Testimonianze dai Libri Augurum in tema di dittatura
Rosanna Ortu*
Testimonianze dai Libri Augurum in tema di dittatura**
English title: Testimonials from the Libri Augurum on the Topic of Dictatorship
DOI: 10.26350/18277942_000169
Sommario: 1. Premessa: D. 1.2.2.18 Pomp. lib. sing. ench. 2. La valenza dei documenti sacerdotali per la ricostruzione delle più arcaiche istituzioni giuridico-religiose romane: i ‘libri augurum’. 3. Testimonianze sul dictator tratte dai libri augurum: Cicerone e Livio. 3.1. A proposito della denominazione del ‘dictator’: Cic. ‘rep.’ 1.40.63. 3.2. A proposito della competenza della nomina del dittatore: Liv. 4. 31.4. 3.3. A proposito del tempo della ‘dictio dictatoris’: Liv. 8.23.15. 3.4. A proposito del luogo della ‘dictio’: Liv. 27.5.15. 4. Annotazioni conclusive.
Premessa: D. 1.2.2.18 Pomp. lib. sing. ench.
Il giurista Pomponio, in uno dei rari brani del Digesto dedicati alla riflessione giurisprudenziale in tema di dittatura[1], utilizza la significativa espressione ‘non erat fas’ in riferimentoalla durata della carica del dictator che, quoniam summam potestatem, non poteva oltrepassare i sei mesi di tempo, lasciando così trapelareunfortecollegamentoconlareligioo,permegliodire,attestandouna prescrizione di carattere religioso[2]mediante l’impiego di una locuzione tipicadellessicosacerdotale:
D. 1.2.2.18 Pomp. lib. sing. ench.: Populo deinde aucto cumcrebraorerenturbellaetquaedamacrioraafinitimisinferrentur,interdum re exigente placuit maioris potestatis magistratum constitui:itaque dictatores proditi sunt, a quibus nec provocandi ius fuit etquibusetiamcapitisanimadversiodataest.Huncmagistratum,quoniam summam potestatem habebat, non erat fas ultra sextum mensemretineri[3].
IlframmentodiPomponio,trattodalLiberSingularisEnchiridii, inserito, come è noto, nel contesto più ampio della riflessione svoltaa proposito delle funzioni delle magistrature repubblicane, tratta dell’istituzionedelladittatura,giustificatadall’aumentodelpopoloedall’insorgenza di conflitti bellici, particolarmente aspri, mossi dai confinanti o, come ribadisce il giurista, quando la situazione lo esigesse. Oltre a ciò, come scrive Pomponio, la dittatura fu creata con potestàmaggiore, escludendone per tale motivazione la provocatio ad populum, ed attribuendo ai dictatores anche il diritto di sanzionare i cittadini romani con la pena capitale. Nondimeno, prosegue il giurista,poiché tale magistratura era fornita di summa potestas, «era nefando(‘noneratfas’)tenerlaperpiùdiseimesi»[4].
Lariflessionesvoltaneltestodalgiureconsultoèsicuramenterilevante poiché trasmette informazioni specifiche a proposito della dittaturaedellesueorigini,esoprattuttoperchéscaturiscedaunavisione marcatamente giuridica. Ma, nonostante ciò, non è mia intenzione affrontare in questo contributo le numerose problematiche sottese al frammento D. 1.2.2.18, che ora ho ritenuto opportuno citareunicamenteperleimplicazionichescaturisconodall’espressione‘non erat fas’, nell’ottica di avviare una breve indagine sul carattere religioso deldictator,cheemergefindalleoriginiditalemagistratura,comeattestato anche da Pomponio, attraverso l’analisi delle notizie diretteprovenientidaidocumentisacerdotali.
Infatti,giàdaunaprimaletturadellapartefinaledelpasso,anche sePomponiononutilizzailconsuetoterminenefas[5],sipuòconstatare che il significato dell’espressione non erat fas può, senza alcun dubbio,ricollegarsiataleconcetto,espressotral’altroinetàpiùrisalentecon laformulanefasest,oaddiritturaconilterminereligio[6].ComesostenutodaFrancescoSini,«ilconcettodinefasrimandaavalorichel’odierna dommatica giuridica definisce imperativi – il nefas è intesosempreinsensoobbligatorio–connessiconlesferedel“vietato”e del “dovere”»[7], osservando inoltre che «l’uso di nefas nell’arcaica forma nefas (est) si ritrova ancora negli antiquari di età tardo-repubblicana ed imperiale, soprattutto in testi che fanno riferimento a realtà religioseegiuridicheantichissime»[8],oltrechenellalinguadeisacerdoti.
Pertanto, nel frammento di Pomponio sembrerebbe, anche per lascelta del giurista di utilizzare la formula non erat fas, che il collegamentotradictatorelasferareligiosasiastrettissimoechetaleconnessionepossaevidentementerisalirealleoriginidiquestamagistratura.
Ilfattochesiaconsideratonefastoilprolungamentotemporaledi talemagistraturaoltreilterminecanonicodeiseimesi,riportalaquestione ad un campo di precipua competenza sacerdotale, poiché,come è noto, le problematiche spazio-temporali erano attinenti all’ambito della religio[9]. Nel sistema giuridico-religioso[10] romano laspecificitàdeilegamitragliesseriumanieledivinitàsipalesavapienamente«nell’antitesifas/nefas,fondatainparticolarmodosullaconcezione teologica che spazio e tempo appartenessero agli Dèi […] la teologiaeloiusdivinumdeisacerdotiromanirappresentavanolavitaelastoriadelPopoloromanoinrapportodiimprescindibilecausalità conlareligio»[11].
Maoltrealladuratatemporalecanonicadelladittaturaqualificata come fas[12]da Pomponio, nel caso in cui non oltrepassi i sei mesi, èpossibileriscontrareanchedalraccontodiLiviol’esistenzadiulteriori elementichecolleganofindalleoriginiquestamagistraturaallareligioealmos:
Liv. 4.31.4: Et cum ibi quoque religio obstaret ne non posset nisi ab consule dici dictator, augures consulti eam religionem exemere.
Liv. 9.38.14: Nocte deinde silentio, ut mos est, L. Papirium dictatorem dixit.
I due testi sono assai noti e rileva sicuramente il fatto che fin dalle origini la dictio dictatoris ab consule sia ricondotta alla religio mentre la procedura urgente di nomina del dittatore sia qualificata come mos, attestando così anche una piena aderenza di tale procedimento alla consuetudine costituzionale predecemvirale[13].
Per tutto ciò, al fine di arricchire il quadro giuridico-religioso inerente alle caratteristiche originarie della dittatura, vale sicuramente la pena soffermarsi ad analizzare i frammenti tratti dai documenti sacerdotali giunti attraverso le testimonianze degli autori antichi, con particolare riguardo a quelli provenienti dai libri augurum[14], tenendo presente che le ricerche della dottrina romanistica, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, hanno contribuito ad attestare in maniera del tutto pacifica «il valore dei “frammenti” dei documenti sacerdotali, quale “fonte primaria” per la ricostruzione delle più antiche istituzioni e vicende storiche»[15] romane.
2. La valenza dei documenti sacerdotali per la ricostruzione delle più arcaiche istituzioni giuridico-religiose romane: i ‘libri augurum’.
I frammenti tratti dai libri augurum[16], al pari degli altri documenti sacerdotali, possono fornire elementi fondamentali per tracciare una puntuale ricostruzione delle istituzioni giuridico-religiose romane, allo scopo precipuo di evidenziarne le caratteristiche originarie. In tali documenti, come ampiamente dimostrato dalla dottrina romanistica della seconda metà del secolo scorso, sono riportate le solenni formule che avevano il compito di realizzare «di volta in volta la traduzione nella sfera religiosa di tutto il complesso di attività riferibili al popolo romano»[17].
In merito all’attendibilità delle formule religiose tratte dai documenti sacerdotali, ne avvalora ampiamente l’autenticità, negli anni ’60 del Novecento, Georges Dumézil[18], il quale formula una netta critica alla teoria di Kurt Latte[19], il quale, sulla scia del Mommsen[20] e del Wissowa[21], aveva mostrato di avere un atteggiamento assai restrittivo e sospettoso nei confronti delle fonti letterarie e delle formule religiose riportate nei testi degli annalisti e degli antiquari[22]. Il Dumézil, nell’opera La religion romaine archaïque, mediante l’analisi di alcuni testi di Livio, dimostra efficacemente la veridicità delle formule solenni riportate dallo storico patavino[23], così come del resto, in precedenza, anche Jean Bayet, nell’«Introduction» in Tite-Live, aveva già ritenuto pienamente plausibili le notizie liviane inerenti alle istituzioni giuridiche, religiose e politiche romane[24].
Ma a tali considerazioni dei due illustri studiosi francesi di storia della religione romana[25], va sicuramente ad aggiungersi un ulteriore elemento individuato da Francesco Sini, il quale, nel sostenere il valore autentico dell’insieme dei materiali tratti dai documenti sacerdotali, giustamente rileva che «nella società romana arcaica e repubblicana, a fronte dello sviluppo dei rapporti economici e politici, si contrapponevano da una parte una più lenta evoluzione delle istituzioni giuridiche, specialmente di “diritto pubblico”, dall’altra il carattere fortemente conservativo della tradizione religiosa»[26], consentendo così agli autori antichi, storici e letterati, di recuperare rispettosamente ed ampiamente i contenuti originali dell’elaborazione svolta dai collegi sacerdotali. Ovviamente, ammonisce il Sini, ciò non deve esonerare l’interprete di queste fonti dallo svolgimento di una valutazione attenta e rigorosa, che tenga conto delle diversità sussistenti tra la visione dell’autore che tramanda la fonte, in cui si può cogliere una ideologia individuale radicata in un preciso contesto storico-sociale ed un personale livello di graduazione nella meticolosità dell’analisi, e le informazioni inerenti ad uno specifico evento storico, ad un istituto o ad una più remota realtà giuridico-religiosa, il più delle volte estrapolate da materiali risalenti alla medesima età dei fatti oggetto di indagine[27].
È noto che la maggior parte dei riferimenti letterali tratti dai libri sacerdotali siano riconducibili prevalentemente ai libri dei pontefici e ai libri degli àuguri[28]. Vi è però un’unica eccezione rappresentata da un passo del De Lingua Latina, in cui Varrone riporta un frammento tratto dai libri Saliorum:
Varr. l. lat. 6.14: In libris Saliorum quorum cognomen Agonensium, forsitam hic dies ideo appelletur potius Agonia[29],
in cui si ipotizza che vi fossero riportati i carmina più risalenti della sodalitas[30].
Per quanto riguarda il contenuto dei libri augurum, si ritiene che racchiudessero le regole, i precetti e le procedure inerenti alla disciplina augurale[31]. Buona parte della dottrina reputa, inoltre, che i libri augurali fossero organizzati con una struttura sistematica già consolidatasi al termine dell’età monarchica o agli albori dell’età repubblicana[32].
A tale proposito risulta particolarmente preziosa la testimonianza di Cicerone, il quale, per la sua appartenenza al collegio degli àuguri[33], ed avendo pertanto la possibilità di consultare direttamente i libri augurum[34], nel De legibus delinea in maniera esatta la sistematica ordinatoria dei materiali contenuti nei libri augurali elaborata dai sacerdoti:
Cic. leg. 2.20-21: Interpretes autem Iovis optumi maxumi, publici augures, signis et auspiciis postea vidento, disciplinam tenento sacerdotesque vineta virgetaque et salutem populi auguranto; quique agent rem duelli quique popularem, auspicium praemonento ollique obtemperanto. Divorumque iras providento sisque apparento, caelique fulgura regionibus ratis temperanto, urbemque et agros et templa liberata et efflata habento. Quaeque augur iniusta nefasta vitiosa dira deixerit, inrita infectaque sunto; quique non paruerit, capital esto[35].
Il testo sembra corrispondere ad una trascrizione, elaborata dall’àugure Cicerone, tratta da una collezione ufficiale ad uso del collegio. Nelle parole riprodotte dall’Arpinate trapela una chiara sequenza delle competenze augurali, delineate secondo l’ordine del testo sacerdotale. Il Dumézil[36] ritiene che Cicerone evocasse partizioni autentiche dei libri degli àuguri, rispondenti ad un assetto sistematico delle competenze sacerdotali[37]. Tale sistematizzazione corrispondeva alla seguente sequenza di funzioni[38]: 1. Signa e auspicia in generale («Interpretes autem Iovis optumi maximi, publici augures, signis et auspiciis postea vidento»); 2. Disciplina augurale («disciplinam tenento»); 3. Inaugurationes («sacerdotesque vineta virgetaque et salutem populi auguranto»); 4. Auspicia dei magistrati («quique agent rem duelli quique popularem, auspicium praemonento ollique obtemperanto»); 5. Nomina deorum e precationes augurales («divorumque iras providento sisque aparento»); 6. Definizioni degli spazi celesti e terrestri («caelique fulgura regionibus ratis temperanto, urbemque et agros et templa liberata et efflata habento»), a cui, infine, andava ad aggiungersi l’attività sottesa alla frase conclusiva del testo di Cicerone, «quaeque augur iniusta nefasta vitiosa dira deixerit, inrita infectaque sunto; quique non paruerit, capital esto», che evocava lo svolgimento pratico delle funzioni augurali già sistematicamente indicate, dalle quali derivavano la concessione di responsa e la promulgazione di decreta, costituenti un insieme di atti sacerdotali raccolti nei commentarii[39], piuttosto che nei libri sacerdotali[40], come giustamente rilevato da F. Sini[41].
Poste queste brevi premesse, si potrà ora procedere all’analisi dei passi in cui è possibile riscontrare una provenienza dei contenuti da documenti del collegio degli àuguri in tema di dittatura, con l’intento di cogliere alcuni degli aspetti religiosi e delle caratteristiche originarie di questa peculiare magistratura.
3. Testimonianze sul dictator tratte dai libri augurum: Cicerone e Livio.
Esporrò qui di seguito il contenuto di quattro testi che sicuramente possono essere ascritti ad una provenienza dai documenti del collegio degli àuguri.
Il primo di questi passi è tratto dal De republica di Cicerone[42], mentre gli altri tre provengono dall’opera Ab urbe condita di Livio.
3.1. A proposito della denominazione del ‘dictator’: Cic. ‘rep.’ 1.40.63.
Per cogliere la valenza della denominazione originaria del dictator, così come è stata tramandata dagli àuguri, è sicuramente utile l’analisi della testimonianza di Cicerone:
Cic. rep. 1.40.63: Nam dictator ab eo appellatur quia dicitur. Sed in nostris libris vides eum, Laeli, magistrum populi appellari[43].
Questo testo[44] sul dictator è di grande interesse poiché rappresenta uno dei casi emblematici di fonti contenenti due informazioni disomogenee che potrebbero far sorgere dubbi sull’autenticità delle notizie riferite[45]. Infatti, in apertura del testo Cicerone propone l’etimologia[46] del sostantivo ditactor (qui dicitur[47]), mentre successivamente introduce l’appellativo ufficiale di questo magistrato (indicato con la locuzione magister populi), creando così una palese disuguaglianza tra le informazioni riportate. Vi è però una spiegazione plausibile che si àncora alla differente valenza di queste due notizie, infatti la prima è strettamente collegata alle risultanze dell’analisi antiquaria del contesto storico di Cicerone, mentre la seconda viene attinta dall’Arpinate dagli arcaici documenti sacerdotali del collegio degli àuguri, ed è quindi ascrivibile ad un periodo storico decisamente più risalente rispetto a quello in cui operava il grande oratore[48].
Pertanto, per tirare le fila del discorso in merito agli aspetti riconducibili alle testimonianze tratte dai documenti sacerdotali, Cicerone attesta che nei libri augurum (in nostris libris) la denominazione utilizzata per designare il dictator era magister populi[49]. L’attendibilità di tale notizia, confermata per altro anche da ulteriori fonti, come risulta dal Mommsen[50], trova sostegno anche nel fatto che Cicerone, nel suo ruolo di àugure, poteva consultare di persona i documenti degli archivi del collegio[51].
3.2. A proposito della competenza della nomina del dittatore: Liv. 4. 31.4 .
Anche nell’opera di Tito Livio è possibile riscontrarne la presenza di alcune testimonianze significative, tratte dai documenti del collegio degli àuguri, in tema di dittatura. Lo storico patavino fornisce alcune notizie assai interessanti in merito alla competenza della nomina del dittatore, nonché al tempo e al luogo della dictio dictatoris[52].
Già da una prima lettura dei passi liviani, appare chiaro che le tematiche affrontate sono tutte connesse ad elementi caratterizzanti la dittatura fin dalla sua origine. Tali tematiche si possono ricondurre ad alcune questioni sottese alla dictio dictatoris, il cui controllo sulla regolarità della procedura, come è noto, rientrava nella sfera della religio ed era di competenza specifica del collegio degli àuguri[53].
Il primo di questi testi riguarda, appunto, la capacità ad effettuare la dictio dictatoris:
Liv. 4.31.4: Maesta civitas fuit vinci insueta; odisse tribunos, poscere dictatorem: in eo verti spes civitatis. Et cum ibi quoque religio obstaret ne non posset nisi ab consule dici dictator, augures consulti eam religionem exemere[54].
Si tratta di un testo particolarmente interessante, in cui Livio riproduce il contenuto di un decreto degli àuguri[55] in tema di competenza di nomina del dictator. Come trapela dalla narrazione liviana, il contesto storico di riferimento riguarda la guerra contro Veio condotta sotto la guida di Tito Quinzio Pena, Gaio Furio e Marco Postumio, tre dei quattro tribuni militari con potestà consolare nominati nel 426 a.C., ai quali si aggiungeva Aulo Cornelio Cosso, rimasto a Roma ad espletare le funzioni connesse all’imperium domi. Le note difficoltà belliche indussero i Romani a formulare una forte richiesta di nomina di un dictator, dato che, come osserva Livio, in guerra è oltremodo dannoso dividere il comando dell’esercito tra più persone, a dimostrazione del fatto che la funzione originaria della dittatura era proprio quella di rispondere alle esigenze emergenziali di gestione di un conflitto bellico, come del resto attestato da Pomponio nel frammento esaminato nella premessa di questo contributo[56].
Il problema di carattere giuridico-religioso che emerge dal contenuto del passo riguarda la capacità di nomina del dictator da parte dei tribuni militari con potestà consolare e, conseguentemente a ciò, se possa essere considerata valida la dictio dictatoris non proveniente dal console (la religio consisteva proprio nel non posset nisi ab consule dici dictator)[57]. Infatti, come ben sappiamo, in un momento storico in cui ai plebei non era concesso di accedere al consolato, ed in cui gli auspici erano esclusivamente gestiti dal patriziato, la religio in linea generale non consentiva un’equiparazione degli auspicia consolari agli auspicia dei tribuni militum consulari potestate[58], ovvero a quelli inerenti ad una magistratura sorta per dare risposte costituzionali di apertura nei confronti della plebe e perciò estesa anche alla partecipazione dei plebei[59].
La richiesta di intervento da parte degli àuguri ricalca in pieno le loro funzioni e competenze sacerdotali in tema di auspicia[60] e la dictio dictatoris è ricondotta giustamente alla sfera della religio. Il decreto emanato in tale contesto dai sacerdoti ha, a mio avviso, una valenza del tutto innovativa, poiché gli àuguri procedono a formulare una sostanziale uguaglianza tra gli auspici dei consules e quelli dei tribuni militari con potestà consolare[61].
Pertanto, con questo decreto, gli àuguri intervengono statuendo un importante cambiamento che consentiva di ammettere la dictio dictatoris dei tribuni militari con potestà consolare, funzione usualmente riservata ai consoli, nell’ambito del diritto divino, affermando così il «pareggiamento delle capacità auspicali tra patrizi e plebei in quanto magistrati»[62]. Nel percorso complessivo delle tappe di parificazione tra i due ordini, si trattava, senza alcun dubbio, di un traguardo assai rilevante nell’ambito delle rivendicazioni della plebe[63].
3.3. A proposito del tempo della ‘dictio dictatoris’: Liv. 8.23.15.
Il brano liviano, inerente alla procedura di nomina del dittatore da parte del console e al tempo in cui doveva essere svolta, è molto conosciuto ed è stato oggetto di numerosi studi da parte della dottrina romanistica[64]:
Liv. 8.23.15: Consul oriens de nocte silentio diceret dictatorem.
La problematica giuridica sottesa a questo passo riguarda la validità dell’auspicazione del console, e Livio, anche in questa circostanza, fa riferimento a notizie provenienti direttamente dagli archivi degli àuguri[65].
Il contesto più ampio in cui si inserisce la fonte augurale riguarda un caso specifico in cui i tribuni della plebe avevano messo in dubbio, contestandone la validità, una determinazione assunta dal collegio degli àuguri, i quali avevano invalidato la dictio di un dictator plebeo, come è possibile leggere nel testo completo di Livio, nella parte finale del paragrafo 23 del libro VIII:
L. Cornelio, quia ne eum quidem in Samnium iam ingressum revocari ab impetu belli placebat, litterae missae ut dictatorem comitiorum causa diceret. Dixit M. Claudium Marcellum; ab eo magister equitum dictus Sp. Postumius. Nec tamen ab dictatore comitia sunt habita, quia vitione creatus esset in disquisitionem venit. Consulti augures vitiosum videri dictatorem pronuntiaverunt. Eam rem tribuni suspectam infamemque criminando fecerunt: nam neque facile fuisse id vitium nosci, cum consul oriens de nocte silentio diceret dictatorem, neque ab consule cuiquam publice privatimue de ea re scriptum esse nec quemquam mortalium exstare qui se vidisse aut audisse quid dicat quod auspicium dirimeret, neque augures divinare Romae sedentes potuisse quid in castris consuli vitii obuenisset; cui non apparere, quod plebeius dictator sit, id vitium auguribus visum? Haec aliaque ab tribunis nequiquam iactata; tamen ad interregnum res redit, dilatisque alia atque alia de causa comitiis quartus decimus demum interrex L. Aemilius consules creat C. Poetelium L. Papirium Mugillanum; Cursorem in aliis annalibus invenio[66].
I sacerdoti, infatti, giustificavano la propria decisione adducendo che vi fosse un vizio procedurale (vitiosum videri pronuntiaverunt), inerente in maniera specifica al tempo prescritto per la regolarità della nomina del dittatore, ovvero da quel rito composto da una sequenza di atti simbolici collegati intrinsecamente da un solenne cerimoniale, che si sostanziava in una vera e propria «liturgia d’investitura»[67], pienamente inserito in quel contesto magico-religioso-giuridico che caratterizzava l’epoca più risalente della storia di Roma[68].
Dal testo di Livio apprendiamo che l’obiezione dei tribuni della plebe alla decisione degli àuguri di invalidare la nomina del dictator (definita suspectam infamemque) si fonda su motivazioni che ben si collegano alle prescrizioni augurali della dictio e che portano i magistrati plebei a formulare alcuni interrogativi. I tribuni, infatti, rilevavano che l’irregolarità non poteva esser venuta facilmente alla luce, dato che il console nominava il dittatore alzandosi in silenzio nel cuore della notte; inoltre rimarcavano che il console non aveva scritto a nessuno – né in forma privata, né in forma pubblica – a proposito di quella procedura; e che non vi era alcun mortale in grado di aver visto o udito qualcosa in grado di invalidare gli auspici; ed infine che gli àuguri non avevano potuto, stando a Roma, divinare in quale irregolarità fosse incorso il console nell’accampamento. I magistrati plebei poi concludono introducendo quella che a loro avviso poteva essere la vera motivazione della decisione degli àuguri: «A chi non era chiaro che l’irregolarità rilevata dagli àuguri era in definitiva l’origine plebea del dittatore?»[69].
Ma al di là del contesto più generale in cui si inserisce l’intera vicenda, e del contesto storico in cui si colloca la notizia, appare chiaro che Livio attinga le sue informazioni da una fonte augurale, fatto di per sé confermato anche all’utilizzazione del sostantivo silentio[70], che Festo indica espressamente come vocabolo tecnico in riferimento proprio all’auspicazione[71]:
Fest. Verb. Sign., s.v. Silentio surgere, ed. Lindsay 474:
Infatti, nell’espressione hoc enim est proprie silentium, omnis vitii in auspiciis vacuitas si sottolinea chiaramente il valore giuridico-religioso del silentio nei riti di auspicazione, così come d’altronde aveva già specificato Cicerone in un passo del De divinatione[72].
3.4. A proposito del luogo della ‘dictio’: Liv. 27.5.15.
Da ultimo, il contento del frammento liviano inerente al luogo della dictio:
Liv. 27.5.15: Illa disceptatio tenebat, quod consul in Sicilia se M. Valerium Messallam, qui tum classi praeesset dictatorem dicturum esse aiebat, patres extra Romanum agrum – eum autem Italia terminari – negabant dictatorem dici posse.
La parte di questo passo che suscita interesse riguarda il luogo in cui doveva essere compiuta la dictio dictatoris, ovvero entro quali confini territoriali potesse essere nominato il dittatore[73].
Pur non riportando una formula ufficiale, Livio, anche in questo contesto, fa riferimento ad una regola tratta dalla disciplina augurale, rispettata costantemente nel tempo[74]. Infatti, gli àuguri svolgevano un controllo di carattere generale sulla validità degli auspicia nei confronti della dictio dictatoris, proprio perché eseguita auspicato.
Inoltre, il richiamo all’ager Romanus, entro i confini del quale doveva avvenire la dictio, ricopriva un ruolo ben preciso nella scienza augurale, elemento che rafforza ancor di più l’idea della discendenza della regola riferita da Livio dai precetti augurali[75].
Infatti, da un passo di Varrone è possibile apprendere la distinzione proposta dagli àuguri a proposito degli agrorum genera:
Varr. l. lat. 5.33: Ut nostri augures publici disserunt, agrorum sunt genera quinque: Romanus, Gabinus, peregrinus, hosticus, incertus. Romanus dictus unde Roma ab Romo; Gabinus ab oppido Gabis; peregrinus ager pacatus, qui extra Romanum et Gabinum, quod uno modo in his servantur auspicia; dictus peregrinus a pergendo, id est a progrediendo: eo enim ex agro Romano primum progrediebantur. Quocirca Gabinus quoque peregrinus, sed quod auspicia habet singularia, ab reliquo discretus; hosticus dictus ab hostibus; incertus is, qui de his quattuor qui sit ignoratur
[76].
Tale classificazione in cinque agrorum genera[77] era stata istituita dagli àuguri per classificare l’intero spazio terrestre[78], al fine di realizzare meticolosamente e in maniera del tutto precisa i riti di carattere religioso. L’ager Romanus è il primo citato nella classificazione augurale riportata da Livio ed era lo spazio specifico in cui si dovevano svolgere non solo la dictio dictatoris, ma anche le inaugurationes (ad es. non poteva esservi templum inauguratum al di fuori dell’ager Romanus); la presa degli auspicia alla partenza, la loro repetitio[79].
4. Annotazioni conclusive.
Da questa sintetica rassegna dedicata allo studio di alcuni documenti sacerdotali provenienti dagli archivi degli àuguri, appare evidente che le testimonianze degli autori antichi sul tema della dittatura siano sempre concentrate a far emergere elementi di carattere religioso strettamente collegati alle origini di questa magistratura.
Dai passi analizzati, appare chiaro che questa magistratura abbia avuto in generale, fin dalle origini, una spiccata connotazione religiosa, anche se non può essere accolta la concezione di chi, come il Magdelain[80], ritiene esistente «una derivazione del potere dittatoriale direttamente da Iuppiter, evidenziando un “parallèle” tra la dictio dictatoris e l’inauguratio del rex sacrorum e dei flamini maggiori»[81], poiché basata solo su ragionamenti che esulano dal dato più propriamente giuridico, intravvedendo nel potere del dictator solo una derivazione di tipo religioso[82].
Così come emerge dai testi esaminati in questo contributo, che riportano le notizie di un tempo ancestrale della dittatura, la nomina del dictator rappresentava un evento assai importante per i ritmi di vita della città antica, incidendo inevitabilmente anche nei confronti degli aspetti più propriamente religiosi della civitas, con un coinvolgimento attivo dei collegi sacerdotali, ed in maniera più specifica di quello degli àuguri.
Abstract (ENG):In order to enrich the juridical-religious framework inherent to the original characteristics of the dictatorship in ancient Rome, the analysis of the fragments taken from the priestly documents arrived through the testimonies of ancient authors is of fundamental importance, with particular attention to those coming from the libri augurum. From the testimonies of Cicero and Livy, who transcribe passages taken from the libri augurum which report the information of an ancestral time of the dictatorship, it appears clear that the nomination of the dictator represented a very important event for the rhythms of life of the ancient city, inevitably affecting also towards the more strictly religious aspects of the civitas, with an active involvement of the priestly colleges, and in a more specific way of that of the augurs.
Keywords (ENG):Dictatorship,Augurs, Libri augurum, Dictator, Dictio dictatoris, Magister populi.
* Università degli Studi di Sassari (rortu@uniss.it).
** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review
[1] Per i vari aspetti in tema di dittatura nell’antica Roma, tra i più recenti studi, rinvio a La dittatura romana, I, a cura di L. Garofalo, Napoli, 2017; La dittatura romana, II, a cura di L. Garofalo, Napoli, 2018, ivi ampia letteratura sul tema. Ma v. anche i lavori monografici di S. Fusco, ‘Oriens de nocte silentio’: alcune riflessioni sulla dittatura ‘imminuto iure’, Ortacesus, 2018; G. Nicosia, ‘Dictator’, Catania, 2019; G. Valditara, Il ‘dictator’ tra emergenza e libertà, Torino, 2021. Da ultimo, il recente contributo di R. Cardilli, Diritto pubblico romano e nuova costituzione della repubblica di Cuba, in Diritto romano, costituzionalismo latino e nuova costituzione cubana, a cura di R. Cardilli - G. Lobrano - R. Marini, Milano, 2021, pp. 47 ss.
[2] Cfr. A. Schiavone - F. Amarelli - F. Botta, Storia giuridica di Roma, Torino, 2016, p. 83, in cui, a tale proposito, si specifica che «non era conforme a norma religiosa, prima che morale».
[3] Sul passo di Pomponio rinvio, tra i più recenti, al contributo di A. Milazzo, Sul carattere ‘straordinario’ della magistratura del dittatore: alcune riflessioni su emergenza e periodicità nella sua nomina, in La dittatura romana, I, cit., p. 238 ss., il quale osserva, a proposito dello stato di emergenza che: «in ogni caso, il passo pomponiano sembra fare riferimento ad una situazione di necessità, condensata nel sintagma ‘re exigente’, che avrebbe portato ad un’urgenza di nomina di un magistrato che sarebbe servito appunto a rimediare a talune situazioni non affrontabili con gli ordinari strumenti, ovvero con le ordinarie magistrature. In questa prospettiva sembra indurre già la descrizione, al di là dell’espressione utilizzata dal giurista, dei casi che inducevano, secondo Pomponio, a nominare il dittatore, quali le situazioni di guerra, riferite per di più a quelle ritenute maggiormente pericolose in quanto mosse da paesi confinanti (‘cum crebra orerentur bella et quaedam acriora a finitimis inferrentur’)» (con citazione di ampia bibliografia). Da ultimo, vedi anche R. Cardilli, Diritto pubblico, cit., pp. 74, nt. 64; 75.
[4] Si tratta della traduzione tratta da ‘Iustiniani Augusti Digesta seu Pandectae’. Testo e traduzione, I, a cura di S. Schipani, con la collaborazione di L. Lantella, Milano, 2005, p. 84 [ora consultabile anche online in http://dbtvm1.ilc.cnr.it/digesto/ (ultimo accesso 7 maggio 2024)].
[5] In merito alla nozione di nefas vedi, tra i più risalenti, J. Paoli, Le monde juridique du paganisme romain. Introduction à l’étude du domain interdit des dieux dans le temps (‘nefas’), in RHD, 23 (1945), pp. 1 ss.; H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine, Paris, 1963, pp. 127 ss. Più recenti gli studi di Francesco Sini sul tema, a cui rinvio: F. Sini, voce ‘Nefas’, in Enciclopedia Virgiliana, III, Roma, 1987, pp. 676-678; Id., ‘Bellum nefandum’. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, Sassari, 1991, pp. 96 ss.; Id., ‘Bellum, fas, nefas’: aspetti religiosi e giuridici della guerra (e della pace) in Roma antica, in Diritto@Storia, 4 (2005), pp. 1 ss.
[6] Per i rapporti tra nefas e religio, rinvio tra tutti a F. Sini, ‘Bellum’, cit., pp. 96 ss., il quale delinea in maniera mirabile lo stretto rapporto semantico tra nefas e religio - religiosus.
[7] F. Sini, ‘Bellum’, cit., p. 96.
[8] F. Sini, ‘Bellum’, cit., p. 96.
[9] Sul significato di religio, H. Fugier, Recherches, cit., pp. 172 ss.; É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2. Pouvoir, droit, religion, Paris, 1969, pp. 265 ss.; H. Wagenvoort, Wesenzüge altrömischer Religion, in ANRW, 1.2 (1972), pp. 348 ss. (= Characteristic Traits of Ancient Roman Religion, in Id., ‘Pietas’. Selected studies in Roman Religion, Leiden, 1980, pp. 223 ss.); G. Lieberg, Considerazioni sull’etimologia e sul significato di ‘religio’, in RFIC, 102 (1974), pp. 34 ss.; R. Muth, Von Wesen römischer ‘religio’, in ANRW, 2.16.1 (1978), p. 290 ss.; R. Schilling, L’originalité du vocabulaire religieux latin, in Id., Rites, cultes, dieux de Rome, Paris, 1979, pp. 30 ss.; E. Montanari, voce ‘Religio’, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma, 1988, pp. 423 ss.
[10] Per la nozione di “sistema giuridico-religioso”, si rinvia a P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino, 1965, pp. 30 ss.; Id., Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. ‘Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia’, in ANRW, 2.16.1 (1978), pp. 445 s.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, I, Torino, 1990, p. 57.
[11] F. Sini, ‘Bellum’, cit., pp. 111 s.; Id., Uomini e Dèi nel sistema giuridico-religioso romano: ‘Pax deorum’, tempo degli Dèi, sacrifici, in Diritto@Storia, 1 (2002), pp. 1 ss.; Id., Religione e poteri del popolo in Roma repubblicana, in Diritto@Storia, 6 (2007), pp. 1 ss. In precedenza, sul tema si era espresso anche R. Orestano, Dal ‘ius’ al ‘fas’. Rapporto tra diritto divino e umano in Roma dall’età primitiva all’età classica, in BIDR, 46 (1939), p. 201, il quale osservava che: «una siffatta concezione ci riporta a quella che è stata la più antica concezione romana del mondo, rimasta costante in tutta la tradizione, secondo la quale la totalità degli esseri ragionevoli si divideva in due gruppi, gli Dei e gli uomini. Da essa scaturiva la suprema distinzione di tutti i rapporti e delle pertinenze in “divina” e “humana”».
[12] Sul concetto di fas, rinvio tra tutti a F. Sini, voce ‘Fas’, in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma, 1985, pp. 466-468; Id., ‘Bellum’, cit., pp. 86 ss.; Id., ‘Bellum, fas’, cit., pp. 1 ss.
[13] Cfr. R. Cardilli, ‘Res’, cit., p. 75. A tale proposito, l’autore chiarisce che «a conferma di ciò sta la origo di questa magistratura, la quale, pur presente in numerose altre realtà cittadine nell’Italia centrale, sembra assumere proprio a Roma una sua particolare configurazione. Come, infatti, è stato esattamente sottolineato in dottrina, all’insicurezza liviana nel ricordarne un fondamento legislativo nell’ordine della res publica, corrisponde una convergenza di attestazioni che considerano il suo regime concreto (investitura, poteri, durata) quale conforme al mos, al fas e alla religio. Tali qualifiche evidenziano con alta probabilità la considerazione della dittatura come magistratura pienamente coerente al sistema giuridico-religioso fondamentale del Comune, il quale appunto, nel pieno rispetto del regime ‘costituzionale’ fondato sul mos, permetteva di rispondere efficacemente alle situazioni di emergenza, senza che ciò però comportasse una sospensione delle istituzioni repubblicane nella loro complessità (senato, comizi, altre magistrature, collegi sacerdotali)». In merito alla valorizzazione del modello consuetudinario della dittatura (del periodo alto-repubblicano), allo scopo di far emergere le caratteristiche anomale della dittatura instaurata da Silla e poi da Cesare, rinvio alle riflessioni di C. Masi Doria, ‘Spretum imperium’. Prassi costituzionale e momenti di crisi nei rapporti tra magistrati nella media e tarda repubblica, Napoli, 2000, p. 137 ss.
[14] A proposito dei libri augurum, rinvio a: F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. ‘Libri’ e ‘commentarii’, Sassari, 1983, pp. 1755 ss.; Id., ‘Libri’ e ‘commentarii’ nella tradizione documentaria dei grandi collegi sacerdotali romani, in Diritto @ Storia, 1 (2002), pp. 1 ss.; Id., Diritto e documenti sacerdotali romani: verso una palingensi, in Diritto @ Storia, 4 (2005), pp. 1 ss.
[15] F. Sini, A proposito del carattere religioso del ‘dictator’. Note metodologiche sui documenti sacerdotali, in Dittatura degli antichi e dittatura dei moderni, a cura di G. Meloni, Roma, 1983, p. 122 s. (contributo già pubblicato in SDHI, 42 [1976], pp. 422 ss.). Per quanto riguarda lo stato della dottrina in merito al valore dei frammenti dei documenti sacerdotali, tra tutti, si veda Id., Documenti, cit., pp. 45 ss.; Id., ‘Libri’, cit., pp. 1 ss.
[16] Per i documenti del collegio degli àuguri e i libri augurum rinvio a: F.A. Brause, ‘Librorum de disciplina augurali ante Augusti mortem scriptorum reliquiae’, Lipsiae, 1875; P. Regell, ‘De augurum publicorum libris’, Vratislaviae, 1878; Id., ‘Fragmenta auguralia’, Hirschberg, 1882; Id., ‘Auguralia’, in ‘Commentationes Philologae in honorem Augusti Reifferscheidii’, Vratislaviae, 1884, pp. 61 ss.; Id., ‘Commentarii in librorum auguralium fragmenta specimen’, Hirschberg, 1893; J. Linderski, The Augural Law, in ANRW, 2.16.3 (1986), pp. 2241 ss.
[17] F. Sini, A proposito, cit., p. 123, il quale, inoltre, ribadisce che: «si può ormai ritenere opinione comunemente accettata quella che individua nelle prescrizioni di diritto divino e, più in generale, in tutte le testimonianze ad esso riferibili, e che in certo modo possono farsi risalire ai documenti conservati negli archivi sacerdotali, “ciò che di più serio gli storici di Roma abbiano potuto conoscere per i primi secoli”», in adesione al pensiero di P. Catalano, Contributi, cit., I, Torino, 1960, p. 109.
[18] G. Dumézil, La religion romaine archaïque, Paris, 1966, pp. 99 ss., poi in La religione romana arcaica, trad. it., Milano 1977.
[19] K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München, 1960, pp. 5 s.
[20] Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.1, Leipzig, 1887, pp. 9 s.
[21] G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, München, 1912, pp. 5 s.
[22] Cfr. K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., pp. 5 s., il quale afferma: «Besondere Vorsicht ist bei Verwendung der in die annalistische Überlieferung eingelegten Dokumente geboten. Sie sind im wesentlichen von dem Schriftsteller selbst mit Benutzung sakraler und iuristischer Formeln, die ein archaisches Kolorit geben sollten, entworfen oder seiner unmittelbaren Vorlage entnommen». Per una critica alle teorie del Latte vedi tra li altri A. Brelich, Un libro dannoso: la Römische Religionsgeschichte di Kurt Latte, in SMSR, 32 (1961), pp. 329 ss.; R. Schilling, La situation des études relatives à la religion romaine de la République (1950-1970), in ANRW, 1.2 (1972), pp. 327.
[23] G. Dumézil, La religion, cit., pp. 104 ss.
[24] Vedi J. Bayet, «Introduction» in Tite-Live, Histoire romaine, I, Paris, 1965, p. XXXIX, il quale sottolinea che «très Romain par sa haine de la superstitio et l’importance qu’il attache à l’exactitude des rites, Tite-Live a eu l’immense mérite de soupçonner l’importance du phénomène religieux dans l’ancienne histoire; il a eu aussi la délicatesse de ne pas l’y introduire sous forme d’exempla, mais par de notations, précises jusqu’à la nudité, de présages, de cérémonies, de formulaires».
[25] Per lo stato della ricerca sulla religione romana in Francia nel Novecento, vedi R. Schilling, La situation, cit., pp. 317 ss.
[26] F. Sini, A proposito, cit., p. 124. Sul punto rilevano anche le considerazioni di S. Mazzarino, Vico, l’annalistica e il diritto, Napoli, 1971, pp. 26 ss. Ma vedi anche J. Bayet, La religione romana. Storia politica e psicologi, Torino, 1992, pp. 44 ss.; G. Dumézil, La religion, cit., p. 90, per le osservazioni inerenti ai peculiari aspetti di custodia della storia religiosa dei Romani.
[27] Cfr. F. Sini, A proposito, cit., p. 124.
[28] Sul punto rinvio a F. Sini, Documenti, cit., p. 175; Id., ‘Libri’, cit., §§ 10, pp. 1 ss.; Id., Diritto, cit., §§ 4, pp. 1 ss., il quale sviluppa la tematica nell’ambito più ampio della distinzione tra libri e commentarii sacerdotali.
[29] Sul testo di Varrone, vedi A. Cenderelli, Varroniana. Istituti e terminologia giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone, Milano, 1973, pp. 42, 123; B. Cardauns, ‘M. Terentius Varro Antiquitates rerum divinarum’, Wiesbaden, I, 1976, p. 54 (Appendix ad lib. VIII); II, p. 176.
[30] Cfr. F. Sini, Documenti, cit., p. 175; Id., ‘Libri’, cit., §§ 10, pp. 1 ss.; Id., Diritto, cit., §§ 4, pp. 1 ss.
[31] Cfr. F. Sini, Documenti, cit., pp. 91 ss. L’autore, nel III capitolo del volume, svolge una meticolosa analisi sulle fonti latine che menzionano libri e commentarii, premettendo alcune osservazioni metodologiche, ed osservando che «la radicale diversità di atteggiamenti con cui la dottrina romanistica contemporanea affronta il problema della distinzione (e precisazione) del contenuto dei libri e dei commentarii sacerdotali si basa essenzialmente su due modi contrastanti di leggere le fonti. Si rende perciò necessario procedere, in maniera sistematica, all’esame di quelle fonti latine, in cui i termini libri e commentarii sono usati per indicare documenti di provenienza sacerdotale; poiché solo attraverso la verifica testuale si possono ricavare indicazioni risolutive: capaci, cioè, di confermare – compatibilmente con lo stato delle fonti – una delle prospettive presenti in dottrina su tale problema. Si tratta, insomma, di stabilire se la distinzione del contenuto dei libri da quello dei commentarii trovi conferma nello stato delle fonti, oppure se tale distinzione sia contraddetta proprio dal dato testuale». Dall’esame delle testimonianze di Cicerone, Varrone, Verrio Flacco e Sesto Pompeo Festo, Tito Livio, Seneca, Plinio, Quintiliano, Censorino, Arnobio, Mario Vittorino, Servio e Servio Danielino, Macrobio, F. Sini giunge alla conclusione che i libri contenessero «materiali riguardanti le regole della disciplina augurale».
[32] Come ben emerge da F.A. Brause, ‘Librorum’, cit., p. 10: «Porro si quaerimus quibus temporibus libri augurum orti sint compositique, origo quarundam partium ex regum tempore mihi videtur esse repetenda. Deinde etiam formula regum inaugurandorum quae sine dubio libris auguralibus vindicanda est ad regni tempora pertinet. Sed turpiter erraremus si iam regum temporibus totum corpus iuris auguralis ut ita dicam conscriptum esse arbitraremur»; e da P. Regell, ‘De augurum’, cit., p. 21: «Quodsi originem in regum saecula iure reiecimus, non ita multum a vero aberrabimus quod sub XII tabularum aetatem totam fere disciplinam libris contentam fuisse statuimus: qua aetate scribendi legendique artem satis fuisse celebrem supra indicavimus». Sul punto vedi F. Sini, Documenti, cit., p. 175; Id., ‘Libri’, cit., §§ 10, pp. 1 ss.; Id., Diritto, cit., §§ 4, pp. 1 ss.
[33] Come noto, Cicerone era entrato a far parte del collegio degli àuguri nel 53 a.C. Per un riscontro testuale nelle fonti rinvio a Plut. Cic. 36; Cic. Brut. 1; Phil. 2.4, come giustamente indicato da F. Sini, Documenti, cit., pp. 93, 117, nt. 10. Si vedano anche T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, II, New York, 1952, p. 233; J. Linderski, The Aedileship of Favonius, Curio the Younger and Cicero’s Election to the Augurate, in Harvard Studies in Classical Philology, 76 (1972), pp. 181 ss. Da ultimo vedi A. Zini, Il ‘dictator’ e il ‘magister populi’, in La dittatura romana, II, cit., pp. 6 s.
[34] Rinvio alle considerazioni di F. Sini, Documenti, cit., pp. 93 s., 121 s., il quale osserva che «egli era perfettamente in grado di accedere di persona almeno ai documenti conservati nell’archivio del suo collegio» (93 s.). Per l’esistenza di un archivio dei documenti del collegio degli àuguri, vale la precisazione di F. Càssola, Livio, il tempio di Giove Feretrio e la inaccessibilità dei santuari in Roma, in RSI, 82 (1970), p. 24, il quale specifica che pur non avendo una sede, è sicuro «però che avevano un locale destinato ad archivio. In esso, probabilmente, erano custoditi i commentarii augurum, la cui conoscenza era rigorosamente vietata a chi non fosse membro del collegio». Ma vedi anche F. d’Ippolito, Sul pontificato massimo di Tiberio Coruncanio, in Labeo, 23 (1977), p. 129, poi in Id., I giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza romana della repubblica, Napoli, 1978, p. 41; F. Bona, ‘Ius pontificium’ e ‘ius civile’ nell’esperienza giuridica tardo-repubblicana: un problema aperto, in ‘Contractus’ e ‘pactum’. Tipicità e libertà negoziale nell’esperienza repubblicana, a cura di F. Milazzo, Napoli, 1990, p. 214. Più recente, sul punto, A. Zini, Il ‘dictator’, in La dittatura romana, II, cit., p. 7.
[35] Su questo passo del De legibus, rinvio a: J. Linderski, The Augural Law, cit., pp. 2148 ss. Per l’interpretazione del testo, e la bibliografia di riferimento, vedi tra tutti F. Sini, Diritto, cit., §§ 4, pp. 1 ss.
[36] G. Dumézil, Idées romaines, Paris, 1969, p. 97.
[37] Cfr. G. Dumézil, Idées, cit., p. 97, il quale, in riferimento alla possibilità di Cicerone di accedere direttamente agli archivi del collegio degli àuguri, specifica che «il était donc renseigné de première main, et il est probable qu’il utilise non seulement de vieilles formules, mais des divisions authentiques dans le statut qu’il donne à ce collège en forme de loi fictive».
[38] Per quanto attiene alle cd. potenzialità sistematiche del testo di Cicerone, seguo la lettura proposta da F. Sini, Documenti, cit., pp. 205 s., nt. 151, il quale, a questo proposito, muove delle critiche pienamente condivisibili nei confronti di P. Regell, ‘De augurum’, cit., p. 25, nt., che aveva proposto una sistematizzazione per materia, suddivisa nelle seguenti cinque parti: «Nam adparet quinque hic partes esse distinguendas. I. quae est de augurii disciplina (angustiore sc. sensu) “Interpretes … tenente”. II. de inauguratione “Sacerdotesque … auguranto”. III. de ratione inter magistratus et augures intercedente “Quique agent … adparento”. IV. de templis auguralibus “Caelique … habento”. V. de iure augurum publico “Quaeque augur …” usque ad finem». F. Sini rileva che «la divisione operata dal Regell appare, anzitutto, viziata in maniera grave dal suo noto rifiuto di distinguere tra libri e commentarii: da ciò consegue che lo studioso tedesco ignora del tutto la distinzione fondamentale tra le parti definitorie, riferibili alla sistematica, e la parte dispositiva, riferibile invece ai decreta augurali e quindi ai commentarii; distinzione peraltro chiaramente rilevabile nel passo ciceroniano citato», ed aggiunge che «la stessa enucleazione delle diverse “partes” si presta a fondati rilievi critici: non si comprende, ad esempio, per quale ragione la “pars” “de ratione inter magistratus et augures intercedente” risulti separata, con collocazione propria, rispetto al “de iure augurum publico”».
[39] Fra i primi ad ipotizzare che in epoca ciceroniana gli archivi sacerdotali contenessero responsa e decreta: F.A. Brause, ‘Librorum’, cit., p. 16; e P. Regell, ‘De augurum’, cit., p. 24. Sul punto v. F. Sini, ‘Libri’, cit., §§ 9, pp. 1 ss., il quale evidenzia che «del resto, anche le fonti letterarie (le quali citano con particolare rilievo i commentarii degli àuguri e dei pontefici) confermano l’impressione che i commentarii costituissero una sorta di guida per il compimento delle funzioni dei collegi: vi erano cioè trascritti i rendiconti e le memorie di un’attività, che sovente si concretizzavano in decreta e responsa».
[40] Per quanto attiene alla distinzione tra libri e commentarii, F.A. Brause, ‘Librorum’, cit., pp. 10 ss., evidenzia che i libri riguardassero «praecationes formulas praeceptaque antiquissima», mentre i commentarii «facta quaedam memorabiliora» tra cui anche i decreta. Su tale differenza concettuale, rinvio tra tutti a F. Sini, Documenti, cit., pp. 143 ss., in cui l’A. delinea chiaramente la suddetta distinzione e ricostruisce compiutamente lo stato della dottrina sul tema. Più recenti, Id., ‘Libri’, cit., §§ 7 ss., pp. 1 ss.; Id., Diritto, cit., §§ 2 ss., pp. 1 ss.
[41] Cfr. F. Sini, Diritto, cit., §§ 4, pp. 1 ss., il quale, inoltre, specifica che «non appare, quindi, senza significato la collocazione di questa parte alla fine del testo; cioè nettamente separata, anche se concettualmente dipendente, dalle materie attribuibili ai libri augurum».
[42] Per le ricorrenze nelle opere di Cicerone di documenti tratti dai libri e dai commentarii degli àuguri, rinvio a F. Sini, Documenti, cit., pp. 93 ss.
[43] F.A. Brause, ‘Librorum’, cit., p. 42, fr. 28; P. Regell, ‘Fragmenta auguralia’, cit., p. 20, fr. 13. Sul testo vedi F. Sini, A proposito, cit., p. 125; G. Valditara, Studi sul ‘magister populi’. Dagli ausiliari militari del ‘rex’ ai primi magistrati repubblicani, Milano, 1989, p. 186. Da ultimo, su questo aspetto, A. Zini, Il ‘dictator’, cit., pp. 6 s.
[44] Riporto qui di seguito l’intero brano di Cicerone, al fine di mostrare il contesto più ampio in cui si colloca la fonte augurale: Cic. rep. 1.40.63: ‘Gravioribus vero bellis etiam sine collega omne imperium nostri penes singulos esse voluerunt, quorum ipsum nomen vim suae potestatis indicat. Nam dictator quidem ab eo appellatur quia dicitur, sed in nostris libris vides eum, Laeli, magistrum populi appellari’. (Laelius) ‘Video’ inquit. Et Scipio: ‘Sapienter igitur illi vete
[45] Cfr. F. Sini, A proposito, cit., p. 124.
[46] Cfr. A. Ernout - A. Meillet, voce ‘dico’, in Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris, 2001, pp. 172 s. Su tale aspetto v. anche C. Cascione, ‘Dictatorem dicere’: critica di un dogma (moderno) del diritto pubblico romano, in Studi per G. Nicosia, II, Milano, 2007, ora anche in Id., Studi di diritto pubblico romano, Napoli, 2010, pp. 9 ss. Da ultimo, A. Zini, Il ‘dictator’, cit., p. 5, il quale ribadisce che «l’etimologia formulata dagli antichi sembra essere fallace».
[47] Al riguardo, v. A. Ernout - A. Meillet, voce ‘dico’, cit., p. 173, in cui è possibile riscontrare la discendenza del termine dal verbo dictare, dalla forma dictando: in questo senso anche la testimonianza di Prisciano (Prisc. inst. 8.78; Keil, II, 432,25), il quale riteneva che dictator derivasse propriamente da a dictando. Su questa tematica, v. A. Zini, Il ‘dictator’, cit., p. 5.
[48] F. Sini, A proposito, cit., p. 124.
[49] In merito alla denominazione ufficiale più risalente del dictator, rinvio anche alle interessanti considerazioni di G. Meloni, Dottrina romanistica, categorie giuridico-politiche contemporanee e natura del potere del ‘dictator’, in Dittatura degli antichi e dittatura dei moderni, cit., p. 78, il quale rileva che «occorre ricordare che l’arcaica denominazione ufficiale del dittatore è la sola, fra quelle usate per indicare i magistrati repubblicani, a riferire la carica suprema direttamente al populus e che da tale denominazione concreta deriva il termine magistratus, il quale, in modo più generale ed astratto, indica tanto colui che è investito del potere pubblico, quanto la carica specifica ricoperta da chi tale potere gestisce».
[50] Cfr. Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, cit., II, 1, p. 143, n. 3.
[51] V. supra, nt. 33.
[52] Per quanto attiene alla nomina del dittatore, la sequenza del rituale viene descritta dagli autori antichi in maniera dettagliata: Cic. leg. 3.3.9; Liv. 4.13.14, 4.21.10, 4.31.5, 4.57.5-6, 6.38.4, 8.23.14-15, 9.38.14, 9.39.1, 23.22.11; Dion. Hal. 5.72.2. Per la letteratura sul tema, rinvio a: G. Tibiletti, Evoluzione di magistrato e popolo nello stato romano, in Studia Ghisleriana, s. II/1, estr. dagli Studi Letterari-Filosofici-Storici, Pavia, 1950, pp. 13 s.; A. Magdelain, Recherches sur l’‘imperium’. La loi curiate et les auspices d’investiture, Paris, 1968, p. 28; L. Labruna, ‘Adversus plebem dictator’, in Index, 15 (1987), p. 303, nt. 17; C. Cascione, ‘Dictatorem’, cit., pp. 9 ss.; F. Giumetti, Prima che il gallo canti. A proposito della ‘dictio’ del ‘dictator’ tra diritto, antropologia e storia delle religioni, in La dittatura romana, I, cit., pp. 69 ss.; A. Milazzo, Sul carattere, cit., pp. 233 ss.; E. Nicosia, ‘Ut optima lege’ e ‘dictio-creatio’ del ‘dictator’, in La dittatura romana, I, cit., pp. 329 ss. Da ultimo, R. Cardilli, Diritto, cit., pp. 74 s. Ma vedi anche S. Fusco, ‘Oriens’, cit., pp. 14 ss., in merito alla distinzione tra creatio del console e dictio del dittatore, ivi ampia letteratura sul tema.
[53] Sulle competenze degli àuguri e i documenti del collegio sacerdotale, oltre alla letteratura indicata nella nt. 14 di questo contributo, rinvio a: J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung2, III. Das Sacralwesen, a cura di G. Wissowa, Leipzig 1885 [rist. an. New York 1975], pp. 400 s.; A. Bouché-Leclercq, voce ‘Augures’, in DS, 1.1 (1877), pp. 550 ss.; V. Spinazzola, voce ‘Augur’, in Diz. epigr., I, 1895, pp. 778 ss.; G. Wissowa, voce ‘Augures’, in PWRE, 2, 2 (1896), pp. 2313 ss.; E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern, Lund, 1939; P. Catalano, Contributi, cit., pp. 108, 109, 593, 594.
[54] Per fornire un quadro compiuto del contesto liviano, riporto l’intero brano: Liv. 4.31.1-4: Tribuni militum consulari potestate quattuor creati sunt, T. Quinctius Poenus ex consulatu C. Furius M. Postumius A. Cornelius Cossus. Ex his Cossus praefuit urbi, tres dilectu habito profecti sunt Veios, documentoque fuere quam plurium imperium bello inutile esset. Tendendo ad sua quisque consilia, cum aliud alii videretur, aperuerunt ad occasionem locum hosti; incertam namque aciem, signum aliis dari, receptui aliis cani iubentibus, invasere opportune Veientes. Castra propinqua turbatos ac terga dantes accepere; plus itaque ignominiae quam cladis est acceptum. Maesta civitas fuit vinci insueta; odisse tribunos, poscere dictatorem: in eo verti spes civitatis. Et cum ibi quoque religio obstaret ne non posset nisi ab consule dici dictator, augures consulti eam religionem exemere. A. Cornelius dictatorem Mam. Aemilium dixit et ipse ab eo magister equitum est dictus; adeo, simul fortuna civitatis virtute vera eguit, nihil censoria animadversio effecit, quo minus regimen rerum ex notata indigne domo peteretur.
[55] A tale proposito concordo con la tesi di F. Sini, A proposito, cit., p. 125, il quale, sulla scia di F.A. Brause, ‘Librorum’, cit., p. 46, colloca il testo liviano tra i decreta augurum.
[56] D. 1.2.2.18 Pomp. lib. sing. ench., analizzato nel §§ 1 di questo contributo.
[57] Cfr. F. Sini, A proposito, cit., p. 125.
[58] Sul tribunato militare con potestà consolare v. L. Zusi, Patriziato e plebe. Rassegna degli studi 1966-1971, in Critica storica, 12 (1975), pp. 177 ss. Più recente sul tema il contributo di F. La Rosa, I ‘tribuni militum’ tra le istituzioni dell’alta repubblica, in Iura, 45 (1994), pp. 15 ss., ivi bibliografia di riferimento sul tema.
[59] Sul punto v. F. Sini, A proposito, cit., p. 125.
[60] Al riguardo, v. Titi-Livi ab urbe condita libri, a cura di W. Weissenborn - M. Müller, rist. Zürich - Berlin, 1965, 2.2, p. 68; R.M. Ogilvie, A commentary on Livy Books 1-5, Oxford, 1965, p. 584; F. Sini, A proposito, cit., p. 125. Nell’ambito del controllo di legittimità degli auspicia esercitato dagli àuguri, v. P. Catalano, Contributi, cit., pp. 44 ss.
[61] Cfr. F. Sini, A proposito, cit., p. 125.
[62] F. Sini, A proposito, cit., p. 125.
[63] P. Frezza, Corso di storia del diritto romano, 3ª ed., Roma, 1974, pp. 150 s.
[64] A tale proposito rinvio agli studi più recenti in tema di dittatura già citati supra, nt. 1 di questo contributo.
[65] Cfr. F. Sini, A proposito, cit., p. 126, il quale ritiene giustamente che tale provenienza da fonte augurale trovi conferma in quanto «l’oggetto della discussione dell’intero brano è la validità dell’auspicazione del console».
[66] Cfr. S.P. Oakley, A commentary on Livy, Books VI-X, Oxford, 1998, p. 662, il quale attribuisce a Livio, piuttosto che alla fonte di riferimento da cui ha attinto la notizia, la citazione nel testo delle proteste dei tribuni della plebe.
[67] F. Giumetti, Prima, cit., pp. 69 ss.
[68] Cfr. F. Sini, A proposito, cit., p. 126. Sulla valenza del rituale solenne di nomina del dictator, nell’ottica di un’analisi interdisciplinare, rinvio da ultimo a F. Giumetti, Prima, cit., p. 69 ss.
[69] S.P. Oakley, A commentary, cit., p. 662, il quale specifica che le notizie sulle rimostranze dei tribuni, a suo avviso inserite nel testo da Livio, non devono in alcun modo sminuire il valore dell’insorgenza di un motivo di palese dissenso da parte dei patrizi avverso le origini plebee del dictator nominato in castris.
[70] In merito al silentium, rinvio soprattutto a F. Vallocchia, ‘Silentium’ nei documenti sacerdotali. Le interpretazioni di Veranio e di Ateio Capitone, in Diritto @ Storia, 6 (2007), pp. 1 ss. Ma v. anche M. Humm, Silence et bruits autour de la prise d’auspices, in Les sons du pouvoir dans les mondes anciens, sotto la direzione di M.T. Schettino - S. Pittia, Besançon, 2012, pp. 275 ss. Sul valore del silenzio, più specificamente nel rituale del testamento in procinctu, rinvio alle osservazioni di C.M.A. Rinolfi, ‘Testamentorum autem genera initio duo fuerunt: nam aut calatis comitiis testamentum faciebant … aut in procinctu’. Testamenti, diritto e religione in Roma antica, Torino, 2020, pp. 184 s., la quale, a proposito dell’auspicatio quale premessa ideologica per il testamentum in procinctu, giustamente rileva che durante la procedura dell’auspicium ex tripudiis compiuta prima della battaglia, dopo l’auspicatio seguiva il silenzio, «questa, infatti, era la condizione necessaria per il compimento di riti giuridico-religiosi al fine di individuare facilmente eventuali vizi durante la presa degli auspici che avrebbero potuto inficiare l’intera procedura».
[71] A proposito del silenzio nelle auspicazioni, v. Cic. div. 2.71: silentium dicimus in auspiciis, quod omni vitio caret; oltre ad un altro passo di Livio: Liv. 10.40.2: Tertia vigilia noctis, iam relatis litteris a collega, Papirius silentio surgit et pullarium in auspicium mittit.
[72] Cic. div. 2.71.
[73] Sul punto v. F. Sini, A proposito, cit., pp. 126 s.
[74] Al riguardo, si veda Liv. 27.21.5. Cfr. F. Sini, A proposito, cit., p. 126.
[75] Cfr. F. Sini, A proposito, cit., p. 126.
[76] L’attribuzione del frammento agli archivi augurali è sostenuta da F.A. Brause, ‘Librorum’, cit., I, p. 42, fr. 27; P. Regell, ‘Fragmenta auguralia’, cit., p. 19. Per un articolato esame del testo di Varrone, in cui si sottolinea l’arcaicità delle nozioni trattate, rinvio a P. Catalano, Aspetti, cit., pp. 492 ss.
[77] Rinvio tra tutti a P. Catalano, Contributi, cit., pp. 269 ss., 388; Id., Linee, cit., pp. 273 ss.; Id., Aspetti, cit., pp. 492 ss., per gli studi in merito alla concezione di ager Romanus e i relativi collegamenti con il diritto divino. Ma vedi anche F. Sini, Diritto e ‘pax deorum’ in Roma antica, in Diritto@Storia, 5 (2006), §§ 5.B, 1 ss. Da ultima sul tema, però con specifica attenzione all’ager Gabinus, C.M.A. Rinolfi, ‘Testamentorum’, cit., p. 170 s.
[78] La «potenzialità» di tale divisione dello spazio terrestre proposta dalla scienza augurale, viene tracciata in maniera esemplare da F. Sini, Diritto, cit., §§ 5.B, pp. 1 ss., il quale osserva che «pur salvaguardando la centralità dell’ager romanus (anche verso gli Dèi), la classificazione dei genera agrorum mostra una fortissima propensione religiosa e giuridica ad instaurare rapporti – tanto reali quanto potenziali – con la molteplicità degli spazi terrestri; con gli homines che hanno relazioni a vario titolo con questi spazi; con gli innumerevoli Dèi che quegli spazi (e quanti li abitano) presiedono e tutelano».
[79] Come correttamente rilevato da F. Sini, A proposito, cit., p. 127. Ma rinvio, comunque, a P. Catalano, Contributi, cit., pp. 269 ss., 388; Id., Linee, cit., pp. 273 ss.; Id., Aspetti, cit., pp. 492 ss. Da ultimo F. Sini, Diritto, cit., §§ 5.B, pp. 1 ss.
[80] A. Magdelain, ‘Auspicia ad patres redeunt’, in Hommages à Jean Bayet, Bruxelles, 1964, pp. 427 s.; Id., Note sur la loi curiate et les auspices des magistrats, in RHD, 42 (1964), p. 198; Id., Recherches sur l’‘imperium’, cit.; Id., ‘Praetor maximus et comitiatus maximus’, in Iura, 20 (1969), p. 257 s., su cui vedi le considerazioni critiche, pienamente condivisibili, svolte da F. Sini, A proposito, cit., pp. 111 ss., relativamente al fondamento religioso del potere del dictator teorizzato dallo studioso francese.
[81] F. Sini, A proposito, cit., pp. 127 s.
[82] F. Sini, A proposito, cit., p. 128.
Ortu Rosanna
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