Tempo dell'adempimento e termini impliciti
Lorenzo Franchini
Professore associato di Diritto romano, Università Europea di Roma
Tempo dell’adempimento e termini impliciti
Sommario: 1. Premessa metodologica. Presupposti e ambito del presente studio. - 2. Le obbligazioni di certo loco dare. - 3. Le obbligazioni di insulam (o domum) aedificare. -4. Obbligazioni di contenuto diverso. - 5. Considerazioni conclusive.
1. Premessa metodologica. Presupposti e ambito del presente studio.
Nell’ordinamento italiano odierno la materia del “tempo dell’adempimento” è come noto regolata dall’art. 1183 del codice civile, il quale recita:
“Se non è determinato il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita, il creditore può esigerla immediatamente. Qualora tuttavia, in virtù degli usi o per la natura della prestazione ovvero per il modo o il luogo dell’esecuzione, sia necessario un termine, questo, in mancanza di accordo delle parti, è stabilito dal giudice”.
La genesi di questa norma è inequivocabilmente romanistica; in particolare, per quanto attiene all’argomento che ci accingiamo a trattare, ossia il termine implicito, è verificabile che nell’esperienza giurisprudenziale romana esistono antecedenti diretti sia del dettato legislativo, come tale inteso nelle sue diverse articolazioni, sia della interpretazione che la stessa Suprema Corte ne ha talora dato in rapporto a casi considerati controversi. Non è nostro intendimento soffermarci, qui, su quest’ultimi; ma talune decisioni, come ad esempio quelle che invocano la “normale tollerabilità” da parte del creditore[1], ovvero quelle che gli consentono di agire anche prima del termine presunto, quando sia già comunque trascorso un lasso di tempo da ritenersi congruo con un’obbligazione rimasta inadempiuta[2], ovvero ancora quelle che individuano nel verificarsi di un accadimento futuro o nel venire ad esistenza di una cosa il termine implicito di cui all’art. 1183[3], trovano tutte nel diritto romano precedenti che non esiteremmo a definire perfettamente calzanti.
Ma prima di procedere all’analisi dei casi, e delle fonti ad essi rispettivamente pertinenti, occorre svolgere alcune indispensabili premesse di ordine metodologico, chiarendo così da quali presupposti muove un’indagine che oltretutto, al contrario di altre, si incentrerà esclusivamente sul tema del termine implicito.
Bisogna dapprima dire che anche nell’esperienza antica un’obbligazione, se non fosse stata espressamente sottoposta a termine dalle parti, andava adempiuta subito (praesenti die)[4]. L’idea che il creditore fosse comunque tenuto ad aspettare un certo tempo dipendeva da circostanze particolari, ed era da ritenersi l’eccezione.
Riguardo poi al carattere di questo spatium temporis - quale (o con espressioni analoghe) le fonti in effetti per lo più lo descrivono[5] - non vi è accordo tra gli studiosi; ma senza enfatizzare la portata di questa disputa preferiremmo accogliere la tesi di coloro che lo considerano un dies vero e proprio[6], sia perché anche così è in ogni caso chiamato nei passi in questione[7] sia perché agli effetti pratici identica è la conseguenza del suo mancato rispetto da parte del creditore: se agisce prima della sua scadenza, lo fa, proprio come nel caso del termine espresso, a suo rischio e pericolo, consistente, evidentemente, nella perdita della causa per pluris petitio tempore[8].
E’ infatti opportuno ricordare anche che il termine, nell’ottica dei prudentes, è da presumersi sempre come apposto in favore del debitore[9], che solo per sua libera scelta potrà eventualmente adempiere anche in anticipo, e senza che fino ad allora il creditore possa invece, come detto, esigere alcunché. D’altra parte il pagamento avvenuto prima della scadenza non è ripetibile perché ha avuto ad oggetto un debitum, e non un indebitum: in questo senso, cioè aderendo all’opinione maggioritaria[10], risolveremmo un’altra controversia dottrinale, concernente la natura del dies in questione, che non è sospensivo, dato che, come ampiamente documentato[11], ritarda l’esigibilità, e non la nascita dell’obbligazione, che va ritenuta ab origine esistente.
Fatte queste premesse, è altresì indispensabile delimitare, come dicevamo, l’ambito di questo studio, che si prefigge come unico obiettivo di individuare i casi in cui vi sia un termine implicito operante, e quali ne siano il fondamento, l’esatta durata, la disciplina.
Da questo punto di vista non costituiscono allora materia dell’indagine argomenti pur spesso affrontati, dagli studiosi, in connessione con il nostro tema, come ad esempio la responsabilità per l’inadempimento, la mora, la validità o meno dell’obbligazione contratta per l’esistenza attuale, o meno, del suo oggetto, o l’impossibilità sopravvenuta[12].
In particolare, la distinzione che riteniamo necessario tenere, quant’altra mai, ferma è quella fra l’obiettiva inerenza di un termine al rapporto obbligatorio e la condotta concretamente tenuta dal debitore: quest’ultima andrà valutata alla stregua dei consueti criteri di imputabilità (dolo, colpa) al fine di stabilire se vi sia stato o meno inadempimento, e non per ricalcolare, a posteriori, la decorrenza del termine, anche e specialmente nel caso di non imputabilità dell’eventuale ritardo.
Questa considerazione è per noi importante alla luce di un ulteriore rilievo, ossia che la quasi totalità dei casi contemplati dalle fonti che studieremo non riguarda rapporti tutelati da iudicia bonae fidei, nei quali la discrezionalità del iudex potesse tenere ampiamente conto degli affidamenti creati dalle parti, nella situazione peculiare, allo scopo di stabilire il contenuto dell’assetto contrattuale stesso[13]. Su questo piano non dovevano esserci controversie fra i giuristi romani, le testimonianze dei quali, non a caso, riguardano invece rapporti tutelati da actiones stricti iuris, come quelle nascenti da stipulatio. Per quest’ultimi casi ben vale il monito di:
Paul. 3 quaest. D. 45.1.126.2: Plerumque enim in stipulationibus verba, ex quibus obligatio oritur, inspicienda sunt: raro inesse tempus vel condicionem ex eo, quod agi apparebit, intellegendum est: numquam personam, nisi expressa sit[14].
È dunque del tutto eccezionale (raro) che nel fissare le regole in base alle quali bisognerà valutare il comportamento del debitore si possa aver riguardo a ciò che risulta non dai verba utilizzati, ma dal complessivo assetto d’interessi posto in essere dalle parti (id quod actum est). Il fatto che un tempus di cui non si trova traccia nella formula possa ritenersi “inerente” alla fattispecie in questione sarà allora il frutto di una intellectio che, secondo noi, non potrà che svolgersi a priori[15], valendo poi riscontri d’altro genere, concernenti il comportamento concreto tenuto dalle parti, a fini ulteriori e diversi, che non sono la determinazione della struttura del rapporto obbligatorio in sé considerato.
Conferma di ciò tendenzialmente si trae, a nostro avviso, da un altro frammento cui i compilatori vollero attribuire una portata di carattere generale[16], ossia:
Cels. 12 dig. D. 50.17.186: Nihil peti potest ante id tempus, quo per rerum naturam persolvi possit: et cum solvendi tempus obligationi additur, nisi eo praeterito peti non potest[17].
Il termine da rispettare - facile o meno che sia stabilirlo con esattezza - è il tempus connesso alla natura delle cose, ovvero della prestazione da eseguire[18]. Decorso quello sarà da ritenersi oggettivamente possibile[19], e perciò esigibile, la solutio, il soddisfacimento del creditore (persolvi possit), il quale prima non potrà petere; decorso quello, variabile non dipendente, il debitore risulterà inadempiente, e la questione sarà se il suo ritardo, non contestabile come tale, sia semmai da considerarsi colpevole o non.
Veniamo ora all’esame dei singoli casi, tutti riferibili all’età del Principato[20], e qui raggruppati in alcune grandi categorie: quella delle obbligazioni di certo loco dare; quella delle obbligazioni di insulam (o domum) aedificare; quella, residuale, relativa alla promessa di cose future o alla prestazione di altre opere.
2. Le obbligazioni di certo loco dare.
Il primo ambito da indagare è quello concernente le obbligazioni in dando da adempiere in un luogo diverso rispetto a quello in cui sono state assunte: ciò, in conseguenza del fatto che, quando è stato conclusa la stipulatio (ché di questa pressoché esclusivamente si tratta[21]), nella formula è stato espressamente indicato un locus solutionis differente dal locus contractus, restando però per il resto la stipulazione pura[22], ossia priva di altri elementi come la condizione o lo stesso dies. In simili frangenti, nei quali un’applicazione affatto rigorosa dei principi generali in materia di obligatio verbis avrebbe comportato in verità la conseguenza di dover sanzionare di nullità l’intero accordo stipulatorio, avente ad oggetto una prestazione non eseguibile statim[23], si riteneva invece che a quest’ultima il promissor fosse comunque tenuto, sia pur entro un termine non specificato e da determinarsi. In base a quali criteri, è ora nostro compito cercare di comprendere; ma certo non potremo sentirci appagati da un’osservazione, pur di per sé plausibile anche per l’autorevolezza di colui dal quale proviene[24], secondo la quale queste non sarebbero stipulationes in dando, bensì miste perché anche in faciendo (ove per facere debba intendersi il viaggio da compiere per arrivare a destinazione): è infatti difficile rinunciare a pensare che i prudentes abbiano continuato a concepire siffatte figure come aventi tecnicamente ad oggetto soltanto un dare (certam pecuniam, certam rem, quando non un genus)[25], protette dalle actiones consuete, le cui formulae, come si sa, erano quelle per eccellenza di stretto diritto, che nessuno spazio lasciavano alla discrezionalità del iudex[26].
Il quale iudex pur avrà dovuto avvalersi di qualche accettabile accorgimento ermeneutico per poter considerare come sottoposta a scadenza un’obbligazione formalmente sprovvista di un termine; il giudice e ancor più, ovviamente, nell’esperienza romana, l’interprete, il giurista[27].
Il primo che risulta essersi pronunciato, in proposito, è uno dei più eminenti, Salvio Giuliano, citato da Ulpiano in un frammento posto dai compilatori sotto il titolo ‘De eo quod certo loco dari oportet’[28]:
Ulp. 27 ad ed. D. 13.4.2.6: Qui ita stipulatur ‘Ephesi decem dari’: si ante diem, quam Ephesum pervenire possit, agat, perperam ante diem agi, quia et Iulianus putat diem tacite huic stipulationi inesse. Quare verum puto, quod Iulianus ait eum, qui Romae stipulatur hodie Carthagine dari, inutiliter stipulari[29].
Ora, a parte la conclusione ulpianea, secondo cui lo stipulante non avrebbe dovuto esercitare l’azione prima del tempo - da identificarsi in quello entro cui il debitore possa raggiungere Efeso[30]-, ché se lo avesse fatto avrebbe agito senza successo (perperam)[31], a noi interessa soprattutto accertare la motivazione offerta dal giurista adrianeo circa il modo in cui il dies in questione - della durata del quale non sembra peraltro preoccuparsi - si radichi nell’assetto stipulatorio: in forza di una inerenza tacita. Ciò che evidentemente rinvierebbe ad una volizione, seppur non espressa, almeno a livello di verba stipulationis[32].
Il pensiero di Giuliano, sopra riportato grazie ad una testimonianza di età severiana, è ricostruibile anche sulla base di un frammento a lui stesso attribuito, e che avremo modo di riprendere anche in seguito, perché compreso in un contesto in cui ci si occupava di operae libertorum: alludiamo a
Iul. 52 dig. D. 38.1.24: Quotiens certa species operarum in stipulationem deducitur, veluti pictoriae fabriles, peti quidem non possunt nisi praeteritae, quia etsi non verbis, at re ipsa inest obligationi tractus temporis, sicuti cum Ephesi dari stipulemur, dies continetur. Et ideo inutilis est haec stipulatio: ‘operas tuas pictorias centum hodie dare spondes?’ cedunt tamen operae ex die interpositae stipulationis. Sed operae, quas patronus a liberto postulat, confestim non cedunt, quia id agi inter eos videtur, ne ante cederent quam indictae fuissent, scilicet quia ex commodo patroni libertus operas edere debet: quod in fabro vel pictore dici non convenit[33].
Di tutto l’ampio discorso qui ci preme fermare l’attenzione sul sicuti cum Ephesi dari stipulemur, dies continetur. Un termine, ancora una volta significativamente chiamato dies[34], è da ritenersi contenuto nella stipulatio, e la ragione sta nella circostanza che, come nell’esempio fatto nella parte immediatamente precedente del frammento, relativa alle operae pictoriae fabriles, esso è inerente all’obbligazione, per via non delle parole della formula, che non lo contemplano, ma della res ipsa, della cosa stessa che si è previsto di fare, dell’oggetto dell’impegno contratto, della prestazione[35].
Insomma, per concludere sull’impostazione di Giuliano, occorre notare che dal suo punto di vista un termine implicito può ravvisarsi nell’assetto negoziale proprio delle stipulationes di certo loco dare, perché senza che le parti abbiano avvertito il bisogno di inserirlo espressamente tra i verba tuttavia tacitamente l’hanno previsto come intrinseco alla cosa medesima per cui stavano formalizzando l’accordo.
Ad un’epoca quasi certamente intermedia tra quella adrianea e quella severiana risale una lunga ed importante testimonianza di Venuleio Saturnino[36], presa tradizionalmente di mira dalla dottrina interpolazionistica, sulla quale incentreremo la nostra attenzione in ultima battuta, sia perché potrebbe rivelarsi ispirata ad un orientamento ermeneutico diverso rispetto a quello di altri giuristi, sia perché contaminazioni di età giustinianea sono in effetti per essa ipotizzabili, anche dal punto di vista della critica odierna.
Una maggior continuità con il passato, anche per una certa stringatezza interpretativa che ne connota l’approccio in merito, quanto meno, al nostro problema, dimostra Papiniano in due passi delle sue Quaestiones: ci riferiamo a D. 40.7.34.1 e a D. 46.1.49.2.
Il testo del primo è il seguente:
Pap. 21 quaest. D. 40.7.34.1: nam et cum Romae stipulatio concipitur ita ‘centum in Hispania dare spondes?’, inesse tempus stipulationi, quo possit in Hispaniam pervenire, nec ante iure agi placuit[37].
Dalla sua lettura si ricavano dati già da noi tutto sommato acquisiti[38]: l’inerenza alla stipulatio di un tempus, pur per ragioni che non vengono spiegate[39]; il calcolo della durata di esso in rapporto a quel che il promissore possa fare (possit pervenire, all’attivo, come poi anche Ulpiano, nel già esaminato D. 13.4.2.6) per trasferirsi da Roma in Spagna[40]; l’affermazione secondo cui l’eventuale esercizio, da parte dello stipulante, dell’actio certae creditae pecuniae prima della scadenza non sarebbe avvenuto iure[41].
L’altro passo è di per sé assai meno conciso:
Pap. 27 quaest. D. 46.1.49.2: Quaesitum est, an fideiussor, qui ‘Capuae pecuniam se daturum’ Romae promisit, si reus promittendi Capuae esset, statim conveniri possit. Dixi non magis fideiussorem confestim teneri, quam si ipse Capuae spopondisset, cum reus adhuc Capuam pervenire non potuisset: nec ad rem pertinere, quod hoc latere nemo dubitet nondum fideiussorem teneri, quia nec ipse reus promittendi teneretur. Nam e contrario quoque si quis responderit, quoniam debitor Capuae sit, fideiussorem confestim teneri non habita ratione taciti proprii temporis, eventurum, ut eo casu fideiussor conveniatur, quo debitor ipse, si Romae fuisset, non conveniretur. Itaque nobis placet fideiussoriam obligationem condicionem taciti temporis ex utriusque persona reciperare tam rei promittendi quam ipsius fideiussoris, quoniam aliud respondentibus contra iuris formam in duriorem condicionem acceptus intellegetur[42].
In esso il grande giureconsulto si occupava della complicata questione relativa al riconoscimento del termine implicito all’obbligazione assunta dal garante[43], il quale, come si sa, non poteva essere tenuto in duriorem causam[44]; più precisamente i casi studiati sono quello di una sponsio di garanzia di pagare una somma a Capua, fatta a Roma, con il garantito che già si trovi a Capua, e quello di una sponsio di garanzia di pagare una somma a Capua, con il solo garante che si trovi colà e il garantito invece non ancora[45]. Ora, al di là della soluzione adottata da Papiniano (in entrambi i casi, l’annessione del termine all’obligatio dello sponsor), della motivazione in proposito offerta e della sua coerenza con il regime generale della sponsio[46], a noi importa soprattutto capire come si configuri il termine cui l’obbligazione di Capuae dare risulta essere implicitamente sottoposta. Se ne traggono due rilievi, assai semplici: che il tempus in questione è definito, come già da Giuliano, tacitum, ossia fondato su un tacito assenso, senza che della genuinità di quest’espressione sia lecito dubitare[47]; che la sua durata dev’essere commisurata, come nel frammento precedente, alla possibilità che il debitore abbia di recarsi a Capua (pervenire potuisset, ancora all’attivo)[48].
Negli stessi termini si esprimeva, come si è visto, un altro autorevole esponente della giurisprudenza tardo-classica, ossia Ulpiano, nel già esaminato D. 13.4.2.6[49]. Ma nell’ambito della medesima opera, il commento all’editto, il giurista utilizzava una locuzione diversa:
Ulp. 20 ad ed. D. 45.1.60: Idem erit et si Capuae certum olei pondo dari quis stipulatus sit: nam eius temporis fit aestimatio, cum peti potest: peti autem potest, quo primum in locum perveniri potuit[50].
Qui la prestazione di dare a Capua viene ritenuta esigibile, e pertanto la condictio certae rei esperibile[51], a partire dal momento in cui sia oggettivamente possibile arrivare colà, senza alcun riferimento al soggetto debitore (in locum perveniri potuit, detto in forma impersonale)[52]. Al valore della cosa alla scadenza del tempus dovrà peraltro avere riguardo il giudice per il calcolo del quanti ea res est della formula[53]. Ora, può anche darsi che non si debba attribuire eccessiva importanza alla differente espressione utilizzata da Ulpiano, magari financo casuale, nel contesto della stessa opera. Ma è significativo che in un altro commento da lui redatto, quello ad Sabinum, il giurista severiano la riproponga:
Ulp. 50 ad Sab. D. 45.1.41.1: Quotiens autem in obligationibus dies non ponitur, praesenti die pecunia debetur, nisi si locus adiectus spatium temporis inducat, quo illo possit perveniri. Verum dies adiectus efficit, ne praesenti die pecunia debeatur: ex quo apparet diei adiectionem pro reo esse, non pro stipulatore[54].
Siamo qui di fronte ad una stipulazione pura, la quale, in applicazione del principio generale, dovrebbe essere adempiuta statim[55], a meno che non sia l’adiectio di un locus solutionis diverso da quello contractus a ‘inducere’ (verbo, questo, da notare bene, perché senza alcun riferimento ad accordi sottostanti sembra alludere a qualcosa che nell’assetto negoziale si “insinua” quasi automaticamente, per effetto di una clausola solenne aggiuntiva)[56] uno spatium temporis a favore del reus. Ma all’atto di computare questo termine Ulpiano, ancora una volta, non contempla affatto la sua persona: sarà quello oggettivamente necessario a recarsi nel luogo stabilito (quo illo possit perveniri, in forma nuovamente impersonale)[57].
Per concludere sul pensiero di Ulpiano, occorre rimarcare una certa insistenza sul termine implicito inteso proprio come termine di esercizio dell’azione, che prima della scadenza sarà controproducente per lo stipulante esercitare (petere). Occorre altresì rilevare come, nonostante qualche oscillazione sul punto, Ulpiano tenda comunque a far coincidere questo tempus con quello che normalmente chicchessia impiega per trasferirsi da un luogo all’altro: al suo spirare però sarà il promissore, e non chicchessia, a dover rispondere dell’eventuale inadempimento.
L’approccio di Paolo è poi alquanto diverso, avvolgente, perché, come meglio vedremo in seguito[58], riconducendo praticamente tutte le fattispecie contemplate in questo scritto ad un’unica categoria - quella della prestazione temporaneamente non eseguibile per rerum naturam, - apre una riflessione di carattere sistematico[59], estranea ai giuristi studiati fino ad ora. Ciò vale, tramite un sic introduttivo della frase, anche per le nostre obbligazioni in dando:
Paul. 24 ad ed. D. 45.1.73pr.: Interdum pura stipulatio ex re ipsa dilationem capit, veluti si id quod in utero sit aut fructus futuros aut domum aedificari stipulatus sit: tunc enim incipit actio, cum ea per rerum naturam praestari potest. Sic qui Carthagini dari stipulatur, cum Romae sit, tacite tempus complecti videtur, quo perveniri Carthaginem potest. Item si operas a liberto quis stipulatus sit, non ante dies earum cedit, quam indictae fuerint nec sint praestitae[60].
La dilatio nei tempi dell’adempimento dipende chiaramente dalla res ipsa, dalla rerum natura[61], ma anche, nel caso della stipulazione fatta a Roma di dare a Cartagine, da un assenso tacito delle parti[62], che è da ritenersi raggiunto (videtur). Esso verte su un tempus che, come da Ulpiano, così anche da Paolo viene individuato in quello che risulta oggettivamente necessario per recarsi nella città africana (perveniri potest, ancora in forma impersonale)[63].
Ma non si creda che il riguardo al profilo del debitore e alle possibilità che egli personalmente abbia di coprire la distanza risulti, con l’epoca tardo-classica, del tutto abbandonato. Esso, che ancora resisteva in Ulpiano[64], affiora anche in Paolo, sia pur in una testimonianza che di per sé rileva in materia di statuliberi, e non di stipulazioni[65]. In età giustinianea sembra poi addirittura acquisire un carattere prevalente, come a nostro avviso si evince sia da un passo delle Istituzioni imperiali sia dai non trascurabili interventi che i compilatori probabilmente operarono su Ven. D. 45.1.137.2, del quale già si diceva sopra.
Quanto alle Institutiones si legga:
I. 3.15.5: Loca etiam inseri stipulationi solent, veluti ‘Carthagine dare spondes?’: quae stipulatio licet pure fieri videatur, tamen re ipsa habet tempus iniectum, quo promissor utatur ad pecuniam Carthagine dandam. Et ideo si quis ita Romae stipuletur ‘hodie Carthagine dare spondes?’, inutilis erit stipulatio, cum impossibilis sit repromissio.
In questo passo, inserito un contesto in cui si trattava di obligationes verbis e, più esattamente, di quelle contratte pure o con l’adiectio di elementi accidentali[66], figura per la prima volta la menzione esplicita del soggetto dell’azione consistente nel recarsi in un’altra città per adempiere all’obbligo[67], qui pecuniario: ossia il promissor, all’utilità del quale l’iniectio del tempus nell’assetto negoziale deve anzi servire (quo utatur), ravvisandosi peraltro il fondamento dell’esistenza del termine implicito nella res ipsa[68].
Quanto all’altro frammento citato, si veda appunto:
Ven. 1 stipul. D. 45.1.137.2: Cum ita stipulatus sum ‘Ephesi dari?’ inest tempus: quod autem accipi debeat, quaeritur. Et magis est, ut totam eam rem ad iudicem, id est ad virum bonum remittamus, qui aestimet, quanto tempore diligens pater familias conficere possit, quod facturum se promiserit, ut qui Ephesi daturum se spoponderit, neque duplomate diebus ac noctibus et omni tempestate contempta iter continuare cogatur neque tam delicate progredi debeat, ut reprehensione dignus appareat, sed habita ratione temporis aetatis sexus valetudinis, cum id agat, ut mature perveniat, id est eodem tempore, quo plerique eiusdem condicionis homines solent pervenire. Eoque transacto, quamvis Romae remanserit nec possit Ephesi pecuniam dare, nihilo minus ei recte condicetur, vel quia per ipsum steterit, quo minus Ephesi daret, vel quoniam per alium Ephesi possit dari vel quia ubique potest solvere: nam et quod in diem debetur, ante solvi potest, licet peti non potest. Quod si duplomate usus aut felici navigatione maturius quam quisque pervenerit Ephesum, confestim obligatus est, quia in eo, quod tempore atque facto finitum est, nullus est coniecturae locus.
Siamo qui di fronte ad un passaggio che riveste, per il nostro studio, particolare importanza, tanto più che nel prosieguo[69] il giurista affronta anche la tematica della stipulazione di insulam facere: esso meriterebbe un’analisi assai più ampia di quanto non ci sia consentito in una sede, non monografica, come questa. Ad ogni modo va detto che Venuleio, in un’opera dedicata alle stipulationes[70], trattava proprio del termine che inest, cominciando dalle promesse di certo loco dare, e concentrandosi subito sul modo in cui il tempo dovesse essere computato (quod autem accipi debeat), assai più che non sul fondamento di detta inerenza[71]. Nel quadro del ius controversum tipico di quel tempo - di cui potrebbe ravvisarsi traccia nell’espressione et magis est[72] -, qui caratterizzato da una doppia tendenza interpretativa, quella che aveva riguardo alla persona del promissore e alle circostanze concrete del caso e quella che invece non l’aveva[73], il giureconsulto sembra decisamente optare per la prima, esplicandola nella maniera più ampia possibile. Ora però, se alcuni aspetti del suo ragionamento appaiono congrui col punto di vista classico, altri a nostro avviso no. E’ per esempio plausibile[74] che al giudice, anche al di fuori di un iudicium bonae fidei, fosse consentito, ai fini della determinazione del tempus, di tener conto di ciò che normalmente lo stipulante potesse aspettarsi da un debitore con quelle caratteristiche di età, sesso, salute, il quale, in una circostanza simile, si accingesse ad affrontare il viaggio alla volta di Efeso, senza “fare gli straordinari”[75] (come diremmo noi oggi) e senza neppure “battere la fiacca”[76]; è altresì plausibile[77] che nei suoi confronti, per l’appunto, un giudizio fosse stato correttamente instaurato (recte condicetur), una volta scaduto il termine, senza che il denaro fosse stato consegnato ad Efeso né da parte di lui, rimasto a Roma, né da parte di altri che egli avesse incaricato[78]; è infine plausibile[79]che a mezzo di un’operazione logicamente distinta il iudex fosse chiamato a decidere se, come in ogni altro caso, l’inadempimento dipendesse da dolo o da colpa, ossia dalla violazione della diligentia richiesta in quei frangenti. E’ insomma accettabile pensare che al giudice, e in fin dei conti all’interprete, al giurista[80], spettasse qui svolgere una valutazione ampia, tale da investire profili diversi, distinti l’uno dall’altro più in teoria che in pratica, perché in realtà molto di fatto interconnessi; ma da qui a poter trattare la tota res, cui allude Venuleio, come se fosse un rapporto di buona fede, come se i poteri del giudice si estendessero a tal punto da far dipendere dall’accertamento di “ciò che ci si deve aspettare da una persona perbene”[81] il contenuto stesso di un negozio verbale solenne, ce ne passa parecchio. La tecnica formulare non lo permetteva. In ragione di ciò, pur riconoscendo come eccessivi molti attacchi mossi all’autenticità del frammento dalla critica risalente[82], non possiamo, neppure noi, non ritenere sospetta, per esempio, la menzione del vir bonus[83], equiparabile che fosse il compito assegnatogli a quello di un arbitro o di un arbitratore[84]; o la menzione del diligens pater familias[85], al cui stile di comportamento attenersi per determinare, a priori, l’oggetto di un elemento contrattuale, oltreché, a posteriori, e nel solo caso di inadempimento, se vi fosse o meno imputabilità dello stesso al debitore; né ci persuadono i riferimenti alla facoltà di pagare ubique una somma che ci si era impegnati a dare in un luogo certo[86], o all’obbligo di adempiere prima della scadenza, che graverebbe sul promissore già per avventura arrivato a destinazione, quasi che il suo rifiuto rilevasse a quel punto perché contrario a buona fede[87], anziché alle regole proprie di un rapporto di natura diversa, tale da non dare appunto adito, in materia di tempus e factum, a nessuna coniectura[88].
Non c’è dubbio comunque che l’interpretazione di Venuleio, per come l’abbiamo ricostruita[89], si collocasse nell’ambito di una discussione, accesasi forse tra i prudentes più ancora di quanto non si pensi, circa le modalità di calcolo del termine implicito, e che in epoca classica ne abbia rappresentato la soluzione più “estrema” nel senso dell’accoglimento di criteri di tipo soggettivo-concreto[90].
È ragionevole sostenere che in età severiana essa non abbia avuto, come si è visto, troppa fortuna. E che l’abbia invece avuta in epoche successive, allorché il venir meno del processo formulare, nonché della rigida, tradizionale distinzione tra iudicia bonae fidei e stricti iuris, intesa nella sua portata tecnica[91], avrebbe consentito di far dipendere, ancor più, e quasi totalmente, il tempus iniectum, quo promissor utatur[92] dalle personali attitudini del promissor stesso.
3. Le obbligazioni di insulam (o domum) aedificare.
Altra sfera elettiva per la riflessione, avviata in parallelo dai prudentes sulla questione dei termini impliciti, è quella concernente le obbligazioni di costruire un edificio, ossia di insulam (o domum) aedificare, secondo il modello per lo più addotto in proposito, certo assai invalso nella vita pratica, e ritenuto esemplare delle obbligazioni di facere[93]. Si tratta, com’è evidente, di una prestazione che solitamente costituisce oggetto dell’impegno assunto dal costruttore nell’ambito di una locatio operis[94] e la cui esecuzione richiede del tempo: dovevano esservi dei casi in cui, per qualche ragione, un dies vero e proprio non era stato fissato[95], e si era d’altra parte avvertito il bisogno di formalizzare in una promessa stipulatoria l’obbligo di edificare[96], sottraendolo perciò alla tutela “fluida” dei iudicia bonae fidei, ma lasciando pur sempre la stipulatio priva di un termine espresso. Esso avrebbe dovuto essere individuato dalle parti e semmai, in caso di controversia, dal giudice, cui la formula dell’actio incerti ex stipulatu[97] forse concedeva un margine di valutazione più ampio rispetto a quanto abbiamo visto fino ad ora, in materia di stipulationes in dando, ma certo non a tal punto da consentirgli di giudicare ex fide bona.
È dunque in questo quadro che va collocato lo studio da parte nostra delle testimonianze rilevanti in materia, le quali sembrano risalire ad epoche persino antecedenti a quelle esaminate in tema di stipulazioni di certo loco dare.
E’ in effetti da attribuirsi, sostanzialmente, a Labeone[98] il seguente frammento:
Lab. 4 post. a Iav. epit.D. 19.2.58.1: In operis locatione non erat dictum, ante quam diem effici deberet: deinde, si ita factum non esset, quanti locatoris interfuisset, tantam pecuniam conductor promiserat. Eatenus eam obligationem contrahi puto, quatenus vir bonus de spatio temporis aestimasset, quia id actum apparet esse, ut eo spatio absolveretur, sine quo fieri non possit.
Il testo appare alquanto complesso e interessante, nella nostra ottica, tesa come si sa ad indagare sia il fondamento che la durata di un termine (qui, spatium temporis) di cui non si ha di per sé traccia nei verba stipulationis. In questo caso la promessa stipulatoria ha carattere penale[99], in quanto l’edificatore (di un’insula, presumibilmente, dato che ad essa si fa riferimento nel principium del frammento stesso[100]) si vincola a pagare una certa somma qualora non riesca ad adempiere all’obbligazione già assunta come conduttore, consistente in un opus da compiere, senza l’indicazione di un dies (si ita factum non esset, oggetto della condizione apposta alla promessa). Orbene, quanto al fondamento dello spatium temporis, esso è qui evidentemente (apparet) da rintracciare nell’id actum, ossia nella conventio preliminare[101], che è anche un contratto consensuale, regolato da buona fede, e che acquista rilievo nell’assetto della stipulatio poiché nella condizione vi si fa rinvio esplicito (ita). Pertanto anche la sua durata, certo come sempre in qualche modo commisurata ai tempi entro i quali un’impresa del genere si porta di solito a termine[102], potrà essere stabilita in conformità all’aestimatio di un vir bonus[103], il quale inevitabilmente terrà conto degli affidamenti reciproci creatisi tra le parti: un’operazione qui consentita grazie a quel richiamo, e che i giustinianei, forzando la disciplina classica dell’actio ex stipulatu, cercheranno di applicare anche ad altri casi, come già si è visto ed ancora si vedrà in seguito[104].
L’opinione di Labeone è fatta propria da Giavoleno Prisco[105], ma l’argomento, come è intuibile dall’uso del verbo puto, non doveva essere scevro da discussioni. Su quel genere di obbligazioni di facere a tempo ebbe modo di pronunciarsi anche Celso, secondo quanto ci testimonia Pomponio:
Pomp. 5 ad Sab. D. 45.1.14: Si ita stipulatus essem abs te ‘domum aedificari?’ vel heredem meum damnavero insulam aedificare, Celso placet non ante agi posse ex ea causa, quam tempus praeterisset, quo insula aedificari posset: nec fideiussores dati ante diem tenebuntur[106].
In questo frangente l’azione esercitabile (l’actio incerti, ex stipulatu o ex testamento[107] che fosse) non è, né direttamente, né indirettamente per effetto di qualche rinvio, regolata da buona fede. Per decidere se essa non sia stata esperita anzitempo (non ante agi posse), da parte dello stipulator committente o da parte del legatario per damnationem, bisognerà attenersi a criteri di carattere rigorosamente oggettivo[108]: il termine è quello entro cui chiunque vi si impegni è in grado di edificare un’insula (aedificari posset, in forma impersonale), secondo un’impostazione che Celso in generale accoglie, come si è visto, anche in D. 50.17.186[109].
Il passo appena esaminato è talora addotto, dagli studiosi[110], come esempio dell’applicazione di una regola - quella della non esperibilità dell’azione prima della scadenza del termine, in nessun caso, neppure quando il costruttore sia in palese ritardo nell’avvio dei lavori - in rapporto alla quale è effettivamente plausibile che i prudentes abbiano disputato, se fosse appunto ammesso o meno quel genere di deroghe. Su questo ulteriore problema - che è normale fosse sorto per le obligationes in faciendo, anziché per quelle in dando (certo loco)[111] - avremo modo di tornare fra breve; ma bisogna avvertire fin d’ora che esso non sostituiva quello, a noi ben noto, concernente la configurazione stessa del termine, secondo criteri più o meno oggettivi, o soggettivi, il quale costituiva un prius logico rispetto ad ogni altro, e che sarebbe sbagliato ritenere, ora, di importanza secondaria.
Sempre Pomponio, nel frammento immediatamente successivo del Digesto, ma appartenente ad un diverso libro del suo commento ad Sabinum[112], rilascia un altro parere su una questione di tempo:
Pomp. 27 ad Sab. D. 45.1.15: Et ideo haesitatur, si aliqua pars insulae facta sit, deinde incendio consumpta sit, an integrum tempus computandum sit rursus ad aedificandam insulam an vero reliquum dumtaxat exspectandum quod deerat. Et verius est, ut integrum ei detur.
E’, questa, una testimonianza alquanto trascurata, nell’ambito degli studi sul termine dell’adempimento, anche qui da ritenersi implicito, e non solo perché chiamato tempus anziché dies[113]. Diverse espressioni (haesitatur, verius) fanno ritenere con certezza che per casi del genere vi fossero controversie tra i giuristi. Non ci pare che ad esse possa però attribuirsi completa autonomia rispetto a quanto già conosciamo; in particolare, una decisione come quella presa da Pomponio, secondo cui l’aedificator andrebbe completamente (integrum) “rimesso”, per così dire, nei termini originari, desumibili dalla natura della prestazione[114], ci sembra collocarsi in linea con l’orientamento che vuole il computo del termine legato a considerazioni di ordine esclusivamente oggettivo, e invece slegato dal riscontro di evenienze o circostanze particolari (quali un incendio distruttivo della parte d’insula già costruita, tale peraltro da escludere ogni responsabilità per il ritardo). Ciò che rileva è che un adempimento esatto[115] è ancora (rursus) possibile e che esso consisterà nell’edificare ex novo l’insula: la soluzione migliore (verius) sarà di tener senz’altro fermo il tempus già individuato, con ogni probabilità, secondo i criteri riscontrati nel passo precedente[116].
Dell’applicazione di criteri diversi, di carattere soggettivo-concreto, ai fini della disciplina del termine, ci dà conto un’altra, pressoché coeva, testimonianza, invece assai nota agli studiosi, anche perché costituisce la prosecuzione di un passo già sopra esaminato, in tema di stipulationes in dando, della cui autenticità si è sempre dubitato[117]. Si legga infatti:
Ven. 1 stipul. D. 45.1.137.3: Item qui insulam fieri spopondit, non utique conquisitis undique fabris et plurimis operis adhibitis festinare debet nec rursus utroque aut altero contentus esse, sed modus adhibendus est secundum rationem diligentis aedificatoris et temporum locorumque. Item si non inchoetur opus, id tantum aestimetur, quod in illo intervallo effici potuit. Transactoque tempore, quo insulam consummare oportuerit, si postea aedificetur, liberetur reus, sicut liberatur, qui se daturum spopondit, si quandoque tradit[118].
Possiamo studiare questo passaggio in coerenza con quanto detto a proposito del precedente paragrafo 2, secondo il suggerimento che ci proviene dal frammento stesso (item)[119]. Nel fissare il termine bisognerà aver riguardo alle peculiarità del caso[120], comprese quelle relative alle stagioni e ai luoghi in cui è prevista la costruzione dell’insula, e secondo un criterio di media (modus): sarà in particolare da evitare una previsione che implichi, da parte dell’aedificator, un’organizzazione del lavoro suo e del suo personale tale da fuoriuscire dall’ordinario, sia per eccesso che per difetto[121]. Tutto ciò, si badi bene, al solo scopo di determinare, a priori, il termine di scadenza dell’opus, e non di addossare sul promissore, che sia stato più o meno diligente, la responsabilità dell’eventuale inadempimento, che è cosa ulteriore e diversa, alla quale, solo in forza di un’alterazione del testo (diligentis aedificatoris et)[122], siamo qui indotti a prestare la nostra attenzione. E’ unicamente in età giustinianea che, come si è visto, anche fuori dai rapporti di buona fede, e senza bisogno di un espresso richiamo alla conventio sottostante, rappresentata da una locatio operis[123], il giudice come un vir bonus[124] potrà spingere la propria valutazione oltre i limiti consentiti dall’actio ex stipulatu classica; anche se bisogna riconoscere che, vertendo essa qui su un incertum, era sempre stata probabilmente suscettibile, ai fini della sua stessa configurazione, di un’indagine più ampia, da parte del iudex, rispetto alle stipulationes di certo loco dare.
E’ forse alla luce di quest’ultima considerazione che bisogna affrontare la questione successivamente posta da Venuleio, relativa al regime applicabile al caso in cui il promissore differisca l’inizio stesso dei lavori (mentre il problema trattato alla fine, quello dell’adempimento tardivo, a rigore non ci riguarda, perché presuppone la scadenza di un termine di cui si dà per scontata la configurazione: ad ogni modo la libertà che si lascia al debitore di liberarsi quandoque, in qualsiasi momento, è contraria alla ratio stessa del tempo dell’adempimento[125] e dà luogo ad un forte sospetto di intervento compilatorio sul testo[126]). C’interessa di più il punto che, come detto, inerisce all’eventualità che, essendo già stato individuato il termine[127], passi un certo lasso di tempo (intervallum) prima che l’opera venga cominciata, tanto da generare la ragionevole certezza che non possa essere compiuta puntualmente[128]. Ora, fermo restando che del ritardo lo stipulante dovrà essere ovviamente risarcito[129], c’è da chiedersi se gli possa essere consentito di agire anche prima che il termine sia spirato, cosa sulla quale si dovette a nostro avviso controvertere in seno alla stessa giurisprudenza classica[130]. Ad ogni modo, senza voler necessariamente affermare che Celso-Pomponio, nel già esaminato D. 45.1.14, volessero del tutto escludere questa soluzione[131] (ché in quel passo ci si confronta, com’è comprensibile, con la sola situazione normale, e non con quella eccezionale del mancato tempestivo inizio dei lavori di costruzione), va detto che qui Venuleio, pur molto sfumato sul punto, sembra incline ad ammetterla[132], dato che della condizione in cui si troveranno le parti transactoque tempore fa invece cenno subito dopo[133].
Sempre ad epoca preseveriana risale un’altra fonte, nella quale per la prima volta si affronta il problema del salvataggio, tramite puntellamento (fulciri), di un’insula pericolante, certo da ritenersi più urgente, in termini di tempo, che non una costruzione ex novo:
Marcell. 20 dig. D. 45.1.98.1: Ex hac stipulatione: ‘insulam fulciri spondes?’ quando nascatur actio, quaeritur. Et utique non est exspectandum, ut ruat: nec enim nihil stipulatoris interest fultam potius esse, quam non esse: nec tamen recte agetur, si nondum praeterierit temporis tantum, quo fulcire potuerit redemptor[134].
La stipulatio, priva ancora di adiectio diei[135], dovrà essere adempiuta, data l’emergenza, senza aspettare che la situazione, in tutti i sensi, precipiti[136]: l’azione, alla cui utile esercitabilità si fa riferimento per indicare la scadenza del termine inerente[137], potrà essere proposta anche prima, ma non prima che sia trascorso il tempo entro il quale è pensabile che il redemptor stesso abbia concluso l’impresa di consolidamento. La locuzione utilizzata, munita di soggetto espresso e con verbo all’attivo (fulcire potuerit), fa come sempre pensare al riguardo dovuto alle sue possibilità, nelle circostanze in cui si trova concretamente ad operare[138].
Il fatto che, nella dialettica giurisprudenziale romana, si fosse in parte radicata l’idea che il committente, per procedere, non dovesse, ricorrendo certe condizioni, necessariamente attendere lo scadere del termine - tranne che nel caso, come si è visto, di interventi urgenti di messa in sicurezza[139] - ci è confermato da una testimonianza più tarda, riferibile ad Ulpiano:
Ulp. 20 ad ed. D. 45.1.72.2: Plane si ‘insulam fulciri’ quis stipulatus sit, non est exspectandum, ut insula ruat, sic deinde agi possit: nec ‘insulam fieri’, ut tantum temporis praetereat, quanto insula fabricari possit: sed ubi iam coepit mora faciendae insulae fieri, tunc agetur diesque obligationi cedit[140].
Nella prima parte del frammento si ribadisce, in modo financo testualmente identico[141], il principio già accolto da Marcello nel passo in precedenza esaminato, ossia che nelle ipotesi di attività intraprese per puntellare un caseggiato pericolante (insulam fulciri) il tempo cui ritenere soggetta l’obligatio verbalmente assunta è un tempo minimo, trascorso il quale si potrà subito agire in giudizio, e non quello massimo entro cui è prevedibile il crollo[142]. Nella seconda parte, in cui si studia la diversa fattispecie di un caseggiato nuovo da edificare[143], dato il maggior spazio di tempo a disposizione, vi sarà la possibilità di verificare[144] se il committente abbia o meno indugiato nell’inizio dei lavori e, in caso di riscontro positivo (sed ubi iam coepit mora faciendae insulae fieri), di applicare alla circostanza un regime ad hoc, quello che già conosciamo[145], e che, ai fini della tutela nelle sedi competenti, tratta l’obbligazione come già scaduta (dies cedens)[146], benché non sia ancora decorso il termine cui era in origine sottoposta, qui configurato secondo criteri oggettivi (fabricari possit, in forma impersonale)[147], come già da Ulpiano in altri frangenti, in cui l’impegno era di consegnare denaro in un certo luogo[148].
Il tema dell’insulam fieri è affrontato anche da Paolo, il quale - analogamente a quanto fa, come si è visto, in D. 40.7.20.5[149] - struttura invece il termine secondo criteri soggettivi (tempus, quo potueris facere)[150] nell’ambito di un altro passo per il resto incentrato sul problema, per noi meno interessante, dell’adempimento tardivo[151]:
Paul. 74 ad ed. D. 45.1.84: Si insulam fieri stipulatus sim et transierit tempus, quo potueris facere, quamdiu litem contestatus non sim, posse te facientem liberari placet: quod si iam litem contestatus sim, nihil tibi prodesse, si aedifices[152].
Ma, come si sa, la cifra peculiare della riflessione paolina in merito alla questione dei termini impliciti è rappresentata dal suo approccio di largo respiro, che abbiamo avuto modo di riscontrare analizzando D. 45.1.73pr. (trascritto sopra, al § 2)[153] a proposito di una stipulatio di Carthagini dare. In questo frammento si contempla anche il domum aedificari, inserito nell’elenco primario delle prestazioni che per loro natura (res ipsa, rerum natura)[154] non possono essere eseguite istantaneamente, ma solo dopo che sia passato un certo tempo (dilatio). Ed è, questa di Paolo, un’osservazione importante, perché mira a chiarire quale sia il fondamento[155] dell’inerenza del termine alle nostre obbligazioni di facere; fondamento che invece, come si è verificato, le fonti per lo più non specificano, forse perché, più che per altre specie di obligationes, lo si dà per scontato[156].
4. Obbligazioni di contenuto diverso.
Dalle fonti si ricava che il problema del termine implicito fu affrontato dai giuristi romani anche in rapporto a stipulationes aventi ad oggetto prestazioni d’altro tipo, delle quali dobbiamo quindi rendere conto. La sintesi che segue non è d’altronde un’opera nostra, che a posteriori, e un po’ artificiosamente, raccolga fattispecie frammentarie e disperse, altrimenti slegate fra loro nella riflessione dei prudentes. Sono essi stessi, infatti, ed in particolare Paolo, nel già citato D. 45.1.73pr.[157] - passo di cui emerge ancora più l’importanza, per la considerevole valenza sistematica che possiede[158] -, ad aver congiuntamente contemplato tutti i casi per cui è dato riscontrare l’eventualità che, anche in assenza di adiectio diei, s’imponga una dilatio.
Più esattamente, ci resta da occuparci delle cose future e delle operae.
Riguardo alle prime, Paolo allude all’id quod in utero (il feto della schiava)[159] e a ai fructus futuri[160], essendo l’ottica nella quale si colloca, in questa prima parte del frammento, prevalentemente attinente a cose che ci si è impegnati a dare a qualcuno, ma che non sono ancora consegnabili in quanto non venute ad esistenza (ed essendo la stessa prestazione dell’aedificator in qualche modo assimilata alle altre, come si è visto, in quanto la domus, prima di essere messa a disposizione del committente, ha bisogno di tempo per essere costruita[161]). D’altra parte, queste obbligazioni debbono essere considerate come sottoposte a termine, e non a condizione, perché si ha la ragionevole certezza che i beni che ne formano oggetto presto siano in rerum natura[162]. Il fondamento dell’inerenza del termine, ossia della non immediata esigibilità dell’obligatio (non esercitabilità dell’actio, nell’approccio dei giureconsulti romani), sta quindi nella res ipsa, nella natura della prestazione[163]. La sua computatio poi, negli esempi fatti, risulterà ancor più agevole che non in altri frangenti: i nove mesi del parto; i tempi di maturazione normali, tali da consentire il distacco, la raccolta dei frutti[164].
Paolo torna ad occuparsi di cose future e di tempo dell’adempimento in un altro passo del suo commento all’edictum, da lui stesso definito in qualche modo tractatus[165], tanto è ampia la prospettiva che abbraccia, dato che vi si affronta il tema complesso della possibilità ed impossibilità, naturale o giuridica, originaria o sopravvenuta, definitiva o reversibile, della prestazione, con le conseguenze che ne derivano circa la validità o invalidità, esigibilità o inesigibilità dell’obbligazione[166]. Si legga infatti:
Paul. 72 ad ed. D. 45.1.83.5: Sacram vel religiosam rem vel usibus publicis in perpetuum relictam (ut forum aut basilicam) aut hominem liberum inutiliter stipulor, quamvis sacra profana fieri et usibus publicis relicta in privatos usus reverti et ex libero servus fieri potest. Nam et cum quis rem profanam aut Stichum dari promisit, liberatur, si sine facto eius res sacra esse coeperit aut Stichus ad libertatem pervenerit, nec revocantur in obligationem, si rursus lege aliqua et res sacra profana esse coeperit et Stichus ex libero servus effectus sit. Quoniam una atque eadem causa et liberandi et obligandi esset, quod aut dari non possit aut dari possit: nam et si navem, quam spopondit, dominus dissolvit et isdem tabulis compegerit, quia eadem navis esset, inciperet obligari. Pro quo et illud dici posse Pedius scribit: si stipulatus fuero ex fundo centum amphoras vini, exspectare debeo, donec nascatur: et si natum sine culpa promissoris consumptum sit, rursum exspectare debeam, donec iterum nascatur et dari possit: et per has vices aut cessaturam aut valituram stipulationem. Sed haec dissimilia sunt: adeo enim, cum liber homo promissus est, servitutis tempus spectandum non esse, ut ne haec quidem stipulatio de homine libero probanda sit: ‘illum, cum servus esse coeperit, dare spondes? item ‘eum locum, cum ex sacro religiosove profanus esse coeperit, dari?’ quia nec praesentis temporis obligationem recipere potest et ea dumtaxat, quae natura sui possibilia sunt, deducuntur in obligationem. Vini autem non speciem, sed genus stipulari videmur et tacite in ea tempus continetur: homo liber certa specie continetur. Et casum adversamque fortunam spectari hominis liberi neque civile neque naturale est: nam de his rebus negotium recte geremus, quae subici usibus dominioque nostro statim possunt. Et navis si hac mente resoluta est, ut in alium usum tabulae destinarentur, licet mutato consilio perficiatur, tamen et perempta prior navis et haec alia dicenda est: sed si reficiendae navis causa omnes tabulae refixae sint, nondum intercidisse navis videtur et compositis rursus eadem esse incipit: sicuti de aedibus deposita tigna ea mente, ut reponantur, aedium sunt, sed si usque ad aream deposita sit, licet eadem materia restituatur, alia erit. Hic tractatus etiam ad praetorias stipulationes pertinet, quibus de re restituenda cavetur et an eadem res sit, quaeritur[167].
Il discorso del giurista severiano, al quale la dottrina, anche recente, ha dedicato studi numerosi[168], va inserito nel quadro del ius controversum, a maggior ragione se, accogliendo una proposta del Cuiacio, integriamo il testo aggiungendovi un riferimento a Celso[169]. Non è questa la sede per un contributo, anche nostro, all’esegesi e all’interpretazione dell’intero frammento, ricco indubbiamente di stimoli rilevanti sotto il profilo etico-culturale, oltre che giuridico[170]: il compito che ci spetta, qui, è unicamente quello di indagare la disciplina dell’obligatio nel cui assetto, essendovi cose future, deve ritenersi implicitamente compreso un termine (tempus continetur, secondo la chiara attestazione di Paolo in proposito). Bisogna d’altronde quanto meno cercare di riconsiderare la problematica del fondamento, e conseguentemente del computo, di detto termine alla luce di una convinzione che a un certo punto il giurista esprime: nam de his rebus negotium recte geremus, quae subici usibus dominioque nostro statim possunt[171]. La regola è che dunque, in linea di massima, oggetto dell’impegno assunto può essere soltanto ciò che è suscettibile di utilità nell’immediato e non, eventualmente, nel futuro; ciò, a fortiori se l’evento atteso (per esempio, la caduta in schiavitù di un uomo libero, cosicché possa essere consegnato in esecuzione di una promessa stipulatoria) è cosa poco auspicabile innanzi tutto dal punto di vista morale[172]. Vi saranno però delle circostanze in cui l’evento atteso corrisponde allo sviluppo naturale delle cose, ed è assolutamente prevedibile che si verifichi[173]: questa è la ragione autentica per cui un’opinione espressa da Pedio, circa la stipulazione di dare cento anfore di vino proveniente da un certo fondo, da ritenersi valida, è accolta da Paolo[174]. L’ulteriore precisazione di quest’ultimo, che trattasi di obligatio di un genus, e non di una species[175], serve in realtà a spiegare come mai essa non si estingua per impossibilità sopravvenuta, nel caso in cui pur senza colpa del promissore il vino così ottenuto vada perduto: bisognerà semplicemente attendere una nuova produzione. Perché proprio questo è il punto che a noi interessa: una stipulatio di questo tipo è conclusa utiliter, ma non è immediatamente esigibile, visto che bisognerà exspectare il tempo necessario perché il vino esca (donec nascatur) dalla vendemmia del fondo in questione; una volta che il termine sia decorso, se il prodotto va consumptum per qualche ragione, non se ne può pretendere immediatamente di nuovo (cessatura stipulatio), m
Franchini Lorenzo
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