fbevnts Troppo sarebbe che un privato potesse imporre ad una comune’.Di un caso di (mancato) esproprio nel Ticino di inizio Ottocento

Troppo sarebbe che un privato potesse imporre ad una comune’.Di un caso di (mancato) esproprio nel Ticino di inizio Ottocento

21.06.2023

Michele Fedrighini*

 

Troppo sarebbe che un privato potesse imporre ad una comune’.Di un caso di (mancato) esproprio nel Ticino di inizio Ottocento**

 

English title: ‘It would be too much for a citizen to impose on the public’. On a case of (failed) expropriation in Ticino at the beginning of the 19th century

DOI: 10.26350/18277942_000126

 

Sommario: 1. Pubblica amministrazione e gestione del territorio: un’introduzione. 2. Il Ticino del primo ottocento: nascita e formazione di un Cantone.  3. La controversia tra Giuseppe Fontana e il Comune di Camignolo: un emblematico caso di studio. 4. Legislazione e sistema stradale ticinesi.  5. Note conclusive.

 

  1.  Pubblica amministrazione e gestione del territorio: un’introduzione

 

Che il processo innescato in Francia a partire dal 1789 segni il definitivo superamento di quell’antico regime che per secoli aveva retto le sorti della vecchia Europa è concetto fin troppo noto, tanto che potrebbe apparire perfino superfluo il rimarcarlo, se non fosse che, come è stato lucidamente messo in luce, mentre da un lato la Rivoluzione abbatte con violenza ogni menoma traccia di un ordine percepito pressoché ovunque come ormai vieto e superato[1], è d’altra parte necessario evidenziare come “i costituenti non avevano preventivato che dalla loro opera rinnovatrice sarebbe scaturito uno Stato continental-ottocentesco a tal punto condizionato dalla centralità dell’amministrazione da identificare proprio in essa il suo nucleo essenziale e indisponibile”[2].

Sono proprio queste preliminari osservazioni a rappresentare lo spunto delle pagine che seguono, spingendoci ad indugiare su alcuni peculiari aspetti di tale assai ampia materia, e a soffermare l’attenzione su quella lenta, ma fondamentale, evoluzione, che porterà alla nascita dell’amministrazione pubblica moderna[3].

Il presente studio intende occuparsi, in particolare, dell’analisi dei fitti rapporti instauratisi tra organizzazione della cosa pubblica e governo dello spazio in un periodo così denso di rivolgimenti quale è appunto quello posto a cavaliere tra XVIII e XIX secolo, non a caso individuato come data di nascita della spazialità moderna[4]. È proprio in questo torno di tempo che il territorio, ormai ridotto a “spazio vuoto e giuridicamente neutro”[5], “nella contraddittoria sovrapposizione di circoscrizioni, di privilegi provinciali, cittadini, comunitativi, nella sua storica disomogeneità, viene azzerato [e in esso] gli interessi particolari, anche se di tipo territoriale, non hanno più cittadinanza e devono cedere al primato, indiscusso, dell’interesse generale”[6]. Se tali considerazioni ci permettono, pertanto, di sostenere che “la Rivoluzione cancella la storicità del territorio”[7], non possiamo tuttavia dimenticare che tra le numerose competenze di cui il nuovo sistema, generato nel 1789 e giunto a maturazione, dopo una turbolenta pubertà, nel corso del regime napoleonico, investe lo Stato, l’opera di strutturazione dell’elemento spaziale assurge a funzione di fondamentale rilievo, in quanto non solo direttamente rispondente agli interessi della collettività, ma capace, altresì, di rappresentare l’emblema di un potere irrimediabilmente nuovo[8].

È alla luce di tali premesse che appare allora utile indagare l’azione concretamente posta in essere dagli organi dell’amministrazione statale, a livello tanto centrale quanto periferico, in una materia così rilevante come quella dei lavori pubblici, che assumono proprio a partire da quest’epoca un nuovo e più rilevante valore[9].

A tal fine crediamo sia non privo d’interesse prendere avvio dal case study costituito dalla controversia sorta nel secondo decennio del XIX secolo tra un privato cittadino e la municipalità di una piccola comunità dell’(allora) neonato Cantone Ticino, circostanza che ci permette altresì di comprendere le modalità con le quali il dettato legislativo viene recepito e attuato nella prassi delle relazioni quotidiane[10]. L’inedita vertenza, emersa dalle carte dell’Archivio di Stato di Bellinzona, assume notevole rilievo almeno sotto un duplice aspetto: essa ci consente infatti, in primo luogo, di valutare se e come i germi gettati con l’invasione francese della Svizzera siano stati in grado di attecchire, in una realtà tanto peculiare come quella elvetica, da sempre gelosa dei suoi costumi e della sua tradizionale indipendenza[11], e quindi di comprendere in che modo le scelte relative all’organizzazione e gestione dello spazio siano suscettibili di incidere sulle dinamiche dei rapporti insistenti tra apparato amministrativo e privati, in una realtà in cui, come si vedrà, proprio in questi decenni è impegnata a portare a termine un tutt’altro che semplice processo di state building[12]

 

  1. Il Ticino del primo Ottocento: nascita e formazione di un Cantone

 

Il 1798 segna prepotentemente la fine dell’ancien régime in Svizzera[13]: l’ingresso delle truppe direttoriali francesi nel territorio della Confederazione dei tredici cantoni importa infatti il superamento del vecchio regime vigente da secoli ed introduce un ordinamento completamente nuovo, fondato sui principi inalienabili del primato della legge e dei diritti fondamentali dell’uomo, ed organizzato all’interno di una repubblica dotata di una costituzione ispirata al modello del testo rivoluzionario dell’anno III[14]. Come è stato evidenziato, un tale rivolgimento produce effetti dirompenti soprattutto nei territori subalpini che, soggetti all’amministrazione dei Cantoni Sovrani Confederati sin dal principio del XVI secolo[15], ottengono finalmente la libertà e vengono riorganizzati nei due cantoni indipendenti di Lugano e Bellinzona[16]. Tuttavia “il tentativo di trasformare la Svizzera in uno Stato unitario si rivel[a] presto velleitario. La Repubblica Elvetica trascin[a infatti] la propria esistenza sino al 1802 tra continui sussulti, dovuti - oltre che alle ripercussioni degli avvenimenti europei - a episodi di resistenza e conati di reazione, nonché ai continui contrasti tra unitari e federalisti”[17], finché il 19 febbraio 1803 l’autocrate corso, rilevato il fallimento del modello centralizzato di stampo francese, dà vita con l’Atto di Mediazione ad una Confederazione di 19 cantoni, a cui il Ticino prende parte per la prima volta in qualità di nuova entità indipendente con capitale Bellinzona, suddivisa al suo interno in otto distretti corrispondenti agli antichi baliaggi[18].

Non possiamo addentrarci nel denso viluppo delle spesso intricate vicende connotanti i primi anni di vita del neonato cantone, dobbiamo però rilevare che il periodo immediatamente successivo inaugura anni complessi, in cui le autorità locali sono costantemente impegnate nella risoluzione di rilevanti problematiche che minacciano di frammentare l’unità e l’autonomia dello Stato, sul fronte interno come su quello esterno[19].

Alla caduta di Napoleone, “il Ticino [deve] riformare la costituzione, ma lo [fa] controvoglia: toccare l’atto del 1803 significa riaprire vecchie contese e rimettere in moto le forze centrifughe che, a più riprese, avevano minacciato l’integrità cantonale”[20]. E il 1814 è infatti un anno di profonda crisi: rigettata dalle forze austro-russe la nuova carta redatta dal Gran Consiglio, tacciata di essere eccessivamente liberale, quando le autorità ticinesi tentano “di attivare la costituzione imposta delle potenze, [sono] travolte da disordini popolari e da un sollevamento armato che caccia il governo, sostituendolo con una reggenza provvisoria guidata dall’avvocato Angelo Maria Stoppani”[21]. Ma di fronte al rischio di una nuova ondata rivoluzionaria, la reazione della Confederazione non si fa attendere e, occupato militarmente il cantone, viene intrapresa un’attenta opera di epurazione dei sovversivi e nel dicembre di quello stesso anno entra in vigore la nuova costituzione, che introduce nel Paese un sistema decisamente autoritario, caratterizzato da un esecutivo forte e da un rilevante accentramento dei poteri nella figura del Landamano, capo del governo[22].

È Giovan Battista Quadri[23], fautore di una politica conservatrice e austriacante, la figura chiave di questo periodo, certamente inquinato dai vizi del clientelismo e della personalizzazione del potere, ma al contempo caratterizzato da una significativa spinta alla modernizzazione del Paese e al consolidamento di una realtà ancora caratterizzata da uno scarso grado di omogeneità; e non è certo un caso che proprio in questi anni, se da un lato si dà avvio ad un’attività normativa e organizzativa diretta a realizzare “la volontà di dar forma a uno Stato ben ordinato e retto da leggi uniformi”[24] mediante, exempli causa, la sostituzione dei vecchi regolamenti distrettuali con un moderno codice di procedura civile e l’allestimento dei registri della popolazione e dell’estimo dei beni, oltre alla riorganizzazione dei tribunali e delle giudicature di pace, dall’altro vengono intrapresi sforzi incessanti, finalizzati alla realizzazione di un’unificazione anche territoriale del Ticino, grazie alla costruzione di un’efficiente rete stradale, quale presupposto fondamentale per le comunicazioni e i commerci[25].

Tale stato di cose permarrà sino agli anni ’30 del secolo, quando la riforma guidata da Stefano Franscini instaura anche nella Svizzera italiana un nuovo ordinamento liberale; ma neppure questa volta si tratta di un risultato definitivamente raggiunto, anzi, il risorgere di spinte reazionarie, la vittoria del partito moderato alle elezioni del 1839 e l’inasprirsi del processo di ostracismo nei confronti dell’elemento liberale, sfocerà ben presto nel colpo di stato di dicembre che, se porterà nuovamente il Franscini e i suoi al potere, non riuscirà tuttavia ad impedire l’emergere di numerose resistenze, che contrassegneranno tutto il decennio successivo[26].  

 

3. La controversia tra Giuseppe Fontana e il Comune di Camignolo: un emblematico caso di studio

 

Risale proprio a quel fatidico 1814 la vertenza che intendiamo ora analizzare, in quanto, come anticipato, rappresenta a nostro parere un emblematico punto di partenza per una riflessione che, prendendo l’abbrivio dall’esame della normativa stradale vigente in Ticino nella prima metà dell’Ottocento, ci consentirà di estendere il discorso al rapporto dialettico insistente tra potere pubblico e sfera privata, in un’epoca così ricca di rivolgimenti[27].

Porta infatti la data del 5 giugno 1814 la missiva, diretta al Governo cantonale, con cui Giuseppe Fontana di Camignolo, modesta località ai piedi del Monte Ceneri, lamenta che l’assemblea comunale, “jeri legalmente convocata nel luogo solito di sua radunanza a maggioranza di voti sedici contro tredici” ha deliberato l’espropriazione di un fondo di sua proprietà “per formare una porzione di strada più comoda ad alcuni individui, quand’anche ne abbiano due altre vecchie usitate da secoli”[28]. Di fronte a quello che viene percepito dal privato come un ingiustificato abuso, il petente sollecita il tempestivo intervento dell’Esecutivo, supplicandolo di non voler “rilasciare alcun permesso su tal’oggetto, se non dopo sentite la sue raggioni”[29].

Non disponiamo, purtroppo, del testo della deliberazione adottata in merito dal Piccolo Consiglio, tuttavia, dalla replica inviata il successivo 16 giugno dal giudice di pace del Circolo di Taverne siamo in grado di affermare che il caso giunse effettivamente all’attenzione dell’organo, il quale avrebbe originariamente dato mandato al magistrato di intraprendere un’opera di mediazione tra le parti, affinché la pendenza venisse risolta in via conciliativa[30]. Risultati vani i tentativi in questo senso, nell’impossibilità di addivenire ad una soluzione compromissoria tra le diverse posizioni, lo scrivente deferisce quindi nuovamente la questione al mittente, ma non prima di aver ricapitolato le diverse ragioni addotte dai contendenti e di avere infine offerto il proprio personale punto di vista: se in presenza di un interesse pubblico il comune (intenzionato alla riapertura di quel passaggio ma, si badi, escludendo espressamente l’eventualità di adire l’autorità giudiziaria) ha diritto alla costruzione di una nuova strada su un fondo altrui, purché dietro pagamento di un giusto indennizzo e con il minor pregiudizio possibile per il danneggiato, tanto più lo stesso dovrebbe considerarsi autorizzato all’occupazione di una porzione di terreno “per ripristinare la comunicazione dei due pezzi dell’antica strada tutt’ora esistenti”[31].

Si badi, le espressioni qui riportate dal giudice di pace, unitamente alle successive argomentazioni addotte dai rappresentanti di Camignolo, lungi dal consistere in una mera ripetizione di quanto presentato dal Fontana, permettono di acquisire una più adeguata conoscenza delle circostanze fattuali della vicenda, che rappresentano il presupposto necessario per la corretta qualificazione della fattispecie astratta entro cui quest’ultima si inserisce: i lavori che il comune intende intraprendere non devono infatti essere enumerati tra le opere di nuova costruzione che pure in questi anni vengono eseguiti un po’ ovunque in territorio ticinese, bensì fanno riferimento ad operazioni di ripristino di un passaggio già esistente ed utilizzato nel passato, reso impraticabile da un successivo smottamento del terreno[32], cui il comune non aveva per vero tempestivamente reagito, provvedendo alle necessarie riparazioni, probabilmente giustificando la sua inerzia con la presenza di un’altra strada che, pur se con maggior dispendio di tempo, avrebbe comunque permesso ai pedoni di giungere a destinazione. È in questo frangente che si inserisce la condotta del Fontana che, sentendosi forse autorizzato dall’inerzia degli organi comunali, aveva arbitrariamente incorporato alla sua proprietà quella porzione di strada[33].

Ora, le ragioni poste dal privato a conferma della sua pretesa, non esplicitate nella memoria destinata al Piccolo Consiglio, affiorano invero dalle contestazioni della municipalità, da cui apprendiamo che il proprietario avrebbe infatti eccepito il maturare della prescrizione e così affermato che il diritto comunale si sarebbe nel frattempo estinto a causa del mancato esercizio protratto nel tempo; è dunque di fronte a tali asserzioni che la municipalità non solo ricusa le affermazioni della controparte, asserendo che “i diritti di una Popolazione non prescrivono mai”, ma sostiene altresì che “quel che [il comune] volle una volta, lo vuole anche adesso, cioè riformar quella strada col servirsi d’una porzione del fondo Fontana, di cui non può fare a meno, giacché nella prima costruzione di quella strada naturalmente la Comune si è servita del fondo de’ Particolari per diritto, e non per grazia”[34]; neppure infine merita accoglimento la difesa fondata sull’esistenza di un diverso percorso, in quanto “lung[o] più del doppio” di quello che si intende riattare, oltre che parimenti bisognoso di importanti interventi di restauro.

A chiusura della sua accurata relazione, il magistrato fissa dunque il punctum dolens della vertenza, su cui i consiglieri sono invitati a pronunciarsi: “resta a vedersi se il diritto della Comune di ripristinare la strada accennata sia legalmente prescritto, o nò, ciocché forma il cardine della questione”[35], e al contempo, non esitando a manifestare il proprio personale parere sul merito della vicenda, afferma che, come il Governo, in presenza di pubblica utilità, è legittimato ad intraprendere una procedura di esproprio dei fondi privati, così, mediante l’applicazione di un argumentum a majori ad minus, lo stesso diritto non può essere negato all’ente municipale, purché ovviamente sia ravvisabile un interesse della collettività locale e sia stanziata una somma adeguata ad indennizzare il soggetto pregiudicato[36]. Aggiungendo infine che “sarà quindi da ritenersi insussistente l’adotta prescrizione, che non può aver luogo ove trattasi di utilità, e comodità pubblica quando non vi sia formale rinuncia, o particolar convenzione seguita”[37], il rapporto termina con una massima che non può certo lasciarci indifferenti: “troppo sarebbe, che un Privato potesse imporre ad una Comune quando trattasi di cosa giustamente, e pubblicamente utile e comoda”[38].  

Ricostruita nei suoi tratti essenziali la controversia ed evidenziate le principali questioni in fatto e in diritto che emergono dalle allegazioni delle parti, non possiamo tuttavia negare che la qualificazione della fattispecie avanzata dal giudice di pace non convince totalmente. Se infatti, da un lato, l’argomentazione addotta per avallare in via generale l’estensione della titolarità di un potere ablatorio agli organi comunali risulta ineccepibile, è però il medesimo riferimento all’espropriazione, sulla base della proposta rappresentazione della vicenda, ad apparire fuorviante: sul presupposto che il tratto di fondo che il comune intende occupare per realizzare la necessaria comunicazione tra le due strade, ancor prima dell’avvenuto smottamento, era già incorporato al suolo pubblico, il ragionamento esposto dal giudice, laddove diretto a disconoscere l’operatività della prescrizione, contemporaneamente consentendo alla municipalità di effettuare l’esproprio, finisce per ammettere l’eventualità (assurda, è ovvio!) che il comune possa espropriare se stesso.

E, infatti, delle due l’una: o, aderendo all’ipotesi prospettata dal Fontana, la prescrizione ha effettivamente operato, ma allora la porzione di fondo, ora di proprietà privata, potrà essere oggetto di un atto autoritativo del potere pubblico, diretto a sottrarla al suo attuale titolare, o al contrario, seguendo le ragioni degli amministratori, la fattispecie prescrizionale non può considerarsi integrata, e allora l’incorporazione del segmento stradale da parte del privato dovrà essere considerata illegittima e l’autorità potrà agire in via di autotutela, essendo totalmente inconferente il riferimento alla espropriazione. Tertium non datur.

Eppure, pare doversi aggiungere, rebus sic stantibus. Spieghiamoci meglio: se da un lato il giudice di pace assicura i suoi lettori circa la veridicità dei fatti esposti nella relazione, autorizzandoci a basare su tali assunti la ricostruzione della fattispecie, dall’altro non possiamo però negare che le contestazioni alle quali si espone la sua tesi ci inducono quantomeno ad ipotizzare che le circostanze della vicenda presentino dei caratteri ulteriori, non esplicitati nelle dichiarazioni rese dai ricorrenti, probabilmente assunte come notorie e conosciute dallo stesso scrivente. Tale supposizione è corroborata dalla circostanza che, benché le richieste del municipio insistano nella direzione di “riaprir una strada comunale” (e già qualificata come tale prima del verificarsi dell’evento franoso!), quest’ultima definizione sarebbe invero utilizzata in senso per lo più generico e atecnico, laddove la strada in oggetto dovrebbe al contrario essere ricompresa nel novero di quelle vie di transito che, percorrendo fondi privati e campi coltivati, contraddistinguevano (e spesso contraddistinguono ancora oggi) il reticolato panorama rurale circostante i centri abitati, costituendo così un irrinunciabile strumento per il collegamento nelle e delle campagne. Si tratta, cioè, delle vie denominate allora come rurali o agrarie, corsi di proprietà privata, gravati però da uno ius in re aliena, e nella fattispecie una servitù di passaggio, in favore del pubblico[39].

Ora, non possiamo non evidenziare che, proprio adottando questa diversa soluzione, le osservazioni contenute nella memoria su cui abbiamo sin qui concentrato la nostra analisi acquisiscono un nuovo (e questa volta finalmente compiuto) significato, potendo così sottrarsi alle critiche che le verrebbero altrimenti mosse[40]: essendo infatti il comune titolare di una mera servitù, qualora si ammetta che il mancato esercizio di tale diritto, prolungato nel tempo, possa produrre un effetto prescrittivo dello stesso, la municipalità, interessata a ripristinare quel tratto di strada, non avrà altra scelta che esercitare i poteri di esproprio ad essa attribuiti dalla legge. E non è certo un caso che la vertenza, trasmessa dal Piccolo al Grande Consiglio dopo un periodo di decantazione di oltre un mese e affrontata, in ragione della sua urgenza, nella seduta del 24 giugno, continui ad essere presentata come “petizione […] per ottenere l’espropriazione di un pezzo di terreno per costruire la strada comunale”[41], dovendosi così osservare che anche l’organo legislativo assume pacificamente la ricostruzione da ultimo proposta.

Una volta qualificata correttamente la fattispecie, non ci resta che affrontare l’ultimo tratto dell’iter caratterizzante la vicenda e comprendere come, alla luce delle suesposte considerazioni, i deputati ticinesi tentino di sciogliere il bandolo della matassa. Eppure, diversamente da quanto saremmo portati ad immaginare, le carte d’archivio ci restituiscono un epilogo ben diverso da quanto astrattamente prospettabile: trasferita la questione all’esame di una commissione interna di cinque membri, questa non riuscirà ad ultimare il compito assegnatole, solo due giorni dopo infatti, nella sessione del 26 giugno, il presidente dell’assemblea comunica che “la vertenza […] è stata amichevolmente ultimata, che quindi non fa d’uopo d’alcuna deliberazione in proposito”[42].

Non possiamo nascondere un certo rammarico per le modalità con le quali la vertenza si è infine risolta, sul presupposto che, qualora fosse stata effettivamente definita dai deputati cantonali, la deliberazione adottata avrebbe presumibilmente reso manifesto il ragionamento impiegato per la sua composizione, consentendoci non solo di comprendere le norme concretamente applicate al caso di specie, ma soprattutto, e più in generale, di cogliere le valutazioni fatte proprie dagli organi cantonali nella difficile opera di contemperamento di interessi confliggenti, tanto più rilevante quando, come nella vicenda esaminata, il perseguimento dell’interesse pubblico si imbatte, scontrandovisi, con la tutela della sfera privata del singolo individuo.

 

4. Legislazione e sistema stradale ticinesi

 

Eppure siamo convinti che anche simili vicende costituiscano una valida opportunità, od almeno un utile pretesto, finalizzati a cogliere qualche aspetto ulteriore della realtà (giuridica, ma non solo) ad esse sottesa, e ad indagare così l’organizzazione ed il concreto operare degli organi demandati alla gestione della res publica, alla luce della vigente legislazione.

Dovendo anzitutto intraprendere una seppur sommaria descrizione della struttura istituzionale ticinese, la nostra indagine non può che prendere avvio dal 1803: se infatti, come abbiamo ricordato, è la conquista napoleonica del 1798 a segnare l’uscita della Svizzera dal pantano dell’antico regime, è però solo con l’Atto di Mediazione che le innovazioni importate dalla Francia assumono un apprezzabile grado di certezza e stabilità. Su tale presupposto, va in particolare evidenziato come, nel neonato cantone, il potere legislativo sia affidato ad un Gran Consiglio di 110 membri, eletti ogni cinque anni dall’assemblea dei cittadini attivi, mentre il potere esecutivo venga esercitato da un Piccolo Consiglio di 9 ministri, scelti dall’organo deliberativo[43]; per quanto riguarda la composizione dell’ente di gestione locale appare piuttosto degna di nota l’osservazione secondo la quale, fin dal superamento del sistema balivale[44], esso assume “una «struttura amministrativa» completamente nuova, [in quanto] cessa di costituire un piccolo «Stato soggetto», senza interesse pubblico al di fuori dei propri confini giurisdizionali, per inserirsi nell’organizzazione dello Stato, divenendone parte”[45]: nella fattispecie la nuova costituzione cantonale stabilisce che in ognuno dei 255 comuni sia instaurata “una Municipalità composta del sindaco, di due aggiunti e di un consiglio municipale di almeno 8 membri e di 16 massimo”[46], cui sono affidati compiti di polizia locale, esazione delle imposte e gestione dei beni comunali. L’attività del nuovo soggetto istituzionale è soggetta in primo luogo al giudice di pace, che ha però il compito piuttosto ridotto di ammonire le amministrazioni inoperose e di dirimere le controversie tra queste e i cittadini, e in via più generale al Governo, essendo la sua autonomia tutelata dalla circostanza che in caso di controversie con gli altri poteri dello Stato, la decisione non segue la via gerarchica, venendo bensì rimessa ad un apposito tribunale amministrativo[47].

Con la Restaurazione “le varie costituzioni assunsero una chiara impronta conservatrice: fu negata la separazione dei poteri, rafforzato l’esecutivo e il sistema elettorale fu quasi ovunque ristretto agli autoctoni e limitato da vincoli censitari, la pubblicità dei dibattiti fu proibita”[48]; nella fattispecie, la Carta imposta al popolo ticinese mantiene l'esercizio del potere legislativo in capo ad un Gran Consiglio, la cui composizione viene però significativamente ridotta a soli 76 membri, mentre il governo (d’ora innanzi chiamato Consiglio di Stato) vede aumentare ad undici i suoi componenti, presieduti da un Landamano. Si tenga inoltre presente che se l’Esecutivo continua ad essere eletto dall’assemblea cantonale, tra i due organi viene però ad instaurarsi una commistione a dir poco nociva, che rende di fatto il consiglio un “docile strumento facilmente manovrabile dal governo”[49], situazione generata, oltre che dalla circostanza che consente agli amministratori di continuare a far parte dell’organo parlamentare, anche a causa del clientelismo dilagante, frutto della possibilità di cumulare la carica di deputato con impieghi statali superiori (commissari di governo, giudici di pace, ecc.), quasi tutti di nomina governativa[50].

Anche in merito all’organizzazione periferica dello Stato l’influenza conservatrice sviluppatasi a partire dal 1814, pur senza scardinare completamente il sistema precedente, produce sensibili mutamenti[51]: si prevede in particolare il ripristino della prevalenza del diritto di cittadinanza comunale su quella cantonale, subordinandone l’acquisto alla titolarità dello status di patrizio, la riduzione del numero dei membri degli organi municipali e la sostituzione, per lo più formale, della carica consolare a quella di sindaco[52].

Finalmente abbattuto il governo dei Landamani, “la Riforma liberale del trenta ha avuto gran cura di rinforzare il Consiglio de’ rappresentanti del popolo, sia col ricusarvi il diritto di voto a’ membri del potere esecutivo, sia col farlo presiedere da un capo di sua scelta e preso nel suo proprio seno, e sia con inibire a consiglieri l’accettazione e il disimpegno di qualsivoglia carica od impiego pubblico salariato. L’ha poi reso molto più rispettabile ammettendo il popolo alli dibattimenti e stabilendo il gran principio della pubblicità delle operazioni”[53]; le parole del Franscini – come abbiamo appreso, il maggior esponente del nuovo ordine - hanno il merito di marcare le differenze rispetto al superato regime, ponendo l’accento sulla riacquistata autonomia del parlamento (che vede altresì aumentare il numero dei suoi membri a 114) rispetto al Consiglio di Stato, che nondimeno continua ad essere investito di importanti compiti di amministrazione e gestione della cosa pubblica[54]. In relazione al governo municipale bisogna tuttavia osservare che la nuova costituzione non apporta modifiche di rilievo, rimettendole piuttosto ad una successiva legge organica, approvata il 7 giugno 1832[55] ed integrata dalla legge patriziale del I giugno 1835: in forza di tali interventi novellatori le deliberazioni comunali sono rimesse da questo momento ad un’assemblea composta da tutti i cittadini attivi aventi domicilio politico nel comune, ai quali spetta altresì nominare una municipalità con mandato triennale, composta da un numero variabile di amministratori (da due a dieci) e presieduta da un sindaco; agli organi comunali continuano ad essere attribuite funzioni relative alla cura e gestione degli interessi connessi alle collettività locali, salvo per quanto attiene ai beni del patriziato, la cui amministrazione è affidata ad una struttura organizzativa appositamente costituita[56].

 

Passando quindi ad esaminare la disciplina stradale, l’ineludibile punto di partenza per il cultore della materia è senza dubbio costituito dalla perizia redatta nella primavera del 1801 dall’ingegnere Francesco Meschini, ispettore dei ponti e delle strade dei cantoni italiani, e successivamente consegnata alle Camere amministrative cantonali, da cui emerge l’immagine di una rete viaria disastrata, resa ancora più bisognosa di intervento dalle circostanze eccezionali verificatesi negli anni immediatamente precedenti[57]. Merita riflettere sulla circostanza che “al momento della sua costituzione, il Cantone Ticino eredit[a] una struttura stradale che si era consolidata nel XIII secolo, [in cui] la via del San Gottardo era la sola strada importante di transito”, mentre “gli altri tracciati forma[no] il fitto reticolo di poche strade carrabili, mulattiere e sentieri necessari al traffico locale”[58], la cui manutenzione è per di più rimessa all’intervento gratuito e biennale delle vicinanze, nome con cui vengono normalmente indicate le comunità rurali nell’era dei baliaggi. È dunque solo con l’Elvetica che la pianificazione del territorio, mediante la costruzione e la manutenzione di un’efficiente sistema di comunicazione, assurge al rango di questione primaria del nuovo ordinamento, la cui importanza viene particolarmente percepita dal ceto dirigente ticinese non solo quale fattore necessario per garantire celerità e sicurezza a traffici e commerci, ma più in generale quale condicio sine qua non alla realizzazione di un’unificazione (non solo territoriale) del Paese[59].

A cominciare da questo momento prende allora avvio un’intensa attività in materia di lavori pubblici stradali che, proseguita lungo tutto il secolo, impone il primiero intervento del legislatore, chiamato a fornire gli strumenti giuridici necessari alle successive operazioni coordinate dall’esecutivo cantonale e concretamente poste in essere da ingegneri ed appaltatori[60].

Appare anzitutto degno di nota fare riferimento al decreto con cui, nel giugno 1803, il Piccolo Consiglio, “considerando lo stato di degradazione, in cui sono le strade maestre del Cantone”, richiama provvisoriamente in vigore in capo ai comuni e ai proprietari frontisti gli obblighi inerenti alla loro polizia e manutenzione “secondo il riparto, regolamento, e consuetudine, che vigevano prima della rivoluzione del 1798”[61], integrato da un provvedimento del successivo novembre in cui, indicando analiticamente le vie maestre oggetto di pronta riattazione, si pone l’accento sulla circostanza che il governo “è stato autorizzato a far passare dette strade al caso per i fondi appartenente a qualunque particolare, comune, o corporazione, pagando in stima di Periti li prezzi, che saranno occupati”[62]; tale previsione normativa assume un interessante rilievo per la nostra indagine in quanto, definendo “la strada maestra o cantonale quella su cui intervenire prioritariamente prima di porre mano alle altre, introduce il principio dell’espropriazione dei terreni e prevede di dichiarare cantonali tutti i pedaggi per essere «convertiti alla riparazione e manutenzione dello stradale», compiti che in futuro sarebbero spettati al Cantone e non più ai Comuni”[63], ai quali viene ben presto lasciata la sola “gestione di sentieri, mulattiere, viottoli e carraie diramanti sul territorio di ciascuno come una fitta ragnatela”[64].

Dopo un primo naturale (ma tutto considerato breve) periodo di assestamento, in cui reputa opportuno ripristinare la disciplina previgente, l’autorità legislativa intraprende senza sosta la progettazione dei lavori più urgenti, approntando contestualmente una normativa volta a definire le competenze e i mezzi necessari alla loro effettiva realizzazione: nel determinare in particolare i lavori che dovranno essere programmati nel corso dell’anno, nel maggio 1804 il Gran Consiglio decreta anzitutto che “tali opere dovranno essere eseguite per appalto, mediante pubblico incanto”[65], ma è soprattutto l’arresto governativo del 26 giugno ad attirare la nostra attenzione poiché, autorizzando gli appaltatori “a valersi dei fondi di chicchessia tanto per la costruzione della strada, quanto per l’escavazione delle materie ghiarose, e loro deposito, come anche per la surrogazione di accessi e sentieri, e per tutto ciò, che può occorrere per l’esecuzione dell’opera”[66], introduce una prima fondamentale disciplina, diretta a garantire e regolare i poteri ablatori dell’amministrazione pubblica, con l’evidente previsione di un indennizzo in favore del privato pregiudicato dalla perdita o dal danno altrimenti cagionato alla sua proprietà, il cui ammontare viene ripartito tra il Governo (sempre comunque tenuto per il valore del fondo) e l’appaltatore[67]. Merita infine menzione il decreto 27 maggio 1805, che, giustificato alla luce della limitata liquidità goduta dalle casse cantonali, rappresenta il tentativo di conciliare l’esigenza pubblica ad una celere prosecuzione delle opere viarie con la pretesa indennizzatoria delle controparti, laddove autorizza il Piccolo Consiglio a rilasciare ai proprietari dei fondi occupati “una cedola di credito, per quella somma, che risulterà dalla stima da farsi da Periti”, limitando il pagamento in denaro contante “in caso di demolizione di case, o edifizj appartenenti a’ proprietarj assolutamente poverj”[68].

È però con il regime dei Landamani che i semi gettati dalla Mediazione iniziano a produrre abbondanza di frutti: con la Restaurazione si assiste infatti ad un cospicuo aumento delle opere stradali intraprese dalle autorità cantonali, le quali, esplicando “un’azione decisa per modernizzare il Paese ed elevare le condizioni materiali d’esistenza”[69], danno avvio ad imponenti lavori di miglioramento della viabilità del Sottoceneri, cagionando tuttavia in questo modo un rilevante aggravio del debito pubblico della Repubblica, che nel 1830 arriva a superare i cinque milioni di lire[70]. Tali circostanze rendono dunque ancora più evidente la necessità di affidarsi ad una disciplina certa, idonea a costituire una base solida per gli interventi successivi, affinché questi ultimi possano essere intrapresi solo in seguito alla predisposizione di un apparato normativo in grado di definire la ripartizione delle competenze e la definizione degli obblighi gravanti sui diversi soggetti interessati dalle nuove opere pubbliche. A simili esigenze rispondono anzitutto le due leggi del I luglio 1820 riguardanti la manutenzione delle strade cantonali[71] e delle strade di circolo[72]: degno di nota appare anzitutto l’art. 1 del primo provvedimento, che attribuisce allo Stato la proprietà di tutte le strade pubbliche, specificando, alla norma successiva, che strade cantonali “s’intendono quelle soltanto che furono dichiarate Cantonali con atti legislativi dal 29 Ottobre 1803 a questa parte, o che lo saranno in seguito con decreti legislativi”[73]; merita altresì rilievo l’introduzione di sanzioni di natura penale per chiunque danneggi le vie di comunicazione[74] e l’istituzione della nuova figura degli ispettori delegati, cui vengono attribuiti importanti compiti di controllo e sorveglianza delle vie di comunicazione e dei relativi lavori[75]. Avendo quindi prescritto le funzioni conferite alle municipalità e gli obblighi gravanti sui privati, l’atto sancisce infine alcune disposizioni in tema di ornato, quali quelle riguardanti la linea su cui devono essere piantate le siepi, ovvero prescriventi la loro altezza massima, norme che dimostrano un interesse nuovo del legislatore, ormai suscettibile di estendersi oltre il confine degli interventi strettamente necessari[76].

Parimenti rilevante è la legge in materia di strade di circolo, in particolare nella parte in cui pone a carico delle finanze comunali sia l’indennizzazione dei fondi occupati e degli immobili abbattuti per la loro costruzione, sia le spese necessarie alla loro successiva manutenzione[77], mentre il titolo dedicato alle modalità sancite per la formazione delle perizie e la determinazione degli indennizzi dovuti ai privati espropriati  prevede che, in caso di mancato accordo tra le parti, la risoluzione della vertenza sia rimessa alla decisione dell’ingegnere delegato, senza quindi che la questione sia portata alla cognizione dell’autorità giurisdizionale.

Deve infine essere evidenziata l’entrata in vigore del codice civile ticinese del 1837[78], e soprattutto della legge sull’espropriazione forzata per causa di pubblica utilità, emanata dieci anni dopo, nel 1846. A proposito della disciplina codicistica non possiamo non rilevare che il legislatore elvetico, forse anche influenzato dalla legislazione vigente nella vicina Lombardia[79], adotta una definizione della proprietà ancora imperniata sull’antico binomio dominio diretto - dominio utile[80], sancendo peraltro un principio ormai saldamente acquisito, e scandito dai legislatori di tutta Europa, laddove prevede la facoltà concessa all’amministrazione pubblica di oltrepassare la posizione giuridica del singolo per soddisfare gli interessi e i bisogni della collettività; a tale proposito è però necessario evidenziare la forte impronta garantista di cui è connotato l’art. 180, che se da un lato ammette che il proprietario possa essere costretto a cedere i suoi beni in presenza di una superiore utilità pubblica, dall’altro stabilisce che tale potere possa essere esercitato solo in forza di una “previa giusta indennizzazione” (mostrandosi così debitore del codice francese[81], sul presupposto che l’ABGB contiene sì la previsione dell’indennizzo, pur senza specificare che esso debba essere anche previo) ed “in virtù di speciale decreto legislativo”, sottraendo pertanto l’istituto all’arbitrio illimitato dell’organo governativo e rimettendone piuttosto la valutazione al processo dialettico assicurato dall’iter parlamentare.

È invece l’11 dicembre 1846, data di entrata in vigore della legge ticinese sugli espropri[82], a marcare una significativa precedenza rispetto all’esperienza lombarda[83]: il provvedimento segna anzitutto una differenza fondamentale tra i casi in cui il procedimento ablatorio è giustificato da interessi cantonali, da quelli in cui è invece l’utilità comunale ad esigere l’intervento dell’autorità, e mentre nella prima ipotesi l’espropriazione può essere decretata solo dalla legge[84], la diversa ulteriore circostanza prevede l’intervento preliminare dell’assemblea comunale, “convocata appositamente otto giorni prima con l’indicazione dell’oggetto e con due terzi dei voti degli intervenuti” (art. 15), convalidato da un decreto legislativo adottato dal Gran Consiglio, su proposta del Consiglio di Stato[85]. Confermando l’impostazione sancita nel codice civile, il legislatore del 1846 ha voluto, pertanto, mantenere ad un livello assai elevato la garanzia individuale assicurata contro gli atti della forza pubblica, suscettibili di ledere le proprietà altrui; non solo infatti queste operazioni sono consentite in quanto giustificate da una preventiva pronuncia dell’organo rappresentativo degli interessi dell’intera comunità nazionale ticinese, ma tale garanzia è ulteriormente corroborata dalla previsione diretta a rimettere all’autorità giudiziaria la risoluzione di tutte le eventuali controversie insorte tra i privati e l’esecutivo in materia d’indennizzo, in quanto introduttiva di un sistema che, sottraendo la valutazione delle operazioni agli organi dell’amministrazione attiva, dà piena attuazione al principio della separazione dei poteri (assicurando al contempo il rispetto dell’antico adagio processualistico nemo iudex in causa sua): nella fattispecie, la nuova disciplina sancisce infatti che, esperito un tentativo di conciliazione tra le parti, la decisione della vertenza sia deferita alla magistratura (giudice di pace o tribunale di prima istanza, a seconda della competenza), che la risolve con un giudizio esecutorio non appellabile[86].

L’esempio ticinese sembra dunque doversi apprezzare soprattutto in forza di quanto emerge da queste brevi considerazioni, se infatti da un lato gli organi cantonali approntano in tempi piuttosto celeri una specifica normativa ad hoc, dall’altro non si può non rilevare che essa (almeno dal punto di vista teorico) rappresenta un interessante punto d’equilibro tra le ragioni dell’amministrazione, stretta dalla necessità di proseguire l’intensa opera di costruzione stradale avviata nei decenni precedenti, senza peraltro andare incontro a spese esorbitanti, e le legittime aspettative dei privati, interessati alla tutela dei loro diritti, ovvero, nella circostanza di un loro ineludibile sacrificio, al ristoro conseguente un pur legittimo depauperamento della loro sfera patrimoniale (segnatamente laddove i soggetti pregiudicati si trovano, come spesso accade in queste circostanze, in situazioni economiche disagevoli, dove non di vera e propria miseria).

 

5. Note conclusive

 

Così sommariamente descritta la disciplina normativa vigente in Ticino nei primi decenni della sua indipendenza, si tratta ora di riannodare le fila del discorso e tentare di trarre, dall’intreccio tra la vertenza da cui abbiamo preso le mosse e il dettato legislativo, alcune considerazioni conclusive di carattere generale. 

Come abbiamo avuto modo di anticipare, al sorgere del XIX secolo la Svizzera italiana è una regione caratterizzata da una morfologia del territorio prevalentemente montuosa e collinare, contrassegnata da un’economia quasi essenzialmente agricola, esercitata per lo più da coltivatori diretti e piccoli allevatori; i centri urbani sono pochi e presentano in ogni caso un numero di abitanti estremamente ridotto[87]. Non è dunque ascrivibile ai meri frutti del caso la circostanza in forza della quale il nuovo ordine, sorto in seguito all’invasione francese, ponga tra le prime e principali tematiche degne di essere affrontate la questione inerente alle comunicazioni stradali, materia che continuerà a costituire un problema fondamentale per le autorità ticinesi almeno lungo tutta la prima metà dell’Ottocento: sul presupposto che ogni processo di state building non possa esimersi dall’affrontare il tema delle vie di collegamento, quali elementi necessari al fine di garantire una connessione sicura tra gli individui e favorire commerci ed attività produttive[88], considerata la situazione disastrosa in cui versano le strade del cantone ai primordi della sua indipendenza, il Governo è costretto ad affrontare sforzi enormi, impegnandosi fin dai primi anni della raggiunta autonomia in una basilare opera di progettazione che, interessando in misura rilevante la funzione legislativa ed influendo in modo ragguardevole sulle voci di uscita dei bilanci cantonali[89], raggiungerà infine lo scopo di dotare il Paese di una moderna rete stradale. È dunque in tale contesto che si colloca la vicenda che vede ergersi, contro i propositi del comune di Camignolo, le ferme ragioni del cittadino Giuseppe Fontana, diretto a salvaguardare la sua asserita proprietà da un’operazione che andrebbe ad alterarne significativamente il valore e l’utilità pratica.

Ma accanto a queste preliminari osservazioni, altre ne emergono, da un’analisi della vicenda che non voglia esserne una mera, sterile, descrizione; scendendo infatti nel profondo dei rapporti insistenti tra le parti ed analizzando gli opposti interessi di cui ciascuna di esse si fa alfiere, sarà possibile individuare alcuni dei caratteri intrinseci alla relazione pubblico-privato, e quindi comprendere un po’ più da vicino le dinamiche connesse al modus agendi dell’amministrazione (centrale e periferica) dello Stato in questi primi decenni dell’Ottocento, in una materia tanto spesso spinosa quale è quella connessa alla gestione e trasformazione del territorio[90].   

Un primo aspetto che merita di essere scandagliato è rappresentato, a nostro parere, dalla ferma volontà espressa dal potere pubblico di risolvere la vertenza attraverso un accordo transattivo, capace di evitare, per quanto possibile, il ricorso all’instaurazione di un procedimento giudiziario; il dato emerge non solo dal duplice deferimento della questione al giudice di pace, prima, e ad una commissione di membri del Gran Consiglio, poi, ma anche, e soprattutto, dalle espressioni utilizzate dal magistrato delegato, che senza mezzi termini evidenzia la risoluta opposizione dell’autorità municipale di fronte alla possibilità di rimettere la questione alla “via contenziosa del Foro”. Si tratta di una circostanza che riteniamo non debba essere sottovalutata: la ricerca di un iter alternativo a quello processuale trova infatti giustificazione non solo nel desiderio di sottrarre l’amministrazione alle lungaggini e ai costi del giudizio, sempre eccessivi per le languide casse erariali, ma di evitare altresì l’ostacolo di una decisione imprevedibile e potenzialmente avversa, suscettibile di paralizzare irrimediabilmente l’attività dell’ente comunale in una materia, quella dei lavori pubblici appunto, avvertita come fondamentale per la formazione del nuovo Stato. Di più, la particolare prudenza dimostrata dall’atteggiamento tenuto dall’apparato amministrativo denota un fattore ulteriore, solo in parte già accennato: per secoli soggetto alla dominazione dei cantoni del Nord, è solo con l’invasione francese che il Ticino acquista l’agognata indipendenza, eppure, di fronte ad un risultato formale pienamente raggiunto, molto deve ancora essere intrapreso al fine di dare compiuta forma alla recente entità statale, attività insuscettibile di esaurirsi nell’arco di pochi anni, ça va sans dire. La condotta adottata appare dunque non solo plausibile, ma assolutamente giustificabile, in quanto, pur senza voler trarre dai dati archivistici più di quanto siano in grado di esplicitare, dobbiamo rilevare come gli stessi ci restituiscano l’immagine di un’autorità pubblica in divenire, non ancora completamente consapevole del proprio ruolo e, soprattutto, delle facoltà ad esso connesse[91]

I riferimenti alla prescrittibilità di un diritto di titolarità pubblica e all’esercizio del potere d’esproprio, avvalorati dalle acute considerazioni del giudice di pace di Taverne, mostrano inoltre come, pur in assenza di una completa disciplina in tema di beni pubblici e di atti ablatori, le questioni emerse dalla vicenda inaugurano proprio in questi anni i termini fondamentali della questione, intesi quali ineludibili presupposti per l’esercizio dei relativi poteri d’imperio, cercando al contempo di individuare le ragioni giuridiche dirette a giustificare l’estensione agli enti dell’amministrazione periferica di un’attribuzione da sempre riservata agli organi dello Stato centrale[92]. Non è un caso, lo ripetiamo, che sia proprio il XIX secolo ad assistere alla nascita dello Stato a pubblica amministrazione, in cui l’apparato amministrativo moderno inizia a prendere forma e ad acquisire coscienza dei compiti e dei limiti connessi al suo agire[93]; ne è riprova la chiusa del rapporto, cui più volte abbiamo fatto riferimento e che nuovamente richiamiamo, dove l’autore evidenzia che, se deve considerarsi legittima l’opera posta in essere dal Governo cantonale per la costruzione di nuove opere pubbliche, così “anche la Comune di Camignolo per comodo della sua popolazione potrà a diritto prevalersi […] dei fondi de’ privati”. Accanto a tale assunto, è però la conclusione della relazione che assurge a vera e propria massima di sistema: “troppo sarebbe, che un privato potesse imporre ad una comune quando trattasi di cosa giustamente, e pubblicamente utile e comoda”[94].

A prescindere dall’effettiva risoluzione del caso di specie, la vicenda offerta alla nostra attenzione ci deve, infine, indurre a riconsiderare il rapporto sussistente tra proprietà privata e potere pubblico; come è stato evidenziato, la proprietà ottocentesca forma infatti un concetto oltremodo complesso, all’interno del quale, accanto alla visione assolutizzante consacrata dal legislatore francese[95], un diverso, e più meditato, orientamento, introduce l’idea di un diritto necessariamente limitato e limitabile, che “esteriorizzandosi e concretandosi nel diritto di proprietà, non fa più i conti soltanto con il soggetto [che ne è titolare] ma con una realtà fatta di cose e soprattutto di uomini”[96]. Ecco allora che anche le ragioni del Fontana, per quanto degne di considerazione e meritevoli di tutela contro eventuali abusi indebitamente perpetrati dall’autorità, sono (quantomeno in via di principio) costrette a cedere di fronte ai superiori interessi della collettività, che iniziano ad acquisire un peso sempre più preponderante nelle relazioni tra i singoli e il potere pubblico[97]; il tutto, ovviamente, condizionato al formale accertamento dell’utilità pubblica del sacrificio subito dal privato e alla previsione di un indennizzo finalizzato a compensarlo del pregiudizio di una simile perdita[98].

Concludendo queste pur brevi riflessioni non possiamo dunque non osservare come anche una piccola vertenza, consumatasi tra le campagne di una modesta comunità ticinese posta ai piedi del Monte Ceneri, rappresenti l’ennesimo sintomo di un mondo che cambia, e dello svolgersi di quella grande dicotomia tra diritto pubblico e diritto privato, che nel più maturo Ottocento assumerà compiuta forma. Sono proprio simili esempi, che in quest’epoca scaturiscono numerosi dalle concrete vicende della prassi quotidiana, ad impegnare, dapprima, gli organi dell’amministrazione, e quindi la scienza giuridica, nella spesso complessa ricerca di efficaci risoluzioni a questioni che assumeranno via via ben più ampia rilevanza.

Ancora una volta, parafrasando sir Francis Drake, sic parvis magna.

 

Abstract: Starting from the case study represented by a dispute that arose in Ticino between a citizen and the municipal administration for the ownership of a road, this article intends to investigate the role played by the law in the formation of a new concept of spatiality and, therefore, the relationship existing between the construction of modern statehood and the management and transformation of the territory in the first half of the 19th century.

Once the Ticino legislative discipline on the road system has been examined, it is in particular the possibility of carrying out the institution of forced expropriation that assumes a very significant importance, as the reference to the concept of public utility and the necessary balance between the exercise of power and the guarantee of individual property begin to be at the center of a discourse that will play an increasing role in the public-private dialectic in the following.

 

Keywords: Canton Ticino - 19th century - legal space - spatial turn – expropriation - property



* Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (michele.fedrighini@unicatt.it).

** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] P. GROSSI, L’Europa del diritto, Roma-Bari, 2007, pp. 129-135. Per una diversa accezione del fenomeno rivoluzionario: A. CAVANNA, Influenze francesi e continuità di aperture europee nella cultura giuridica dell’Italia dell’Ottocento, in Studi di storia del diritto, Milano, 2001, pp. 719-753; ID., Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti e il pensiero giuridico, vol. II, Milano, 2005, in particolare pp. 395-414.

[2] L. MANNORI-B. SORDI, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari, 2001, p. 225. Se infatti “l’89 aveva dato per acquisito che la semplice rimozione dell'antica società corporativa avrebbe partorito una nazione in sé compiuta, già capace di viversi come una totalità autocosciente”, tale labile certezza subisce negli anni immediatamente successivi un vistoso ridimensionamento, finché con Napoleone “l’enorme vuoto apertosi con la soppressione traumatica dei corpi intermedi chiede di esser colmato da uno Stato onnipresente, che supplisca al deficit di regolazione e di senso d’identità provocato dalla scomparsa delle vecchie strutture”. È in tale contesto che prende forma quello da questo momento viene a ragione definito come Stato a pubblica amministrazione, “destinato a dominare non solo la vicenda francese ma tutto quanto il proscenio dell’Ottocento continentale”; ivi, pp. 246-247, e più diffusamente pp. 225-276. Sul punto assai utile anche: B. SORDI, Diritto pubblico e diritto privato. Una genealogia storica, Bologna, 2020 (in particolare, in relazione ai temi affrontati nel presente contributo, pp. 63-71 e pp. 97-117).

[3] La novità del sistema di amministrazione cha dalla Francia viene esportato (rectius, imposto) pressoché in tutta Europa, è messa in rilievo da M. MERIGGI, Una regione di comuni. Le istituzioni locali lombarde dall’età napoleonica all’unificazione nazionale, in Amministrazione e archivi comunali nel secolo XIX, Milano, 1994, pp. 5-13. Doveroso a tale riguardo il riferimento alla legge del 28 Piovoso anno VIII (17 febbraio 1800), fondativa del nuovo sistema di amministrazione degli enti locali, non a caso definita “la pietra angolare del nuovo assetto periferico e municipale del potere, l’archetipo dell’attuale “codice” comunale e provinciale francese, la progenitrice di molte analoghe leggi vigenti in numerosi Paesi dell’Europa continentale”: P. AIMO, L’amministrazione municipale durante il periodo napoleonico: il modello francese e il caso italiano, in Amministrare, I (1995), pp. 5-19, citazione pp. 7-8. Sul sistema amministrativo francese e sulla sua recezione in Italia, ex pluribus: M. ROBERTI, Milano capitale napoleonica. La formazione di uno Stato moderno, Milano, 1946-1947; J. GODECHOT, Les institutions de la France sous la Révolution et l’Empire, Paris, 1951, pp. 508-520; ID., Originalità e imitazione nelle istituzioni italiane dell’epoca giacobina e napoleonica, in Dagli stati preunitari d’antico regime all’unificazione, a cura di N. RAPONI, Bologna, 1981, pp. 191-205; C. GHISALBERTI, Le amministrazioni locali nel periodo napoleonico, in ID., Contributi alla storia delle amministrazioni preunitarie, Milano, 1963, pp. 37-64; ID., Dall’antico regime al 1848, II ed., Roma-Bari, 1978; P. LEGENDRE, Stato e società in Francia. Dallo stato paterno allo stato-provvidenza: storia dell’amministrazione dal 1750 ai nostri giorni, Milano, 1978 (traduzione di M. Gigante e M. Romei), pp. 131-134; E. ROTELLI, L’alternativa delle autonomie. Istituzioni locali e tendenze politiche nell’Italia moderna, Milano, 1978; P. AIMO, Le origini della giustizia amministrativa. Consigli di prefettura e Consiglio di Stato nell’Italia napoleonica, Milano, 1990; ID., Il centro e la circonferenza. Profili di storia dell’amministrazione, Milano, 2006; ID., Elezione, nomina, cooptazione e sorteggio: modalità di composizione dei consigli comunali in Italia dalla Rivoluzione alla Restaurazione, in Autonomia, forme di governo e democrazia nell’età moderna e contemporanea. Scritti in onore di Ettore Rotelli, a cura di P. AIMO-E. COLOMBO-F. RUGGE, Pavia, 2014, pp. 1-10; L. ANTONIELLI, I prefetti dell’Italia napoleonica. Repubblica e Regno d’Italia, Bologna, 1983; ID., L’amministrazione nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica. I tre momenti di un grande progetto, in L’Italia nell’età napoleonica, Atti del LVIII Congresso di Storia del Risorgimento italiano, Milano 2-5 ottobre 1996, Roma, 1997, pp. 193-220; ID. Le istituzioni dell’età napoleonica, in Storia delle istituzioni politiche. Dall’antico regime all’era globale, a cura di M. MERIGGI-L. TEDOLDI, Roma, 2014, pp. 81-102; A. LIVA, Il controllo centrale sulle amministrazioni locali nel Regno d’Italia, in L’Amministrazione nella storia moderna, vol. I, Milano, 1985, pp. 865-951; C. ZAGHI, L’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, Torino, 1986; E. PAGANO, Consiglio comunale e notabilato a Milano nell’età napoleonica, in Veneto e Lombardia tra rivoluzione giacobina ed età napoleonica. Economia, territorio, istituzioni, a cura di G. L. FONTANA–A. LAZZARINI, Roma-Bari, 1992, pp. 539-562; ID., Il Comune di Milano nell’età napoleonica: 1800-1814, II ed., Milano, 2002; ID., Enti locali e Stato in Italia sotto Napoleone. Repubblica e Regno d’Italia (1802-1814), Roma, 2007; S. MANNONI, Une et indivisibile. Storia dell’accentramento amministrativo in Francia, Milano, 1994; A. GIOVANAZZI, I consigli di prefettura dell’Italia napoleonica. Acque e strade tra amministrazione e disciplinamento, Tesi di dottorato in Studi storici e documentari, XXVIII ciclo, Università degli Studi di Milano, 2004-2005; La formazione del primo Stato italiano e Milano capitale 1802-1814. Convegno internazionale (Milano, 13-16 novembre 2002), a cura di A. ROBBIATI BIANCHI, Milano, 2006.

[4] Suole parlarsi a tal proposito di spatial turn, con ciò volendo fare riferimento a quel nuovo orientamento metodologico “che negli ultimi decenni ha suggerito la necessità da un lato di rivalutare il ruolo assolto dallo spazio nell’evoluzione storica delle società, dall’altro di adottarlo come categoria analitica prevalente di lettura della realtà”, Movimenti e confini. Spazi mobili nell’Italia preunitaria, a cura di L. DI FIORE–M. MERIGGI, Roma, 2013, in particolare pp. 15-19, citazione p. 15. Si vedano altresì: Organizzazione del potere e territorio. Contributi per una lettura storica della spazialità, a cura di L. BLANCO, Milano, 2008; P. COSTA, A ‘Spatial Turn’ for Legal History? A Tentative Assessment, in Spatial and Temporal Dimension for Legal History. Research Experience and Itineraries, a cura di M. MECCARELLI-M. J. SOLLA SASTRE, Frankfurt am Main, 2016, pp. 27-62. Tra gli studi che hanno inteso indagare questo aspetto, si faccia riferimento, in particolare, ai lavori compiuti da Michele Luminati sull’incidenza esercitata dal diritto nelle articolate vicende inerenti alla ricostruzione della città di Noto, in seguito alla sua distruzione, causata dal grande terremoto del 1693: M. LUMINATI, Erdbeben in Noto. Krisen- und Katastrophenbewaltigung im Barockzeitalter, Zürich, 1995; ID., Noto 1693-1703: superamento della crisi e processi decisionali. La dimensione giuridica, in La Sicilia dei terremoti. Lunga durata a dinamiche sociali. Atti del Convegno, Università di Catania, Facoltà di lettere e filosofia, ex Monastero dei Benedettini, Catania, 11-13 dicembre 1995, a cura di G. GIARRIZZO, Catania, 1996, pp. 281-294; ID., La ricostruzione di Noto: atti notarili e dimensione socio-giuridica, in Le città ricostruite dopo il terremoto siciliano del 1693: tecniche e significati delle progettazioni urbane. Atti del convegno. Roma, Facoltà di Architettura, 20-21 marzo 1995, a cura di A. CASAMENTO-E. GUIDONI, Roma, 1997, pp. 139-147.

[5] L. MANNORI, La nozione di territorio fra antico e nuovo regime. Qualche appunto per uno studio sui modelli tipologici, in Territorialità e delocalizzazione nel governo locale, a cura di M. CAMMELLI, Bologna, 2007, pp. 43-63, citazione p. 43.

[6] L. MANNORI-B. SORDI, op. cit., p. 202; L. DI FIORE–M. MERIGGI, op. cit., pp. 7-8.

[7] Ibidem. Assai rilevante anche il riferimento a L. MANNORI, La nozione di territorio fra antico e nuovo regime, cit., p. 59.

[8] Per meglio comprendere l’importanza attribuita da Napoleone al tema delle opere pubbliche e al significato politico ad esso attribuito si faccia riferimento, exempli gratia, a quanto scritto dall’imperatore al ministro degli interni francese Emmanuel Crétet nel 1807: “J’ai fait consister la glorie de mon règne à changer la face du territoire de mon empire. L’exécution de ces grands travaux est aussi nécessaire à l’intéret de mes peuples qu’à ma propre satisfaction…Il ne faut pas passer sur cette terre sans y lasser des traces qui recommandent notre mémoire à la postérité”, G. SIMONCINI, Aspetti della politica napoleonica dei lavori pubblici in Italia, in AA.VV., Villes et territoire pendant la période napoléonienne (France et Italie). Actes du colloque de Rome (3-5 mai 1984), Roma, 1987, p. 1. Nello stesso torno di tempo, il medesimo tema riveste anche in Italia un ruolo fondamentale; dalle parole indirizzate il 21 giugno 1805 dal viceré Eugenio di Beauharnais a Daniele Felici, ministro dell’interno del neonato Regno d’Italia, è infatti possibile cogliere il nesso inscindibile che lega l’opera di costruzione e manutenzione delle strade di Milano all’efficienza e funzionalità della nuova compagine amministrativa: “Je désire vivement, Monsieur le Ministre de l’Intérieur, qui vous ordonniez sans délai les dispositions que vous jugerez les mellieurs pour réparer les parties du Pavé de Milan qui peuvent être reparees et pour refaire a neuf les parties qui doivent l’être. Il faut que la Capitale du Royaume d’Italie donne aux Etrangers qui la visitent une bonne idée de l’administration chargée de diriger les travaux publics, il faut surtout que les Milanais parcourent leurs rues avec sûreté, et commodité”; ASMi, Genio civile, c. 1622.

[9] Sull’importanza rivestita dalla politica delle opere pubbliche, nell’Italia del primo Ottocento, ex multis: A. M. BRIZIO, Interventi urbanistici e architettonici a Milano durante il periodo napoleonico, in Quaderni dell’Accademia Nazionale dei Lincei (Atti del Convegno sul tema: “Napoleone e l’Italia” Roma 8-13 ottobre 1969), vol. I, Roma, 1973, pp. 413-427; L’idea della magnificazione civile. Architettura a Milano 1770-1848, a cura di L. PATETTA, Milano, 1978; G. ROMANELLI, La Commissione d’Ornato: da Napoleone al Lombardo Veneto, in Le macchine imperfette. Architettura, programma istituzioni nel XIX secolo. Dipartimento di analisi critica e storica. Atti del convegno. Venezia, ottobre 1977, a cura di P. MORACHIELLO-G. TEYSSOT, Roma, 1980, pp. 129-145; G. SIMONCINI, La legislazione viaria nel Regno d’Italia (1803-1806), in Storia urbana, 25 (1983), , pp. 3-28; A. CASTELLANO, Il Corpo di Acque e Strade del Regno Italico: la formazione di una burocrazia statale moderna, in Lombardia delle riforme, Milano, 1987, pp. 45-64; AA.VV., Villes et territoire pendant la période napoléonienne, cit.; A. CARERA, L’età francese nell’evoluzione del sistema stradale lombardo, in Veneto e Lombardia tra rivoluzione giacobina ed età napoleonica, cit., pp. 428-456; G. BIGATTI, La provincia delle acque. Ambiente, istituzioni e tecnici in Lombardia tra Sette e Ottocento, Milano, 1995; F. REPHISTI, Milano napoleonica. Luigi Canonica e la città, in Luigi Canonica (1764-1844). Architetto di utilità pubblica e privata, a cura di L. TEDESCHI-F. REPHISTI, Cinisello Balsamo, 2011, pp. 63-77; G. PICCAROLO, Note sul ruolo della Commissione d’Ornato fra età napoleonica e Restaurazione, in Milano 1814. La fine di una capitale, a cura di E. PAGANO-E. RIVA, Milano, 2019, pp. 187-196.

[10] Nostro fine precipuo è dunque di “sorprendere il «diritto in azione»”, e quindi di “interrogar[ci] sull’impatto delle sue regole sulla società, verificare se sono state accettate, condivise, realizzate, oppure se non sono per caso rimaste lettera morta […], semplicemente perché i destinatari le hanno sostituite con regole diverse o hanno preferito farne a meno del tutto”; P. CARONI, Sovrani e sudditi nel labirinto del diritto, in Storia della Svizzera Italiana. Dal Cinquecento al Settecento, a cura di R. CESCHI, Bellinzona, 2000, pp. 581-596, citazione pp. 582-583. Facciamo in tal modo riferimento al concetto di Wirkungsgeschichte, per il quale si rimanda in particolare alla Premessa di S. SOLIMANO, Amori in causa. Strategie matrimoniali nel Regno d’Italia napoleonico (1806-1814), Torino, 2017, pp. XIII-XIX, nonché a ID., Prefazione, in Costruire, trasformare, controllare. Legal transfer e gestione dello spazio nel primo Ottocento, a cura di F. BRUNET–M. LUMINATI–P. MASTROLIA–S. SOLIMANO, Bellinzona, 2022, pp. 7-8, con gli utili riferimenti bibliografici ivi richiamati.

[11] Interessante quanto osservato da S. GUZZI-HEEB, Dalla sudditanza all’indipendenza: 1798-1803, in Storia della Svizzera Italiana, cit., pp. 551-580.

[12] Sintomatiche delle difficoltà incontrate dagli organi cantonali nell’opera di “creazione” del nuovo Stato e del relativo sentimento di unità nazionale sono le parole utilizzate da Stefano Franscini per descrivere la realtà vigente nei baliaggi italiani alla fine del Settecento: “Niuno spirito pubblico, niuna socievol comunicazione per i progressi dell’incivilimento tra baliaggio e baliaggio, tutti stranieri l’un per l’altro, tutti egualmente estranei a pensieri e a tentativi alquanto efficaci per la libertà e per il bene comune”; L. BORRADORI, L’autonomia del Comune Ticinese, Bellinzona, 1948, pp. 71-72. Si veda anche: M. MARCACCI, Costruire il Cantone e fare i cittadini (1815-1848), in Costruire, trasformare, controllare. Legal transfer e gestione dello spazio nel primo Ottocento, cit., pp. 43-52; M. PELLEGRINI, La nascita del Canton Ticino. Ceto dirigente e mutamento politico, Locarno, 2019.

[13] Ivi, p. 32. Sulla costituzione del Cantone Ticino si vedano, in particolare: A. BAROFFIO, Storia del Cantone Ticino dal principio di sua autonomia politica ossia dal 1803 alla costituzione 23 giugno 1830, Lugano, 1882; R. CESCHI, Ottocento ticinese, II ed., Locarno, 1988; F. PANZERA, Società religiosa e società civile nel Ticino del primo Ottocento. Le origini del movimento cattolico nel Cantone Ticino (1798-1855), Bologna, 1989; A. GHIRINGHELLI, La costruzione del Cantone (1803-1830), in Storia del Cantone Ticino. L’Ottocento, a cura di R. CESCHI, Bellinzona, 1998, vol. I, pp. 33-62; S. GUZZI-HEEB, Dalla sudditanza all’indipendenza, cit.; C. CALDELARI, Napoleone e il Ticino, Bellinzona, 2004; Creare un nuovo cantone all’epoca delle rivoluzioni. Ticino e Vaud nell’Europa napoleonica 1798-1815, a cura di F. PANZERA-E. SALVI-D. TOSATO-RIGO, Bellinzona-Prahins, 2004; M. PELLEGRINI, La Svizzera sud alpina all’epoca dell’Elvetica e della Mediazione (1798-1814), in Costruire, trasformare, controllare. Legal transfer e gestione dello spazio nel primo Ottocento, cit., pp. 27-41.

[14] Con l’invasione della Confederazione e la conseguente esportazione della legislazione e del sistema amministrativo francesi si assiste così, anche in terra elvetica, a quell’irreversibile processo di francisation, già evidenziato per l’Italia napoleonica da Adriano Cavanna. Cfr. A. CAVANNA, Codificazione del diritto italiano e imperialismo giuridico francese nell’Italia napoleonica. Giuseppe Luosi e il diritto penale, in Ius Mediolani. Studi di storia del diritto milanese offerti dagli allievi a Giulio Vismara, Milano, 1996, pp. 659-760, ora in ID., Scritti (1968-2002), vol. II, Napoli, 2007, pp. 833-943. Di notevole interesse anche AA.VV., Modernisme, tradition et acculturation juridique. Actes des Journées internationales de la Société d’Histoire du Droit tenues à Louvain, 28 mai – 1 juin 2008, Brussel, 2011.

[15] I territori corrispondenti all’attuale Cantone Ticino formavano gli otto baliaggi italiani ed erano amministrati da un commissario, detto landfogto o balivo; tali circoscrizioni dipendevano inoltre da sovranità diverse, dando luogo ad un assetto istituzionale fortemente differenziato, cfr. M. PELLEGRINI, La nascita del Canton Ticino, cit., p. 33; più diffusamente: O. WEISS, Il Ticino nel periodo dei baliaggi, (traduzione di F. Cicoira e G. Ribi), Locarno, 1998; Storia della Svizzera Italiana, cit.,  a cura di R. CESCHI.

[16] Al vertice di ciascuna delle due ripartizioni amministrative era posto un prefetto nominato dal Direttorio Elvetico Centrale; in ogni cantone operavano inoltre una Camera Amministrativa Cantonale, con competenza legislativa in svariate materie, e i viceprefetti cantonali e distrettuali, responsabili della corretta osservazione ed applicazione delle leggi e degli altri atti normativi. A livello locale il potere viene esercitata da agenti comunali, di nomina viceprefettizia. C. CALDELARI, op. cit., pp. 54-55.

[17] F. PANZERA, op. cit., p. 15.

[18] Particolarmente degno di nota il giudizio secondo il quale “la Mediazione del 1803 […] può così essere considerata come una forma di compromesso tra spinte di rinnovamento del periodo francese e rivendicazioni della resistenza tradizionalista”; S. GUZZI-HEEB, Dalla sudditanza all’indipendenza, cit., p. 580. Sul punto si veda anche: R. CESCHI, Contrade cisalpine. Momenti di storia della Svizzera italiana dai tempi remoti al 1803, Locarno, 1980, pp. 109-123.

[19] Per quanto riguarda il primo aspetto qui considerato, alla complessa opera di unificazione di regioni e popoli tradizionalmente divisi, devono aggiungersi le profonde criticità emergenti dalla perenne ostilità della popolazione alla coscrizione obbligatoria ed al blocco continentale. In merito alle minacce di natura esogena, è sicuramente indicativo richiamare la circostanza dell’occupazione cantonale da parte delle truppe militari del Regno d’Italia, che, intrapresa alla fine di ottobre 1810, terminerà solo nel 1813. Su tali ultimi aspetti, ex pluribus: C. CALDELARI, op. cit., pp. 205-237, particolarmente rilevante anche per le fonti citate. Assai utile: M. FERRI, La Svizzera e Napoleone: la neutralità violata. L’occupazione del Cantone Ticino e del Vallese (1810-1813), Tesi di dottorato in Società europea e vita internazionale nell’età moderna e contemporanea, XXII ciclo, Università degli Studi di Milano, 2008-2009.

[20] A. GHIRINGHELLI, op. cit., p. 51.

[21] R. CESCHI, Ottocento ticinese, cit., p. 22.

[22] A. GHIRINGHELLI, op. cit., pp. 50-57.

[23] Giovan Battista Quadri (1777-1839), avvocato, nel 1796 entrò a far parte dei ‘patrioti’ alla testa dei quali, nel 1798, s’impossessò di Mendrisio. Fu deputato al Gran Consiglio dal 1803 al 1830, membro del Piccolo Consiglio dal 1803 al 1807, prefetto di Lugano dal 1807 al 1809. Nel 1816, 1820, 1822, 1825, 1827 e 1828 fu presidente del governo e landamano reggente. Sei volte deputato alla Dieta, Quadri rappresentò spesso il cantone presso le corti straniere. Anima della vita pubblica ticinese dal 1815 al 1830, la caduta del regime dei landamani ne segnò il tramonto politico. S. GUZZI-HEEB, Il Ticino dalla Repubblica Elvetica alla Mediazione. Appartenenze locali, identità sociali, conflitti culturali fra Sette e Ottocento, in Creare un nuovo cantone all’epoca delle rivoluzioni. Ticino e Vaud nell’Europa napoleonica 1798-1815, cit., p. 88 (nota 23).

[24] A. GHIRINGHELLI, op. cit., p. 55; più diffusamente pp. 55-62.

[25] Ibidem. Sull’ampliamento della rete stradale ticinese durante il regime dei landamani si veda: G. BELLINI, Le strade del Canton Ticino, Le vie di comunicazione dall’Ottocento al secondo dopoguerra, Pregassona-Lugano, 2006, pp. 77-122.

[26] R. CESCHI, Ottocento ticinese, cit., pp. 31-42.

[27] Come si è avuto modo di indicare, la vicenda di seguito proposta è emersa nel corso delle ricerche condotte presso l’Archivio di Stato del Cantone Ticino di Bellinzona, dirette ad indagare il ruolo svolto dall’elemento giuridico nell’opera di costruzione e riattazione stradale intrapresa nella Svizzera Italiana tra il 1803 e il 1848. Su tali premesse, deve in via preliminare essere rilevato che lo scavo archivistico (che, pur avendo interessato una pluralità di documenti, si è in particolar modo concentrato sul materiale conservato presso il Fondo Dipartimento delle pubbliche costruzioni-Fondo vecchio 1, che in 233 cartelle raccoglie un’ampia collezione di atti relativi all’esecuzione e manutenzione di opere pubbliche durante il periodo compreso tra il 1723 e il 1930, con prevalenza per gli anni 1810-1860) ha permesso di venire a conoscenza di un numero considerevole di petizioni, inoltrate all’esecutivo cantonale da parte dei privati pregiudicati da tali operazioni. Le richieste, di tenore assai composito, sono normalmente finalizzate ad ottenere il riconoscimento di una maggiorazione dell’indennizzo calcolato sulla base della stima peritale eseguita dall’ingegnere d’ufficio, ovvero a persuadere il governo dell’opportunità di mutare la linea originariamente individuata per la costruzione delle nuove vie, evitando di dividere arbitrariamente terreni destinati al pascolo o all’agricoltura, ed optando quindi per un tracciato meno lesivo delle proprietà. Benché raramente le questioni affrontate nelle controversie studiate tocchino direttamente la materia giuridica, venendo peraltro ordinariamente risolte in forza di un atto autoritativo dell’amministrazione, e senza dunque che alcuna delle parti in causa ritenga opportuno adire la via giurisdizionale, esse non cessano di stimolare il nostro interesse, in quanto è proprio dall’analisi dei fatti e dallo studio delle argomentazioni di volta in volta addotte ad opera degli interessati, che prende avvio una più piena comprensione del modus agendi fatto proprio dalle autorità pubbliche nell’applicazione della disciplina normativa e nella gestione dei rapporti instauratisi con i cittadini.

[28] ASTi, Dipartimento delle pubbliche costruzioni-Fondo vecchio 1, c. 12.

[29] Ibidem.

[30] Il dato è sicuramente degno di nota, pur dovendosi al contempo ricordare che si tratta di un passaggio per certi aspetti obbligato: come si è avuto modo di evidenziare, tra le competenze poste in capo al giudice di pace, la normativa prevede anche la risoluzione delle controversie sorte tra privati e amministrazione comunale. Tale funzione sarà ulteriormente definita dal legislatore del 1832, ricorda infatti il Franscini che l’art. 27 della legge sulle municipalità prescrive che “il Giudice di Pace procurerà di conciliare la vertenza, e non riuscendovi farà rapporto al Consiglio di Stato, che, sentite le parti, deciderà amministrativamente”, S. FRANSCINI, La Svizzera italiana, Lugano, 1973 (edizione originale: Lugano, 1840), p. 361. Sulla nomina e le competenze attribuite a quella che è stata definitiva come una delle “figure significative istituite per garantire una presenza capillare dello Stato a livello distrettuale e locale”, si richiama: M. MARCACCI, op. cit., p. 45.

[31] Ibidem.

[32] Pur non potendo individuare con certezza l’anno in cui si sarebbe verificato il suddetto smottamento, prestando fede alle dichiarazioni rilasciate dal ricorrente, siamo indotti a ritenere che all’epoca dei fatti doveva essere trascorso ormai più di un secolo, sul presupposto che “il cittadino Fontana […] insiste nel dire, che essendo la strada, che si vuol riaprire, dirupata già da cento, e più anni, il diritto della Comune è assolutamente prescritto”; ASTi, Dipartimento delle pubbliche costruzioni-Fondo vecchio 1, c. 12, cit.

[33] Una simile ipotesi avrebbe integrato una condotta ovviamente del tutto abusiva da parte del Fontana (rectius, del suo dante causa, dovendosi ritenere verosimile che tale occupazione sia stata realizzata in epoca non lontana dai fatti che ne rappresentano la causa), tuttavia la circostanza non deve stupire, in quanto, nonostante gli statuti locali vietassero espressamente simili pratiche, era generalizzata la prassi per cui i privati fossero soliti occupare illegittimamente porzioni di suolo pubblico, laddove funzionali ad un loro personale uso od interesse. È doveroso rilevare che una situazione di tal fatta non costituiva una peculiarità delle zone rurali, dove per evidenti ragioni la presenza della mano pubblica era senz’altro più sporadica, ma era parimenti all’ordine del giorno in una grande città come Milano, dove, in una pluralità di casi, la titolarità di piazze e strade era connotata da profonda incertezza. Come evidenziato, infatti, il possesso di aree pubbliche da parte dei cittadini poteva facilmente conseguire ad un’occupazione illegittimamente posta in essere in passato e originariamente tollerata dall’amministrazione della città, ma non per questo tale da determinare il sorgere in capo agli stessi di una posizione giuridica riconosciuta e garantita dall’ordinamento. A tal proposito è interessante richiamare la circostanza che, già nel 1773, il conte Francesco D’Adda aveva stimato in 88.253 quadretti (cioè più di tre ettari) le superfici di suolo pubblico di cui i privati si erano appropriati abusivamente, cfr. L. MOCARELLI, Costruire la città. Edilizia e vita economica nella Milano del secondo Settecento, Bologna, 2008, p. 106.

[34] ASTi, Dipartimento delle pubbliche costruzioni-Fondo vecchio 1, c. 12, cit.

[35] Ibidem.

[36] Il giudice di pace introduce un tema di portata generale, che non a caso continuerà ad essere affrontato anche nel corso dei decenni successivi. Alludiamo in particolare alla questione connessa alla corretta qualificazione giuridica dell’interesse comunale e alla facoltà per l’ente municipale di porre in essere atti ablatori suscettibili di pregiudicare le posizioni dei privati. L’argomento - lungi dall’essere limitato al caso di specie - occupa per diverso tempo le cure della dottrina, tanto che, anche in Italia, Casimiro de Bosio, autore intorno alla metà del secolo di un trattato in materia di espropriazione forzata, deve rilevare come secondo alcuni suoi contemporanei “la utilità di un Comune non sia una utilità per se pubblica; e che quindi per oggetti d’interesse comunale non si dia espropriazione, se non in quanto le leggi la stabiliscano parzialmente ed espressamente per taluno di tali oggetti”. Lo stesso non si perita di osservare che “anche la utilità comunale, qualunque sia il lavoro od altri oggetti che risguardano, è quella utilità o quel bene pubblico, di cui parlano i codici civili, e per cui quelli concedono il diritto di espropriazione”; C. DE BOSIO, Della espropriazione e degli altri danni che si recano per causa di pubblica utilità, Venezia, 1856-1857. Merita evidenziare che il tema qui affrontato emerge anche da un’ulteriore vicenda portata alla luce dalla documentazione archivistica bellinzonese e, nella fattispecie, dalla vertenza consumatasi nel 1818 tra Pasio Galli e il comune di Capolago: in questo ulteriore caso di studio, avente ad oggetto l’abbattimento di un portico di proprietà privata, necessario, secondo la tesi sostenuta dall’amministrazione, a consentire l’allargamento della strada diretta a Mendrisio, il Galli, nell’investire della questione il Consiglio di Stato, definisce infatti i termini della lite nel senso che “o l’oggetto in questione interessa direttamente il Cantone […] e in questo caso io […] dimando col debito rispetto, che sia nominato un abile, e imparziale Ingegnere del Cantone, o estero, onde assuma la formale ispezione come terzo perito, a spesa di chi avrà torto. O la cosa è meramente privata o comunale, come ognuno ne è convinto, e persuaso, e allora io sono sicuro, che il Consiglio di Stato non vorrà ulteriormente ingerirsi in una materia a lui estranea, e incompetente; e che trattandosi di diritti, e di proprietà del terzo, lascerà che le parti esperimentino le loro rispettive ragioni nella via regolare di giustizia”. Le espressioni utilizzate dallo scrivente mostrano in modo evidente come, ancora nella seconda metà dell’Ottocento, non solo non vi sia certezza su che cosa debba essere ricompreso nell’area d’azione della sfera pubblica e che cosa, invece, possa esser rilasciato alla gestione dei rapporti privati, ma neppure sulla natura giuridica (se, dunque, pubblica o privata) dell’ente municipale e del suo agire. ASTi, Dipartimento delle pubbliche costruzioni-Fondo vecchio 1, c. 15.

[37] ASTi, Dipartimento delle pubbliche costruzioni-Fondo vecchio 1, c. 12, cit.

[38] Ibidem.

[39] Successivamente qualificate come vicinali, esse costituiscono “il necessario complemento delle strade pubbliche che da quelle ricevono principalmente vita e movimento”: G. B. CERESETO, Le strade vicinali, Torino, 1894; E. POLVANI-A. FIRENZUOLI, I consorzi per le strade vicinali, Empoli, 1939, pp. 17-19. In merito al rilievo ancora oggi rivestito da queste vie di comunicazione e alle questioni giuridiche da esse promananti, si veda, da ultimo: C. PUZZO, Le strade comunali, vicinali, provinciali e regionali. Manutenzione e responsabilità, Milano, 2022.

[40] Tale soluzione permette infine di ricollegare con coerenza il discorso alla petizione del Fontana, da cui abbiamo preso le mosse, nella quale il privato ricorre infatti al Governo contro la decisione municipale di espropriare un tratto di un suo fondo.

[41] Seduta VIII del giorno 24 giugno 1814:                                    

https://www.sbt.ti.ch/bcbweb/vgc/ricerca/ricerca/visualizza.jsp?r_order=%2Fsbt%2Fvgc%2Fweb%2F1814%2Fso%2F06.24%2C401.d.414.s%2CCamignolo%3A%20petizione%20per%20espropriazione%20di%20terreno%20per%20costruzione%20di%20strada1 (2021).

[42] Seduta X del giorno 26 giugno 1814:

https://www.sbt.ti.ch/bcbweb/vgc/ricerca/ricerca/visualizza.jsp?r_order=%2Fsbt%2Fvgc%2Fweb%2F1814%2Fso%2F06.26%2C420.s.426.s%2CCamignolo%3A%20vertenza%20con%20Fontana%20circa%20cessione%20di%20un%20fondo1(2021). Molto probabilmente per l’intervento di circostanze a noi ignote (nella fattispecie è ipotizzabile che l’amministrazione municipale di Camignolo abbia infine rappresentato al Fontana la sua disponibilità all’acquisto del sedime stradale e che quest’ultimo abbia aderito alla proposta; ma non deve tuttavia ritenersi inverosimile neppure un ulteriore intervento mediatore da parte dell’Esecutivo), si realizza dunque quanto ab origine auspicato dalla normativa e (soprattutto) dall’autorità superiore. La circostanza che la lite, rimessa alla decisione del Gran Consiglio, vada incontro ad una risoluzione transattiva deve infatti essere presa in considerazione in quanto esemplificativa di un modus agendi dell’azione amministrativa che non esiteremmo a definire ordinario, come può essere rilevato in modo sicuramente più marcato analizzando la condotta tenuta dagli organi cantonali nella controversia insorta sul finire degli anni ’20 del XIX secolo tra le municipalità di Rovio e di Melano. A prescindere dall’oggetto della vertenza, il caso deve qui essere ricordato in quanto per anni si assiste ad un continuo ‘rimpallo’ tra Gran Consiglio e Consiglio di Stato, in cui nessuna delle autorità interessate sembra volersi assumere la responsabilità di una decisione risolutiva, preferendo invece optare per la ricerca di un accordo conciliativo tra le parti. La documentazione inerente a tale ultima questione può essere consultata in: ASTi, Dipartimento delle pubbliche costruzioni-Fondo vecchio 1, c. 20.

[43] A. GHIRINGHELLI, op. cit., p. 33.

[44] Appare particolarmente complesso descrivere l’ordinamento lato sensu istituzionale vigente sino all’arrivo delle truppe napoleoniche nei baliaggi ticinesi soggetti alla dominazione svizzera; facendo nostra un’immagine certo molto efficace, siamo infatti indotti ad affermare che tale realtà costituiva un “ginepraio di condizioni territoriali particolari, di autonomie, privilegi, esenzioni e scappatoie” sedimentatesi nel corso dei secoli, in cui non solo ciascuna circoscrizione territoriale, ma - potremmo dire - ogni comunità si distingueva dall’altra per usi, consuetudini, organi e grado di autogoverno. Per un’analisi più approfondita, si rinvia alle belle pagine di R. CESCHI, Governanti e governati, in ID., Storia della Svizzera Italiana, cit., pp. 45-72.

[45] L. BORRADORI, op. cit., p. 75. I profondi mutamenti introdotti dalla disciplina di marca francese, alla base del moderno ordinamento municipale ticinese, sono stati ampiamente analizzati da P. CARONI, Le origini del dualismo comunale svizzero. Genesi e sviluppo della legislazione sui comuni promulgata dalla Repubblica Elvetica - con speciale riguardo allo sviluppo ticinese-, Milano, 1964.

[46] Ivi, p. 80; F. PANZERA, La costruzione dello Stato e dell’amministrazione nel Cantone Ticino, 1803-1813, in Creare un nuovo cantone all’epoca delle rivoluzioni. Ticino e Vaud nell’Europa napoleonica 1798-1815, cit., pp. 174-175.

[47] Il modello così introdotto riflette di fatto le riforme adottate nell’ordinamento comunale italiano, dapprima con la legge repubblicana 24 luglio 1802 e quindi, a mutato regime costituzionale, con il decreto 8 giugno 1805, il quale getta le basi per un deciso accentramento dei poteri ed una costruzione gerarchica e verticistica dell’autorità, realizzando “l’assimilazione pressoché completa dell’ordinamento comunale italiano al regime municipale francese e la fine del breve esperimento, durato neppure un triennio, di quel sistema italico la cui originalità rispetto al modello d’oltralpe era stata garantita - per gli enti locali - di un apprezzabile margine d’autonomia”; E. PAGANO, Il comune di Milano, cit.,p. 106.

[48] A. GHIRINGHELLI, op. cit., p. 46.

[49] Ivi, p. 55.

[50] Eloquente il commento riservato ad un simile contesto dal Franscini, il quale non si perita di osservare che “la cosa pubblica non patì mai tanto detrimento come lorquando ci aveva ben undici consiglieri di Stato con diritto di voto nel Consiglio de’ rappresentanti e con altre assai ampie facoltà”; S. FRANSCINI, op. cit., p. 327.

[51] Al tramonto dell’astro napoleonico si assiste anche in Ticino alla volontà di addivenire ad un pronto e deciso revirement, tuttavia il processo di riforma che origina dal mutato regime non realizza un completo ed autentico ritorno al passato: gli ordini restaurati, venuti a contatto con la modernità della struttura burocratico-amministrativa di stampo francese, seppero infatti fare propria “la lezione del centralismo napoleonico”, in quanto “estremamente funzionale, agli occhi di chi incarnava il potere centrale, per il governo dei popoli e la gestione delle risorse”, avendo quindi l’accortezza di cogliere l’“opportunità di conservare quanto possibile dell’eredità amministrativa” ricevuta dall’esperienza previgente. Sul punto, ex multis: M. MERIGGI, Gli stati italiani prima dell’unità, Bologna, 2011, p. 121; R. MOSCATI, La tradizione dell’accentramento “napoleonico” negli Stati italiani della Restaurazione, in Atti del Convegno sul tema: Napoleone e l’Italia, vol. I, Roma, 1973, pp. 266-273; E. COLOMBO, I controlli amministrativi nella Lombardia austriaca: il caso di Milano, in Storia Amministrazione Costituzione, Annuale dell’Istituto per la Scienza dell’Amministrazione (ISAP), 4 (1996), pp. 175-206.

[52] L. BORRADORI, op. cit., pp. 82-84. Per una comparazione con quanto accade nella vicina Lombardia, nel medesimo torno di anni, è doveroso richiamare: A. LORENZONI, Instituzioni del diritto pubblico interno pel Regno Lombardo-Veneto, Padova, 1836; A. SANDONÀ, Il Regno Lombardo Veneto 1814-1859. La Costituzione e l’Amministrazione, Milano, 1912.; R. J. RATH, L’amministrazione austriaca nel Lombardo Veneto (1814-1821), in Archivio economico dell’unificazione italiana, serie I, vol. IX, fasc. I, Roma, 1959, pp. 1-30; N. RAPONI, Politica e amministrazione in Lombardia agli esordi dell’unità. Il programma dei moderati, Milano, 1966; B. MAZOHL-WALLNIG, Governo centrale e amministrazione locale. Il Lombardo-Veneto, 1848-1858, in Austria e province italiane 1815-1918. Potere centrale e amministrazioni locali, a cura di F. VALSECCHI-A. WANDRUSZKA, Bologna, 1981, pp. 13-46; M. MERIGGI, Una regione di comuni, cit., pp. 9-13; ID., Amministrazione e classi sociali nel Lombardo-Veneto (1814-1848), Bologna, 1983; ID., Il Regno Lombardo-Veneto, Torino, 1987; M. R. DI SIMONE, Istituzioni e fonti normative in Italia dall'antico regime al fascismo, Torino, 2007, pp. 179-189; F. ROSSI, Il cattivo funzionario. Fra responsabilità penale, amministrativa e disciplinare nel Regno Lombardo-Veneto, Milano, 2013.

[53] S. FRANSCINI, op. cit., p. 326.

[54] Ivi, pp. 327-330.

[55] Per una compiuta disamina del sistema comunale ticinese, emerso in seguito alla legge del 1832, appare particolarmente interessante l’analisi compiuta da Stefano Franscini: ivi, pp. 332-334 e pp. 353-374.

[56] Ivi, pp. 353-374. Sul patriziato e sulla riforma del 1835, anche con riferimento alle questioni connesse alla natura giuridica di tale istituto e alla sua scissione dal comune politico, fondamentale il rinvio a P. CARONI, Le origini del dualismo comunale svizzero, cit., pp. 275-366.

[57] I tratti salienti del rapporto sono riassunti in P. BORELLA, Le finanze e la situazione del Cantone Ticino nel periodo sulla Mediazione napoleonica 1803-1813, Bellinzona, 1971, pp. 108-109; più diffusamente sulla perizia Meschini: G. BELLINI, Le strade in Ticino all’inizio dell’Ottocento, Prosito (Lodrino), 2004. Per un profilo biografico dell’architetto ticinese: ID., La strada cantonale del San Gottardo. Storia e storie della Tremola dall’Ottocento ai giorni nostri, Prosito, 1999, pp. 100-105. Sullo stato in cui versava la rete viaria ticinese si veda anche: R. CESCHI, Nel labirinto delle valli. Uomini e donne di una regione alpina: la Svizzera italiana, Bellinzona, 1999, pp. 111-134.

[58] G. BELLINI, Le strade del Canton Ticino, cit., pp. 13-14; ID., Le strade in Ticino all’inizio dell’Ottocento, cit.

[59] Per un approfondito esame dei lavori stradali che interessano il Ticino nel corso del XIX secolo si rimanda all’analitico studio di G. BELLINI, Le strade del Canton Ticino, cit.

[60] Si è già avuto modo di evidenziare l’importanza attribuita da Napoleone alla riorganizzazione del territorio, non stupisce pertanto che nel medesimo torno di tempo anche le vicine regioni italiane siano occupate da un intenso lavorio in termini di opere pubbliche. Tra i principali interventi normativi in argomento, deve anzitutto essere citata la Legge sulle Strade del 27 marzo 1804, che fissa una prima fondamentale classificazione delle vie di comunicazione e introduce il principio in forza del quale “ogni possidente è tenuto a vendere il terreno necessario per le strade pubbliche, ed anche per l’escavazione delle ghiaje o sabbie occorrenti alla loro costruzione o riparazione” (art. 43). Altrettanto rilevanti sono i decreti del 6 maggio 1806, che istituisce il Corpo di ingeneri di acque e strade, e il Regolamento per la costruzione, per l’adattamento e per la conservazione delle strade, approvato il successivo 20 maggio. Da ultimo si faccia riferimento al decreto 11 luglio 1813 che, benché produttivo di effetti solo per pochi mesi, introduce per la prima volta nei territori del Regno d’Italia una compiuta disciplina volta a regolamentare l’istituto della espropriazione forzata per causa di pubblica utilità. Numerosa la bibliografia su tali aspetti, in particolare, oltre ai riferimenti bibliografici richiamati in nota 10, si rinvia a: G. SIMONCINI, La legislazione viaria nel Regno d’Italia, cit.; G. BIGATTI, Il corpo di acque e strade tra età napoleonica e restaurazione (1806-1848): reclutamento, selezione e carriere degli ingegneri, in Società e storia, 56 (1992), pp. 267-297; A. PILLEPICH, La commissione d’ornato di Milano, in Istituzioni e cultura in età napoleonica, a cura di E. BRAMBILLA-C. CAPRA-A. SCOTTI, Milano, 2008, pp. 543-551. Sull’applicazione dello strumento espropriativo nell’Italia napoleonica si vedano, in particolare: S. GENTILE, L’espropriazione forzata a Napoli tra Decennio e Restaurazione: spunti di riflessione, in Il Regno di Napoli nell’Europa napoleonica. Saggi e ricerche, a cura di F. MASTROBERTI, Napoli, 2016, pp. 89-109; ID., Sempre più poveri. Giuseppe Luosi e il problema dell’espropriazione forzata nel Regno d’Italia, in Rivista di Storia del Diritto Italiano, XC (2017), pp. 225-291; P. MASTROLIA, Legal transfer. La disciplina dello spazio nella Milano napoleonica, in Historia et Ius (historiaetius.eu), 19 (2021).

[61] Bullettino officiale del Cantone Ticino, vol. I, Lugano 1808, pp. 78-79.

[62] Ivi, pp. 156-158.

[63] G. BELLINI, Le strade del Canton Ticino, cit., p. 15.

[64] R. CESCHI, Nel labirinto delle valli, cit., p. 123.

[65] Bullettino officiale del Cantone Ticino, vol. I, cit., pp. 188-190.

[66] Ivi, pp. 232-236.

[67] A tale proposito è assai rilevante notare che i lavori intrapresi in ottemperanza ai suddetti provvedimenti furono alla base di non poche preteste avanzate dai privati, costretti a cedere parte dei loro fondi e delle loro proprietà per la costruzione delle nuove vie di transito. Sintomatico del malcontento serpeggiante tra la popolazione è il commento tramandatoci da un parroco della campagna luganese, che nel 1805 scriveva con evidente vis polemica: “Li misuratori, o architetti sono forastieri e vogliono essere pagati al sommo. La gran strada che si fa è di una larghezza smisurata; le piante fruttifere che si levano, li terreni che si guastano cagionano delli danni gravissimi, oltre li grandi debiti che si fanno per ridurre a fine questa dispendiosa ed inutile operazione”, in R. CESCHI, Nel labirinto delle valli, cit., p. 125. Si tratta per vero di un giudizio non dissimile da quello espresso pochi anni dopo a Milano dal canonico Mantovani, in seguito all’entrata in vigore del decreto 3 gennaio 1811 sulla classificazione delle strade del centro ambrosiano: “Con editto pubblico oggi si fa noto un regolamento per le contrade di Milano, tanto ne’corsi grandi, come nel traverso di detti corsi. Questo è un genere di vessazioni che ancor mancava ai cittadini possessori della loro abitazione, e che sistema presentaneo di continue angherie si consolava su questo particolare di non doversi dar briga. Secondo questo editto pubblicato non v’è forsi casa, massime sui corsi, che debba essere tagliata pel rettifilo”. L. MANTOVANI, Quando Milano era capitale. Cronache milanesi dal 1796 al 1824 dal “Diario politico ecclesiastico”, a cura di M. NOJA, Milano, 2014, p. 275.

[68] Bullettino officiale del Cantone Ticino, vol. II, Lugano, 1808, pp. 39-40. Per completezza, si tenga anche presente che una legge del 1810 aveva successivamente trasferito la competenza della manutenzione delle strade cantonali dai comuni allo Stato: G. BELLINI, Le strade del Canton Ticino, cit., p. 118.

[69] Ivi, p. 77.

[70] Ivi, p. 114-117.

[71] Bullettino officiale della Repubblica e Cantone del Ticino, vol. X, Lugano, 1823, pp. 36-51.

[72] Ivi, pp. 51-62. La normativa stradale sarà completata due anni dopo dal decreto 30 agosto 1822, prescrivente le modalità previste per le riparazioni delle strade municipali; cfr. Raccolta generale delle leggi, dei decreti e delle convenzioni in vigore nel Cantone Ticino (1803-1846) con una appendice di atti relativi al diritto pubblico svizzero, Lugano, 1847, pp. 36-37.

[73] Bullettino officiale della Repubblica e Cantone del Ticino, vol. X, cit., p. 37.

[74] Art. 3 “Ogni atto tendente a distruggere, manomettere, o deteriorare una delle opere sopracitate, è delitto di pubblica azione, ed è perseguitato e punito come tale davanti ai Tribunali competenti”. Si presti altresì attenzione a quanto sancito dal successivo art. 4: “Ogni atto che senza distruggere, manomettere, o deteriorare le dette opere, tenda o ad usurpare il terreno appartenente alle medesime, o a deviare, o trattenere, o ritardare il corso delle acque, che vi sono in rapporto od a violare in qualunque guisa i regolamenti di polizia Stradale, è mancanza che viene repressa e punita in via amministrativa. Le disposizioni del Codice penale su questa materia, sono qui espressamente ritenute in vigore, come se vi fossero testualmente inserite”. Ibidem.

[75] Agli ispettori delegati viene in particolare attribuito il compito di “sorvegliare esattamente, ciascuno nel Circondario che gli viene assegnato, perché il dispositivo della presente Legge venga in ogni sua parte eseguito”, essendo perciò autorizzati, in caso di violazione, “a comminare delle penali, non maggiori di 10 franchi tanto ai proprietarj frontisti, quanto alle Municipalità locali”. Più diffusamente, per la disciplina inerente a questa nuova figura professionale, si vedano gli articoli 7-18 del provvedimento in esame.

[76] Le municipalità sono in particolare chiamate a svolgere importanti compiti di vigilanza entro i confini del loro territorio, essendo altresì “tenute di formare (nelle sfere de’ loro attributi,) degli ordini penali in proposito, e farli eseguire per mezzo de’ loro uscieri, guardacampi, o altro qualunque loro giurato commesso” (art. 22). Tra le funzioni loro attribuite dal presente provvedimento, va poi ricordata quella sancita dall’art. 21 lett. d, che impone all’amministrazione locale di sorvegliare “che tutte le siepi che fronteggiano la strada siano regolarmente due volte all’anno, in primavera, ed in autunno, ben rimondate, e sempre legate a doppio strettojo in tutte le stagioni, in modo che producono un colpo d’occhio regolare”; ivi, p. 43.    

[77] La norma d’apertura della legge sancisce infatti che “l’indennizzazione dei fondi, o caseggiati i quali furono o saranno occupati o danneggiati dalla costruzione, o riattazione, e manutenzione delle Strade le quali non sono Cantonali, ma parziali, è senza riserva, né eccezione alcuna a carico del Comune nel cui territorio giace la strada medesima”, in Bullettino officiale della Repubblica e Cantone del Ticino, vol. X, cit., p. 52.

[78] Su cui si rimanda a G. PATOCCHI, Gli influssi delle legislazioni straniere e degli statuti locali sul Codice Civile Ticinese del 1837, Bellinzona, 1961; un accenno non privo di nota anche in A. LANDI, Dalla gratuità necessaria alla presunzione di onerosità. I. Il mutuo ad interesse dal tardo Diritto comune alla codificazione civile italiana del 1865, Torino, 2017, pp. 143-146.

[79] Come noto, caduto il Regno Italico, il 12 giugno 1814 la Lombardia viene annessa all’Impero austriaco e il 7 aprile 1815 vede l’istituzione del Regno Lombardo-Veneto. Il nuovo ordine comporta, tra le molteplici conseguenze, la sostituzione dei codici austriaci a quelli francesi, fino a questo momento vigenti, ed in particolare, per ciò che qui rileva, dell’ABGB al Code civil napoleonico. Sul punto: M. R. DI SIMONE, L’introduzione del codice civile austriaco in Italia. Aspetti e momenti, in Scintillae iuris. Studi in memoria di Gino Gorla, vol. II, Milano, 1994, pp. 1015-1038, ora in EAD., Percorsi del diritto tra Austria e Italia (secoli XVII-XX), Milano, 2006, pp. 159-183; M. G. DI RENZO VILLATA, Tra bravi zelanti ‘artigiani del diritto’ al lavoro. L’introduzione dell’ABGB nel Lombardo-Veneto, con particolare riguardo alla Lombardia, in La codificazione del diritto fra il Danubio e l’Adriatico. Per i duecento anni dall’entrata in vigore dell’ABGB (1812-2012). Atti del convegno internazionale. Trieste, 25-27 ottobre 2012, a cura di P. CARONI-R. FERRANTE, Torino, 2015, pp. 133-189; E. DEZZA, Lezioni di Storia della codificazione civile. Il Code Civil (1804) e l’Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch (ABGB, 1812), Torino, 2000, pp. 123-162, in particolare per quanto riguarda l’applicazione dell’ABGB in Italia pp. 157-160. Sulla recezione dell’ABGB nel variegato panorama legislativo elvetico, doveroso il riferimento a P. CARONI, Receptio duplex vel multiplex. L’ABGB nel contesto svizzero, in L’ABGB e la codificazione asburgica in Italia e in Europa. Atti del Convegno Internazionale, Pavia, 11-12 ottobre 2002, a cura di P. CARONI–E. DEZZA, Padova, 2006, pp. 497-524.

[80] Se infatti, da un lato, l’art. 178 adotta una definizione della proprietà quale “diritto di godere esclusivamente e disporre delle cose a piacimento, in qualunque modo dalla legge non vietato”, così riprendendo quasi alla lettera il dettato dell’art. 544 del Code civil, il successivo art. 179, in aderenza al modello sancito dall’ABGB, precisa che “il diritto limitato al godimento della cosa dicesi dominio utile, ossia usufrutto. Il diritto di disporre della sola sostanza della cosa costituisce il dominio diretto, ossia la nuda proprietà”.

[81] Per una compiuta analisi dello strumento espropriativo nel panorama francese del XIX secolo, con riguardo anche ai presupposti rivoluzionari dei principi successivamente consolidati nella disciplina legislativa, fondamentale il riferimento a L. LACCHÈ, L’espropriazione per pubblica utilità. Amministratori e proprietari nella Francia dell’Ottocento, Milano, 1995.

[82] Bullettino officiale della Repubblica e Cantone del Ticino, vol. XXII, Lugano, 1846, pp. 150-161.

[83] Abrogato il decreto napoleonico 11 luglio 1813, il Lombardo-Veneto difettava di una disciplina organica in materia di espropriazione forzata e di atti ablatori esperibili dall’autorità amministrativa nei confronti dei privati; nonostante le diverse sollecitazioni presentate al Governo di Vienna, la situazione rimarrà invariata sino alla legge unitaria del 25 giugno 1865. Tale assenza di regolamentazione, lungo i decenni centrali dell’Ottocento, sarà foriera di non poche difficoltà in capo alle amministrazioni competenti ad apprestare e dare esecuzione a lavori ed opere pubbliche. Lo studio della realtà ambrosiana lombardo-veneta ha evidenziato come furono in special modo le autorità locali, strette tra i desiderata dei superiori organi di governo e le onerose pretese indennizzatorie dei privati, a risentire maggiormente di questo vuoto legislativo; sul punto, mi si consenta di richiamare quanto trattato nella mia tesi di dottorato, ‘Quando l’utilità pubblica lo esiga’, cit., in particolare pp. 188-229.

[84] La disciplina degli interventi eseguiti per utilità cantonale è sancita dagli artt. 2-14 della legge. Bullettino officiale della Repubblica e Cantone del Ticino, vol. XXII, cit.

[85] È rilevante notare che, non ostante l’intervenuta deliberazione assembleare, al privato ricalcitrante viene concesso un termine entro il quale presentare le proprie rimostranze; dispone infatti l’art. 18 che, “decisa la cosa dall’assemblea, essa viene portata dalla Municipalità al Consiglio di Stato. È pur lecito a chiunque ricorrere allo stesso, entro 15 giorni, tanto contro la decisione in massima quanto contro la sua applicazione in ispecie. – Il Consiglio di Stato, scorsi 15 giorni, sentita la Municipalità e sentito il preavviso della Direzione delle Pubbliche Costruzioni, manda al Gran Consiglio la sua proposta per l’analogo decreto legislativo”. Ivi, p. 58.

[86] Nel giorno fissato per l’ispezione, “il Giudice di Pace, ed in caso di superiore competenza, un Giudice delegato dal Tribunale di Prima Istanza, si reca in luogo coi due periti; - che procedono alla stima redigendola immediatamente in iscritto e consegnandola al Giudice. Ha quindi luogo un esperimento di conciliazione. Se questa non riesce, il Giudice fissa il giorno della discussione e giudizio, che non potrà portarsi al di là di giorni sei […]. § Questo giudizio è esecutorio e non ostante appello (art. 9); ivi, pp. 154. Anche in questo caso possiamo affermare senza timore di smentita che il legislatore elvetico subisce l’influenza della finitima esperienza francese, se consideriamo che la legge del 1841 in materia di “envoi en possession pour cause d’urgence” prevede che, una volta pronunciato il provvedimento che attesta l’urgenza dei lavori, compete al potere giudiziario la determinazione dell’ammontare indennizzatorio spettante all’espropriato, essendo successivamente “il presidente del tribunale a ordinare la prise de possession (art. 70). Il jugement del tribunale e l’ordinanza del presidente sono «exécutoires sur minute» e non possono essere attaccati per opposizione né per appello (art. 71) (ma, ovviamente, è ammesso il ricorso per cassazione)”, L. LACCHÈ, op. cit., p. 499; più diffusamente, sulla disciplina d’urgenze introdotta nel 1841, pp. 491-509.  

[87] Può al riguardo farsi riferimento alla circostanza che, da un censimento affidato dal Governo ai parroci dei due principali centri del Cantone, Lugano e Bellinzona, nel 1808 contavano rispettivamente solo 3344 e 1261 abitanti. Cfr. R. CESCHI, Ottocento ticinese, cit., p. 13.

[88] Si tratta ovviamente di una tematica che, qui calata nella multiforme realtà svizzera, riveste nella complessità dell’Europa continentale ottocentesca un ruolo dominante (e addirittura crescente, se pensiamo all’importanza assunta a partire dalla seconda metà del secolo dalle vie di comunicazione ferroviaria). Come è stato correttamente osservato, “il tema stradale, luogo favorito dell’idea di progresso e di miglioramento sociale, in quanto consente i collegamenti tra realtà culturali e produttive diverse, caratterizza ben presto i programmi ottocenteschi di rinnovamento e di progetto della città”; cfr., anche in riferimento ad una possibile comparazione tra la realtà urbana ticinese e quella milanese: G. RICCI, Trasformazione del sistema urbano nel XIX secolo e nascita di un problema storiografico: l’esempio milanese, Introduzione a N. OSSANNA CAVADINI, Chiasso fra Ottocento e Novecento. La costruzione di una forma urbana, Muzzano, 1997, pp. 17-22.

[89] Per il periodo napoleonico si veda in particolare P. BORELLA, op. cit., pp. 110-116.

[90] Con particolare attenzione ai temi che si è cercato di mettere in luce nel presente contributo e che, prendendo avvio da quella nuova concezione dello spazio fisico che si impone tra Settecento e Ottocento, contemporaneamente alla nascita di un moderno sistema di amministrazione dello Stato e degli enti pubblici territoriali, non può prescindere da una diversa regolamentazione dei rapporti tra questi e i cittadini, normalmente portatori, come appare chiaramente con riferimento alla disciplina degli espropri, di interessi tra loro geneticamente confliggenti.

[91] Se da un lato si tratta, com’è ovvio, di considerazioni obbligatoriamente non definitive, e che necessitano pertanto di ulteriori conferme, non possiamo d’altra parte nascondere che gli esempi presi in considerazione ci restituiscono l’immagine di una realtà ticinese che, nella prima metà del secolo, è ancora in itinere. Ne costituisce una tacita conferma il fatto che le relazioni intercorrenti tra i principali soggetti istituzionali sono contrassegnate da passaggi per lo più informali e sburocratizzati, privi di un riparto competenziale pienamente strutturato e così caratterizzati dalla prevalenza dei processi di fatto su quelli segnatamente giuridici. Può essere altresì opportuno riferire dell’abitudine, invalsa negli anni successivi all’entrata in vigore del codice civile ticinese, “di chiedere «spiegazioni» al Gran Consiglio su certi articoli”, prassi contro cui si dirigono le riserve avanzate dal Consiglio di Stato, secondo cui “è una cosa irregolare affatto quella di venire per la più piccola dubbietà avanti il Gran Consiglio per averne un giudizio senza spesa”: G. PATOCCHI, op. cit., p. 137.

[92] Sono non a caso i temi che continueranno a rivestire un peculiare interesse per la dottrina e la giurisprudenza dei decenni successivi. In relazione alla trattazione svolta dai giuristi della Penisola, a proposito della materia dei beni pubblici e delle posizioni giuridiche ad essi connesse, ci si consenta almeno il riferimento ad alcuni fondamentali scritti di Oreste Ranelletti, che a partire dagli ultimi anni dell’Ottocento si avvia ad intraprendere una vera e propria opera fondativa della scienza amministrativistica italiana: O. RANELLETTI, Caratteri distintivi del demanio e del patrimonio, Roma, 1892; ID., Concetto, natura e limiti del demanio pubblico, Torino, 1897-1899; ID., Della formazione e cessazione della demanialità, Torino, 1899. Per quanto riguarda l’istituto dell’espropriazione forzata, l’interesse degli studiosi emerge in modo patente dai contributi di: F. ACCAME, Della espropriazione in causa di pubblica utilità, Genova, 1853; C. DE BOSIO, op. cit.; A. DE CUPIS, Di alcune fondamentali questioni sulla determinazione della indennità nelle espropriazioni per causa di utilità pubblica, Torino, 1892.

[93] Ed è proprio con l’Ottocento che “il pubblico, prima timidamente, poi con sempre maggiore sicurezza, inizia a uscire dalla sua condizione di infantile minorità rispetto al diritto privato dei grandi codici ottocenteschi e delle sistematiche romanistico-pandettistiche […] mentre al diritto amministrativo si affida il compito, quasi esclusivo, di rappresentare il diritto comune dei rapporti, sempre più fitti e intensi, tra Stato e cittadini”; B. SORDI, op. cit., pp. 133-137.

[94] ASTi, Dipartimento delle pubbliche costruzioni-Fondo vecchio 1, c. 12, cit.

[95] Si pensi alla celeberrima formulazione dell’art. 544, con cui si apre il titolo del Code civil dedicato alla proprietà, definita come “le droit de jouir et disposer des choses de la manière la plus absolue”. Si tratta per vero di una concezione che necessita di essere almeno parzialmente ricalibrata, in quanto “una più attenta lettura dei Lavori preparatori ci mostra, al di là delle proclamazioni di maniera, come i giuristi napoleonici non attribuiscano alla proprietà i caratteri di un primordiale diritto naturale che lo Stato sia tenuto a riconoscere in quanto preesistente alla Stato stesso”; la proprietà sancita dal codice è dunque “sacra e inviolabile, certo: ma non concepita senza una legge che la generi e uno Stato che la garantisca e la sorvegli”, A. CAVANNA, Storia del diritto moderno, cit., p. 575; del medesimo avviso anche S. RODOTÀ, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, Bologna, 1981, p. 90. Più in generale, sul concetto di proprietà privata introdotto con la Rivoluzione francese e definitivamente consacrato dal codice civile del 1804, ex pluribus: C. LÈWY, The Code and Property, in The Code Napoleon and the Common Law World: the sesquicentennial lectures delivered at the Law Center of New York University, December 13-15, 1954, New York, 1956, pp. 162-176; G. ASTUTI, Il Code Napoléon in Italia e la sua influenza sui codici degli Stati italiani successori, in Atti del Convegno sul tema: Napoleone e l’Italia, cit., pp. 175-237; P. GROSSI, Il dominio e le cose. Percezioni medievali e moderne dei diritti reali, Milano, 1992; ID., Proprietà e contratto, in Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, a cura di M. FIORAVANTI, Roma-Bari, 2002, pp. 128-138; ID., L’Europa del diritto, Roma-Bari, 2007, pp. 143-145; L. LACCHÈ, op. cit., in particolare pp. 243-290; S. SOLIMANO, Verso il Code Napoléon. Il progetto di codice civile di Guy Jean Baptiste Target (1798-1799), Milano, 1998, in particolare pp. 279-300; ID., Un secolo giuridico (1814-1916), in P. ALVAZZI DEL FRATE-M. CAVINA-R. FERRANTE-N. SARTI-S. SOLIMANO-G. SPECIALE-E. TAVILLA, Tempi del diritto, pp. 319-387, in particolare pp. 382-387; A. CAVANNA, Mito e destini del ‘Code Napoléon’ in Italia. Riflessioni in margine al ‘Panegirico a Napoleone legislatore' di Pietro Giordani, in Giordani Leopardi 1998, Atti del convegno nazionale di studi (Piacenza, 2-4 aprile 1998), Piacenza, 2000, pp. 35-75, in particolare pp. 60-63, ora anche in ID., Scritti (1968-2002), vol. II, Napoli, 2017, pp. 1079-1129.

[96] P. GROSSI, Tradizioni e modelli, cit.,p. 486. È appunto il caso della concezione fatta propria dall’ABGB e, in seguito, dal legislatore ticinese del 1837.

[97] La consapevolezza dell’esistenza di un interesse di natura pubblicistica, prevalente rispetto alle atomistiche, e spesso egoiste, pretese dei singoli, è ormai nel pieno Ottocento una realtà inconfutabile. A conferma di tale assunto, appare efficace il richiamo alla dottrina austriaca che per prima è chiamata a misurarsi con il nuovo Codice civile universale, e in particolare all’opera del giurista austriaco Franz Xavier Nippel, il quale, debitore del pensiero di Franz von Zeiller, nel commento al § 365 dell’ABGB evidenzia come “siccome il capo della nazione ha diritto di esigere da tutti i membri della medesima, che a misura delle proprie forze ciascuno contribuisca al bene generale, e perciò stesso rinunci alla utilità privata, allorché si tratta della pubblica, così anche nel caso proposto egli ha senza dubbio diritto di pretendere che il privato rinunci alla sua proprietà per servire l’interesse generale. Gli insegnatori della scienza politica chiamano questo diritto del supremo imperante, il diritto eminente di proprietà o il diritto di supremazia sui beni privati”: F. X. NIPPEL, Comento sul codice civile generale austriaco con ispeciale riguardo alla pratica, vol. III, Pavia, 1839, p. 191. Così appunto anche F. ZEILLER, Commentario sul codice civile universale per tutti gli stati ereditari tedeschi della monarchia austriaca, vol. II, Milano, 1815, pp. 125-126. In Italia, Agostino Reale, ricalcando quasi alla lettera la dizione del dettato codicistico, si limiterà laconicamente a riconoscere che “all’obbligo di alienare è sottoposto ciascun membro dello Stato quando la utilità pubblica lo esiga, epperò deve in siffatto caso cedere anche la sua piena proprietà contro una conveniente indennizzazione”: A. REALE, Istituzioni del diritto civile austriaco con le differenze tra questo e il diritto civile francese, vol. II, sez. I, Pavia, 1830, p. 106.

[98] Come messo in luce da un altro illustre commentatore del codice austriaco, che nella chiosa al medesimo § 365 non può disconoscere che “essendo i singoli cittadini tenuti soltanto proporzionalmente a cooperare al comune benessere, chiaro è che a ciascuno, il quale venne costretto a cedere la cosa sua, deve prestarsi la conveniente indennizzazione: deve cioè compensarglisi il danno effettivamente sofferto”: J. WINIWARTER, Il diritto civile austriaco, vol. II, Venezia, 1838, p. 118.

Fedrighini Michele



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