fbevnts The object of the judgment, the preclusions and res iudicata in the UPC system

L’oggetto del giudizio, le preclusioni e il giudicato nel sistema dell’UPC

23.10.2019

Mark Bosshard

Dottore di ricerca in diritto industriale, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

 

L’oggetto del giudizio, le preclusioni e il giudicato nel sistema dell’UPC*

 

The object of the judgment, the preclusions and res iudicata in the UPC system

 

Sommario: 1. Il brevetto unitario e la “nuova” corte unificata. - 2. Domande ed eccezioni. - 2.1 Le domande giudiziali e le questioni incidentali di merito. - 2.2 Le eccezioni di merito e di rito rilevabili dalle parti. - 2.3 Le eccezioni rilevabili d’ufficio. – 3. Allegazioni in fatto, contestazioni e mezzi di prova. – 4. I nova in appello. – 5. La procedura di reintegrazione nei diritti. – 6. Il giudicato.

 

1. Il brevetto unitario e la “nuova” corte unificata.

 

Il c.d. “pacchetto” sul brevetto unitario[1] si compone del regolamento UE n. 1257/2012 del 17 dicembre 2012 sull’istituzione del brevetto europeo con effetto unitario[2], del regolamento UE n. 1260/2012 del 17 dicembre 2012 sul regime delle traduzioni[3], del regolamento UE n. 54/2014 del 15 maggio 2014 sulla modifica del regolamento UE n. 1215/2012 in tema di giurisdizione internazionale[4] e – infine, ma con un ruolo assolutamente centrale nel sistema – dell’accordo internazionale[5] (denominato Unified Patent Court Agreement ed’ora in poi indicato anche come “UPCA”) che istituisce il Tribunale Unificato dei brevetti sottoscritto il 19 febbraio 2013 (completo degli allegati, rappresentati dalla ripartizione per materia delle cause tra le diverse sezioni della divisione centrale della corte unificata e dallo Statuto dalla corte stessa)[6]. A tali fonti primarie si affianca – come fonte secondaria, ma di primaria rilevanza sotto il profilo pratico - il regolamento procedurale (d’ora in poi anche “RP”), adottato dagli organi amministrativi dell’UPC ai sensi dell’art. 41 dell’accordo[7]. Sono stati in seguito predisposti dai medesimi organi anche il codice di condotta per i legali delle parti e l’insieme delle regole relative al recupero delle spese di giudizio e alla definizione delle tasse processuali[8]. Gli stati aderenti hanno infine sottoscritto il protocollo sulle immunità e sui privilegi del tribunale unificato e dei suoi Giudici[9].

Il pacchetto ha anzitutto lo scopo di introdurre un titolo brevettuale con effetti unitari per tutto il territorio degli Stati aderenti, la cui tutela viene affidata alla giurisdizione di un unico organo giudicante comune agli stati medestimi (definito “Tribunale unificato dei brevetti”)[10]. Il nuovo organo giurisdizionale[11] conoscerà peraltro – salvo il caso del cosiddetto opt out[12],che garantisce per un periodo provvisorio al titolare la facoltà di escluderli dalla sua giurisdizione[13] – anche delle azioni riguardanti i brevetti europei che non hanno effetto unitario[14].

L’efficacia dei primi due regolamenti è condizionata – a norma dell’art. 18.2, comma primo, del regolamento n. 1257/2012 e a norma dall’art. 7, comma secondo, del regolamento n. 1260/2012 – all’entrata in vigore dell’accordo che istituisce il Tribunale unificato. Quanto al regolamento del 2014, la sua data di entrata in vigore è stata invece fissata per il 10 gennaio 2015, ma – evidentemente – esso non potrà trovare applicazione nella materia che qui interessa sino a quanto il Tribunale unificato non inizierà effettivamente a operare. In ultima analisi, dunque, l’entrata in vigore dell’intero pacchetto dipende dall’entrata in vigore dell’accordo internazionale che istituisce l’UPC.

Secondo l’art. 89 dell’accordo UPC, questo entrerà in vigore nei confronti degli Stati ratificanti (e di conseguenza il “pacchetto” diverrà efficace) solo in seguito alla ratifica di almeno tredici Stati aderenti (tra i quali devono essere compresi necessariamente i tre Stati membri dell’UE in cui, nell’anno precedente alla stipulazione dell’accordo, risultavano in vigore il maggior numero di brevetti europei, ossia Germania, Francia e Regno Unito). In seguito alla decisione del Regno Unito di uscire dall’UE, si è tuttavia sostenuto che il (terzo) posto - che originariamente era di quest’ultimo Stato membro - dovrebbe poter essere preso dall’Italia (che risultava quarta nella classifica di cui si è detto). Considerando tuttavia che – quanto meno sino alla sua formale uscita dall’UE – il Regno Unito resta sia parte del trattato UPC sia membro dell’UE, la ratifica da parte del Regno Unito deve considerarsi condizione necessaria per l’entrata in vigore del trattato.

Nonostante anche il Regno Unito abbia infine ratificato il trattato nella primavera del 2018 (dunque prima della brexit), è nel frattempo sorto un ulteriore ostacolo all’entrata in vigore del pacchetto, questa volta creato dalla Germania.

La Corte Costituzionale tedesca è infatti stata chiamata a decidere della costituzionalità della legge di ratifica dell’accordo UPC in Germania. In seguito all’avvio di quella procedura (che, a distanza di qualche anno, risulta ancora pendente) la ratifica tedesca dell’UPCA è stata dunque sospesa (in particolare, il Presidente della Repubblica - su richiesta del Presidente della Corte Costituzionale - ha sospeso la sua firma, ultimo passo formale per la promulgazione della legge di ratifica, già approvata dalle camere). La preoccupazione sollevata dal procedimento tedesco (la cui trattazione in udienza è attesa entro la fine del 2019) è in particolare quella che la Corte possa, prima di decidere, sollevare questione pregiudiziale di interpretazione dinanzi alla Corte di giustizia UE, con la conseguenza che la Germania non potrebbe procedere alla ratifica del trattato verosimilmente prima di altri due o tre anni (tempo necessario per la conclusione del procedimento dinanzi alla CGUE).

Al di là della durata del procedimento in Germania, il ritardo nella ratifica tedesca ha per ora avuto già l’effetto di rendere (quasi certamente) impos-sibile l’entrata in vigore del UPCA prima della brexit. In un simile scenario - risultando problematico sostenere che il trattato può restare efficace, quanto meno a tempo indefinito, verso il Regno Unito anche dopo la brexit[15] - gli stati aderenti potrebbero decidere di riaprire la conferenza diplomatica o per modificare il trattato al fine di regolare l’uscita dal sistema dell’UPC del Regno Unito (questione che, lo si ricorda, potrebbe portare allo spostamento in altro Stato membro della sezione della divisione centrale originariamente prevista per Londra[16]) oppure per disciplinare l’eventuale permanenza del Regno Unito nel sistema[17]. E la riapertura della conferenza diplomatica vede gli addetti ai lavori piuttosto scettici circa la reale possibilità di trovare oggi un ampio consenso tra gli Stati interessati, in considerazione dei crescenti attriti politici emersi tra i diversi membri dell’UE negli ultimi anni.

Quando (e, a questo punto, se) il pacchetto entrerà in vigore[18], il nuovo organo giurisdizionale unificato conoscerà di qualunque azione di nullità, non contraffazione e contraffazione relativa ai brevetti europei (con effetto unitario o senza effetto unitario) in relazione al quale il titolare non abbia – prima dell’inizio dell’azione ed entro il periodo transitorio di sette anni previsto a tale scopo[19] – esercitato il diritto di opt out, ossia il già ricordato diritto di sottrarre un brevetto europeo senza effetto unitario (per quelli a effetto unitario l’opt out non è ammesso) alla giurisdizione della Corte Unificata.

Le sentenze e le ordinanze del nuovo giudice unificato, secondo quanto dispone l’art. 34 UPC, avranno efficacia esecutiva immediata ed estesa a tutti i territori degli Stati aderenti in cui il brevetto europeo risulta efficace (anche nel caso in cui si pronunciano su brevetti senza effetto unitario). Questo significa dunque che, quanto alla revoca dei brevetti europei senza effetto unitario, ciascuna divisione locale (e ciascuna sezione della divisione centrale) revocherà il brevetto in relazione a tutte le porzioni nazionali[20]. Quanto alla contraffazione, invece, l’accertamento dell’illecito anche da parte di una singola divisone locale così come le eventuali misure e sanzioni da quest’ultima irrogate – rispettivamente - varrà e potranno essere eseguite, come se si trattasse di una decisione resa da ciascun giudice nazionale, anche in tutti gli altri Stati membri aderenti all’UPC in cui il brevetto è efficace e che hanno già ratificato l’accordo[21]. Il tutto senza alcuna necessità né di agire in contraffazione in quegli Stati né di avviarvi procedimenti di delibazione o riconoscimento della decisione dell’UPC[22]. Per l’eventuale esecuzione del titolo negli stati membri dell’UE non aderenti all’UPC (si pensi in primo luogo alla Spagna e ad alcuni paesi dell’est) o per gli stati membri UE e aderenti all’UPC, ma che non hanno ancora ratificato il trattato, dovrebbero valere invece le procedure del regolamento UE n. 1215/2012, come modificato dal regolamento UE n. 54/2014 del 15 maggio 2014. Infine, per gli stati che si collocano al di fuori dell’UE, dovrebbero valere – per gli stati in cui sono applicabili - le regole sul riconoscimento dell’efficacia delle decisioni civili previste dalla convenzione di Lugano[23].

Resta peraltro soprattutto da verificare quali cautele adotteranno i giudici dei singoli stati al fine di dare esecuzione a decisioni che – per quanto equiparate ope legis ai corrispondenti provvedimenti nazionali – in molti casi saranno redatte in lingua diversa da quella ufficiale dello stato di esecuzione, dunque in una lingua che non si può presumere conosciuta né alla parte che subisce l’esecuzione, né ai pubblici ufficiali incaricati di condurla né – infine – agli stessi giudici nazionali competenti per la procedura di esecuzione[24].

Il nuovo organo giurisdizionale creato dall’accordo UPC è dunque, in estrema sintesi, un giudice sovranazionale unico (che tuttavia esercita la giurisdizione nazionale di ciascuno degli stati aderenti che hanno ratificato il trattato) esclusivamente competente per materia a conoscere di una serie di azioni specificamente elencate dall’accordo UPC (azioni che, in gran parte, rientravano nella giurisdizione dei giudici nazionali degli stati aderenti). Giudice unificato la cui giurisdizione unitaria viene a sua volta ripartita, secondo regole di competenza interna (per materia e territorio), tra diverse divisioni che si trovano a loro volta dislocate nei diversi stati aderenti al trattato.

Funzione di vertice (e nomofilattica)[25] del sistema è attribuita alla Corte di Appello, con sede unica in Lussemburgo e che sarà competente per le impugnazioni delle decisioni dei giudici di prima istanza. Il Tribunale (o Corte di prima istanza) si articola invece a sua volta in una divisione centrale (con sede a Parigi e sezioni a Londra[26] e Monaco di Baviera) e in una pluralità di divisioni locali e regionali (che d’ora in poi definiremo anche genericamente come “divisioni periferiche”)[27].

Le linee essenziali del sistema possono essere riassunte come segue: la divisione centrale avrà competenza a conoscere delle domande di nullità (definite di “revoca” nel sistema UPC) e di non contraffazione sia di un brevetto europeo con effetto unitario sia di un brevetto europeo senza effetto unitario (salvo naturalmente, in relazione a quest’ultima categoria di brevetti europei, sia stato già esercitato l’opt out prima dell’inizio della causa) qualora le corrispondenti azioni vengano esercitate con domanda presentata in via principale. La divisione centrale, come si anticipava, è poi a sua volta divisa in tre sezioni, la cui competenza viene definita per materia, ossia sulla base del settore tecnico cui appartiene il trovato tutelato dal brevetto oggetto di domanda giudiziale[28]. Si noti a tale riguardo che le norme dell’accordo UPC impongono di esercitare le azioni di revoca in via principale, restando espressamente esclusa (quanto meno al di fuori delle procedure cautelari[29]) la possibilità di eccepire l’invalidità del brevetto come semplice motivo di rigetto dell’azione di contraffazione ovvero come fondamento di una azione di non contraffazione.

Le divisioni locali e regionali avranno invece competenza a conoscere delle azioni di contraffazione sulla base dei criteri concorrenti alternativi, a discrezione dell’attore, della sede del convenuto, della sua sede d’affari e del locus commissi delicti. In caso di azioni riconvenzionali di revoca esercitate dinanzi alla divisione periferica presso la quale il titolare del brevetto abbia già intentato un’azione di contraffazione è possibile lo spostamento della causa (o della sola azione di revoca) presso la divisione centrale nonché, in caso di spostamento della sola azione di revoca presso la divisione centrale, la sospensione della causa di contraffazione penden-te dinanzi alla divisione periferica. Sono inoltre previste norme che consentono di attrarre presso la divisione periferica adita in contraffazio-ne eventuali cause di nullità e/o di accertamento negativo tra le stesse parti per il medesimo brevetto, anche nel caso in cui si tratti di cause intentate in precedenza dinanzi alla divisione centrale. Sono poi previste norme che consentono spostamenti della competenza (e della causa) per effetto di alcuni casi di connessione soggettiva e oggettiva ed è infine lasciato ampio spazio alla volontà delle parti di derogare alle regole di cui sopra per determinare di comune accordo (o mediante il meccanismo dell’accettazione tacita per mancata contestazione nella fase iniziale del processo) il giudice dinanzi al quale agire[30].

La questione della competenza è peraltro centrale nel sistema, giacché - secondo l’UPCA - la lingua processuale di ciascuna causa dipende proprio dalla divisione che ne tratta[31]. Questo significa che l’entrata in vigore del sistema avrà come sua prima conseguenza il fatto che diverse cause che coinvolgono – come convenuti – imprese con sede in uno stato aderente e che riguardano la validità e/o la violazione della corrispondente porzione nazionale di brevetti europei senza effetto unitario (oltre che tutte le cause che riguardano brevetti europei con effetto unitario), diversamente da quanto accade ora, non verrebbero più decise dai giudici nazionali di quello stesso stato in processi discussi nella lingua locale, bensì da giudici a composizione internazionale che non hanno necessariamente sede sul territorio di quello stato, con l’ulteriore rischio che – per le cause iniziate o dinanzi alla divisione centrale (o ivi successivamente “spostate” in presenza di riconvenzionali di revoca) o dinanzi ad altra divisione periferica (ad esempio in caso di contraffazione estesa a diversi stati aderenti), si tratterà di processi che saranno discussi in lingua differente rispetto a quella delle parti convenute (e - di conseguenza - diversa da quella dei consulenti legali e brevettuali di cui queste ultime si servono).

Tutto questo per dire che l’eventuale entrata in vigore del “pacchetto” sulla Corte Unificata dei brevetti – per quanto poco nota agli operatori giuridici italiani – avrà un impatto pratico tutt’altro che trascurabile nel settore della ricerca tecnologica degli stati aderenti, essendo destinata a produrre significativi mutamenti nel regime di trattazione e decisione delle controversie giudiziarie in materia brevettuale che riguardano parti italiane.

Proprio per questa ragione è utile iniziare a studiare in anticipo il nuovo sistema, in modo da essere preparati alla sua eventuale futura entrata in vigore. E il regime delle preclusioni, che forma oggetto di questo scritto, rappresenta certamente uno degli aspetti di questo “nuovo” diritto processuale che riveste maggiore interesse - sia pratico che teorico - per gli interpreti.

 

2. Domande ed eccezioni

 

2.1 Le domande giudiziali e le questioni incidentali di merito

 

Il sistema processuale dell’UPC definisce la competenza per materia del giudice in un modo che potrebbe risultare inusuale per i giuristi italiani. Non è infatti prevista una competenza della corte a conoscere di tutte le domande riguardanti una certa materia (ossia, nel caso che qui interessa, quella brevettuale), ma vengono elencate le singole azioni/domande di cui la corte può conoscere, accompagnate da una clausola di chiusura che esclude dalla competenza della nuova corte unificata – con conseguente attribuzione ai giudici nazionali secondo le norme nazionali in punto di competenza da questi ultimi normalmente applicate - di tutte le azioni che, per quanto trattino materia brevettuale, non rientrano nell’elenco previsto dall’accordo (elenco che dunque va considerato sia tassativo che di stretta interpretazione).

L’art. 32 UPCA prevede in particolare che – quando riguardano o un brevetto europeo a effetto unitario ovvero un brevetto europeo senza effetto unitario in relazione al quale non sia stato in precedenza esercitato un diritto di opt out ovvero – infine – quando riguardano un SPC che prolunga la durata di uno di questi due titoli di privativa[32] – spetta in via esclusiva all’UPC la competenza a decidere delle azioni che riguardano la contraffazione (attuale o minacciata) del brevetto o del certificato supplementare di protezione, la non contraffazione dei medesimi titoli, le corrispondenti misure cautelari e inibitorie. La Corte è competente anche in relazione alle azioni – principali o riconvenzionali - di revoca (alias di nullità) dei brevetti e di invalidità degli SPC. La Corte può conoscere poi delle azioni di danno derivanti dalla violazione delle domande di brevetto già pubblicate, delle azioni relative all’uso dell’invenzione prima della concessione del brevetto e a quelle in tema di eventuali diritti di preuso sull’invenzione brevettata, così come delle azioni per le compensazioni in materia di licenze di diritto ai sensi dell’art. 8 del regolamento UE che istituisce il brevetto europeo con effetto unitario. Infine la competenza per materia della Corte copre anche tutte le azioni relative all’impugnazione dei provvedimenti dell’EPO adottati esercitando i poteri previsti dall’art. 9 del regolamento UE appena citato.

La competenza della corte, in caso di accertamento di una contraffazione, si estende tanto all’irrogazione di misure inibitorie assistite da penali (art. 63 UPCA) e delle altre misure indicate nell’art. 64 UPCA, quanto al risarcimento dei danni (come specifica l’art. 68 UPCA). In punto di revoca del brevetto, l’art. 65 UPCA specifica invece che la revoca può essere sia totale che parziale. Infine, la corte, in relazione a tutte le domande per cui è competente, può disporre la rifusione dei costi processuali (art. 69 UPCA) e autorizzare la pubblicazione - a spese del soccombente – della sua stessa decisione (secondo quanto dispone l’art. 80 UPCA).

Per quanto rientranti nella materia brevettuale, non compaiono invece nell’elenco che definisce la cognizione del nuovo giudice unificato – ad esempio – le azioni di rivendicazione relative alla legittima titolarità di un brevetto europeo (anche ad effetto unitario) né quelle riguardanti i diritti dell’inventore prestatore d’opera o lavoratore dipendente nei confronti del datore di lavoro o committente. Si noti infine che la corte unificata non dovrebbe né poter conoscere dell’eventuale nullità/inefficacia in Italia di un brevetto europeo che abbia per oggetto, non già un’invenzione, ma solo un modello di utilità, né – conseguentemente – dovrebbe poter disporre, su istanza di parte in ogni stato e grado del processo, la conversione di un brevetto per invenzione in brevetto per modello di utilità[33].

Le questioni incidentali che non rientrano nella competenza dell’UPC, ma la cui decisione deve considerarsi necessaria sotto il profilo logico-giudico per poter pronunciare su questioni che rientrano nella competenza della corte (si pensi ad esempio alle questioni di validità o di interpretazione di una licenza del brevetto che il titolare assume essere stato contraffatto dal licenziatario) dovrebbero considerarsi incluse nella cognizione della corte unificata, che potrà conoscerne – ma solo incidenter tantum, dunque con effetto limitato alle parti e alla singola causa -sulla base delle norme nazionali o di diversa fonte che, di volta in volta, riterrà applicabili alla fattispecie ai sensi dell’art. 24 UPCA. Anche in questo senso si spiega infatti la circostanza che l’art. 20 UPCA – nonostante il trattato stesso includa le norme sostanziali (in particolare in tema di contraffazione) che disciplinano le questioni soggette alla sua competenza che non sono già disciplinate dalla convenzione sul brevetto europeo - richiama il diritto nazionale tra le fonti applicabili da parte della corte unificata. In tema di questioni incidentali, infatti, il diritto nazionale (per quanto interpretato in modo conforme ai principi del diritto UE) rappresenta certamente la fonte principe.

Dinanzi all’UPC vale il principio generale della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. L’art. 76.1 UPCA prevede – in relazione alle decisioni di appello, ma sancendo un principio fondamentale comune all’ordinamento degli stati aderenti - che “The Court shall decide in accordance with the requests submitted by the parties and shall not award more than is requested”. A sua volta l’art. 247.1.c RP considera come una delle cause di revisione del processo (tale dunque da superare anche il formarsi di un giudicato) la grave violazione dell’art. 76 UPCA.

Le domande delle parti sono dunque anzitutto tutte quelle, principali o riconvenzionali[34], contenute nei rispettivi atti iniziali di giudizio di attore e convenuto, depositati durante quella che nel processo dinanzi all’UPC viene definita come fase scritta del processo.

L’art. 263 RP concede tuttavia alle parti la facoltà di chiedere al giudice - in ogni fase del procedimento – una autorizzazione (definita leave) amodificare, limitare o integrare le domande già presentate, autorizzando anche la presentazione di domande nuove (tanto che, come pure si già segnalato in nota, è espressamente prevista dalla norma la possibilità di avanzare una richiesta di presentare una azione riconvenzionale tardiva). Un’autorizzazione giudiziale ad hoc deve ritenersi necessaria sia per le domande nuove (ossia in presenza di una parte che intende “change its claims”, ossia introdurre in giudizio di un nuovo petitum) sia per ogni nuovo fatto costitutivo dei diritti su cui si fondano le domande (e qui si ha il caso di “amend its claims”, ossia dell’introduzione nel giudizio di una differente causa petendi, anche senza variare il petitum).

Quanto a un eventuale leave per autorizzare l’estensione del giudizio a una parte differente, la lettera dell’art. 263 RP non pare escludere l’ipotesi, potendo di conseguenza il giudice procedere in tal senso, in presenza dei requisiti posti dall’art. 263 RP, qualora anche per l’azione verso il terzo lo stesso giudice sia a sua volta competente per territorio (anche eventualmente per ragioni di connessione) e attivando, una volta concesso il leave, le procedure previste dalle regole generali per l’ingresso di terzi nel processo secondo gli artt. 305 e 306 RP.

Per altro verso è invece importante sottolineare che il diritto di chiedere un leave per modificare le domande iniziali rappresenta una facoltà e non un onere in senso tecnico, con la conseguenza che - sia in caso di mancata presentazione dell’istanza di leave sia in caso di suo rigetto - quella stessa parte può presentare la domanda in un separato ed apposito processo[35].

L’istanza di leave, secondo l’art. 263.1 RP, deve essere accompagnata dall’indicazione delle ragioni per cui le domande emendate o quelle in ipotesi da aggiungere al thema decidendum non erano già state incluse negli atti iniziali di giudizio.

La norma prevede inoltre che – in presenza di un’istanza “incondizionata” di limitazione delle domande precedenti – il giudice sia obbligato ad accettare la limitazione. L’art. 263 RP – sul punto – si pone tuttavia in contrasto con l’art. 265 RP, secondo cui – in caso di ritiro dell’azione – il giudice può espungere la domanda dal processo solo dopo aver sentito le parti, al fine di verificare in particolare che le altre parti non conservino un legittimo interesse a che la questione sia comunque decisa anche in relazione alla domanda oggetto di rinuncia. Per comporre l’antinomia si potrebbe allora ritenere che l’art. 265 RP – che letteralmente si riferisce al “ritiro dell’azione” – riguardi esclusivamente l’ipotesi di rinuncia totale a tutte le domande fondate su una medesima causa petendi, laddove l’art. 265 RP è applicabile solo per il caso “minore” in cui viene rinunciata una parte delle domande presentate sulla base del medesimo titolo, riducendo dunque il solo petitum ma mantenendo almeno una domanda fondata sulla causa petendi originaria (per esempio, rinunciando alla richiesta di risarcimento, ma conservando le domande inibitorie).

Questo significa, in tema di contraffazione, che se il titolare del brevetto vuole rinunciare a ogni domanda fondata sulla contraffazione di un certo brevetto, ma vuole conservare quelle fondate su un altro brevetto, o se l’attore vuole rinunciare all’azione di contraffazione nei confronti di un certo prodotto, ma vuole conservare quelle verso altro prodotto, subirà il più rigoroso regime dell’art. 265 RP e il Giudice dovrà dunque valutare anche l’interesse del convenuto. Se invece il titolare rinuncia solo a uno o più petita fondati sull’accertamento di una certa violazione brevettuale, conservandone però intatto almeno un altro, si applicherà l’art. 263 RP e dunque la rinuncia verrà automaticamente autorizzata dal giudice.

Quanto alle domande di revoca brevettuale, la rinuncia – in corso di causa - ad agire in revoca nei confronti di un certo brevetto soggiace certamente al più rigoroso regime dell’art. 265 RP, mentre uno spazio di applicazione per l’art. 263 RP potrebbe forse residuare in relazione alla rinuncia a uno dei motivi di revoca di un certo titolo brevettuale (ad esempio carenza di descrizione) con conservazione degli altri (ad esempio carenza di novità e attività inventiva)[36].

In tutti i casi diversi dalla rinuncia totale all’azione (per i quali, come si è visto, vale il regime ex art. 265 RP) e diversi dal caso della rinuncia incondizionata a una parte dell’azione (per cui l’art. 263 RP prevede che il giudice concede in ogni caso il leave),il giudice – per poter autorizzare la modifica, la rinuncia ovvero la presentazione di nuove domande – deve verificare la sussistenza di due condizioni, entrambe necessarie: la prima è che le domande modificate non potessero già essere presentate, usando la ragionevole diligenza, al momento della presentazione del deposito degli atti inziali di giudizio e la seconda è che la modifica richiesta in corso di processo non ostacoli irragionevolmente il legittimo esercizio delle azioni dell’altra parte. Il potere del giudice di disporre il leave deve considerarsi dunque in parte vincolato, dipendendo – per un verso - dal fatto che la parte istante riesca a dimostrare che la modificazione della domanda è fondata su un fatto sopravvenuto rispetto al deposito degli atti iniziali (o, quanto meno, in quel momento incolpevolmente ignorato) e – per altro verso – dal fatto che, ad di là dalle ragioni della parte che chiede la modifica e dalla sua situazione soggettiva, il processo non si trovi in uno stadio così avanzato da rendere poco opportuno, sotto il profilo dell’economia processuale, la trattazione nel medesimo processo delle anche domande nuove o modificate (il che avverrà tipicamente in caso di presentazione, in una fase processuale avanzata, di un’istanza che implica l’aggiunta di una nuova domanda o l’introduzione di un nuovo thema decidendum).

Quanto al primo requisito, la circostanza nuova (o a suo tempo ignorata incolpevolmente dalla parte che chiede la modifica delle domande) – dato che la norma non specifica - non dovrebbe necessariamente riguardare il merito della vicenda, ma dovrebbe poter riguardare anche le parti, la loro situazione patrimoniale ovvero anche i prodotti oggetto della domanda di contraffazione e la situazione dei mercati su cui operano le parti (ad esempio se il contraffattore ha modificato il prodotto o ha lanciato nuovi prodotti in corso di causa o se, per effetto del protrarsi della contraffazione, il titolare del brevetto ha dovuto compiere certe scelte di mercato). In sostanza, quel che rileva ai fini della disposizione in esame è ogni ipotesi in cui una parte, che all’inizio del processo non aveva chiesto al giudice un determinato rimedio, vede sorgere a posteriori un oggettivo interesse a modificare le sue domande in giudizio: interesse che, all’inizio del giudizio, o non sussisteva ancora oppure era stato incolpevolmente ignorato. Si tratta dunque di una situazione in cui l’interesse ad agire in relazione alla domanda nuova o modificata o l’interesse a rinunciare a una domanda (dunque l’interesse alla mutatio libelli) sorge – o diviene ragionevolmente conoscibile per la parte diligente – solamente in corso di processo. In questo caso, dunque, la modifica dovrebbe in via di principio essere sempre ammessa dal giudice, salvo non dilati eccessivamente i tempi di trattazione del processo. Il che significa, in ultima analisi, che le istanze di modifica delle domande fondate su un interesse sopravvenuto al deposito degli atti iniziali di causa (o su un interesse già esistente a quell’epoca, ma incolpevolmente ignorato) dovrebbero essere accettate con relativa facilità almeno sino al temine della fase interinale del processo (vale a dire sino alla chiusura della fase di trattazione affidata al Giudice istruttore), mentre – una volta fissata l’udienza di discussione dinanzi al collegio – sarà più difficile ottenere un leave anche in presenza dell’interesse di cui si è detto[37].

Va da sé che, quando autorizza la modifica delle domande in corso di causa, il giudice dovrà poi esercitare tutti i poteri conferitigli dalla legge – inclusi quelli ampiamente ufficiosi di cui si dirà infra - per assicurare un ampio contraddittorio e un’adeguata istruttoria anche sulla “nuova” parte del thema decidendum.

Resta da dire della competenza e delle forme di trattazione delle istanze in questione. Considerando l’oggetto e il tipo di potere esercitato dal Giudice (valorizzando in particolare la circostanza che la sua pronuncia non assume natura decisoria ma ordinatoria[38]) è preferibile ritenere che si tratti di provvedimenti di case management, restando dunque tutte le relative questioni soggette esclusivamente alle regole (di competenza, trattazione, revisione e impugnazione) previste dagli artt. 331 e ss. RP.

Si badi infine che tutti i principi esposti in precedenza dovrebbero valere solo per le modifiche richieste in corso di primo grado di giudizio, mentre qualunque modifica delle domande durante la trattazione del giudizio di appello - anche nei casi in cui si verificassero i requisiti previsti dalll’art. 263 RP - dovrebbe restare esclusa. In seconde cure, infatti, le domande di parte sono assoggettate alle specifiche regole previste dagli artt. 233.3 RP 76.1 UPCA, a norma dei quali – rispettivamente – non sono ammissibili motivi di appello diversi da quelli esposti inizialmente nella dichiarazione dei motivi di appello e il giudice ha il potere di provvedere solo sulle domande delle parti. Questo significa che, in fase di appello, la modifica successiva delle domande e/o dei motivi di appello – salvo lo specifico caso dell’art. 265 RP, che consente una rinuncia all’appello in assenza di un interesse contrario dell’appellato - sarà dunque possibile solo per effetto dell’accoglimento di una istanza di restitutio in integrum ai sensi dell’art. 320 RP (istituto di cui si tratterà più avanti in questo scritto) ovvero quando ad essere sollevate per la prima volta in appello sono eccezioni rilevabili d’ufficio ai sensi degli artt. da 360 a 363 RP.

Sulla possibilità per la parte di presentare domande nuove o di modificare quelle di primo grado in occasione della presentazione degli atti iniziali di impugnazione, si veda invece infra la parte dedicata ai nova in appello.

 

2.2 Le eccezioni di merito e le eccezioni di rito rilevabili dalle parti.

 

Quanto alle eccezioni di merito (ossia quelle che hanno per oggetto fatti impeditivi, estintivi o modificativi dell’altrui pretesa), dovrebbero valere per analogia le medesime considerazioni svolte poc’anzi per le domande giudiziali[39]. Le eccezioni di merito devono dunque essere presentate negli atti iniziali di giudizio (ossia, trattandosi di eccezioni, nella prima replica all’atto in cui è contenuta la domanda – principale o riconvenzionale - di cui si chiede il rigetto per effetto dell’accoglimento dell’eccezione), restando possibile, in epoca successiva, chiedere al giudice una autorizzazione specifica per modificare le eccezioni di merito già presentate ovvero di presentarne di nuove, alle condizioni e con la procedura di leave prevista dall’art. 263 RP. Quanto all’ipotesi di ritiro dell’eccezione, dovrebbe pure valere quanto si è detto in precedenza sull’applicazione degli artt. 263 RP e 265 RP ai diversi casi di ritiro della domanda.

Passando alle eccezioni in rito (ci riferiamo qui ovviamente solo a quelle preliminari, ossia a quelle che possono essere esercitate già all’inizio del processo) il ricorso al meccanismo generale di cui all’art. 263 RP non vale per le eccezioni del convenuto in punto di giurisdizione, competenza e opt out[40], per la cui trattazione occorre seguire la speciale procedura prevista dall’art. 19 RP e ss.: norme che, a pena di rinuncia implicita[41], obbligano l’attore a sottoporre al Giudice le relative eccezioni nelle fasi iniziali del processo, entro un termine perentorio che scade ancora prima rispetto a quello previsto per il deposito delle difese sul merito, e dando impulso a una fase processuale anticipata e autonoma (analiticamente disciplinata, sia per la trattazione che per le eventuali forme di impugnazione, dagli artt. da 19 a 21 RP) rispetto alla trattazione del merito del processo.

Si noti a tale riguardo che, nel fissare questa rigorosa barriera preclusiva anticipata, la norma speciale non menziona anche le questioni di lingua processuale. La dottrina italiana che ha trattato funditus della questione ritiene tuttavia che il regime dell’art. 19 RP potrebbe essere esteso in via analogica anche alle eccezioni linguistiche, trattandosi comunque di eccezioni preliminari di rito che - come quelle menzionate espressamente dalle norme speciali - possono essere già rilevate all’inizio della causa[42].

Ma non è tutto. Quanto alle eccezioni in tema di incompetenza e carenza di giurisdizione, si deve infatti supporre che quelle per cui vale il regime speciale dell’art. 19 RP sono certamente quelle in tema di giurisdizione internazionale della corte unificata e quelle relativa alla incompetenza per territorio della divisione scelta dall’attore. Quanto all’incompetenza per materia, occorre invece forse operare un’ulteriore distinzione, nel senso che - in forza dell’espresso richiamo contenuto nella norma speciale - restano soggette al più rigoroso meccanismo dell’art. 19.1 RP sicuramente quelle sull’eventuale esistenza di un opt out così come quelle in tema di ripartizione interna per materia delle cause tra le diverse sezioni della divisione centrale,mentre – per le altre (ossia, in sostanza, per quelle che si fondano sul fatto che la domanda della parte non figura tra quelle incluse nell’elenco tassativo previsto dall’art 32 UPCA, restando dunque appannaggio delle corti nazionali) – dovrebbe invece valere il regime di rilevabilità d’ufficio in ogni stato e fase del giudizio (ma questa volta ai sensi dell’art. 361 RP) di cui si dirà nel paragrafo n. 3 che segue. Anche in questo caso, infatti, la gravità del vizio (che riguarda la definizione dei limiti in cui un accordo internazionale può derogare alle norme nazionali in tema di competenza per materia dei giudici dei singoli stati) suggerisce di non lasciare alle parti la possibilità di condizionarne la rilevabilità e, dunque, sconsiglia l’estensione analogica del regime speciale.

Ogni diversa eccezione preliminare di rito rilevabile solo ad istanza di parte – vale a dire tutte quelle che non possono essere ricondotte (direttamente o, se ritenuta ammissibile, per analogia) né alle ipotesi dell’art. 19 RP né ad almeno uno dei casi di rilevabilità d’ufficio in ogni stato e fase del giudizio previsti dagli articoli da 360 a 363 RP – dovrebbe restare soggetta al regime generale delle nuove eccezioni, dunque con necessità di una presentazione nelle repliche agli atti iniziali del processo, ma con possibilità di chiedere una autorizzazione alla loro presentazione successiva con leave del giudice in presenza delle condizioni previste dall’art. 263 RP, ossia: sopravvenuto interesse della parte a sollevare l’eccezione nuova (o a modificare/ritirare quelle vecchie) per effetto di un fatto nuovo (o incolpevolmente ignorato) e verifica del fatto che la trattazione delle nuova eccezione non importi ritardi nel processo tali da ostacolare irragionevolmente l’esercizio delle azioni dell’altra parte.

Quanto alle eccezioni in rito non preliminari, ossia quelle che si fondano su pretesi errori commessi dal giudice o dalle parti nella trattazione del processo (e che non possono dare luogo a vizi che rientrano nelle ipotesi di cui agli artt. da 360 a 363 RP, per cui vale il regime della rilevabilità d’ufficio in ogni stato e fase del processo), ci si può chiedere se la parte è obbligata - a pena di decadenza - a esercitarle nel primo atto successivo al manifestarsi del vizio su cui si fondano. Dal momento che norme in tal senso non se ne rinvengono, occorre con tutta probabilità dirimere la questione tracciando una distinzione. Se si tratta di eccezioni fondate su vizi attinenti a provvedimenti resi dal giudice nell’esercizio di poteri di case management, dovrebbe valere - anche in relazione ai limiti della loro rilevabilità - quanto previsto dagli articoli da 331 a 337 RP per la revisione e impugnazione di questo genere di provvedimenti. In relazione invece a tutte le altre (ossia a quelle che non ricadono nel regime del case management) la questione della loro rilevabilità potrebbe essere risolta movendo dalla funzione che assume nel sistema processuale dell’UPC la fase interinale del processo (nonché degli ampi poteri inquisitori di direzione del processo attribuiti al giudice istruttore in quella fase e di cui si dirà meglio infra). Simili eccezioni dovrebbero dunque poter essere liberamente sollevate dinanzi all’istruttore senza particolari formalità in ogni momento del processo che sia precedente alla conclusione della fase interinale (che avviene con il provvedimento di fissazione della prima udienza di trattazione orale dinanzi al collegio), potendo invece essere sollevate per la prima volta davanti al collegio - dunque appunto nella fase orale del processo - solo per mezzo di un’apposita istanza di leave ai sensi dell’art. 263 RP e - dunque - in presenza delle condizioni previste dalla norma.

Va da sé che - per le eccezioni per vizi in procedendo riguardanti fasi del processo successive alla chiusura della fase interinale (e anche per quelle riguardanti eventuali vizi procedurali della decisione del giudice istruttore di ritenere sufficientemente istruito il processo e/o alla fissazione del calendario delle udienze dinanzi al collegio) - dovrebbe essere consentito, in via di principio, un rilievo per la prima volta dinanzi al collegio sino al termine della discussione orale e senza necessità di chiedere un leave ai sensi dell’art. 263 RP.

Tutte le eccezioni (di merito e di rito, preliminari o meno) rilevabili dalle parti in primo grado di giudizio dovrebbero infine ritenersi soggette al combinato disposto degli art. 233.3 RP e l’art. 76.1 UPCA, a norma del quale – nel corso del procedimento di appello – le parti non possano presentare motivi di appello differenti rispetto a quelli contenuti nella dichiarazione dei motivi di appello. Questo significa che le eccezioni già tempestivamente sollevate in prime cure vanno comunque ripetute (a pena di decadenza) nei motivi di appello, perché - dopo il deposito di quell’atto- resta preclusa ogni possibilità di sollevarle (salva la possibilità di rinunciarvi ai sensi dell’art. 265 RP e salva la residuale possibilità di chiedere una restitutio in integrum ai sensi dell’art. 320 RP).

Quanto alle eccezioni in rito per violazioni procedurali riguardanti la trattazione della procedura d’appello dovrebbe valere mutatis mutandis quanto si è già detto per le corrispondenti eccezioni di primo grado di giudizio.

Quanto infine alla possibilità di esercitare per la prima volta in appello eccezioni di rito non presentate nel corso del procedimento di primo grado (o di modificare, in appello, le eccezioni già presentate in prime cure) si veda invece infra la parte dedicata ai nova in appello.

 

2.3 Le eccezioni rilevabili d’ufficio.

 

Anche nel sistema processuale che disciplina i procedimenti dinanzi aall’UPC è possibile isolare una categoria di eccezioni differenti rispetto a quelle ordinarie perché soggette a un regime di rilevabilità d’ufficio in ogni stato e fase processuale. Si tratta di questioni che, secondo il RP, devono essere definite per mezzo di una decisione collegiale immediata, che – per quanto resa in anticipo, sentite le parti e a cognizione sommaria – viene considerata dalla legge alla stregua di una decisione che definisce il processo. Si tratta in particolare delle ipotesi previste negli artt. da 360 a 363 RP. In tutti questi casi, infatti, l’iniziativa per l’avvio della procedura sommaria di decisione può essere adottata – “in ogni momento” – per iniziativa (spontanea o sollecitata da una parte[43]) dell’istruttore. Tutte le decisioni adottate all’esito di questi procedimenti – rese con ordinanza del collegio che tratta già della causa – hanno infatti contenuto ed effetti di una sentenza, restando dunque soggette – secondo quanto espressamente prevede l’art. 363.2 RP per il caso in cui vengano rese da un giudice di primo grado - al rimedio dell’appello contro le sentenze che definiscono il processo di prime cure.

Ma vediamo anzitutto di capire quali ipotesi consentono questa peculiare forma di trattazione e decisione, in modo da individuare le corrispondenti eccezioni di rito che, di riflesso, risulteranno rilevabili d’ufficio anche oltre i termini e al di fuori delle condizioni di eccepibilità viste in precedenza per le altre eccezioni di merito e rito.

L’art. 360 RP dispone che, quando il giudice ritiene che l’azione sia divenuta priva di scopo (“has become devoid of purpose”) e che non vi sia pertanto più alcuna ragione per giudicare, la corte può in ogni momento respingere le corrispondenti domande con ordinanza collegiale, adottata su impulso del giudice istruttore e – se resa da un giudice di primo grado - impugnabile secondo le regole delle sentenze definitive del primo grado di giudizio. Il tenore della norma fa supporre che essa riguardi i casi che il nostro diritto processuale considera sopravvenuta carenza di interesse ad agire e/o come intervenuta cessazione della materia del contendere. Tra i casi in questione dovrebbe dunque rientrare la sopravvenuta inesistenza o inefficacia del titolo brevettuale fatto valere in giudizio (ad esempio perché revocato nella parte rilevante in sede di opposizione EPO o perché rinunciato dal titolare o perché decaduto per mancato pagamento delle tasse etc.). Si noti che in questi casi la norma prevede letteralmente che il giudice “si liberi” dell’azione (dispose of the action), dunque - parrebbe di capire - con pronuncia in rito, senza alcuna statuizione (e, di conseguenza, senza potenziale formazione di alcun giudicato) sul merito.

L’art. 361 RP prevede invece l’immediato rigetto con ordinanza collegiale (anche qui su iniziativa ex officio dell’istruttore, sentite le parti, che potrà essere impugnata, se resa da un giudice di primo grado, come se fosse una sentenza che definisce il processo)delle domande o delle eccezioni che siano “manifestamente inammissibili” oppure “manifestamente carenti di fondamento giuridico” o, ancora, in relazione alle quali appare evidente che la corte è carente di giurisdizione. Il primo caso riguarda molto probabilmente le domande che hanno per oggetto provvedimenti o misure che non risultano incluse tra quelle che la corte può pronunciare in seguito all’accertamento della contraffazione (o della non contraffazione) ovvero per effetto della revoca di un brevetto ovvero, infine, per effetto dell’annullamento di un atto dell’EPO. Il secondo caso dovrebbe includere le azioni che appaiono infondate già sulla base delle allegazioni della stessa parte che le esercita oppure quelle esercitate da parti che evidentemente non sono titolari del diritto che fanno valere in giudizio. Il terzo caso potrebbe riguardare le domande giudiziali su questioni che non rientrano, già in astratto, tra quelle attribuite per materia alla competenza definita dall’elenco di cui all’art. 32 UPC (ad esempio se una parte chiedesse alla corte unificata di dichiarare nulla una licenza di brevetto o di disporre la rivendica della titolarità di un brevetto a favore di un soggetto diverso dal titolare che risulta dall’attestato brevettuale).

Si noti peraltro che, mentre il primo e terzo caso riguardano circostanze la cui esistenza dovrebbe essere verificabile già a partire dal momento di presentazione della corrispondente domanda giudiziale, in relazione al secondo, invece, ben potrebbe accadere che la manifesta infondatezza sopravvenga in corso di processo per effetto ad esempio di affermazioni sfavorevoli a sé fatte da una parte nel corso della trattazione. L’art. 361 RP dovrebbe infatti consentire al giudice istruttore – di fronte ad un episodio confessorio certo, inequivoco e determinante per il rigetto delle domande del confitente – di sottoporre immediatamente la questione al collegio per la decisione sommaria e anticipata con ordinanza.

Nei casi previsti dall’art. 361 RP, peraltro, a seconda dei casi, la decisione potrebbe essere considerata o di rito (in caso di azione manifestamente inammissibile o che esorbita dalla competenza della corte) o di merito (in caso di azione manifestamente infondata - o che diviene tale in corso di processo - per effetto delle stesse dichiarazioni della parte).

L’art. 362 RP prevede infine il consueto meccanismo dell’ordinanza collegiale immediata (anche su impulso ex officio, sentite le parti, ed impugnabile come le sentenze definitive se resa da un giudice di primo grado) in ogni stato e fase del processose la corte ritiene sussistente un “impedimento assoluto a procedere con l’azione”, un esempio del quale viene individuato espressamente dalla stessa norma nella violazione del giudicato. Per analogia, lo stesso trattamento dovrebbe essere riservato all’eccezione di litispendenza, che rappresenta come è noto una proiezione retroattiva ed anticipata del principio del giudicato. Resta da chiedersi se vi siano altre ipotesi di vizi processuali tali da rappresentare un “ostacolo assoluto” alla trattazione delle domande delle parti. Si potrebbe pensare - ad esempio - alla carenza di legittimazione attiva o passiva ovvero ai vizi più gravi relativi alla rappresentanza in giudizio delle parti (quali l’esercizio di una azione in totale assenza di mandato alle liti e senza che la parte, nemmeno a posteriori, abbia ratificato l’operato dei procuratori) ovvero - ancora – al grave vizio di ultrapetizione ovvero, infine, alla mancata osservanza delle regole sul litisconsorzio necessario.

Tra le ipotesi di impedimento assoluto per la decisone, come si è visto in precedenza, potrebbe essere fatta rientrare anche l’adozione di un regime linguistico processuale differente rispetto a quello previsto dalle norme. Si noti tuttavia che, come si è già segnalato in precedenza, per questa specifica eccezione, la dottrina italiana che si è già occupata della questione ha in realtà sostenuto che il meccanismo di rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio potrebbe anche concorrere con quello speciale ai sensi dell’art.19 e ss. RP, nel senso che il vizio di lingua potrebbe venir eccepito sia - in anticipo - valendosi delle procedure previste per le eccezioni preliminari in punto di competenza sia, spirati i relativi termini, secondo le modalità previste per le eccezioni rilevabili in ogni stato e grado del processo[44].

Per chiudere va rilevato che anche la circostanza che dinanzi all’UPC sia stata esercitata, in via principale, un’azione che non rientra tra quelle previste nell’elenco tassativo di cui all’art. 32 UPC (circostanza già indicata supra come fatto rilevante anzitutto ai sensi dell’art. 361 RP) potrebbe in realtà essere considerata anche come impedimento assoluto a procedere ai sensi dell’art. 362 RP.

L’applicazione dell’art. 362 RP dovrebbe in via di principio condurre a provvedimenti di inammissibilità in rito e che, dunque, non dovrebbero, se non impugnati, poter condurre alla formazione di giudicati sul merito delle domande respinte.

Tutti i vizi elencati in precedenza (così come tutti quelli che possono essere fatti rientrare in almeno una delle ipotesi previste dagli articoli da 36o e 362 RP) sono dunque certamente rilevabili anche d’ufficio in ogni stato e fase del giudizio di prime cure.

Quanto alla loro eventuale rilevabilità per la prima volta in appello (o negli atti iniziali di impugnazione o in corso di processo) va ricordato che l’art. 76.1 UPCA prevede che “The Court shall decide in accordance with the requests submitted by the parties and shall not award more than is requested” e che l’art. 233.3 RP non consente alle parti di presentare motivi di appello ulteriori o diversi rispetto a quelli dichiarati nei grounds of appeal depositati all’inizio del procedimento. Se dunque ammettiamo che simili disposizioni – regolando il regime dei motivi di appello – rappresentano norme speciali, verrebbe naturale supporre che si tratti di norme che prevalgono anche rispetto agli artt. da 360 a 363 RP. Il che imporrebbe di ritenere che, anche per le eccezioni rilevabili d’ufficio, vale quanto detto per le altre eccezioni, ossia che si convertono in motivi di appello e che – una volta depositati gli atti iniziali di seconde cure - non potranno più essere né rilevate dalle partì né sollevate ex officio, salvo in presenza dei rigorosi requisiti per la presentazione di una istanza di parte per restitutio in integrum ai sensi dell’art. 320 RP.

Vi è tuttavia un chiarissimo indizio testuale in senso contrario. L’art. 363 RP - ossia la norma che assoggetta ad appello ex art. 220.1(a) le decisioni rese ai sensi degli artt. da 360 a 362 RP - nella misura in cui specifica che questo effetto si verifica solo “where the decision is taken by the Court of First Istance” lascia infatti intendere che vi siano anche decisioni ai sensi degli artt. da 360 a 362 RP che possono essere prese dalla corte di appello (e che, di conseguenza, non saranno impugnabili). Proprio il tenore letterale della norma in questione dovrebbe dunque confermare al di là di ogni ragionevole dubbio che le eccezioni che rientrano nei casi di cui agli artt. da 360 a 362 RP sono rilevabili (anche d’ufficio con procedura sommaria, sentite le parti, e con pronuncia di una ordinanza collegiale anticipata) - oltre che in prime cure - anche in ogni stato e fase del procedimento di appello, dunque a partire dagli atti iniziali (il che singifica essenzialmente anche per la prima volta nella dichiarazione di appello o nei motivi di appello) sino alla chiusura della discussione finale dinanzi al collegio (senza che sia necessario chiedere, come per le altre eccezioni, la restitutio in integrum ai sensi dell’art. 320 RP).           

Chiariti gli aspetti sostanziali del regime delle eccezioni rilevabili d’ufficio, non resta che passare in rassegna le ipotesi che potrebbero verificarsi in concreto, con riferimento ai modi e tempi per la decisione sulle eccezioni soggette al regime di rilevabilità d’ufficio.

La prima ipotesi è che il giudice istruttore, di fronte a un’eccezione di parte, non ritenga di sottoporre la questione al collegio per una decisione immediata. Nulla impone infatti all’istruttore - dinanzi ad un’eccezione di parte in corso di processo che consiste nel rilievo di uno dei fatti rilevanti ai sensi degli articoli 360, 361 e 362 RP - di sottoporre immediatamente la questione al collegio: l’istruttore è libero di decidere se e in quale fase del processo farlo. Qualora però l’istruttore non abbia sottoposto al collegio la questione neppure all’udienza di trattazione, si deve ritenere che – se la parte non l’ha nel frattempo ritirata (un ritiro potrebbe peraltro anche desumersi, per fatti concludenti, nel caso in cui la parte non chiede di discuterne durante l’udienza finale) – il collegio dovrebbe ritenerla inclusa nell’oggetto della sua cognizione e dunque inserirla, prima delle questioni di merito, nell’agenda dell’udienza della discussione finale dinanzi a lui. Infine, si deve ritenere che anche la parte possa sollevare la questione per la prima volta nell’udienza finale, obbligando il collegio a trattarne e deciderne.

In tutti questi casi le decisioni del collegio – anche se depositate insieme alla sentenza che eventualmente dovesse definire altre parti del processo - a rigore dovrebbero essere assunte con separata ordinanza ai sensi dell’art. 363 RP, che però sarà impugnabile solo se resa da un collegio di primo grado e - per effetto del rinvio disposto dall’art. 363.2 RP - secondo le regole previste dall’art. 220.1(a). Questo significa che, in via di fatto, non fa alcuna differenza (dunque non dovrebbe trattarsi di un vizio rilevabile come motivo di appello in rito) se la decisione sull’eccezione viene invece pronunciata dal collegio, all’esito della discussione finale, non con separata ordinanza ma come capo della sentenza che definisce il primo grado del processo.

Quando invece il giudice istruttore – di fronte ad un’eccezione di parte – sceglie di sottoporre senza indugio la questione al collegio, e quest’ultimo decide con ordinanza in senso negativo, dunque ritenendo inesistente il vizio e lasciando che il processo prosegua, si deve ritenere che l’ordinanza in questione tenga luogo della decisione di prime cure sullo specifico punto oggetto di decisione e consumi pertanto il potere del collegio di decidere nuovamente sulla medesima questione. Solo questo consente di spiegare perché l’ordinanza collegiale anticipata di rigetto – se resa in prime cure - secondo quanto previsto dall’art. 363.2 RP può (e deve) essere considerata a tutti gli effetti come decisione di primo grado, impugnabile dunque solo ai sensi dell’art. 220.1.a RP con appello immediato nei termini ordinari.

Dunque l’ordinanza anticipata va impugnata immediatamente sia quando il procedimento prosegue dopo la sua pronuncia (dunque nel caso o di rigetto o di accoglimento solo in relazione a una o più domande che formano oggetto del processo) e sia - a maggior ragione - nei casi in cui il invece collegio, accogliendo l’eccezione, definisce il processo in relazione a tutte le domande.

Resta infine da chiedersi che accade se il collegio, investito di una delle questioni di cui si tratta, volesse rinviare la decisione alla fine del processo, in modo da poter decidere dopo la discussione orale del caso e, dunque, in uno con il merito. Invero – per quanto l’art. 363 RP non dica nulla al riguardo - deve dubitarsi del fatto che il collegio abbia questo potere. Occorre infatti a tale riguardo considerare che il rimedio in questione ha la specifica funzione di consentire l’eventuale definizione anticipata del processo su impulso (e previo filtro) del giudice istruttore in presenza di una situazione di grave ed evidente patologia processuale. Inoltre il regolamento prevede per questi casi una procedura di trattazione e decisione snella e sommaria (ordinanza collegiale sentite le parti), dunque suggerendo che si tratti di questioni che - una volta ritenute prima facie fondate dall’istruttore - dovrebbero essere discusse e risolte in fretta, per ragioni di economia processuale. Tutto questo induce a ritenere che il giudice istruttore sia il solo titolare del potere di decidere “quando” attivare il potere del collegio di decidere sommariamente e rapidamente sulle eccezioni prima dell’udienza finale, mentre il collegio ha a sua volta solo il compito di decidere della questione – in modo rapido e sentite le parti – una volta che l’istruttore abbia ritenuto opportuno sottoporgliela in anticipo.

 

  1. Allegazioni e contestazioni in fatto e diritto, mezzi di prova e istanze istruttorie

 

L’art. 171.2 RP prevede che qualunque dichiarazione di una parte, se non contestata da nessun’ altra parte, deve essere considerata come pacifica e dunque vera. A sua volta, l’art. 54 UPCA prevede che sia onere della parte che allega un fatto a sostengo dell’accoglimento delle sue domande (ed eccezioni) provare quel fatto in giudizio. Dunque, a prima vista, parrebbe che anche nel processo dinanzi all’UPC – in linea con quanto accade nel nostro codice di rito - valga una versione piuttosto rigorosa del principio dispositivo, sia in tema di allegazioni e contestazioni di parte sia in tema di prova. Sennonché, quando si esamina il complesso delle disposizioni in punto di trattazione e istruzione del processo dinanzi alla corte unificata, si scopre che i principi generali cui si ispira il sistema sono in realtà assai differenti.

A depotenziare le perentorie affermazioni che si leggono nelle due norme prima citate, provvede infatti anzitutto l’art. 9 RP, norma fondamentale nel sistema processuale dell’UPC, il cui contenuto potrebbe stupire noi giuristi italiani, abituati al formalismo del codice di procedura civile nazionale (e della lettura rigorosa, se non rigorista, che di quelle norme la nostra giurisprudenza offre). La norma in questione attribuisce infatti al giudice istruttore una discrezionalità assai ampia nel “gestire” sia le allegazioni e le contestazioni in fatto e diritto delle parti del processo sia l’attività istruttoria, sia – infine e addirittura - le relative preclusioni e termini di decadenza.

           

Rule 9 – Powers of the Court

1. The Court may, at any stage of the proceedings, of its own motion or on a reasoned request by a party, make a procedural order such as to order a party to take any step, answer any question or provide any clarification or evidence, within time periods to be specified.

2. The Court may disregard any step, fact, evidence or argument which a party has not taken or submitted in accordance with a time limit set by the Court or these Rules.

3. Subject to paragraph 4, on a reasoned request by a party, the Court may:

(a) extend, even retrospectively, a time period referred to in these Rules or imposed by the Court; and

(b) shorten any such time period.

4. The Court shall not extend the time periods referred to in Rules 198.1, 213.1 and 224.1.

 

Il primo comma della norma attribuisce dunque al giudice[45] un potere ampio (ed esercitabile anche ex officio in ogni fase del procedimento) di ordinare alle parti di compiere qualunque attività processuale che egli stesso ritenga opportuna per una corretta trattazione e decisione del caso.

Il secondo comma consente al Giudice di considerare ordinatori (dunque non perentori) tutti i termini processuali assegnati alle parti dalla legge o dal giudice, disponendo che – in caso di mancato rispetto di un termine – il giudice semplicemente “may” (“può”, dunque non “deve”) considerare come non posta in essere l’attività, il fatto, la prova o l’argomento tardivo. Importante notare come questa parte della norma non contenga invece un riferimento alle pretese delle parti (ossia, in inglese, a quelli che vengono definiti “claims”), ipotesi in relazione alle quali dunque – sia che si tratti di pretese avanzate sotto forma di domanda che in via di eccezione – i termini dovrebbero essere considerati perentori (nel senso che eventuali modifiche delle domande e delle eccezioni restano soggette al regime delle preclusioni che abbiamo illustrato nella sezione precedente di questo scritto).

Il terzo comma dell’art. 9 RP prevede infine un potere generale del giudice – questa volta esercitabile solo in presenza di una

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