fbevnts «As the Earth Has Patience with the Life of Man»: From Paths of Dominion to Meeting the Other on the Road. A Literary Voyage in Cultural Heritage

La «pazienza della terra»: dai percorsi di dominio all’incontro nel cammino. Viaggio letterario nel diritto del patrimonio culturale

30.06.2019

Arianna Visconti

Ricercatrice di Diritto Penale, Università Cattolica Milano

 

La «pazienza della terra»: dai percorsi di dominio all’incontro

nel cammino. Viaggio letterario nel diritto del patrimonio culturale*

 

«As the Earth Has Patience with the Life of Man»: From Paths

of Dominion to Meeting the Other on the Road.

A Literary Voyage in Cultural Heritage Law

 

SOMMARIO: 1. Introduzione: dell’importanza del contesto. 2. Diversi ma non troppo: il turista rapinoso, da Goethe e Walpole ai giorni nostri. 3. Un monito letterario dalle rive del Tamigi: la lunga ombra del colonialismo. 4. Conclusioni: sul contesto, ancora.

 

  1. Introduzione: dell’importanza del contesto.

 

Il presente saggio si inserisce in un ormai decennale percorso di esplorazione di un peculiare approccio ‘letterario’ all’approfondimento di questioni ‘di giustizia’[1] – in particolare, anche se non solo, penale[2] – che ne ha, forse inevitabilmente, sottolineato in primo luogo la rilevanza critica. Esso ha dunque finito naturalmente per concentrarsi sulle capacità di ‘rottura’ della letteratura propriamente intesa[3], valorizzandone l’attitudine a generare un ripensamento e una emancipazione da stereotipi e pregiudizi[4], nonché, correlativamente, la fondamentale apertura alla voce e ai racconti degli outsider, emarginati dalle narrative sociali, politiche ed economiche dominanti[5], e l’impulso alla tematizzazione di modelli alternativi di giustizia[6], con un ripensamento delle categorie giuridico-dogmatiche tradizionali[7].

In questa sede, tuttavia, interessa esplorare una diversa, e per certi aspetti opposta, potenziale rilevanza del contatto col testo letterario: l’attenzione che questo è in grado di indirizzare agli elementi di contesto per una corretta comprensione dei fenomeni sociali e giuridici, anche in funzione di un migliore apprezzamento critico degli stessi.

Con questo, non ci si vuole riferire qui alla capacità di molti testi letterari di illuminare le relazioni complesse tra l’individuo, il gruppo o i gruppi in cui è inserito, e il più ampio contesto socio-istituzionale, e quindi di aiutarci a comprendere quelle dinamiche ‘situazionali’ e ‘sistemiche’ all’origine di molte forme di criminalità sempre più diffuse nel nostro mondo ‘postmoderno’ o ‘tardo moderno’[8]; né ci si propone, dunque, una riflessione critica sulla necessaria evoluzione di strategie politico-criminali che vogliano intervenire in maniera efficace sulla loro repressione e, prima ancora, prevenzione[9]. Per quanto certamente interessante, si tratta, a ben vedere, di un profilo che rimane strettamente intrecciato alla capacità della letteratura di spezzare ‘lenti’ interpretative consolidate e aprire squarci prospettici diversi, innovativi e rivelatori, sulla realtà in cui siamo immersi.

Ciò che interessa in questa sede è invece valorizzare la più elementare capacità descrittiva della letteratura: il testo letterario come fonte – analoga in questo a molte altre fonti documentali di natura assai diversa[10] – di una raffigurazione pregnante ma non necessariamente critica (e anzi, ai nostri fini attuali, quanto meno critica, tanto più interessante) di un dato contesto storico, sociale, economico, culturale, ecc.

Questa componente descrittiva del testo (anche) letterario si rivelerà utile essenzialmente sotto due profili. In primis per il suo potenziale di relativizzazione delle differenze percepite tra contesti diversi (sul piano diacronico, nella prospettiva qui considerata)[11]: la letteratura, cioè, come contributo alla comprensione dei fenomeni sociali, in particolare, come fenomeni in costante evoluzione, dove anche i semi della più eclatante ‘rivoluzione’ sono sempre presenti, a ben guardare, in epoche precedenti e in cui differenze percepite come nette e dirimenti sono spesso gradienti diversi in una parabola di cui può talora rivelarsi del tutto impossibile individuare un puntuale momento genetico, come pure un completo esaurimento.

Con la necessaria precisazione che un approccio di questo tipo non è certamente finalizzato a una negazione della differenza e della sua rilevanza, sia in termini di (spesso dolorosa e conflittuale) irriducibilità, sia in termini di valore positivo per una società aperta e pluralista; né a un approdo di tipo eminentemente relativistico sul piano valoriale[12]. Al contrario, coltivare una esplorazione ‘letteraria’ della somiglianza e della continuità si dimostrerà funzionale a sviluppare una migliore consapevolezza critica dell’intrinseca ambivalenza di ogni processo di differenziazione concettuale, e dei rischi di ‘cecità selettiva’, quando non di ‘disumanizzazione’, legati a ogni facile ‘compartimentalizzazione’ sotto etichette ben definite, tanto rassicuranti quanto deleterie, dell’infinita complessità e fluidità dell’umano[13].

In secondo luogo, e in stretta correlazione con tale primo spunto di riflessione, proprio laddove emerga un’incapacità della letteratura stessa di svincolarsi dai condizionamenti del suo tempo, questa ci fornisce un’impagabile lezione di umiltà e un fortissimo impulso all’autocritica. Proprio quei testi o passi letterari che un certo orientamento di esasperata political-correctness vorrebbe espungere dai curricula scolastici e universitari, o almeno ‘emendare’ in sede di (ri)pubblicazione (in quanto contenenti passaggi, o anche solo vocaboli, potenzialmente ‘traumatici’ per il lettore, o ritenuti ‘diseducativi’ perché discriminatori, retrivi, ecc.)[14], presentano in realtà un potenziale euristico di fondamentale importanza.

Si pensi a talune coloriture paternalistiche o ‘razzialiste’ di certi passi della Capanna dello zio Tom[15], o all’implicita accettazione e riproposizione di alcuni stereotipi patriarcali anche in un’autrice acuta e innovativa come Jane Austen[16], o ancora alla persistenza di taluni cliché di origine antisemita anche negli scritti di un paladino degli oppressi come Charles Dickens[17]: anche nella migliore letteratura, nessun autore è e sarà mai in grado fino in fondo di ‘saltare al di là della propria ombra’. L’unica possibilità sarebbe quella di rimuoverla[18], ma ciò avrebbe conseguenze drammatiche tanto per l’equilibrio individuale, quanto per quello sociale[19]. Il «dono rovesciato»[20] di questo aspetto della letteratura è la rivelazione che neppure il migliore degli uomini può mai sottrarsi completamente allo spirito del tempo in cui vive e liberarsi del tutto dalle relative ‘cornici’ interpretative[21].

Come dunque accettiamo che quello stesso Immanuel Kant che ha fondato l’intera riflessione moderna sulla dignità umana sia stato al tempo stesso un convinto fautore, al pari della maggioranza dei suoi contemporanei, della pena di morte in prospettiva retributiva[22], dovremmo accettare che anche le più grandi opere letterarie non siano sempre, e in ogni loro passo, in anticipo morale e culturale sui tempi che le hanno viste nascere, e trarre da questa verità un ulteriore stimolo critico: quello a mettere sempre in questione ogni pretesa di bontà e validità assolute degli asserti valoriali del nostro tempo e del nostro contesto, specie laddove questi appaiano virare, a loro volta, verso ‘angoli ciechi’ in cui l’‘altro’ scompaia, sacrificato all’‘idea’ o al ‘principio’[23].

  

2. Diversi ma non troppo: il turista rapinoso, da Goethe e Walpole ai giorni nostri.

 

Si sottolinea correttamente come la progressiva emersione del turismo di massa abbia creato problemi sempre più complessi di sostenibilità dal punto di vista sociale, culturale, ambientale, ecc. (con tutte le immaginabili ricadute in termini di regolamentazione e controllo)[24]. Ed è certamente vero che l’attuale curva di crescita del turismo di massa, che lo rende perfetto «esempio della modernità surriscaldata»[25], risulta un fenomeno alieno a epoche – come quella classica, medievale, o della prima modernità – in cui il viaggio per diletto, ove pure fosse praticato, era confinato a pochissimi esponenti delle classi superiori[26]. Tuttavia, esiste una certa percezione ‘romantica’ diffusa che, anche alla fine del XVIII secolo e nel corso del XIX, il c.d. Grand Tour, ancora decisamente elitario, fosse per definizione immune da problemi di ‘sostenibilità’, e si connotasse per un approccio volto a «nutrire la memoria e lo spirito» e a tracciare un «itinerario di formazione dell’io»[27], intrinsecamente più attento, curioso, profondo, rispetto a quello del turista medio odierno.

È certamente vero che un tale approccio era qualificante per molti di coloro che lo intraprendevano, per i quali il viaggio fisico era essenzialmente e prima di tutto ‘viaggio di formazione’, di esplorazione e conoscenza tanto del passato (specialmente classico) quanto del contemporaneo (anche sociale)[28]. Nondimeno, proprio una frequentazione della letteratura prolificamente prodotta dai ‘granturisti’ dell’epoca segnala di per sé quanto riduttiva e fuorviante sia una contrapposizione netta tra (una valutazione essenzialmente positiva del) turismo d’élite di allora e (una, se non intrinsecamente negativa, quanto meno preoccupata e critica del) turismo di massa odierno. Anche in questo ambito, la realtà sociale si presenta piuttosto come una successione tra gradienti diversi di fenomeni dalle radici assai più lontane di quanto si pensi abitualmente.

Le considerazioni auto-deprecatorie che un maturo Vittorio Alfieri svolge, nella Vita[29], sui suoi viaggi di gioventù (compiuti poco oltre la metà del XVIII secolo) mostrano quanto fosse tutt’altro che infrequente (e anzi consono a un certo spirito libertino del tempo), per la ‘gioventù dorata’ dell’epoca, intraprendere il ‘grande viaggio’ attratta più dal «moto e divagazione di correr la posta»[30] e dal gusto di inseguire le sensazioni e gli svaghi offerti ora dal carnevale napoletano[31], ora dai teatri e dalle feste della fiera dell’Ascensione di Venezia[32], ora dai «combattimenti a timonate» coi cocchieri londinesi[33], ora dalle ‘signorine’ gaditane[34], che non da autentico interesse per la storia, l’arte e i costumi dei luoghi (più che visitati) attraversati «in fretta in furia»[35] da questi ‘consumatori’ di fugaci impressioni e divertimenti.

Ma anche granturisti meno ‘distratti’ e, anzi, autenticamente e consapevolmente interessati alla propria formazione culturale, umana e morale, non erano, spesso, esenti da atteggiamenti, se non propriamente ‘predatori’, certo ‘appropriativi’, dall’impatto non necessariamente positivo sui territori da loro visitati[36].

Ben conosciuta è, ad esempio, la passione di Byron per ‘marchiare’ i monumenti da lui visitati incidendovi il suo nome, come fece (non diversamente, per altro, da dozzine di viaggiatori suoi contemporanei)[37] su un pilastro del tempio di Poseidone a capo Sounion, in Grecia, o nel castello di Chillon, in Svizzera[38]. Una forma di autoaffermazione a spese dell’integrità dei beni storico-artistici locali che risulta parte, tristemente familiare, del costume di moltissimi turisti odierni[39]. Il poeta, tuttavia, era certamente in anticipo sui tempi rispetto a un’altra ‘moda’ assai diffusa tra i ‘granturisti’, tanto da essere altrettanto noto per la sua feroce critica[40] della rimozione (per quanto perfettamente legale) dei marmi del Partenone a opera di Lord Elgin[41]; coerentemente, a differenza della quasi totalità dei suoi contemporanei (inclusi vari altri critici di Elgin), non riportò dai suoi viaggi una raccolta di reperti archeologici[42], e anzi si espresse con forza contro la «maligna devastazione» recata ai monumenti antichi dalle spoliazioni intese ad alimentare il collezionismo dell’epoca[43].

Queste ultime costituivano però prassi comune, e anzi pacificamente accessoria al Grand Tour quale viaggio di formazione, tra l’altro, della cultura e del gusto dei giovani aristocratici e borghesi. Si ritrovano ad esempio elencati nella Descrizione di Strawberry Hill[44], la nota villa-museo, in stile ‘neogotico’, di Horace Walpole – appassionato visitatore dell’Italia[45], tanto da ambientarvi il suo famoso romanzo, Il castello di Otranto (1764), ma ancor più appassionato collezionista d’arte e di antichità[46] – moltissimi reperti archeologici provenienti dal nostro paese, tra cui (forse il più notevole) un’aquila di marmo, di grande finezza, ritrovata nell’area delle terme di Caracalla, a Roma, nel 1742, e collocata da Walpole su un «bell’altare sepolcrale antico, a sua volta adorno di aquile»[47].

Anche Goethe era un appassionato collezionista, sia per conto proprio (tanto da assemblare nel corso della sua vita una raccolta personale di decine di migliaia di oggetti)[48], sia per conto del duca di Sachsen-Weimar[49], per il quale mediò, tra l’altro, l’acquisto e il trasporto in Germania di parte significativa dell’eredità del pittore Giuseppe Bossi, che fu già all’epoca avvertita come una dolorosa perdita per il patrimonio artistico milanese e italiano, anche per il fresco e traumatico ricordo delle estese requisizioni napoleoniche[50]. Al di là di queste acquisizioni massicce ma prive di ombre di illiceità, però, lo stesso Goethe documenta poi nel suo diario di aver comprato, nel corso del suo viaggio a Roma, oltre a molte copie e riproduzioni, pure alcuni oggetti originali recuperati e rivenduti con molta ‘disinvoltura’ a seguito di scoperte casuali[51].

Della già richiamata collezione di Walpole (dispersa dopo la sua morte) faceva poi parte anche un affresco ‘di epoca romana’ recentemente riemerso sul mercato e rivelatosi, in realtà, quasi interamente un falso settecentesco[52] (secondo una prassi documentata dallo stesso Goethe nel suo Viaggio in Italia)[53], dipinto a olio su un residuo di stucco antico in una delle miriadi di laboratori e botteghe che spuntavano come funghi per soddisfare il sempre più vorace appetito dei ‘granturisti’, bramosi di riportare dal loro viaggio qualche ‘tesoro’ artistico o antiquario.

Tanto fiorente era il mercato di questi particolari ‘souvenir’, che, già nella prima metà del Settecento, molti dei ‘ciceroni’ specializzati nel guidare i visitatori stranieri conducevano un commercio parallelo di antichità, spesso organizzato sotto la direzione di mercanti-collezionisti stranieri (inglesi in primis), e alimentato vigorosamente sia attraverso scavi più o meno clandestini, sia attraverso la produzione organizzata di repliche o il ‘restauro’ di oggetti (o frammenti) originali ora venduti dichiaratamente come tali, ora (più spesso) spacciati per autentici o, quanto meno, ‘più autentici’ di quanto non fossero[54]. Prassi che, anche tenuto conto dell’assai diversa concezione del restauro tipica dell’epoca[55], e dell’assenza di una legislazione sistematica, nei vari Stati italiani, a tutela del patrimonio artistico e archeologico locale, si presentano, dal punto di vista strettamente empirico, assai vicine a quelle che tutt’oggi contribuiscono al sistematico saccheggio (e ‘inquinamento’)[56] del patrimonio storico-artistico di molti paesi[57].

Per altro, anche laddove divieti e controlli all’esportazione delle opere d’arte e d’antichità già esistessero all’epoca, la domanda sempre crescente e una corruzione diffusa determinavano una costante quanto agevole emorragia di beni culturali, come osservava lo stesso Goethe rilevando come a Roma, dove per portare all’estero opere antiche era già a quei tempi richiesto il consenso del governo[58], nondimeno «ci si adopera[va], per vie segrete e con ogni sorta di mezzi, a ottenere caso per caso la concessione necessaria»[59]. Altro fenomeno assolutamente attuale, se si considera che recenti studi dedicati all’esplorazione della (rilevantissima) ‘cifra oscura’ del traffico illecito di beni culturali[60], hanno, tra l’altro, individuato una correlazione positiva tra tassi di corruzione percepita nei paesi soggetti a esportazione illecita e prevalenza di quest’ultima[61]

Di fatto, fu la dispersione sempre più consistente di opere d’arte e reperti archeologici, legata in modo significativo proprio alle brame di collezionismo del turismo ‘elitario’ dell’epoca[62], a contribuire grandemente (insieme al trauma delle spoliazioni avvenute durante le guerre napoleoniche)[63] a spingere molti degli Stati preunitari prima, e il Regno d’Italia in seguito, ad adottare una legislazione di almeno parziale regolamentazione, in particolare, degli scavi archeologici e dell’esportazione di beni culturali[64]. Il primo provvedimento organico di protezione del patrimonio storico e artistico di uno Stato italiano è tradizionalmente considerato l’editto del cardinale camerlengo Pacca, del 1820[65], che, significativamente, indicava tra i motivi alla base della vecchia e nuova legislazione pontificia, la «riunione preziosa» in quel territorio «di sì auguste reliquie delle vetuste Arti» e la necessità di «gelosa cura di quelle che esistono, e che novellamente si dissotterrano» e di «vigili severe provvidenze, perché non si degradino, o si trasportino altrove lontane», onde continuare, tra l’altro, ad attrarre «gli Stranieri ad ammirarle».

A questo editto seguirono iniziative analoghe in molti degli Stati preunitari e, dopo il 1861, un lungo e tormentato iter di unificazione e razionalizzazione delle legislazioni locali, che, dopo aver conosciuto anche sensibili inversioni di tendenza (di impronta spiccatamente liberale) rispetto alle politiche vincolistiche preunitarie[66], culminò infine, ai primi del Novecento, nella c.d. ‘legge Nasi’ (l. 12 giugno 1902, n. 185, istitutiva, tra l’altro, di un catalogo nazionale dei «monumenti e degli oggetti d’arte e d’antichità»), a stretto giro emendata e sistematizzata con la c.d. ‘legge Rosadi’ (l. 20 giugno 1909, n. 364). Entro la prima decade del XX secolo si erano così stabiliti i capisaldi, che avrebbero continuato sostanzialmente a segnare il perimetro fondamentale anche della legislazione successiva[67] (dalla c.d. ‘legge Bottai’, emanata sotto il regime fascista[68], al Testo Unico del 1999[69], e fino all’attuale Codice dei beni culturali[70], d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42), di un’ampia normativa a tutela dell’integrità del patrimonio culturale nazionale (tutela che avrebbe ricevuto nuovo forte impulso dalla costituzionalizzazione, nel 1948, del «patrimonio storico e artistico della nazione» come oggetto di necessaria tutela da parte dello Stato)[71].

Eppure, malgrado tale indubbia influenza, sulla nascita del moderno diritto dei beni culturali, di un ‘granturismo’ già all’epoca eccessivamente ‘aggressivo’ e ‘rapinoso’ nei confronti delle ricchezze artistiche e archeologiche dei paesi visitati (e anzi tanto più aggressivo e rapinoso quanto più elitario, in ragione delle grandi risorse disponibili, e di fatto utilizzate, per fare incetta di questi particolari ‘souvenir’), ancora oggi il tema della spoliazione dei patrimoni culturali nazionali fatica a essere messo in connessione con quello del ‘turismo culturale sostenibile’[72].

La discussione in merito a quest’ultimo, infatti, tende a concentrarsi sul potenziale conflitto tra sfruttamento economico del patrimonio culturale quale risorsa per l’imprenditorialità turistica, da un lato, e compromissione dell’«utilizzazione sociale dei beni culturali da parte delle popolazioni residenti e la fruizione conoscitiva della ricerca e della scuola», dall’altro, e dunque sul rischio di danni ai «valori ambientali e sociali delle città d’arte e degli altri siti della cultura». In sostanza, anche in questo ambito[73], l’analisi si concentra prevalentemente sui limiti della «capacità di carico turistico di una città d’arte (o di un centro storico o di un sito archeologico) che non è solo fisico ambientale (per evitare la saturazione e il degrado della risorsa primaria) ma anche sociale ed economico (per impedire la morte degli insediamenti e delle attività non interessate al flusso turistico)». Conseguentemente, le linee di intervento prospettate si focalizzano su strategie di regolamentazione ad hoc dei flussi turistici nei grandi poli di attrazione culturale e di «indirizzamento ed incentivazione dei flussi turistici verso sistemi museali regionali e minori»[74], nonché di coinvolgimento attivo delle comunità locali nella tutela e valorizzazione dei beni di interesse turistico[75]. Tutti temi certamente «roventi»[76] e meritevoli di attenzione, ma non esaustivi, a nostro avviso, delle questioni di ‘sostenibilità’. Dato questo approccio, comunque, non stupisce di non trovar menzione dei temi dell’‘acquisto responsabile’ e dell’‘educazione alla legalità dell’esportazione’ di oggetti d’arte e d’antichità neppure nelle recentissime Raccomandazioni per il turismo culturale sostenibile dell’Unione Europea (un insieme di linee guida pubblicato in occasione dell’anno europeo del patrimonio culturale 2018)[77].

Eppure, tra i ‘doveri del turista’ sanciti all’art. 1 del Global Code of Ethics for Tourism adottato nel 1999 dall’Assemblea Generale della World Tourism Organization (UNWTO)[78] rientrano non solo quello di «non commettere reati o comportamenti qualificati come reato dalle leggi del paese visitato» (e va ricordato come in moltissimi paesi-fonte[79], Italia inclusa, l’esportazione illecita di beni culturali abbia rilevanza penale)[80], ma anche quello di «astenersi da qualsiasi traffico in […] oggetti d’antichità […] che sia proibito da normative nazionali»; doveri che vanno a sommarsi e a specificare i più generali principi di promozione del turismo in termini di «valorizzazione» del «patrimonio culturale dell’umanità» di cui all’art. 4. L’UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization), per parte sua, ha attivato negli ultimi anni una serie di campagne di sensibilizzazione al problema del traffico illecito di beni culturali rivolte proprio al settore del turismo, sia attraverso partnership con editori specializzati nel mercato delle guide[81], sia attraverso collaborazioni con operatori internazionali dell’industria ricettiva e gestori di piattaforme di prenotazioni di viaggio on-line[82].

Curiosamente, proprio l’Italia, prima vittima (anche) dei ‘saccheggi’ del Grand Tour – oltre che di un’endemica diffusione di scavi archeologici clandestini[83], furti d’arte (particolarmente diffusi nel settore dei beni librari e di quelli ecclesiastici, per definizione dispersi sul territorio e collocati in siti intrinsecamente vulnerabili)[84] ed esportazioni clandestine[85] – appare ancora oggi grandemente in affanno quanto a cultura civica in questo ambito.

Non ci si riferisce solo alla notoria diffusa leggerezza nell’applicazione delle disposizioni dell’art. 64 CBC[86], che vede tutt’oggi un livello mediamente assai basso delle informazioni e documentazione fornite, da parte degli esercenti il commercio di opere d’arte e d’antiquariato, circa provenienza e autenticità dei beni, speculare, del resto, all’assai carente «conoscenza e consapevolezza da parte dei cittadini dei diritti ai medesimi riservati e degli obblighi deontologici, prima che giuridici, incombenti sui commercianti e gli antiquari», che invece costituirebbe certamente «il mezzo più efficace per migliorare anche la disciplina commerciale del settore»[87]. Non si registrano nel nostro paese neppure campagne sistematiche di informazione al turista sia in ingresso – circa la normativa nazionale sul commercio ed esportazione di beni culturali – sia in uscita – per sensibilizzare gli italiani che viaggiano all’estero circa la necessità di informarsi su analoghe normative nei paesi di destinazione. Ancora, è legittimo domandarsi quanti concittadini siano al corrente, ad esempio, dell’obbligo di denuncia (penalmente sanzionato) che grava su ciascuno in caso di ritrovamento fortuito di un reperto archeologico[88], anche in un terreno di proprietà, o dei potenziali obblighi gravanti su chi desideri raccogliere cimeli della Grande Guerra sui luoghi già teatro del conflitto[89].

Sembra dunque abbastanza evidente come ogni ‘esercizio di consapevolezza’, in questo ambito, risulti di essenziale importanza per la conservazione e trasmissione alle generazioni future di un ‘bene comune’ di fondamentale importanza[90], quale è il nostro immenso, ma fragile, patrimonio culturale.

 

3. Un monito letterario dalle rive del Tamigi: la lunga ombra del colonialismo.

 

Un fil rouge lega il collezionismo europeo del Grand Tour a una più generale visione spiccatamente eurocentrica del ‘valore universale’ della cultura[91] e al passato coloniale del nostro continente[92]: «nel dispensare i loro benefici globali, le potenze occidentali acquisirono anche un patrimonio culturale globale, e giunsero quindi a concettualizzare il proprio bottino di conquista come una missione di custodia globale. Il mandato a saccheggiare dell’Europa derivava dalla visione condivisa che la sua eredità cristiana e scientifica fosse incommensurabilmente superiore ai costumi barbarici delle altre popolazioni»[93].

La letteratura, per parte sua, è documentazione anche di questa mentalità e di queste pratiche appropriative, ancor più aggressive e di più ampia, e talora devastante, portata rispetto alle (per lo più) ‘dilettantesche’ incursioni testimoniate nei diari dei celebri ‘granturisti’ sopra richiamati.

Solo per restare nel campo, familiare e ben dissodato[94], della narrativa ottocentesca, basti pensare alla naturalezza con cui, nei capitoli conclusivi del Segno dei quattro, celebre romanzo di Arthur Conan Doyle[95], nessuno dei protagonisti si sogni neppure per un istante di mettere in questione il diritto di Mary Morstan e Bartholomew Sholto a ereditare il ‘Grande Tesoro di Agra’ (in realtà perduto per sempre)[96] – ovvero la collezione di gioielli di un innominato rajah dell’India settentrionale, sottratta con la violenza da un sottufficiale inglese e dal suo plotone indiano[97] al servitore incaricato di portarla al sicuro nel corso dei moti del 1857, e quindi trafugata da uno dei due ufficiali britannici (Sholto e Morstan) in servizio presso il penitenziario dove erano stati confinati i criminali e dove uno di questi, Jonathan Small, aveva offerto loro una parte dei gioielli in cambio della complicità nella fuga dell’intera banda[98].

Per tutti i personaggi del romanzo quei gioielli sono ridotti, da oggetti dotati di una loro storia e di un valore simbolico, oltre che materiale, quali erano nel loro paese d’origine, a una pura entità economica, su cui il diritto di conquista può esercitarsi liberamente[99] (tanto che uno squisito diadema di perle, unico sopravvissuto alle travagliate vicissitudini della collezione, viene smontato da Bartholomew Sholto per consentirgli di pagare una sorta di ‘rendita’ a Mary Morstan, tramite la consegna, anonima, di una singola perla ogni anno)[100] e, se mai una questione circa la legittimità del possesso di quei beni si affaccia alla mente di taluno, questa riguarda i possibili diritti di proprietà del governo britannico, giammai quelli della famiglia reale e dello Stato indiani cui il tesoro era stato sottratto con la forza[101].

La totale pretermissione dell’originario valore (anche) culturale dei ‘tesori dell’oriente’ nella mentalità colonialista occidentale risalta poi ancor meglio nella Pietra di Luna di Wilkie Collins[102] (probabilmente una delle fonti di ispirazione dello stesso Doyle)[103], in cui l’omonimo diamante, fulcro del delitto che mette in moto la trama del romanzo, risulta essere stato sottratto con la violenza da un idolo sacro, all’interno di un tempio indiano, dai conquistatori Mogul nel XVII secolo e quindi a sua volta rubato da un ufficiale inglese (colpevole anche dell’omicidio dei custodi nativi del gioiello) dal tesoro della corona di Seringapatam, nel corso dei saccheggi compiuti al culmine delle quarta guerra per il regno di Mysore, nel 1799[104]. Il valore immateriale[105] della pietra – totalmente ignorato, ancora una volta, dai personaggi europei – è qui ancora più evidente, data la sua importanza non solo storica, ma anche religiosa, per la popolazione cui fu sottratto; tanto che il romanzo si chiude con una lettera dell’esploratore Murthwaite[106] che rivela come il diamante, alla fine delle rocambolesche (e sanguinose) vicende narrate nei capitoli precedenti, sia tornato, a opera di un gruppo di devoti seguaci, a essere incastonato nella fronte della statua del dio, nel tempio da cui era stato originariamente rubato[107].

Come è noto, Collins si ispirò a sua volta, nel costruire la trama del romanzo, alla vera storia di alcune pietre molto famose e dalle tormentate vicissitudini[108], tra cui il celebre Koh-i-Noor, che non a caso è da decenni al centro di una disputa[109] che vede contrapposti da un lato il Regno Unito – dei cui gioielli della corona il diamante fa attualmente parte, dopo essere stato ceduto alla Regina Vittoria al termine della seconda guerra anglo-sikh del 1848-1849 – e dall’altro, con altrettante richieste di restituzione, i governi di India, Pakistan e Afghanistan. Più recentemente, il Rijksmuseum di Amsterdam ha annunciato di aver avviato un processo di revisione della legittimità dell’acquisizione di dieci oggetti di origine coloniale (su circa 1.000 di analoga dubbia provenienza, come osservato dai critici)[110], tra cui il diamante Banjarmasin[111], originariamente appartenuto al sultano Panembaham Adam e attualmente classificato, nello stesso catalogo del museo, come «bottino di guerra»[112], di cui si ipotizza quindi una futura restituzione all’Indonesia.

L’annuncio del Rijksmuseum segue a stretto giro quello del National Museum for World Cultures (un ente collettivo composto dal Museum Volkenkunde di Leiden, dal Tropenmuseum di Amsterdam e dall’Africa Museum di Berg en Dal) circa la scelta di adottare una politica innovativa in tema di restituzione di oggetti acquisiti alle collezioni museali in seguito a saccheggi avvenuti in epoca coloniale[113], basata su una ricerca attiva della provenienza dei beni anziché su controlli ‘passivi’ a seguito di richieste di rimpatrio da parte di ex colonie.

Questa inversione di tendenza, a sua volta, si inserisce in un più ampio, recente movimento che ha visto l’interesse dell’opinione pubblica e della politica occidentali allargarsi oltre l’ambito ‘tradizionale’ piuttosto ristretto che ha, fino a tempi recenti, sostanzialmente monopolizzato le (scarse) attenzioni di cittadini e media per questioni di restituzione di beni culturali (in pratica, oltre alle depredazioni naziste della Seconda Guerra Mondiale[114], alcuni casi ‘storici’ eclatanti come quello dei marmi del Partenone[115], e – specie in Italia – talune acquisizioni ‘disinvolte’ da parte di primari musei stranieri in danno del patrimonio artistico-archeologico nazionale[116]). In particolare, questo ‘risveglio’ ha interessato proprio i beni, non più solo artistici, ma anche, più strettamente, etnografico-antropologici, entrati nelle collezioni delle istituzioni culturali europee nel corso dei secoli di dominazione coloniale.

Basti qui menzionare a titolo di esempio il dibattito, non più confinato alla sola cerchia ristretta degli specialisti, che sta precedendo l’apertura, prevista per il 2020, dello Humboldt Forum di Berlino, destinato, tra l’altro, a riunire le collezioni del museo etnologico e di quello di arte asiatica. Al centro delle contestazioni, di ampia risonanza mediatica[117], vi sono sia la legittimità del possesso dei beni destinati a essere esposti nel nuovo museo, considerati in gran parte frutto di illecite acquisizioni coloniali o comunque fortemente sospetti, sia, correlativamente, la necessità, da un lato, di ricerche approfondite sulla provenienza di tali oggetti e, dall’altro, di rivalutazione critica, e problematizzazione nella presentazione al pubblico, dell’approccio otto-novecentesco alla ricerca etnografica, sia, infine, l’idea stessa di continuare a isolare le culture non europee in una sfera di ‘esotismo’ e quindi di sostanziale alienità[118].

Un dibattito che ha probabilmente contribuito a indirizzare l’impostazione del nuovo museo verso un modello espositivo differente dal passato (almeno da quanto si può evincere dalle dichiarazioni della sua direzione)[119], più attento alla ricerca e alla presentazione al pubblico di informazioni quanto più possibile complete e veritiere sulla provenienza dei diversi oggetti in mostra e al loro inquadramento nel contesto della storia e della cultura dei popoli loro creatori, comprendente anche un (abbozzo di) piano di prestiti e mostre organizzate in collaborazione (ed eventualmente in condivisione) con istituzioni culturali dei paesi d’origine. Modello che si rifletterebbe anche nella partecipazione del museo stesso al Benin Dialogue Group[120], in vista dell’individuazione e implementazione di soluzioni pratiche, concordate e condivise, alla risalente e spinosa questione dei bronzi del Benin[121], sottratti dall’esercito britannico nel corso della c.d. ‘spedizione punitiva’ del 1897 e attualmente dispersi (oltre che in collezioni private) in numerosi musei occidentali.

Un’iniziativa che, unitamente alla più recente adozione, a livello di Länder, di linee guida per la restituzione di beni di provenienza coloniale[122], sembra porsi a sua volta sulla stessa linea[123] indicata dal recente rapporto Savoy-Sarr[124] (dai nomi degli studiosi che lo hanno redatto, su incarico del Presidente della Repubblica Francese), che tanta risonanza, nel bene e nel male, ha avuto non solo in Francia, ma in tutta Europa[125], e che, per altro, si spinge molto oltre il suggerimento di strategie, tutto sommato già ben collaudate[126], basate su prestiti temporanei o permanenti, scambi culturali e ricerche congiunte. Il documento propone infatti una più radicale politica di restituzione sistematica dei beni dalla provenienza discutibile, con la finalità di riconoscere che il loro possesso è fondato «su un atto moralmente discutibile», e di «cercare», quindi, «di rimettere le cose al loro giusto posto»: in questo senso, secondo gli estensori del rapporto, «parlare apertamente di restituzione significa parlare di giustizia, di riequilibrio, di riconoscimento, di reintegrazione e riparazione, ma soprattutto significa aprire la strada a stabilire nuove relazioni culturali che poggino su una ripensata etica della relazione»[127].

L’esplicito richiamo del documento francese alla necessità di non limitarsi solamente alle «questioni giuridiche relative alla legittimità dei diritti di proprietà», per aprirsi a più ampie considerazioni «politiche, simboliche, filosofiche e relazionali»[128], merita per altro qualche precisazione, e qualche caveat contro ogni tentazione di eccessiva semplificazione[129] di questioni estremamente intricate e sfaccettate, sul piano tanto giuridico quanto storico e politico. Il tema del rimpatrio di beni etnografico-antropologici presenta, infatti, complessità ulteriori[130] rispetto al pur già estremamente complesso tema generale delle restituzioni di opere d’arte o antichità illecitamente sottratte[131].

Non solo, infatti, quanto più si va a ritroso nel tempo, tanto più è possibile che manchi una base legale per la richiesta di restituzione (ad. es. perché la legislazione del paese di origine, all’epoca, non prevedeva la proprietà pubblica e/o la necessità di autorizzazione per il recupero dei reperti archeologici; perché le autorità che concessero l’autorizzazione alla vendita e/o esportazione del bene erano quelle, legalmente in carica, di una potenza occupante; perché la spoliazione avvenne in un periodo in cui le odierne regole di diritto internazionale umanitario sulla protezione delle proprietà civili in tempo di guerra non si erano ancora formate; perché, più banalmente, il trascorrere del tempo ha determinato la prescrizione del diritto, o dell’azione); analogamente, tanto più risalente è l’asserita spoliazione, tanto più è probabile che manchino evidenze sufficienti circa la provenienza realmente illecita del bene (che potrebbe essere stato acquisito tramite commercio, donazione, scambio, senza forme di coercizione o frode)[132], o circa chi possa legittimamente ritenersene il proprietario attuale (con rischi, non peregrini, di restituzione al soggetto ‘sbagliato’[133]). Né ci si scontra solo con problemi di legittimazione a restituire nei molti paesi (tra cui ad es. Francia[134] e Italia[135]) i cui ordinamenti interni pongono problemi di inalienabilità degli oggetti facenti parte di collezioni pubbliche.

Quando si parla di manufatti frutto di pratiche e saperi tradizionali, infatti, possono porsi ulteriori e non indifferenti problemi di legittimazione a ricevere[136], dato che le comunità tribali cui gli oggetti sono riconducibili (ammesso che siano sopravvissute alle vicissitudini storiche…) non hanno di per sé personalità giuridica né di diritto interno né di diritto internazionale, dovendosi appoggiare, su tale ultimo fronte, agli Stati in cui risiedono, i quali ben potrebbero non aver interesse a rappresentarle (magari anche in ragione della frammentazione territoriale di queste in una pluralità di paesi, talora in conflitto tra loro), o essere loro stessi i riluttanti destinatari di richieste di ‘rimpatrio’[137] di beni acquisiti attraverso pratiche di imperialismo culturale e/o di esasperata centralizzazione.

Più ampiamente, l’intero universo concettuale-giuridico occidentale può rivelarsi inadeguato nel confronto con culture cui lo stesso concetto di ‘proprietà’ può risultare fondamentalmente alieno, in particolare in relazione a oggetti il cui valore culturale-spirituale, nella prospettiva nativa, si apprezza in termini comunitari e di responsabilità individuale[138].

Questo spiega, tra l’altro, perché particolarmente frequente sia, in questo ambito, l’impossibilità di ricorrere a strumenti giurisdizionali tradizionali, e perché, correlativamente, sia in crescita il ricorso a forme, più flessibili, di alternative dispute resolution[139], in grado non solo di contenere tempi e costi (spesso insostenibili per i richiedenti) rispetto alle procedure giurisdizionali, ma anche di proporre soluzioni ‘creative’ in grado di meglio soddisfare le esigenze più strettamente ‘morali’, emotive e simboliche, sottostanti alle richieste di restituzione – ad esempio tramite l’inclusione negli accordi così raggiunti di dichiarazioni che riconoscano il valore del bene per la sua comunità di origine e/o l’ingiustizia della sua dislocazione, o di programmi di scambio di beni culturali, di conoscenze e di ricercatori, o di forme di accesso al bene e di uso rituale dello stesso per le popolazioni indigene[140]; oppure, ancora, attraverso l’opzione per forme di titolarità condivisa o per programmi di prestito a lungo termine; con infinite possibili combinazioni di tutte queste e di ulteriori soluzioni, tra l’altro non sempre e necessariamente implicanti il (permanente) trasferimento fisico dei beni (o della totalità di questi) alla comunità di origine.   

 

4. Conclusioni: sul contesto, ancora.

 

Ogni bene culturale è molto più di un oggetto materiale[141]; è molto più del suo valore economico di mercato; è molto più del suo valore estetico; è molto più anche del suo valore informativo sul piano storico o antropologico. Ogni bene culturale è prima di tutto una storia: una «testimonianza»[142] e dunque (anche) una narrazione non solo delle sue origini e del suo viaggio nello spazio e nel tempo, ma ancor più del carico di significati simbolici che l’umanità gli ha attribuito e attribuisce. Ed è proprio questa natura intrinsecamente ‘narrativa’ che deve suggerirci quanto sia necessario applicare alle problematiche legate al patrimonio culturale quel ‘metodo’ giusletterario che, come si è avuto modo di discutere diffusamente altrove[143], rifiuta ogni semplificazione, ogni riduzione dell’infinita complessità dell’umano a schematismi e contrapposizioni ideologici, e assume invece il pluralismo dei punti di vista e il dialogo tra prospettive diverse quali cardini dell’approccio a ogni conflitto.

Certo è che la stessa carica simbolica ed espressiva di questi beni li ha esposti ed espone a sempre ricorrenti pericoli. La distruzione del patrimonio culturale dell’‘altro’ come arma di affermazione politica o religiosa, come strumento di pulizia etnica e genocidio culturale, come mezzo, in breve, di dominio sul diverso e inferiore, attraversa tutta la storia dell’umanità[144], fino alle più recenti guerre balcaniche[145] e ai conflitti in Medio Oriente[146], Afghanistan[147], Mali[148], ecc. Lo stesso dominio violento esercitato con i saccheggi coloniali, con l’avidità acquisitiva[149] che ha portato in Europa e America all’accumulazione di ‘collezioni’ tanto estese quanto mute sulla realtà delle proprie origini o, ancora, con l’applicazione artificiosa di categorie giuridiche e scientifiche occidentali a mondi culturali da esse lontani.

È esattamente contro una tale ansia di dominio che un approccio ‘giusletterario’ a questo tema dovrebbe metterci in guardia – aiutato, in questo, anche dalla consapevolezza di quanto sia in sé cangiante, storicamente condizionata, e perpetuamente in evoluzione, la stessa idea di ‘patrimonio culturale’[150]: cosa è ‘cultura’? quali significati simbolici vengono ricollegati, in tempi, luoghi, contesti diversi, agli stessi oggetti, agli stessi gesti, alle stesse pratiche? cosa viene considerato, qui e oggi, patrimonio meritevole di essere trasmesso in eredità alle generazioni future, e come è diversa questa selezione da quella operata da altre persone, in altri tempi e altri luoghi, o che sarà concepita in futuro e altrove?

Proprio una considerazione critica di questa infinita mutevolezza, pur all’interno di un valore universale di fondo (come universale e infinitamente cangiante e sfaccettata nelle sue manifestazioni individuali è la nostra comune umanità, e dunque la nostra comune dignità)[151], del ‘patrimonio culturale’ dovrebbe fornirci i necessari anticorpi contro ogni forma di semplicismo e ‘manicheismo’ nella soluzione delle tante, dolorose, questioni lasciate aperte da un passato di conflitti e soprusi che proietta la sua lunga ombra sulla nostra società. Proposte radicali di totale ‘epurazione’ dei nostri patrimoni culturali nazionali dai loro ‘scomodi’ retaggi non sono allora, in definitiva, che speculari manifestazioni di quell’ansia di ‘purezza’ che ha alimentato passate politiche coloniali e razziste[152], strategie di nascondimento e razionalizzazione destinate ad alimentare il ciclo del dominio e della violenza che l’inevitabile ‘ritorno del rimosso’ non può che riproporre ancora e ancora, seppur talora a parti invertite[153].

La polarizzazione politica e mediatica[154] del dibattito statunitense (di per sé positivo e doveroso)[155] sui monumenti dedicati agli ‘eroi di guerra’ sudisti, con gli episodi di violenza a cui ha talora condotto[156], è un buon esempio della sterilità di un tale approccio, buono solo a gettare benzina sul fuoco di conflitti mai affrontati alle loro radici storiche, sociali, politiche, economiche e culturali, e ad alimentare ciclici scoppi di violenza interrazziale.

Ma anche il tema delle restituzioni conosce analoghe esasperazioni di posizioni in ultima istanza sterili e ‘ideologiche’. Tanto appare vuoto e autoreferenziale un certo tipo di approccio ‘universalista’[157], che difende le idee di ‘oggetto culturale globale’, di ‘museo universale’ e di ‘libera circolazione’ dei beni culturali, in funzione di strumentale giustificazione del mantenimento, senza alcuna rivalutazione critica, dello status quo, quanto risultano limitate e, in ultima istanza, miopi talune proposte di ‘restituzione integrale’. Approcci di questo tipo, infatti, perdono di vista che un vero processo di ‘decolonizzazione’ culturale – di liberazione della cultura da forme variamente mascherate di ‘eurocentrismo’ – «non [è] una questione di sostituire un centro focale» di visione culturale del mondo «con un altro», e che «i problemi nasc[ono] solo quando le persone [cercano] di strumentalizzare la prospettiva di un qualsiasi centro e generalizzarla come se fosse ‘la’ realtà universale»[158]. Si finisce così talora per collegare al mero atto materiale della ricollocazione spaziale un significato ideologico che oscura e recide ogni possibile considerazione per legami inter-culturali e inter-temporali non solo creatisi nel corso delle vicende attraversate dagli oggetti ‘reclamati’, ma talora addirittura fondativi, essenziali nel loro stesso processo creativo, come è ad esempio il caso degli avori realizzati da artigiani sapi su committenza portoghese nel corso del XV e XVI sec., i quali uniscono geneticamente elementi stilistici africani ed europei[159], e che ciò malgrado, secondo talune prese di posizione[160], dovrebbero essere integralmente reclamati dalla, e ‘restituiti’ alla, Sierra Leone, per rimediare alla corrente totale (e come tale certamente ‘ingiusta’, da un punto di vista culturale) dispersione fuori dal continente africano[161], nonché all’(effettiva) «ingiustizia epistemica»[162] legata al misconoscimento in occidente, per lunghi secoli, del valore autenticamente artistico e creativo del lavoro degli intagliatori africani che realizzarono queste opere.

A questi esempi di polarizzazione ‘ideologica’, ‘oppositiva’, ‘divisiva’, vorremmo invece contrapporre conclusivamente alcuni esempi di un approccio diverso – dialogico, problematizzante, solidale, ‘con-divisivo’ – che, ci pare, mette al centro la consapevolezza dell’importanza primaria della relazione, e dunque anche del contesto (e della sua eventuale necessità di ricostruzione) come rete di relazioni tra l’oggetto culturale e quell’umanità di cui esso costituisce al tempo stesso espressione e stimolo.

Il primo, e forse più noto, è il lungo percorso di ‘reinvenzione’ – più che semplice ristrutturazione – del Museo dell’Africa di Bruxelles, nato nel 1898 come Museo Reale dell’Africa Centrale per fornire una ‘vetrina’ in cui ‘esibire’ le ricchezze dello Stato Libero del Congo, proprietà personale di re Leopoldo II[163]. Già da tempo divenuto un’importante istituzione di ricerca internazionale al centro di progetti di collaborazione con storici, antropologi e scienziati di una ventina di paesi africani, il museo è stato recentemente riaperto[164] dopo un lungo processo di ripensamento della sua filosofia di fondo[165], che ha comportato una completa riorganizzazione dell’esposizione permanente attorno a una narrazione, icastica e pregnante anche sul piano artistico, delle violenze, fisiche ma anche culturali, del colonialismo belga in Africa. A questa componente di recupero della memoria[166] si accompagna un’analisi delle razionalizzazioni caratteristiche della mentalità coloniale eurocentrica e una parallela attenzione a stabilire connessioni con la realtà culturale dell’Africa contemporanea. Malgrado il percorso sia tutt’altro che perfetto e compiuto – emblematico il fatto che l’istituzione manchi ancora proprio di una chiara policy in materia di restituzioni, pur avendo costituito un gruppo di lavoro dedicato[167] – esso certamente si indirizza lungo quel cammino di decolonizzazione e ‘risocializzazione’[168] dei beni, volto[169] a spezzare l’egemonia culturale occidentale nella presentazione dei diversi oggetti e a ricostruire questa tipologia di musei come narrazioni del problematico rapporto con l’‘altro’ e, al tempo stesso, come centri di ricerca sulla provenienza di ciascun oggetto posseduto, in vista vuoi di una sua restituzione, vuoi di una ricontestualizzazione che ‘renda giustizia’ alle sue origini e alla sua storia.

Ma un’esperienza ancora più significativa – più ‘esemplarmente giusta’ e ‘giustamente esemplare’[170] – è quella che ha interessato recentemente il Museo di Brooklin in relazione alle ricerche compiute in merito alla provenienza di un costume yoruba (noto come egúngún) donato al museo nel 1998[171]. In vista di una mostra monografica[172], la neo curatrice della sezione di arte africana, Kristen Windmuller-Luna, ha deciso di intraprendere una lunga, complessa e meticolosa opera di ‘scavo’ alle radici di questo singolo oggetto, del suo significato spirituale per gli Yoruba e della sua storia individuale, fino a rintracciare due anziani della famiglia Lekewọgbẹ, dal cui tempio domestico il manufatto, si è così scoperto, era stato rubato nel 1948. Confrontandosi dunque con i familiari dell’oggetto (considerato in quella cultura portatore di una sua essenza immortale analoga a quella di ogni essere umano), la decisione circa l’eventuale restituzione è stata presa nel dialogo con la comunità di appartenenza: attraverso una cerimonia di divinazione guidata da uno sciamano (babaláwo), con la partecipazione dell’intera famiglia e della stessa curatrice, si è stabilito di consentire al museo di conservare la maschera quale parte delle sue collezioni e di esibirla al pubblico, unitamente a una riproduzione fotografica del nuovo egúngún, ‘figlio’ del precedente e suo successore nell’essenza spirituale. La mostra ha inoltre incorporato una serie di interviste videoregistrate con anziani della comunità yoruba ed esperti di arte e artigianato tessile nigeriani, presentando ogni oggetto attraverso didascalie esplicative in lingua inglese e yoruba, per far risaltare la ‘voce’ e il senso di ciascuno.

Un’impostazione esemplare di un modello inclusivo, che pone al centro il dialogo – tanto col passato quanto con l’‘altro’ – e il coinvolgimento della comunità, non solo di origine, ma anche locale (attraverso la collaborazione, tra l’altro, con il leader della comunità yoruba di Brooklin), e di un paziente, «perseverante» lavoro di ricerca di quelle minuscole «briciole di pane» in grado di aprire sempre nuovi percorsi di memoria e dialogo[173].

Esempi come quelli appena illustrati sottendono, ci sembra, un fondamentale impegno di solidarietà, sia interculturale, sia intergenerazionale, sia più strettamente internazionale. Un profilo, quello della cooperazione e solidarietà tra Stati agli estremi opposti del movimento dei beni culturali, da sempre tanto essenziale (anche) al contenimento del traffico illecito di beni culturali contemporaneo, quanto problematico, per la netta contrapposizione di interessi che tradizionalmente divide source countries e market states[174]. Eppure, anche su questo fronte si registrano negli ultimi anni alcuni passi avanti particolarmente significativi.

Tra questi, merita di essere ricordata la riforma organica, nel 2016, della legislazione tedesca sui beni culturali (Kulturgutschutzgesetz), che, nel rafforzare la protezione del patrimonio culturale nazionale (tra l’altro) attraverso l’introduzione di un sistema di licenze di esportazione fuori dai confini nazionali, ha però contestualmente previsto un sistema di controlli anche per l’importazione di beni culturali da paesi terzi[175], volendo così dare attuazione a quell’interpretazione solidaristica dell’art. 3 della Convenzione UNESCO del 1970[176] da così lungo tempo invocata dai paesi vittima di sistematiche depredazioni dei loro patrimoni culturali[177].

Un approccio alla cui diffusione a livello europeo dovrebbe ora dare impulso il nuovo Regolamento UE 2019/880 sull’importazione di beni culturali nell’Unione Europea[178] che, pur motivato da preoccupazioni più ‘securitarie’ che solidaristiche (il timore che il traffico di beni culturali sia utilizzato in funzione del finanziamento del terrorismo e del crimine organizzato)[179], è certamente all’origine, insieme con la recente firma della Convenzione di Nicosia sui reati contro il patrimonio culturale[180], del ‘tardivo risveglio’ manifestatosi in Italia col recente disegno di legge in materia di riforma dei reati contro il patrimonio culturale[181], in cui una nuova fattispecie di ‘importazione illecita’ dovrebbe affiancare il più tradizionale reato di esportazione illecita[182]. Va notato come proprio il nostro paese, nonostante la lunga e dolorosa esperienza di ‘vittimizzazione’ a opera dei trafficanti internazionali, si sia sempre regolato, in materia di normazione[183] dell’ingresso di beni culturali, alla stregua dei più liberali tra gli Stati importatori[184], secondo un modello ‘doppiopesista’ per altro replicato anche rispetto a questioni di restituzione postcoloniale[185] e/o postbellica[186]. Una forma di ‘cecità selettiva’ che può trovare il suo antidoto solo in un impegno prima di tutto culturale a fare costante esercizio di memoria e responsabilità in ogni aspetto della ‘gestione’ dei beni culturali, nostri e altrui.

È solo un lento, complesso e paziente lavoro di ricerca delle antiche relazioni violentemente tagliate, di riparazione dei legami infranti – non solo tra l’oggetto e il suo contesto originario, ma tra perpetratori e vittime di tale violenta rescissione – e di tessitura di nuove e fruttuose relazioni di scambio culturale che, ci sembra, può dare veramente senso a un impegno di conservazione e trasmissione del patrimonio culturale di respiro autenticamente universale.

Solo applicando anche alle contese sui beni culturali un modello riparativo di giustizia[187] si può sperare di raggiungere, insieme e oltre a una ‘soluzione’ condivisa della singola, specifica questione di restituzione, una forma di riconciliazione tra popoli e culture oggi ancora amaramente divisi da una storia di conflitti e sopraffazioni[188] che hanno lasciato cicatrici molto più profonde di quelle pur visibili sulla ‘superficie’ di monumenti, paesaggi, manufatti. Solo a queste condizioni la ‘guarigione’ di vittime e perpetratori di un passato coloniale che, volenti o nolenti, ci unisce tutti con un laccio che non potrà mai essere tagliato (ma solo trasformato, con impegno e fatica, in autentico legame relazionale) potrà essere raggiunta, anche attraverso l’impegno condiviso a prendersi cura[189] di un patrimonio culturale che sia veramente vissuto come ‘bene comune’ dell’umanità tutta.

Certamente non si tratta di un percorso né semplice, né breve, in bilico com’è sul crinale affilato della tentazione, sempre presente in ogni viaggio e per ogni viaggiatore, di affermare il proprio dominio su luoghi e popoli ‘attraversati’ e mai autenticamente ‘inco

Visconti Arianna



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