferiore”. Se Rabello pone l’accento sul particolare status di ebreo in quel tempo, altra letteratura ravvisa nei papiri di Yadin una condizione comune ai peregrini nelle varie province. Così si individua nella documentazione degli archivi un disinteresse o una marcata astensione delle autorità romane verso le cause locali. I peregrini avrebbero goduto di larga autonomia in campo giudiziario, e i Romani avrebbero avocato a sé solo liti di particolare interesse per il potere centrale. In questa dinamica, la situazione degli ebrei non risulta peculiare, ma frutto di una ideologia generale di gestione delle province. In tale direzione si pongono gli studi di: Oudshoorn’s, A recent study,cit., p. 1 ss., secondo cui le corti romane avrebbero utilizzato il diritto locale per relazionarsi con i peregrini. In tale direzione anche B. J. Jackson e D. Piattelli nella recensione a Rabello confermano l’idea della autonomia procedurale e dell’applicazione da parte degli organi romani di diritti locali, ma ritenendo che la situazione tra le varie province fosse molto diversa e dipendesse anche dalle condizioni di conquista. Tale argomentazione non risulta nuova in dottrina, che, però, le conferisce un respiro concettuale più ampio. Già W. W. Buckland, L’ ‘Edictum provinciale’, in RHD. 13 (1934) p. 81 ss., aveva pen

di Cintio Lucia



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