Gli altari nella vigente legislazione canonica
Paweł Malecha
Promotore di Giustizia Sostituto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica
Gli altari nella vigente legislazione canonica*
The altars in the current ecclesiastical legislation
Sommario: 1. Premessa. 2. Etimologia della parola latina altare,-is. 3. Brevi cenni storici. 3.1 L’altare nel paganesimo e nell’ebraismo. 3.2 L’altare nel cristianesimo. 4. Il rapporto fra il Codice di Diritto Canonico e il diritto liturgico. 5. L’altare nel diritto della Chiesa. 5.1 La collocazione dei canoni sugli altari nel Codice. 5.2. La nozione. 5.3 La tipologia degli altari. 5.4 La dedicazione o la benedizione. 5.5 Le reliquie. 5.6 La perdita della dedicazione o della benedizione. 5.7 La profanazione. 5.8 L’altare come luogo non esclusivo, sul quale può essere celebrata l’Eucaristia. 5.9 La condivisione dell’altare. 5.10 L’altare privilegiato. 5.11 Alcune questioni circa l’addobbo dell’altare. 6. Conclusioni.
- Premessa.
I luoghi privilegiati all’interno degli edifici sacri sono: l’altare, il tabernacolo, la custodia del sacro crisma e degli altri oli sacri, la sede del Vescovo (cattedra) o del presbitero, l’ambone, il fonte battesimale e il confessionale[1].
Oggetto di questo studio sarà soltanto la disciplina giuridica dell’altare. Tale questione è di notevole rilievo e attualità, perché molti edifici sacri vengono oggi chiusi di fatto, demoliti, venduti, trasformati almeno parzialmente in una sala parrocchiale o in un cimitero, destinati a uso sordido e così via[2]. Gli altari, però, non perdono la dedicazione o la benedizione per il fatto che la chiesa o altro luogo sacro siano ridotti a usi profani (cf. can. 1238, § 2); pertanto, essi possono essere e di fatto spesso sono facilmente profanati. Quest’ultimo evento, tuttavia, avviene anche per altri motivi. La Chiesa odierna, quindi, deve impegnarsi, con la dovuta attenzione, a promuovere la dignità degli altari e a tutelare la loro sacralità, perché l’altare non rappresenta un semplice arredo o un coronamento dell’edificio sacro, ma il fattore conformante e qualificante l’identità della costruzione[3]. Infatti, l’altare «è la croce del Signore dalla quale scaturiscono i sacramenti del mistero pasquale. Sull’altare, che è il centro della chiesa, viene reso presente il sacrificio della croce sotto i segni sacramentali. Esso è anche la mensa del Signore, alla quale è invitato il popolo di Dio. In alcune liturgie orientali, l’altare è anche il simbolo della tomba (Cristo è veramente morto e veramente risorto)»[4].
Lo scopo di questo contributo è presentare in modo analitico-sintetico la vigente normativa canonica e alcune problematiche recenti in merito alla questione in oggetto, ciò – viste pochissime pubblicazioni al riguardo – sembra essere molto utile non soltanto per i cultori di diritto canonico o per i liturgisti, ma anche per i chierici e i fedeli laici.
Nel presente studio, quindi, dopo aver presentato l’etimologia della parola latina altare, i brevi cenni storici sull’altare e la relazione che intercorre fra il diritto canonico e quello liturgico, sarà illustrata la normativa canonica, non escluso a volte il riferimento alla codificazione del 1917, in modo che si possano affrontare le sfide cui la Chiesa si trova di fronte. Con questo intento si cercherà di mettere in evidenza soprattutto gli aspetti pratici, tralasciando il più profondo esame speculativo.
- Etimologia della parola latina altare,-is.
La parola italiana altare proviene dalla parola latina altare,-is e deve essere interpretata alla luce del verbo latino adolere (in tedesco verbrennen)[5] che in italiano significa far bruciare, bruciare (le vittime, le cose offerte come sacrificio), far fumare (l’altare, cioè onorare col fuoco dei sacrifici)[6]. In questo contesto il sostantivo latino altare significa Brandopferherd, cioè il fornello destinato agli olocausti. Pertanto, il termine altare si riferisce con la massima probabilità al culto pagano romano dell’olocausto, come analogamente avviene con la parola latina ara,-ae (= rogo, pira, monumento di pietra, altare per i sacrifici)[7], che deve essere considerata insieme con il verbo latino arere (= in tedesco brennen[8], invece in italiano consumarsi, bruciare, ardere[9]). Soltanto nella grammatica latina posteriore viene collegata la voce altare,-is all’aggettivo altus[10] (= in tedesco hoch abgeleitet[11], in italiano alto, grande, ripa[12]).
Occorre notare che nel latino preclassico e classico si adoperava la parola in esame unicamente al plurale, cioè altaria,-ium (neutro), e solo più tardi, cioè a partire dal primo secolo d.C., il termine inizia ad apparire anche al singolare; tale forma viene preferita dal latino cristiano[13]. La voce italiana altare esiste in latino sotto tre forme al singolare: altare,-is, altar,-is, e altarium,-ii (= parte superiore dell’altare, focolare per ardervi le vittime, altare destinato agli olocausti). Va, infine, osservato che il Codice di Diritto Canonico del 1983 si serve esclusivamente del termine altare,-is[14].
3. Brevi cenni storici
3.1 L’altare nel paganesimo e nell’ebraismo
Nelle religioni pagane del Mediterraneo (ma anche al di là del bacino mediterraneo) si praticavano riti di purificazione o di offerta; i fedeli offrivano al proprio dio doni o sacrificavano animali. Siccome tali pratiche necessitavano di una specie di tavola, fu introdotto l’uso dell’altare. Lo si fece «sia per comodità di esecuzione, sia per il naturale concetto della tavola ove si brucia l’olocausto, sia per un senso di riverenza e di solennità che vietava di posare l’offerta semplicemente in terra»[15].
Nell’Antico Testamento l’altare era un rialto, poi divenne una piattaforma, che più tardi assunse il concetto di mensa (cf. Ml 1, 7 e 12, nonché Ez 41, 22). Il primo altare menzionato nella Bibbia è quello di Noè[16]. Va notato che in origine l’altare non era il luogo su cui si offrivano sacrifici, ma piuttosto il monumento-segno che ricordava una teofania[17]. Difatti, nell’epoca biblica più antica si costruivano altari nei posti dove era apparso Dio[18]; l’altare era quindi un memoriale del favore divino. Tuttavia, esso era pure il luogo delle libagioni, dei sacrifici e delle offerte di profumi.
La forma primitiva degli altari – come sembra – era costituita da un blocco roccioso o da un ammasso di pietre non squadrate; in seguito la Legge mosaica sancì l’uso di adoperare pietre grezze, vietando di apporvi gradini[19]; fuori dal centro del culto, si adoperava un masso erratico[20]. L’Antico Testamento, oltre agli altari di pietre e di terra[21], menziona anche gli altari di legno: «Farai un altare per far fumare l’incenso: lo farai in legno d’acacia»[22]. Va evidenziato che la stessa Arca dell’Alleanza era una cassa di legno d’acacia con un coperchio d’oro e con stanghe di legno, ricoperte d’oro[23]. Infine, occorre osservare che nel tempio di Gerusalemme vi erano vari altari (l’altare degli olocausti, l’altare dei profumi o dell’incenso e la tavola dei pani dell’offerta, l’altare di pietra sul quale era appoggiata l’arca dell’Alleanza).
3. 2 L’altare nel cristianesimo
Il cristianesimo ereditò l’uso dell’altare dall’ebraismo e in parte dal paganesimo. L’altare cristiano rappresenta, quindi, il successore e, nello stesso tempo, la sintesi di questi differenti altari, soprattutto di quelli del tempio di Gerusalemme. Infatti, l’altare cristiano, come osserva J. Hani[24], è l’altare degli olocausti, dove è immolato l’Agnello di Dio e, in pari tempo, la tavola dei pani dell’offerta, ossia del Pane eucaristico. Esso è anche l’altare dei profumi, su cui si brucia l’incenso[25]. Infine, dal momento che ogni altare maggiore in epoca preconciliare sosteneva il tabernacolo, è chiaro che l’altare ricoprisse il ruolo di pietra che sosteneva l’Arca dell’Alleanza. Ma quest’ultimo ruolo in epoca postconciliare non è più così evidente come in precedenza. Va notato che le piccole tende, che si trovavano davanti al tabernacolo e che in certi luoghi ancora oggi si trovano, ricordano la tenda del deserto e il velo che nascondeva il Santo dei Santi (Sanctum Sanctorum)[26].
I cristiani, sin dal principio, usavano delle tavole (mensa) per rinnovare la memoria dell’ultima cena e, nello stesso tempo, anche quella del sacrificio della Croce. Pertanto, le stesse tavole venivano anche chiamate altari. Tuttavia, oltre all’altare a mensa, il cui tipo era prevalente, si conosceva anche l’altare a blocco continuo, evidente imitazione della forma di quelli pagani. Il corpo dell’altare risultava di un solo blocco di marmo o di muratura. I primi altari erano nella maggior parte di legno[27], di piccole dimensioni, giacché servivano solo per l’oblazione, innanzitutto quando erano mobili. Questi ultimi, a causa delle persecuzioni, nei primi tempi del cristianesimo, si usavano spesso per poter – se del caso – raccogliere rapidamente tutto e fuggire. I menzionati altari di legno erano a volte molto ricchi, rivestiti di bronzo, d’argento o perfino d’oro, di forma – specialmente in Oriente – a ferro di cavallo o a sigma o semicircolari. Agli inizi in ogni chiesa poteva essere presente un solo altare, mentre un loro crescente numero si può rilevare soltanto all’inizio del sec. V[28].
Sin dalla fine del sec. II d. C. comincia il culto liturgico dei martiri, che venivano onorati soprattutto con l’Eucaristia. Considerata l’assimilazione, usuale fra i cristiani, della persona del martire con quella di Gesù Cristo, si cercava di collocare l’altare il più vicino possibile alla tomba del martire, anzi non di rado si celebrava la Santa Messa direttamente su di essa. Di conseguenza, nel corso del sec. IV, si sviluppa la costruzione di numerose basiliche cimiteriali ad corpus, cioè in onore di un martire, il cui corpo veniva posto sotto l’altare, a tutela di esso. Quest’idea era così forte, che già nel sec. VI non si immaginava la dedicazione di un altare senza le reliquie di un martire[29].
Nel corso dei secoli seguenti, l’altare ha subito numerose trasformazioni dovute ai gusti artistico-culturali dell’epoca; esso è passato dalla vistosità del tardo Medioevo alla sobrietà del Rinascimento, dall’incastonamento in una complessa struttura architettonica nel Seicento e nel Settecento, al tradizionalismo dell’Ottocento. Si tratta sovente di veri e propri capolavori dal punto di vista storico e artistico. Non vi è dubbio che gli altari sono stati non soltanto nel passato, ma anche nel nostro tempo – nonostante varie difficoltà causate dalla secolarizzazione della società odierna – fonte della ricchissima ispirazione artistica e monumentale. A tal proposito è tuttavia doveroso osservare, come si vedrà meglio più avanti, che nel diritto canonico per altare si intende soltanto la mensa o la tavola, viene escluso quindi tutto il rivestimento artistico, in altri termini viene lasciata fuori la pala dell’altare.
4. Il rapporto fra il Codice di Diritto Canonico e il diritto liturgico
L’attuale Codice di Diritto Canonico si limita a indicare la realtà dell’altare in modo generico e lascia il compito di pronunciarsi in merito al diritto liturgico. Pertanto, sorge una domanda sulla relazione che intercorre fra il diritto canonico e quello liturgico, nonché sulla forza vincolante o meno delle norme liturgiche, collocate al di fuori del Codice.
A tale proposito va messo in evidenza che il Codice di Diritto Canonico è la più importante fonte normativa che regola la vita della Chiesa, ma certamente non è l’unica. Fra le norme che non sono collocate nel Codice vi sono quelle di carattere liturgico, che trovano la loro collocazione non solo nei libri liturgici, ma anche in altri documenti, emanati dalle competenti autorità ecclesiastiche[30]. Questo insieme delle legittime norme o disposizioni, relative all’ordinamento della liturgia, costituisce il diritto liturgico[31]. Va rilevato, come osserva De Paolis, «che l’espressione “diritto liturgico” non indica un diritto diverso, per il suo valore normativo, da quello contenuto nel Codice: si dice “liturgico” solo per il suo contenuto»[32]. Il diritto liturgico fa, quindi, parte del diritto canonico e «tiene conto della natura della stessa liturgia, nella sua fondamentale accezione di esercizio del sacerdozio di Cristo nella Chiesa, mediante la posizione di determinati segni, al duplice scopo di rendere a Dio il culto che gli è dovuto e di santificare gli uomini»[33].
Infatti, la liturgia, come è noto, si esprime in azioni liturgiche, che si svolgono in una serie di atti, che si chiamano riti. Essi, però, non possono essere posti liberamente, cioè secondo il parere di ognuno. Le azioni liturgiche – come recita il can. 837, § 1, riproducendo fedelmente il n. 26 della Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium – non sono azioni private, ma azioni di tutta la Chiesa e, per questo motivo, i riti vengono regolati dagli appositi libri liturgici o dalle altre fonti che stabiliscono come essi devono essere posti[34]. A questo punto, dobbiamo rilevare che l’insieme delle norme, che riguardano i riti delle azioni liturgiche, costituiscono il diritto liturgico in senso stretto. Il Codice di Diritto Canonico, generalmente, non s’interessa di tale diritto. Ma oltre a questo diritto liturgico, esiste anche il diritto liturgico in senso lato, che ha come oggetto ciò che attiene alla liturgia, cioè le norme disciplinari circa la liturgia. A. Cuva scrive così in merito alla questione in tema: «Sono liturgiche in senso stretto le norme che si riferiscono direttamente all’aspetto propriamente sacramentale-misterico dei riti (norme piuttosto rituali che disciplinari). Sono, invece, liturgiche in senso lato le norme che non si riferiscono direttamente a tale aspetto dei riti, ma si limitano a indicare piuttosto i loro elementi istituzionali, quali sono, ad esempio, quelli che determinano i requisiti che devono verificarsi nelle persone, negli oggetti, nei luoghi interessati alla liturgia (norme piuttosto disciplinari che rituali)»[35].
Alla luce di quanto detto, si passa ora ad esaminare il prescritto del can. 2, che stabilisce: «Il Codice il più delle volte non definisce i riti, che sono da osservarsi nel celebrare le azioni liturgiche; di conseguenza le leggi liturgiche finora vigenti mantengono il loro vigore, a meno che qualcuna di esse non sia contraria ai canoni del Codice»[36].
Il canone, nella sua prima parte, indica chiaramente i limiti che il Legislatore si è posto circa la legislazione liturgica. Infatti, il canone dichiara che il Codice spesso non definisce i riti, ciò tuttavia non significa che non possono esservi casi in cui lo fa. Nella seconda parte, il canone presenta, invece, le questioni riguardanti la superiorità del Codice sulle norme liturgiche, la permanenza delle leggi liturgiche e la sorte delle norme contrarie. Il discorso è lineare, ma esige qualche approfondimento. Il Codice si pone, infatti, come norma prevalente, in conformità alla quale deve essere ordinata la disciplina liturgica. Le norme liturgiche finora in vigore, ma solo quelle che non sono contrarie al Codice, conservano, dopo la promulgazione dello stesso Codice, il proprio valore e continuano a godere della propria autonomia rispetto al Codice. Così viene in modo positivo dichiarata la forza vincolante, ossia l’obbligo di osservare le norme liturgiche. D’altra parte, il canone dichiara che le norme liturgiche, contrarie alle nuove disposizioni del Codice, devono essere ritenute senza valore.
Non vi è dubbio che la legislazione liturgica contenuta nel Codice non ha la pretesa della novità; ciò, però, non impedisce – almeno in linea di principio – che possano essere introdotte nuove leggi o che ne possano essere abrogate altre. Essa non ha nemmeno la pretesa della completezza: per conoscere la legislazione liturgica, infatti, è necessario riferirsi a più fonti normative (libri liturgici, istruzioni, decreti, ecc.), interpretandole e armonizzandole conformemente ai principi generali della legislazione canonica e liturgica[37]. Inoltre, non è sempre facile differenziare le norme liturgiche in senso lato da quelle in senso stretto. Al riguardo la teoria è chiara, ma la sua applicazione pratica è spesso difficile; ciò sorge dal fatto che a volte è impossibile stabilire un confine netto fra norme che ordinano il culto e norme disciplinari. Tuttavia, il rinvio delle norme liturgiche ai libri liturgici o ad altre fonti non significa che esse non abbiano carattere di legge. Va inoltre osservato che la distinzione tra i due tipi di norme liturgiche (in senso stretto e in senso lato) non ha rilevanza pratica: si tratta sempre della legge della Chiesa, che ha uguale valore vincolante[38]. Pertanto, non solo i canoni del Codice di Diritto Canonico, ma anche le indicazioni disciplinari e celebrative, contenute in altre fonti normative al di fuori del Codice, sono da considerarsi parte integrante e vincolante della legge canonica. Tuttavia, va detto in conclusione che non tutte le norme liturgiche, tenuto conto del loro contenuto, hanno lo stesso peso e la stessa importanza[39].
5. L’altare nel diritto della Chiesa
5.1 La collocazione dei canoni sugli altari nel Codice
I canoni sugli altari (cann. 1235-1239)[40] sono inseriti nell’attuale Codice di Diritto Canonico nel Libro IV (La funzione di santificare della Chiesa) e costituiscono il Capitolo IV (Gli altari) del Titolo I (I luoghi sacri) della Parte III (I luoghi e i tempi sacri).
Tale posizione dei canoni nella sistematica codiciale suscita, però, alcune perplessità, perché da un lato si riferisce all’elemento spaziale e quindi favorisce la componente materiale dell’altare (ogni cosa occupa un luogo), dall’altro lato invece tralascia l’aspetto immateriale del culto, ossia non sottolinea il ruolo celebrativo dell’altare[41]. Al riguardo M. del Pozzo annota: «La nozione teologica di luogo è sicuramente rispondente, lo è meno quella giuridica che resta circoscritta alla delimitazione spaziale»[42]. E forse per questa confusione teologico-giuridica è stato omesso nella codificazione orientale il corrispondente capitolo sugli altari. Infatti, nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali non si trova una loro specifica collocazione; questo Codice tratta solamente dei luoghi sacri in genere (can. 868), nonché delle chiese (cann. 869-873) e dei cimiteri (can. 874) in particolare.
È interessante altresì osservare che nella fase preparatoria del nuovo Codice latino non fosse previsto all’inizio l’inserimento di una specifica regolamentazione sugli altari[43]. In definitiva prevalse comunque nel Coetus Consultorum l’idea sulla categoria sistematica, che corrisponde sostanzialmente a quella adoperata nel Codice precedente. L’inquadramento adottato dal Codicedel 1917 e dai lavori del menzionato Coetus, molto lineare nella sua impostazione, risultava ai Consultori disciplinarmente più vicino e uniforme alla categoria concettuale sostenitrice della dimensione spaziale degli altari. Questa quasi unanime considerazione degli altari quali luoghi sacri[44] rispondeva maggiormente al tentativo di rapportare la logica della mensa eucaristica, di cui al can. 1235, all’ordine giuridicamente stabilito, piuttosto che a un’effettiva ricerca della natura rei sacrae (cf. can. 1171), ossia della natura stessa dell’altare[45].
Stando così le cose, è ovvio che i canoni sugli altari debbano essere interpretati alla luce delle norme generali sui luoghi sacri (cann. 1205-1213).
5.2 La nozione
A norma del can. 1235, § 1, del nuovo Codice, si chiama altare «la mensa sulla quale si celebra il sacrificio eucaristico», ciò significa che l’altare è, quindi, non soltanto la mensa conviviale, ma anche l’ara del sacrificio. Tale interpretazione del canone risulta chiaramente dalla discussione sulla formulazione del suo testo, tenuta durante i lavori preparatori. Infatti, a uno dei Consultori non piacque la nozione di altare, quale mensa sulla quale si celebra l’Eucaristia (altare, seu mensa super quam Eucaristia celebratur…). Pertanto, egli suggerì di emendarla, in modo che apparisse palesemente che l’altare è la mensa sulla quale si celebra il sacrificio eucaristico (altare, seu mensa super quam sacrificium eucharisticum celebratur…). Il suggerimento ottenne consensi presso gli altri Consultori e venne da loro approvato[46].
A. Giacobbi e A. Montan asseriscono che attualmente «[i]n senso canonico e liturgico, ciò che costituisce propriamente l’altare è la tavola o mensa; il resto è accessorio e non ha perciò rilevanza la forma di ciò che sorregge la mensa, si tratti di una base o di stipiti o colonne»[47]. A mio parere tale opinione non appare del tutto corretta. Infatti, è molto difficile immaginare che l’altare sia soltanto la mensa. Basti pensare agli altari fissi che aderiscono al pavimento e non possono essere rimossi, agli altari di una pietra intera o agli altari nei quali c’è la cassa delle reliquie. Va ricordato che nel vecchio Codice si chiamava liturgicamente altare immobile o fisso la mensa superiore consacrata unita agli stipiti (cf. can. 1197) ed esso separato dallo stipite perdeva la consacrazione (cf. can. 1200, § 1). La mensa, quindi, al fine di essere altare, doveva essere unita con gli stipiti, cioè la mensa e gli stipiti erano inseparabili e costituivano una sola cosa. E quest’esegesi, sempre a mio avviso, è applicabile anche oggi per molti altari fissi. L’idea, invece, proposta dai sopra menzionati autori forse potrebbe essere applicata per gli altari mobili e soltanto per alcuni fissi. Infine, considerato che il nuovo Codice, a differenza di quello precedente, non esige più che negli altari immobili e nella pietra sacra vi sia sempre il sepolcro con delle reliquie di santi chiuso in pietra, è ovvio che il sepulcrum, ossia la cassa delle reliquie, non costituisca più la parte essenziale degli altari. Restano però le altre parti essenziali, delle quali trattava il Codice pio-benedettino, cioè la mensa sulla quale si celebra il sacrificio eucaristico e, più volte, lo stipes, cioè lastruttura di sostegno[48].
La normativa odierna valorizza ampiamente altresì le direttive contenute nei libri liturgici, in particolare nell’Institutio generalis Missalis Romani (= IGMR)[49] e nell’ODEA. Secondo quest’ultimo documento l’altare è, per sua stessa natura, 1) mensa del convito pasquale, attorno alla quale si riuniscono i figli della Chiesa, per rendere grazie a Dio e ricevere il Corpo e il Sangue di Cristo e 2) ara del sacrificio sulla quale viene perpetuato misteriosamente nei secoli il sacrificio della croce. Perciò, l’altare è, in tutte le chiese, 3) il centro dell’azione di grazie, che si effettua tramite l’Eucaristia e per questo motivo l’altare 4) è Cristo, perché ad esso si celebra il memoriale del Signore[50]. Tale nozione di altare, in sintesi, viene riportata anche all’art. 296 dell’attuale IGMR del 20 aprile 2000: «L’altare, sul quale si rende presente nei segni sacramentali il sacrificio della croce, è anche la mensa del Signore, alla quale il popolo di Dio è chiamato a partecipare quando è convocato per la messa; l’altare è il centro dell’azione di grazie che si compie con l’[E]ucaristia»[51].
5.3 La tipologia degli altari
L’altare, come si è già accennato sopra, è di due specie: fisso e mobile.
Il vecchio Codice, ai sensi dei cann. 1197-1198, stabiliva che liturgicamente si chiamasse altare immobile o fisso la mensa superiore consacrata unita agli stipiti, invece mobile o portatile la piccola pietra consacrata che si diceva ara portatile o pietra sacra, che poteva essere trasportata da luogo a luogo. Nella chiesa consacrata un altare almeno doveva essere immobile, specie il maggiore, mentre nella benedetta tutti gli altari potevano essere mobili. La mensa dell’altare immobile e la pietra sacra erano di un’unica pietra naturale, integra e non friabile. Essa doveva coprire tutto l’altare aderendo allo stipite; questo o almeno le colonnette di sostegno dovevano essere di pietra. La pietra sacra doveva quantomeno contenere comodamente l’ostia e la maggior parte del calice. Infine, negli altari immobili e nella pietra sacra vi era sempre il sepolcro, chiuso in pietra, con delle reliquie di santi[52].
Il nuovo Codice ha conservato la distinzione fra altare fisso e mobile, ma ne ha mutato il concetto rispetto al precedente. Infatti, attualmente, stando al disposto dei cann. 1235, § 1, e 1236, § 1, si dice altare fisso se è costruito in modo che sia unito al pavimento e che perciò non possa essere rimosso. La mensa di questo altare, tuttavia, non deve essere più necessariamente di pietra e per di più di una pietra naturale intera, bensì, almeno per la parte della mensa, ciò è raccomandato. A giudizio della Conferenza Episcopale, si può usare anche un’altra materia, purché decorosa e solida. Gli stipiti o base, invece, possono essere fatti di qualsiasi materia. L’altare mobile, dal canto suo, è quello che può essere trasportato; esso, a norma del can. 1236, § 2, può essere costruito con qualsiasi materiale solido, purché sia sempre conveniente all’uso liturgico, secondo lo stile e gli usi locali delle diverse regioni[53].
È opportuno che in ogni chiesa vi sia un altare fisso, che significa in modo chiaro e permanente Cristo Gesù, pietra viva (1 Pt 2, 4 e Ef 2, 20). Negli altri luoghi destinati alle celebrazioni sacre, quali oratorio e cappella privata, l’altare può essere fisso o mobile (cf. can. 1235, § 2)[54].
Inoltre, si suggerisce che «nelle nuove chiese venga eretto un solo altare; l’unico altare, presso il quale si riunisce come un solo corpo l’assemblea dei fedeli, è segno dell’unico nostro [S]alvatore, Cristo Gesù, e dell’unica [E]ucaristia della [C]hiesa. Si potrà tuttavia erigere un secondo altare in una cappella possibilmente separata, in qualche modo, dalla navata della chiesa e destinata a ospitare il tabernacolo per la custodia del [S]s.mo [S]acramento; sull’altare di questa cappella si potrà anche celebrare la [M]essa nei giorni feriali per un gruppo ristretto di fedeli. Si dovrà comunque evitare assolutamente la costruzione di più altari al solo scopo di ornamento della chiesa»[55].
Infine, va rilevato che l’altare dovrebbe rimanere staccato dalla parete, e ciò per consentire al ministro sacro di potervi facilmente girare intorno e di celebrare col viso rivolto verso il popolo. Questo è auspicabile ovunque sia possibile[56].
5.4 La dedicazione o la benedizione
Il can. 1237, § 1, prescrive che gli altari fissi debbano essere dedicati, mentre quelli mobili almeno benedetti, secondo i riti prescritti nei libri liturgici. La dedicazione o la benedizione[57] è necessaria perché si possa celebrare sull’altare il sacrificio eucaristico; al contrario, fuori del luogo sacro può essere usato un tavolo adatto, purché sempre ricoperto di una tovaglia e del corporale (cf. can. 932, § 2).
Per l’individuazione del ministro della dedicazione e della benedizione di un altare ci si deve invece riferire alla normativa generale, precisamente ai cann. 1206-1207. La dedicazione di un altare fisso è quindi di competenza del Vescovo diocesano e di quanti sono a lui equiparati dal diritto, anche se eccezionalmente può farla un sacerdote delegato (cf. can. 1206), mentre la benedizione è di competenza dell’Ordinario, che può anche delegare a ciò un altro sacerdote (cf. can. 1207)[58].
Il rito della Dedicazione della chiesa e dell’altare (ossia l’ODEA) sottolinea che, per sua natura, l’altare è dedicato a Dio soltanto (quindi non ai santi), perché a Dio solo viene offerto il sacrificio eucaristico[59]. Pertanto, il nuovo Codice non prevede più i titoli per gli altari; è stato quindi abolito il prescritto del can. 1201 del vecchio Codice, secondo il quale ogni altare, almeno immobile, dovesse avere, come la chiesa, un proprio titolo.
La consuetudine e la norma liturgica proibiscono che avvenga la dedicazione della chiesa senza quella dell’altare[60], ma ciò non vale nell’ipotesi contraria[61], anche se il nuovo Codice di Diritto Canonico nulla dice sul punto.
A volte, tuttavia, la dedicazione (o la benedizione) dell’altare e quella della chiesa possono avvenire indipendentemente l’una dall’altra, anzi, a mio modesto avviso, anche la dedicazione della chiesa può effettuarsi senza quella dell’altare[62]. Basti ad es. pensare alla chiesa costruita da tempo, nella quale vi sia qualcosa di nuovo o di notevolmente cambiato nella sua struttura architettonica (ad es. la chiesa è stata radicalmente rinnovata a causa del suo restauro) o nel suo stato giuridico (ad es. la chiesa sussidiaria è stata eretta in parrocchia o quella parrocchiale è stata elevata alla dignità di chiesa cattedrale). La chiesa de qua può essere di nuovo dedicata, ma senza la dedicazione dell’altare, perché quest’ultimo è già stato dedicato. Durante il rito della dedicazione della chiesa, l’altare dovrebbe comunque rimanere spoglio fino all’inizio della liturgia eucaristica[63]. Inoltre, in merito alla questione in tema, si può por mente alla chiesa benedetta, nella quale insieme con il rito della benedizione sia stato dedicato l’altare; è ovvio che nella successiva dedicazione di questa chiesa, l’altare non debba essere ridedicato[64]. Ancora, si possono incentrare le nostre attenzioni anche sul caso dell’altare trasferito da una chiesa ridotta a uso profano ad un’altra nuova chiesa. Tale altare, come si vedrà ancora più avanti, con la riduzione della chiesa stessa non ha perso la sua dedicazione. Pertanto, sarebbe poco logico dedicare la nuova chiesa insieme con l’altare già dedicato[65] oppure “sconsacrare” l’altare allo scopo di ridedicarlo insieme con la nuova chiesa[66]. Infine, a favore della dedicazione dell’altare senza quella della chiesa, basti pensare a quelle circostanze nelle quali soltanto la struttura di un altare sia radicalmente cambiata, e non invece quella dell’edificio stesso; in questo caso viene ridedicato soltanto l’altare[67]. Nei casi appena descritti il rito della dedicazione naturalmente dovrà essere adattato alle situazioni concrete.
Della compiuta dedicazione o benedizione dell’altare – come pare – dovrebbe essere redatto un documento. Comunque sia, la dedicazione è sufficientemente provata anche da un solo testimone al di sopra di ogni sospetto[68].
5.5 Le reliquie
Secondo il prescritto del can. 1237, § 2, del nuovo Codice, va rispettata l’antica tradizione di conservare sotto l’altare fisso le reliquie dei martiri o di altri santi[69], in conformità con le norme liturgiche che stabiliscono la forma delle reliquie, la loro autenticità e il luogo dove collocarle. In merito alla questione in tema, nell’ODEA vengono indicate le seguenti norme:
«a) Le reliquie siano di grandezza tale da lasciar intendere che si tratta di parti del corpo umano. Si deve quindi evitare la deposizione di reliquie troppo minuscole di uno o più santi.
b) Si usi la massima diligenza nel controllare l’autenticità delle reliquie. È meglio dedicare l’altare senza reliquie, che riporre sotto di esso reliquie di dubbia autenticità.
c) Il cofano delle reliquie non si deve sistemare sull’altare, né inserire nella mensa, ma riporre sotto di essa, tenuta presente la forma dell’altare»[70].
Inoltre, l’ODEA mette in evidenza che non sono «i corpi dei martiri che onorano l’altare, ma piuttosto è l’altare che dà prestigio al sepolcro dei martiri»[71]. Ed è così perché la dignità dell’altare proviene dal fatto che esso è la mensa del Signore[72]. Pertanto, è proibita l’esposizione delle reliquie dei santi alla venerazione dei fedeli sulla mensa dell’altare[73].
5.6 La perdita della dedicazione o della benedizione
Il can. 1238, § 1, sancisce che la perdita della dedicazione/benedizione dell’altare avviene nei casi previsti per i luoghi sacri in genere, di cui al can. 1212. Gli altari perdono, quindi, la dedicazione/benedizione se sono stati distrutti in gran parte oppure ridotti permanentemente a usi profani con decreto del competente Ordinario o anche solo di fatto.
Il prescritto del can. 1212, almeno nella sua prima parte, non è molto chiaro, nonostante una norma simile esistesse già nel Codice precedente (cf. can. 1200, § 2, n. 1). Infatti, l’espressione codiciale magna ex parte può essere interpretata in diversi modi, perché essa rientra nella valutazione soggettiva piuttosto che oggettiva. Di conseguenza, per alcuni, nelle stesse circostanze, ci si troverebbe di fronte alla distruzione in gran parte dell’altare, cosa che non è condivisa da altri, ossia a giudizio degli uni l’altare ha perso la dedicazione/benedizione, mentre ciò non avviene a giudizio di altri.
La seconda parte del can. 1212, a differenza della prima, è nuova. Ma anche essa non è di facile esegesi. Ai sensi di essa, la destinazione permanente a usi profani può avvenire con decreto del competente Ordinario, per una causa giusta[74], o di fatto. Con riguardo alla destinazione permanente a uso profano con decreto dell’Ordinario, essa non desta perplessità nell’interpretazione, al contrario di quanto possa derivare da quella di fatto. La norma, precisamente, non determina la legittimità o meno dell’atto, con il quale l’altare è stato destinato di fatto permanentemente a uso profano, cioè non si chiarisce se per tale destinazione fosse necessario o meno l’atto illegittimo, di cui al can. 1376[75]. In soccorso interviene il Coetus Consultorum, che durante i lavori preparatori ha sottolineato che l’espressione de facto non vuole dichiarare la legittimità o l’illegittimità dell’uso profano, ma solo l’effetto giuridico proveniente da tale uso, cioè che l’altare destinato di fatto permanentemente a uso profano perde la sua dedicazione/benedizione[76]. Comunque sia, a mio parere, è opportuno che l’Ordinario rilasci sempre al riguardo un decreto, al fine di garantire la certezza sullo stato giuridico dell’altare ridotto di fatto a uso profano e, così, di evitare un’eventuale continua profanazione.
Per illustrare meglio la fattispecie in cui si possa avere di fatto la destinazione permanentemente di un altare a uso profano, basti pensare all’atto giuridico con cui il Vescovo diocesano abbia ridotto una chiesa a uso profano non sordido (cf. can. 1222), senza però la riduzione a tale uso dell’altare. A norma del can. 1238, § 2, l’altare non ha perso la sua dedicazione/benedizione nel caso de quo. Tuttavia, dopo l’avvenuta alienazione dell’edificio della ex-chiesa, è molto difficile immaginare una situazione in cui l’altare debba rimanere destinato al culto divino. Infatti, esso viene molto frequentemente destinato di fatto in modo permanente a uso profano[77].
Quanto alla destinazione dell’altare a uso profano, vista la sua dignità e il significato teologico-giuridico, sono di parere che esso possa essere ridotto a uso profano, ma soltanto a quello non sordido, anche se il Codice tace sul punto. Perciò, a mio avviso, è consigliabile determinare tale uso, cioè quello non sordido, nel decreto dell’Ordinario, come avviene nel caso delle chiese.
Infine, per motivi pratici, è importante ribadire che, nel senso giuridico-liturgico, la pala e tutto il rivestimento artistico non fanno parte dell’altare. Pertanto, tutto il suo involucro artistico può essere collocato, se del caso, in un museo o in un altro luogo dignitoso, senza alcuna violazione di legge.
5.7 La profanazione
L’altare debitamente dedicato o benedetto è riservato unicamente al culto divino, escluso qualsiasi uso profano (cf. can. 1239, § 1).
Per gli effetti di una grave violazione di un altare, occorre tener presente il prescritto del can. 1211, secondo il quale i luoghi sacri, quindi anche gli altari, sono profanati se nei suoi confronti si compiano, con scandalo dei fedeli, azioni gravemente ingiuriose, che a giudizio dell’Ordinario del luogo assumano tale gravità e siano così contrarie alla santità del luogo da non essere più lecito esercitarvi sopra il culto divino, finché la profanazione non venga riparata con un rito penitenziale, a norma dei libri liturgici. Affinché abbia luogo la profanazione di un altare in senso giuridico, si richiedono quindi tre cose: 1) un’azione gravemente ingiuriosa, 2) lo scandalo dei fedeli e 3) il giudizio dell’Ordinario del luogo. Il criterio della profanazione, pertanto, non è soltanto oggettivo, ma anche soggettivo: lo scandalo dei fedeli, infatti, dipende molto dal grado della loro sensibilità religiosa e la valutazione della gravità della violazione dell’altare viene lasciata al giudizio dell’Ordinario del luogo, che quanto prima dovrebbe essere informato dell’avvenuta violazione. Così un rito penitenziale, celebrato al fine di porre riparo all’ingiuria recata all’altare, potrà essere officiato il più in fretta possibile[78].
Va anche messo in evidenza che con la profanazione, come pure con l’alienazione[79], l’altare non perde la dedicazione/benedizione, quindi rimane luogo sacro[80].
Infine, è necessario annotare che, a causa della dignità dell’altare, sotto di esso non si possono seppellire cadaveri. Altrimenti non sarà lecito celebrarvi sopra la Santa Messa (cf. can. 1239, § 2).
5.8 L’altare come luogo non esclusivo, sul quale può essere celebrata l’Eucaristia
A norma del can. 932, § 1, la celebrazione della Santa Messa deve essere compiuta nel luogo sacro, a meno che in un caso particolare le necessità non richiedano altro; nel qual caso la celebrazione verrà compiuta in un luogo decoroso. In quest’ultima circostanza, ossia fuori del luogo sacro – come recita il § 2 dello stesso canone e come già è stato accennato in precedenza – per officiare l’Eucaristia può essere usato un tavolo adatto, purché sempre ricoperto di tovaglia e di corporale. In linea con il nuovo Codice si pone il prescritto dell’art. 297 dell’IGMR, secondo il quale: «[l]a celebrazione dell’[E]ucaristia in un luogo sacro, si deve compiere sopra un altare; fuori del luogo sacro, invece, specie se vi si fa occasionalmente, si può compiere anche sopra un tavolo adatto, purché vi siano sempre una tovaglia e il corporale, una croce e dei candelieri»[81].
Alla luce di quanto detto, non vi è dubbio che solo fuori dal luogo sacro sia lecito prescindere dall’altare. L’uso di un tavolo comune o di un’altra superficie costituisce, quindi, un’eccezione all’adozione dell’altare, giustificata soltanto dalla necessità che può verificarsi in un caso particolare[82]. È anche ovvio che il requisito della necessità esclude che «la fattispecie assuma i tratti della ripetitività o dell’abitualità e che la deroga all’appropriatezza del luogo non risponda a una ragione seria e ponderata»[83].
Decidere, tuttavia, quando si sia di fronte a un caso particolare che richieda la celebrazione dell’Eucaristia al di fuori del luogo sacro non è facile e dipende da molti fattori. Infatti, la realtà del mondo e della società odierna è molto varia e diversificata; da un lato, non si può ignorare ad esempio la mancanza di chiese in molte zone che già hanno conosciuto l’evangelizzazione, dall’altro invece, non si possono sottovalutare molte iniziative che, per favorire il fervore e la vivacità di comunità o di gruppi parrocchiali, cercano di celebrare l’Eucaristia all’aperto, in viaggi o altre occasioni particolari. Compete al sacerdote[84] giudicare prudenzialmente caso per caso sulla opportunità o meno della celebrazione della Santa Messa al di fuori del luogo sacro e, di conseguenza, sull’impiego di una superficie che non sia l’altare, tenendo conto della normativa all’uopo stabilita[85].
5.9 La condivisione dell’altare
Il can. 705, § 1, del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali (= CCEO) formula un principio generale, peraltro implicito anche nella codificazione latina: «Il sacerdote cattolico può celebrare la Divina Liturgia sull’altare di qualsiasi chiesa cattolica». Non è, invece, mai consentito a un sacerdote cattolico celebrare nel tempio o luogo sacro di una religione non cristiana[86], cioè – come si evince – non gli è permesso di celebrare sull’altare[87] di tale tempio.
Il Codice latino, a sua volta, al can. 933 recita: «Per una giusta causa e con licenza espressa dell’Ordinario del luogo, è consentito al sacerdote celebrare l’Eucaristia nel tempio di qualche Chiesa o comunità ecclesiale non aventi piena comunione con la Chiesa cattolica, allontanato il pericolo di scandalo». Sono quindi richieste tre condizioni, affinché il sacerdote possa celebrarvi la Santa Messa: 1) una giusta causa, 2) la licenza espressa dell’Ordinario del luogo e 3) la rimozione del pericolo di scandalo. Se queste tre condizioni non si verificano congiuntamente, il sacerdote cattolico non può celebrare l’Eucaristia sull’altare della summenzionata Chiesa o comunità ecclesiale.
Tali condizioni sono parzialmente richieste anche dal can. 705, § 2, del CCEO, secondo il quale il sacerdote cattolico, al fine di celebrare la Divina Liturgia in una chiesa di acattolici[88], deve prima ottenere la licenza del Gerarca del luogo. Detto questo, è ovvio che in caso di mancanza di chiesa, oratorio o cappella cattolica, il sacerdote cattolico con la licenza del Gerarca del luogo possa celebrare l’Eucaristia in una chiesa non cattolica. Il can. 705, § 2, del CCEO appare altresì conforme al principio di reciprocità, in quanto il Vescovo eparchiale può concedere l’uso di un luogo sacro cattolico ai cristiani acattolici, ai quali mancano gli spazi per celebrare degnamente il culto divino[89].
In definitiva, prescindendo da molte altre questioni al riguardo, è da ribadire con certezza che nella legislazione della Chiesa è prevista una condivisione della mensa eucaristica anche con chi non è in piena comunione con la Chiesa cattolica[90].
5.10 L’altare privilegiato
L’altare privilegiato era quello che godeva dell’indulto della indulgenza plenaria, da applicarsi al defunto per il quale si celebrava la Santa Messa (vi erano anche altari privilegiati nei quali si applicava l’indulgenza plenaria per i vivi e per i morti). Per indicare che un altare era privilegiato, bastava l’indicazione (ad es. una targa): altare privilegiato, perpetuo o a tempo, quotidiano o meno, secondo quanto stabilito nell’indulto di concessione (cf. can. 918, § 1, CIC 1917). Questo privilegio poteva essere reale, se era annesso all’altare, o personale, se era concesso allo stesso sacerdote che poteva applicare l’indulgenza dell’altare privilegiato ovunque egli celebrasse[91].
L’altare privilegiato, tuttavia, cessa con la Costituzione apostolica Indulgentiarum doctrina di Paolo VI del 1° gennaio 1967[92], che nella norma n. 12 recita: «È abolita la divisione delle indulgenze in personali, reali e locali, perché più chiaramente apparisca che le indulgenze sono concesse alle azioni dei fedeli, sebbene esse siano talvolta collegate ad un oggetto o ad un luogo»[93]. Invece nella norma n. 20 si stabilisce: «La [S]anta [M]adre [C]hiesa, massimamente sollecita per i fedeli defunti, ha stabilito di suffragarli nella più larga misura in tutte le [M]esse, abolendo ogni particolare privilegio»[94]. Infine, nel n. 12 della stessa Costituzione si legge: «[…] Nel redigere le nuove norme si è cercato in particolar modo di stabilire una nuova misura con l’indulgenza parziale, di apportare una congrua riduzione al numero delle indulgenze plenarie e di dare alle indulgenze cosiddette reali e locali una forma più semplice e più dignitosa. […] Per quanto riguarda le indulgenze reali o locali non solo è stato di molto ridotto il loro numero, ma ne è stato abolito anche il nome, perché più chiaramente apparisca che sono indulgenziate le azioni compiute dai fedeli e non le cose o i luoghi che sono solo l’occasione per l’acquisto delle indulgenze […]»[95].
Nonostante ciò, oggi esistono indulgenze plenarie annesse all’altare. Si tratta dell’indulgenza plenaria legata alla visita dell’altare nel giorno della sua dedicazione. In merito a questa indulgenza, nell’Enchiridion indulgentiarum del 1999, nel n. 33, § 1, 6°, si prescrive: «Si concede l’indulgenza plenaria al fedele che piamente visita e vi recita un Padre nostro e un Credo una chiesa o un altare nel giorno della loro dedicazione».
La Penitenzieria Apostolica, come risulta dalla prassi, su richiesta degli interessati, concede anche l’indulgenza plenaria al fedele che, alle condizioni di cui sopra, visiti un altare nel giorno dell’anniversario della sua dedicazione. Questa circostanza non è però l’unica; difatti, possono verificarsi altri motivi per cui la Penitenzieria conceda l’indulgenza, come ad esempio la tradizionale festa di un santo, in onore del quale, in forza della precedente legislazione, sia stato dedicato l’altare. Si tratta naturalmente di una festa radicata così fortemente nella comunità locale, da non poter essere omessa senza recare alcun danno spirituale ai fedeli.
5.11 Alcune questioni circa l’addobbo dell’altare
Prescindendo dai dettagli, soprattutto quelli liturgici, occorre – alla fine di questo contributo – dire qualcosa sull’addobbo dell’altare.
Al riguardo, va evidenziato soprattutto che, considerata la dedicazione dell’altare a Dio soltanto, nelle nuove chiese non si devono collocare sulla mensa eucaristica né statue, né immagini di santi[96].
Per quanto riguarda la decorazione dell’altare, essa deve essere moderata. Pertanto, l’ornamento floreale deve essere sobrio e i fiori sono preferibilmente da collocare intorno all’altare, piuttosto che al sopra di esso. Nel tempo di Quaresima, invece, è vietato ornare con fiori l’altare.
Sull’altare, ricoperto da almeno una tovaglia, possono trovarsi semplicemente le cose necessarie per la celebrazione eucaristica ed eventualmente gli strumenti per l’amplificazione della voce del celebrante. I candelieri vengono disposti o sopra all’altare, oppure accanto ad esso, tenuta presente la struttura sia dell’altare che del presbiterio. Infine, sull’altare o accanto ad esso, va collocata una croce, ben visibile ai fedeli. Conviene che tale croce permanga accanto all’altare anche al di fuori delle celebrazioni liturgiche[97].
6. Conclusioni
Dopo aver cercato di presentare, per sommi capi, la questione sugli altari nella normativa canonica vigente, emerge una chiara preferenza del Legislatore per la tutela di essi e per la promozione della loro dignità. Infatti, gli altari sono luoghi privilegiati all’interno degli edifici sacri, perché su di essi si rende presente il sacrificio della croce e, nello stesso tempo, rappresentano la mensa del Signore.
Gli altari, inoltre, godono di una propria autonomia rispetto all’edificio circostante, e ciò comporta un’ulteriore cautela nel caso, oggigiorno molto frequente, di riduzione della chiesa a uso profano, di destinazione di fatto dell’altare a tale uso o di liquidazione o cessione del patrimonio ecclesiastico. La competente autorità ecclesiastica, considerato il sempre crescente fenomeno del mancato rispetto da parte dei fedeli nei confronti degli altari, deve nell’epoca attuale impegnarsi, con la dovuta attenzione, a spiegare loro il significato teologico-liturgico dell’altare, allo scopo di evitare i numerosi abusi al riguardo. In conclusione, si può affermare senza ombra di dubbio che il modo migliore per tutelare gli altari e la loro dignità nel mondo odierno sia rappresentato dall’incessante sforzo volto a conservare e promuovere la fede. Si tratta della fede del popolo di Dio. Infatti, finché c’è la fede, il popolo avrà bisogno di altari e li tratterà con il debito rispetto.
* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1]Cf. Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 246.
[2] Sulla questione concernente le chiese, cf. fra l’altro lo studio di P. Malecha, La riduzione di una chiesa a uso profano non sordido alla luce della normativa canonica vigente e delle sfide della Chiesa di oggi, in JusOnline, 3 (2018), pp. 173-198.
[3] Cf. M. del Pozzo, Luoghi della celebrazione “sub specie iusti”. Altare, tabernacolo, custodia degli oli sacri, sede, ambone, fonte battesimale, confessionale, Milano 2010, p. XIII.
[4] Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992, n. 1182.
[5] Cf. Th. Klauser, voce «Altar», in J. Höfer e K. Rahner (a cura di), Lexikon für Theologie und Kirche, Freiburg 1957, vol. I, col. 369.
[6] Cf. F. Calonghi, voce «Adoleo», in Dizionario latino italiano, Torino 1990, col. 58.
[7] Cf. F. Calonghi, voce «Ara,ae», in Dizionario,cit., col. 225.
[8] Cf. Th. Klauser, voce «Altar», cit., col. 369.
[9] Cf. F. Calonghi, voce «Areo», in Dizionario,cit., col. 236.
[10] Cf. Th. Klauser, voce «Altar», cit., col. 369.
[11] Ibid.
[12] Cf. F. Calonghi, voce «altus», in Dizionario,cit., col. 147.
[13] Cf. Th. Klauser, voce «Altar», cit., col. 369.
[14] Cf. Th. Klauser, voce «Altar», cit., col. 369; F. Calonghi, voce «Altaria», in Dizionario,cit., col. 143; X. Ochoa, Index verborum ac locutionum Codocis Iuris Canonici, Roma 1983, p. 22.
[15] A. Ferrua, voce «Altare: archeologia cristiana», in G. Pizzardo, P. Paschini e altri (a cura di), Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1948, vol. I, col. 920.
[16] Gn 8, 20. Erigono altari anche Abramo (cf. Gn 12, 7-8; Gn 13, 18; Gn 22, 9), Isacco (cf. Gn 26, 25), Giacobbe (cf. Gn 28, 18; Gn 35, 14) e Mosè (cf. Es 17, 15; Es 24, 4).
[17] Cf. L.H. Acevedo, voce «Altare», in C. Corral Salvador, V. De Paolis, G. Ghirlanda (a cura di), Nuovo Dizionario di Diritto Canonico, Cinisello Balsamo 1993, p. 13.
[18] «Il Signore apparve ad Abram e gli disse: “Alla tua discendenza io darò questa terra”. Sicché egli costruì colà un altare al Signore che gli era apparso. Poi di là andò verso la montagna, ad oriente di Betel e rizzò la sua tenda, avendo Betel ad occidente ed Ai ad oriente. Ivi costruì un altare al Signore ed invocò il nome del Signore» (Gn 12, 7-8).
[19] Cf. Es 20, 22-26.
[20] Cf. A. Romeo, voce «Altare: archeologia ebraica», in G. Pizzardo, P. Paschini e altri (a cura di), Enciclopedia, cit., vol. I, col. 919.
[21] Cf. Es 20, 24-25.
[22] Es 30, 1. Al riguardo si vedano anche, p. es.: Es 25, 23 e Es 27, 1.
[23] Cf. Es 25, 10-22.
[24] Cf. J. Hani, Il simbolismo del tempio cristiano, Roma 1996, p. 117.
[25] «Poi un altro angelo s’appressò con in mano un braciere d’oro e si pose al lato dell’altare. Gli fu dato una gran quantità d’incenso, affinché l’offrisse, quale simbolo delle preghiere dei santi, sull’altare d’oro antistante al trono. Salì quindi verso Dio il fumo dell’incenso, simbolo delle preghiere dei santi, dalla mano dell’angelo» (Ap 8, 3-4). Cf. anche il Pontificale Romano: Ordo dedicationis ecclesiae et altaris (= ODEA), Typis Polyglottis Vaticanis 1977, capitolo (= cap.) IV, n. 22b.
[26] Cf. J. Hani, Il simbolismo, cit., p. 117.
[27] In merito alla questione degli altari di legno, M. del Pozzo osserva: «Nei primordi del cristianesimo, a evitare equivoci e fraintendimenti, la dizione e la figura dell’ara del sacrificio […] erano intenzionalmente evitati a vantaggio dell’altare o della mensa […]. Il presumibile passaggio dalla mensa lignea mobile all’altare lapideo fisso attorno al IV secolo individua uno dei momenti di consolidamento e di sviluppo della liturgia ecclesiale», Id., Luoghi della celebrazione, cit., p. 5, nota 13.
[28] Cf. A. Ferrua, voce «Altare: archeologia cristiana», cit., coll. 921-922.
[29] Cf. ibid., col. 922.
[30] Cf. can. 838.
[31] Cf. V. De Paolis, Il libro I del Codice: norme generali (cann. 1-203), in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (a cura di), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. I., Il diritto nella realtà umana e nella vita della Chiesa; il libro I del Codice: le norme generali, Roma 1995, p. 249.
[32] Cf. ibid., nota 5.
[33] A. Cuva, voce «Diritto liturgico», in C. Corral Salvador, V. De Paolis, G. Ghirlanda (a cura di), Nuovo Dizionario, cit., p. 383.
[34] Cf. AAS 56 (1964), p. 107.
[35] A. Cuva, voce «Diritto liturgico», in C. Corral Salvador, V. De Paolis, G. Ghirlanda (a cura di), Nuovo Dizionario, cit., p. 383.
[36] Sull’origine di questo canone si veda fra l’altro: Communicationes 12 (1980), pp. 321-322.
[37] Cf. A. Cuva, Codice di diritto canonico e documenti liturgici, in Rivista Liturgica, 71 (1984), pp. 182-216.
[38] Cf. V. De Paolis, Il libro I del Codice, cit., p. 251; A. Montan, Validità e attuazione della norma liturgica, in Rivista di Pastorale Liturgica, 27/6 (1989), p. 37 e M. Rivella, Il rapporto fra Codice di diritto canonico e diritto liturgico (can. 2), in Quaderni di Diritto Ecclesiale, 8 (1995), p. 197.
[39] Sul valore della norma liturgica vedi anche: Giovanni Paolo II, lett. ap. Vicesimus quintus annus, in AAS, 81 (1989), pp. 897-918.
[40] Il vecchio Codice dedicava agli altari il Titolo XI (cann. 1197-1202) e lo inseriva nella Sezione I (De locis sacris) della Parte II (De locis et temporibus sacris) del Libro III (De rebus).
[41] Cf. M. del Pozzo, Luoghi della celebrazione, cit., p. 8.
[42] Ibid., nota 22.
[43] Cf. Communicationes, 12 (1980), pp. 322-323.
[44] In merito alla decisione quasi unanime si veda Communicationes, 12 (1980), p. 382: «Ante omnia fit quaestio inter Consultores utrum isti canones collocari debeant sub titulo distincto, in Sectione de locis sacris. Fere omnes Consultores censent altaria esse loca sacra et volunt ut isti canones ponantur tamquam Tit. IV, post Tit. de Sanctuariis. Unus Consultor vero censet altaria non esse “loca sacra”, quare isti canones non collocari deberent in titulo distincto, sed inseri possent in titulo de ecclesiis».
[45] Cf. M. del Pozzo, Luoghi della celebrazione, cit., pp. 10-11.
[46] Cf. Communicationes, 12 (1980), pp. 380 e 382.
[47] Cf. A. Giacobbi e A. Montan, I luoghi e i tempi sacri (cann. 1205-1253), in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (a cura di), Il diritto nel mistero della Chiesa, vol. III., La funzione di santificare della Chiesa; i beni temporali della Chiesa; le sanzioni nella Chiesa; i processi – Chiesa e comunità politica (libri IV, V, VI, VII del Codice), Roma 1992, p. 333.
[48] Cf. cann. 1197 e 1198 del Codice del 1917. Si veda anche: A. Ravà, voce «altare», in D. Marchetti (caporedattore), G. Crisci e F. Piga (a cura di), Enciclopedia del diritto, Varese 1958, vol. II, p. 90.
[49] Cf. EV 19 (2000), nn. 147-660. Le variazioni dell’8 giugno 2008 non hanno apportato modifiche agli articoli concernenti gli altari (cf. EV 25 [2008], nn. 943-987, in particolare nn. 943-949).
Malecha Paweł
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