Sull'inutilità del processo in Salvatore Satta, ovvero: sul valore filosofico dell'esperienza giuridica
Federico Puppo
Professore ordinario di Filosofia del diritto,
Università degli Studi di Trento
Sull'inutilità del processo in Salvatore Satta,
ovvero: sul valore filosofico dell'esperienza giuridica* **
English title: On the worthlessness of the trial in Salvatore Satta, that is: on the philosophical value of legal experience
DOI: 10.26350/18277942_000024
Sommario: 1. Dello scopo del processo. 2. Della natura dell’esperienza giuridica e di quella filosofica. 3. Sulla meraviglia.
1. Dello scopo del processo
Lo scopo di questo saggio è proporre alcune riflessioni intorno alle – o meglio: a partire dalle – celebri opere di Salvatore Satta Il mistero del processo e Il giorno del giudizio, due testi importanti, molto diversi tra loro, ma egualmente profondi[1]. Credo sia opportuno, quantomeno per segnare la direzione verso cui mi sto incamminando – che insisterà sul rapporto tra filosofia e diritto o, meglio, sul possibile valore filosofico dell’esperienza giuridica –, rivolgere innanzitutto l’attenzione a Il Mistero del processo, in cui il Giurista di Nuoro ci racconta come
“negli anni della mia primavera – poiché anche i giuristi hanno una primavera – mi accadde di dover ragionare intorno al problema del cosidetto “scopo del processo”. È un problema fondamentale, un problema centrale […]. E ragionando con la temerità propria dei giovani anni, io dissi allora che il problema era mal posto, addirittura non esisteva, perché semplicemente il processo come tale non aveva scopo, se anche uno naturalmente potevano e dovevano averne le persone che agivano nel processo e gli atti nei quali la loro azione si concretava”[2].
Il processo, quindi, secondo Satta, non ha scopo. Ma cosa vuol dire ‘non avere scopo’? Poche righe dopo lo chiarisce egli stesso, introducendo peraltro una interessante distinzione fra legge e processo e una specificazione, ulteriore, sulla natura del giudizio. La lunga citazione merita di essere riportata per intero:
“lo scopo di un atto, mi sembra si debba convenirne, è qualcosa che sta necessariamente fuori dell’atto, rappresenta l’inserirsi dell’atto nella vita pratica, e come tale è indispensabile all’atto, che privo dello scopo non sarebbe neppure un atto: la stessa legge riflette questa verità quando profila l’inidoneità dell’atto a raggiungere il suo scopo. Ma il processo? Ha il processo uno scopo? Non si dica, per carità, che lo scopo è l’attuazione della legge, o la difesa del diritto soggettivo, o la punizione del reo, e nemmeno la giustizia o la ricerca della verità: se ciò fosse vero sarebbe assolutamente incomprensibile la sentenza ingiusta, e la stessa forza del giudicato, che copre, assai più che la terra, gli errori dei giudici. Tutti questi possono essere e sono gli scopi del legislatore che organizza il processo, della parte o del pubblico ministero che in concreto lo promuove, non lo scopo del processo. Se uno scopo al processo si vuole assegnare questo non può essere che il giudizio; e processus judicii infatti era l’antica formula, contrattasi poi, quasi per antonomasia, in processo. Ma il giudizio non è uno scopo esterno al processo, perché il processo non è altro che giudizio e formazione di giudizio: esso dunque se ha uno scopo, lo ha in se stesso, il che è come dire che non ne ha alcuno. Veramente processo e giudizio sono atti senza scopo, i soli atti della vita che non hanno uno scopo. Paradosso? No, non è un paradosso; è un mistero, il mistero del processo, il mistero della vita. […] Di quest’atto senza scopo gli uomini hanno intuito la natura divina, e gli hanno dato in balìa tutta la loro esistenza. Di più: tutta la loro esistenza hanno costruito su quest’unico atto. Secondo il nostro credo, quando la vita sarà finita, quando l’azione sarà conclusa, verrà Uno, non per punire, non per premiare, ma per giudicare: qui venturus est judicare vivos et mortuos” [3].
Qui si apre un abisso di significanza per indagare il quale sarebbe necessario andare ben oltre i ristretti limiti di questo scritto, ma che non posso almeno non considerare: il processo e il diritto che in e grazie ad esso vive sono omologhi alla vita stessa dell’essere umano o, meglio, dell’umano che accoglie il, e si pone al cospetto del, Mistero sommo che ne trascende l’esistenza ma che, proprio per questo, così facendo, è in grado di fondarla in sé. Da tale punto di vista, ogni vita in quanto tale, senza nessun’altra specificazione di alcun tipo, appare così capace di vantare una sua intima sacralità. Se, invece, le cose stessero diversamente – se, cioè, lo scopo della vita fosse da ritrovarsi esternamente ad essa – allora lo scopo dell’esistenza umana sarebbe, in sé, a questa ultroneo e pertanto meramente occasionale, giacché lo si potrebbe conseguire come no: proprio come oggi sempre più di frequente si afferma, apparendo del tutto diffusa l’idea che esistano vite non degne di essere vissute, magari perché non ci si sente realizzati (in quanto, cioè, per i più vari motivi non sia possibile o non si riesca a raggiungere lo scopo o i risultati che ci si è prefissati).
Qui, invece, si assume fino in fondo il senso – scopriamo: anche giuridico[4] – di quell’essere fatti a «immagine e simiglianza di Dio» che fonda, come dice Satta, «il nostro credo» e che dischiude una dimensione del tutto estranea al mainstream tipico dell’età contemporanea, che si manifesta come tappa attuale di un percorso di rimozione del divino iniziato molto tempo fa, al sorgere della modernità, che ha scelto di progressivamente escludere dall’ambito della propria epistemologia l’orizzonte della metafisica per infine smettere di guardare a quel Mistero che ne rappresentava un limite insormontabile.
In effetti, la ‘rivoluzione galileiana’ consistette nel fatto che il Pisano «rigettò specificamente il nucleo vero e proprio della conoscenza scientifica secondo la dottrina tradizionale, ovvero la capacità di catturare l’essenza reale delle cose»[5]. La comprensione della natura, per Galileo e poi anche per la scienza moderna si ottiene, infatti, «solo per mezzo di un’indagine non-filosofica, rifiutando la ricerca di un qualsiasi principio ultimo»[6]. Allo scienziato basta essere rassicurato dall’ipotesi che le «scienze matematiche pure» ci consentono di raggiungere «perfettamente» la verità che «è l'istessa che conosce la sapienza divina»: certo, di queste proposizioni matematiche «l'intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall'intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore»[7].
Ai suoi precordi, lo si noti, la scienza moderna non nega affatto l’esistenza di Dio, ne ha anzi bisogno, ma stravolge il senso ed il ruolo di Dio stesso e, quindi, della posizione dell’uomo rispetto a Lui, che diventa solo l’ipotesi necessaria capace di giustificare la divinità stessa della conoscenza umana, che potrà alla fine anche non considerare: così è in Cartesio e così è in Newton, il quale non a caso sarà nel 1702 presidente di quella Royal Society of London for Improving Natural Knowledge istituita nel 1660 sull’espressa credenza che «Dio [fosse] un matematico che aveva progettato l’Universo in modo che il suo funzionamento seguisse principi logici e matematici»[8]. Con il che lo scienziato, utilizzando il metodo messo a punto sulla base di quell’ipotesi di partenza, aveva come obiettivo quello di «scoprire i principi che regolano l’universo e quindi decifrare il codice utilizzato da Dio per creare il cosmo»[9].
Come noto, i successi acquisiti su tali assunti furono tali da giustificare la convinzione che le cose stessero veramente così e che, in nome di un preteso monismo metodologico, in tutti i campi del sapere fosse possibile (ed anzi: si dovesse) dispiegare la potenza di tale ragione che, però, alla fine si dimostrò piuttosto essere, per dirla con Nietzsche, potenza della volontà. In effetti, «la scoperta della natura largamente irrazionale della mente portò a quella che può essere considerata la più radicale e influente delle […] rivoluzioni del pensiero umano, quella che, come scrisse Freud, determina il modo in cui vediamo noi stessi e quel è il nostro posto nell’Universo»[10]: le cose, insomma, non stanno esattamente come il positivismo scientifico aveva supposto che stessero e quel Mistero cui si aveva presuntuosamente smesso di guardare tornò a farsi presente.
Ma, ormai, Esso non ha più il senso colto da Satta e finisce piuttosto con l’assomigliare a quell’abisso senza fondo di parmenideana memoria da cui, però, nessuna voce si alza. D’altra parte, è stato ancora assai correttamente notato, ci troviamo in un’epoca in cui si presenta
“la crisi del giudizio, la crisi del processo [che] non è che un aspetto della grande crisi spirituale che è rilevabile in ogni campo della vita morale, nell’arte, nella filosofia, nella politica, perché è crisi dell’uomo, di ciascuno di noi. L’umanità ha smarrito la fede, che è il senso augusto del proprio destino; e poiché il giudizio è la via obbligata di questo destino, ha smarrito il senso del giudizio”[11].
Oggi, in nome del relativismo imperante, in effetti, ogni giudizio sembra senza senso – e, in effetti, «la nostra età non vuole il giudizio»[12] – giacché per giudicare c’è comunque bisogno di un criterio fermo e stabile che sia però, mi sia concesso dirlo, più di quel «salvagente della forma»[13] che sembra essere rimasta l’unica cosa a cui si possa solo guardare, giacché oggi, per i più, quel Mistero – che è mistero del divino e quindi anche, per le ragioni anzidette, dell’umano – resta o inattingibile o mistero minaccioso, di buia e terribile insignificanza. I tentativi di attribuirgli un senso, che per certa parte possiamo vedere trasparire come ‘secolarizzati’ dalla psicanalisi freudiana e dal sapere che ne consegue, hanno mostrato, insieme alle proprie potenzialità, anche i propri limiti. Il risultato, mi pare, è che l’uomo, ma anche il diritto e la scienza, non possono, da soli, salvare se stessi, di talché occorre reimparare a guardare oltre e in alto, a riconsiderare le cose proprio nella prospettiva indicataci da Satta.
2. Della natura dell’esperienza giuridica e di quella filosofica
Il che vuol dire, lo ripeto, prendere atto del fatto che il processo, non ha scopo perché il suo scopo d’essere è in se stesso, nel suo essere celebrato: proprio come accade per la vita, che è anch’essa un atto divino in quanto atto senza scopo e, come tale, anch’essa sottoposta, al suo termine, al giudizio.
Però, attenzione, affermare ciò non implica non porsi il problema della utilità di tali atti: come lo stesso Satta infatti dice ne Il giorno del giudizio, «il senso dell’utile e dell’inutile è estraneo a Dio e ai bambini: [ma] esso è l’elemento diabolico della vita»[14]. La vita, quindi, ha natura divina, che permane pura, così sembra dirci Satta, solo nei bambini (più volte evocati da Gesù stesso come paradigma di coloro che sono destinati al Regno dei Cieli), ma è macchiata da un elemento diabolico (il peccato originale non è un accidente fra altri), che si manifesta nel senso dell’utile e dell’inutile, che però, in modo veramente cattolico e quindi non manicheo, è quello che ci spinge ad interrogarci sullo scopo della vita stessa: per intuire, lo rimarco, che essa scopo ulteriore al suo medesimo attuarsi non ha, ed è quindi, per ciò stesso, divina.
Non sarà privo di rilievo, per ciò che dirò, leggere tutta la lunga citazione del passo in cui si inserisce la frase precedente. In effetti, nell’affresco che Satta ci offre nella sua grandiosa opera, si narra di uno dei figli di Don Sebastiano che, insieme ai ragazzini della sua età, si affrettava a raccogliere i fiammiferi, ormai spenti, che Maestro Ferdinando usava per accendere i fanali a petrolio che avevano iniziato a illuminare le strade di Nuoro. E, appunto,
“chi ne raccoglieva più di tutti, perché era il più svelto, era l’ultimo figlio di Don Sebastiano, che li portava a Donna Vincenza, perché glieli custodisse. Donna Vincenza custodiva i fiammiferi spenti del suo bambino nella grande credenza incastrata nel muro, in cui teneva anche le chiavi nel mazzetto attaccato alla cintola, accanto agli spiccioli che le lasciava Don Sebastiano. Ella sapeva, nella sua ignoranza, ciò che Don Sebastiano, con tutti i suoi studi, non avrebbe capito. E cioè che dietro quelle cose morte c’era una vita immensa, uno sconfinato mondo di amore, assai più che dietro i giocattoli, se mai in casa di Don Sebastiano si fosse potuto concepire un giocattolo. C’era l’idea di una terra, della terra per noi arida e avara, piena di doni meravigliosi; c’era la fantasia del gratuito, che ha mosso il creatore nella sua creazione: la gioia di sentirsi partecipe di questa creazione e di questo dono. Il senso dell’utile e dell’inutile è estraneo a Dio e ai bambini: esso è l’elemento diabolico della vita, e può darsi che Don Sebastiano lo sentisse, con quel suo rispondere a chi gli diceva che era ricco, che ricco è il cimitero. Ma questo non era un conoscere la grazia, era anzi una specie di maledizione. La grazia era rimasta nell’animo di Donna Vincenza, perché Don Sebastiano, inteso all’utile e all’inutile, l’aveva confinata nei suoi ricordi di fanciulla, e forse anche per lei questi fiammiferi spenti cadevano simbolicamente dal cielo, e sia pure il cielo di un ruggioso lampione”[15].
In qualche modo, con risvolti escatologici e teologici che si possono facilmente intuire, e che permeano tutta l’opera sattiana in cui «il sentimento giuridico [è] da cogliersi nella sua più intima accezione ‘religiosa’»[16] – in un rapporto che, nel vissuto del Nostro, appare giustapporre anche nell’iconologia istituzionale le due dimensioni invicemque permixtae della vita umana[17] –, ci viene detto che, nonostante la macchia diabolica che ci pervade, restiamo comunque indirizzati a Dio: e lo siamo anche se «la vita è crudele e il diritto esprime tutta la crudeltà della vita»[18], che però non ci allontana dal tocco salvifico della Grazia[19].
Si tratta di temi immensi: qui, però, più modestamente, vorrei cercare di mostrare come che ci sia (o, almeno, ci possa essere) anche un’altra attività capace di manifestare quelle stesse caratteristiche che Satta ascrive al processo e alla vita, caratterizzate dall’avere in sé il proprio scopo. Quest’attività è, lo si sarà intuito, la filosofia (che quindi, attenzione, potrebbe per sua natura essere correlata al diritto – ovvero al giudizio e non alla legge – e alla vita).
La filosofia, intesa anche solo etimologicamente come ‘amore per la sapienza’, ha infatti in sé il proprio scopo perché essa realizza se medesima nel momento stesso in cui si attua, in cui, cioè, sorge in noi quel domandare gratuito (lo stesso aggettivo che compare in Satta) che, da sempre, genera, accompagna, muove e pone in essere la ricerca filosofica. Ora, lo ricorda bene Achille Varzi, va innanzitutto notato come «fare filosofia, cioè esercitare la pratica del filosofare»[20], sia cosa diversa dal filosofeggiare, giacché
“fare filosofia significa sostituire dei punti esclamativi con dei punti interrogativi, esercitare la pratica del dubbio, tenere alto quel senso della meraviglia che in fondo già con Platone, ma soprattutto con Aristotele, viene identificato con l’origine di ogni pratica filosofica. Significa contemplare nuove possibilità, immaginare nuovi scenari di vita. Significa, fondamentalmente, pulire bene le lenti, ma anche inforcare gli occhiali, per non pensare che il mondo sia come siamo abituati a vederlo o come vogliono farcelo vedere coloro che sono pronti a darci tutta una serie di risposte, essendosi però dimenticati quali sono le domande da cui tali risposte derivano. I filosofi non danno risposte a domande bizzarre, ma le sollevano, proprio quando nessuno si preoccupa di farlo”[21].
Appare quindi necessario osservare come ci siano filosofi (anche del diritto, ritengo) che pensano di fare filosofia ma in realtà filosofeggino e come molti altri di loro abbiano sostituito la pratica della filosofia con quella della teoria mascherata da filosofia, perché sono pronti a darci tutta una serie di risposte consolati dalla ricerca della certezza (la dimensione dell’utile e dell’inutile, per dirla con Satta) o, comunque, avendo dimenticato le domande.
Certo, insieme a tutto ciò occorre anche intendersi su che cosa quell’aggettivo ‘inutile’ possa significare laddove venga riferito al sapere filosofico: perché, come è stato notato, l’idea che «la grandezza della filosofia sarebbe proprio quella di non servire a nulla è una civetteria che non diverte più nemmeno i giovani»[22]. Ma è possibile essere inutile e, allo stesso tempo, servire ad alcunché? Io credo di sì: basta intendersi, per l’appunto, sul significato di ‘inutile’ e, parimenti, di ‘servire’. È evidente, infatti, che qui il primo termine viene assunto con il senso indicato da Satta e non con quello, attestato dal dizionario e fatto proprio da Deleuze e Guattari, del ‘non dare alcuna utilità o vantaggio’, fino all’‘essere superfluo’. Allo stesso modo, il termine ‘servire’ da costoro utilizzato non può certo essere inteso nel senso, pure attestato dal dizionario, di ‘adoperare o usare una cosa per trarne la debita utilità’ (come se si trattasse di usare una macchina per raggiungere un luogo): è evidente che la filosofia, anche per loro, non può avere tale utilità.
L’utilità della filosofia si coglie, piuttosto, nel comprendere che la filosofia non è «contemplazione, né riflessione, né comunicazione, anche se ha creduto di essere ora l’una ora l’altra, grazie alla capacità di ogni disciplina di generare le proprie illusioni e di nascondersi dietro una nebbia che produce appositamente»[23]. Riguardata da tale prospettiva, «la filosofia, più rigorosamente, è la disciplina che consiste nel creare concetti. […] [È] conoscenza attraverso puri concetti. […] Creare concetti significa almeno fare qualcosa. La questione dell’uso o dell’utilità della filosofia, o anche della sua nocività (a chi nuoce?) ne risulta modificata»[24] senza essere, così mi pare, in contraddizione con l’inutilità di cui parla Satta.
Anzi, ciò che altrove i Filosofi francesi affermano parrebbe proprio censurare l’idea che lo scopo della filosofia possa essere conseguito altrimenti che non in se stessa:
“Certo si può essere tentati di vedere nella filosofia un piacevole commercio dello spirito che troverebbe nel concetto la propria merce, o piuttosto il suo calore di scambio, dal punto di vista di una sociabilità disinteressata che si alimenta di conversazione democratica occidentale, capace di generare un consenso d’opinione e di fornire un’etica della comunicazione, così come l’arte le fornirebbe un’estetica. Se questo si chiama filosofia, si capisce allora come il marketing arrivi a impossessarsi del concetto e il pubblicitario possa presentarsi come il concettualizzatore per eccellenza, poeta e pensatore: ciò che irrita non è questa appropriazione sfrontata, ma soprattutto la concezione della filosofia che l’ha resa possibile. Con tutte le dovute differenze, i Greci avevano già conosciuto una simile vergogna con certi sofisti”[25].
Parole pesanti, che danno il senso di quell’accorata, così a me pare, difesa della filosofia che Deleuze e Guattari dispiegano nella propria opera e che riabilita questo sapere proprio laddove, oggi, se ne rischia in certo senso il mercimonio e la ‘faciloneria’, risultando spacciato per filosofia ciò che, propriamente, non lo è, come pure anche Varzi ci ha fatto notare. E, in effetti, se per questi «il problema diventa innanzitutto quello di formulare la domanda […] [ché è] qui che si gioca la pratica del filosofare»[26], ciò non toglie, ed anzi implica, che ciò si possa riversare, come dicono i Francesi, nella capacità di creare concetti, se non altro perché è necessario, per seguire Varzi, avere creato il concetto di ‘domanda’ – proprio come per Platone che «diceva che bisognava contemplare le Idee, […] [è stato necessario] prima creare il concetto di Idea»[27]. Certo, qui appare come la filosofia – che è inutile, pur non essendolo – si manifesti come un sapere che interessa eminentemente il piano teorico anche se, è bene dirlo,
“ciononostante, sono convinto che la filosofia possa essere molto importante sul piano pratico […]. Perché, se è vero che la filosofia sostituisce i punti esclamativi con dei punti interrogativi e tiene alto il senso della meraviglia, così facendo ci dà anche una mano enorme a diventare persone migliori. Se perdiamo il senso della meraviglia, se ci accontentiamo delle risposte senza nemmeno sapere quali siano le domande – cosa peraltro tipica del modo in cui si insegna in molte scuole e in molte culture – diventiamo delle persone molto più povere”[28].
Proprio seguendo quest’indicazione che fa perno sulla meraviglia come scaturigine dell’esperienza filosofica (dico: ‘esperienza’ perché credo che la filosofia sia autentico sapere in quanto coinvolga, interrogandolo su di sé, il soggetto che la esperisce) vedremo nel paragrafo seguente la sussistenza del legame che, secondo me, è possibile rintracciare tra filosofia e diritto. La qual cosa, assunta come ipotesi di studio la proposta di Deleuze e Guattari per cui, lo si è appena visto, la filosofia è creazione di concetti, mi sembra essere già attestata da Satta stesso. In effetti, se Deleuze e Guattari affermano che «a dire il vero, le scienze, le arti, le filosofie sono ugualmente creatrici, anche se spetta solo alla filosofia creare dei concetti in senso stretto»[29] – con il che alla filosofia del diritto spetterebbe tale ruolo –, Satta stesso illumina un aspetto peculiare del lavoro del giurista, questo ‘esperto del diritto’ che ci viene dalla Roma antica proprio come il filosofo ci viene dalla Grecia classica. Afferma il Nuorese:
“nel suo profondo lavoro di astrazione il giurista elabora dei concetti, vale a dire, comprende, secondo l’etimologia della parola, la realtà, ne fissa l’essere, cioè la forma essenziale, l’ordine per cui essa è giuridica. Nulla è più legittimo di questa elaborazione, che costituisce il proprium della scienza giuridica, e la rende eccellente su tutte le altre, perché i concetti che essa elabora hanno un effettivo valore, sono la stessa realtà”[30].
Si tratta di un’opera incessante, ché incessantemente la realtà muta, e che presenta dei rischi precisi, che Satta mette bene in luce laddove censura l’inclinazione, tipicamente formalistica, di (pensare di poter) sostituire alla realtà l’immagine concettuale che il giurista ne produce. Subito ne tratteremo, ma intanto si osservi come la sensibilità sattiana appare capace di farci meglio comprendere e apprezzare ciò che Ulpiano affermava, notando in Digesto 1.1.1 che il «ius est ars boni et aequi» e «veram nisi fallor philosophiam».
Ciò non solo e non tanto perché il metodo della filosofia e quello del diritto hanno, almeno in parte, alcunché in comune – anche se il secondo non è assimilabile al primo[31] –, ma soprattutto perché, scopriamo ora con Satta, tanto il sapere filosofico quanto il sapere giuridico consistono in creazione di concetti.
Occorre così parzialmente correggere l’opinione di Deleuze e Guattari, riconoscendo anche al diritto, almeno in parte, le specificità che essi ascrivono esclusivamente alla filosofia, senza però in nessuna maniera voler omologare i due saperi, i quali, tra l’altro, presentano, per così dire (e mi si vorrà scusare la sinteticità del paragone), una direzione diversa rispetto alla realtà: se, infatti, tanto la filosofia quanto il diritto, in qualche modo ‘partono’ dalla realtà per l’elaborazione dei concetti[32], il diritto ha l’ambizione di espressamente ‘tornarvi’, per modificarla (cosa che la filosofia non sembra poter – sempre? – vantare)[33], prescrivendo. Si tratta di una differenza molto rilevante e probabilmente non è neppure l’unica: ma a me pare che si possa però anche essere una comunanza molto forte, che potrebbe essere confermata, come accennavo, anche ponendo riguardo a quel senso di meraviglia cui si attribuisce, tradizionalmente, l’origine dell’esperienza filosofica.
3. Sulla meraviglia
In effetti, da sempre[34], l’origine della filosofia è individuata nel thàumazein, in quel senso di meraviglia che – afferma, vorrei dire ‘ludicamente’, Filippo La Porta – «mi fa venire in mente una delle più belle espressioni romane: “Anvedi!”, che piaceva molto a Pasolini. Ecco, questo minuscolo, stupefatti “Anvedi!” è il presupposto di qualsiasi speculazione»[35].
Orbene, la filosofia nasce proprio da lì, dall’«Anvedi!» che il ragazzino esclama di fronte a qualcosa che lo stupisce veramente perché è l’inatteso che erompe nella nostra esistenza e ci distoglie, per dirla con Heidegger, dalla normalità, dal per-lo-più, dal chiacchiericcio e che, se coltivato, e stavolta siamo con Eraclito, ci può destare dal sonno dei dormienti e rendere la nostra vita, diceva Aristotele con Platone, degna di essere vissuta.
La filosofia nasce così, e così dovrebbe vivere presso di noi, in presenza di quello «stato d’animo fondamentale ontologicamente rivelativo» che ci muove meravigliandoci e che Heidegger individua nell’angoscia (Angst): è l’angoscia che «motiva nell’esserci la conversione dall’atteggiamento naturale a quello filosofico» nel momento in cui, «spaesandoci» (perché insorge quando uno meno se lo aspetta), fa sì che, «improvvisamente, il senso dell’ente e del suo insieme sia posto in dubbio»[36] da un domandare che è totalizzante e problematicità assoluta, in cui quindi chi domanda è sempre coinvolto nella domanda stessa, perché lì si sa, o comunque avverte, che ne va di se stesso.
Ora, se questa è filosofia, sarà ancora lo stesso Sardo ad indicarci ulteriormente il legame profondo che sussiste fra filosofia e diritto, e quindi l’intoglibilità della filosofia del diritto dall’orizzonte del giuridico (a meno, ovviamente, di non volerlo ridurre, come meglio diremo tra breve, a legge). Satta, infatti, ad un certo punto de Il mistero del processo, si interroga sul «diritto, questo sconosciuto» (è questo il titolo di uno dei capitoli del volume che raccoglie la prolusione tenuta dall’Autore all’Università di Genova per l’inaugurazione dell’a.a. 1954-55) e si rivolge «non al docente e non all’astratto speculatore, ma all’uomo che è in lui, all’uomo che, come tutti qui dentro, osserva e studia la vita nel suo continuo deformarsi e trasformarsi»[37].
Orbene, a quest’uomo, a noi uomini,
“il diritto appare oggi veramente come un’entità inafferrabile, un’ombra vana fuor che nell’aspetto, e talora anche nell’aspetto, una parola e un mito. La letteratura giuridica mai come oggi è stata piena di accorate pagine intorno a quella che ormai tradizionalmente si chiama crisi del diritto; mai come oggi si è parlato di declino del diritto, […] mai prima di oggi si era giunti a parlare di morte del diritto, cioè del diritto come un fenomeno, sia pure in una vagheggiata utopia, transitorio”[38].
Ecco, in quella situazione di qualche decennio fa che è ancora la nostra, che anzi era migliore della nostra, nella letteratura non solo giuridica, continua Satta,
“tosto sentiamo che l’idea di una legge che compone in un ordine tutte le forze irrompenti, che le fa essere ordine, idea astrattamente sì chiara, vacilla. E vi è di più. Tutte queste stesse forze, nella loro primordiale vitalità, non si presentano come moti istintivi; ma superato il momento più apertamente rivoluzionario, non esitano a rivendicare a se stesse il nome e l’essenza di diritto […]. Non fa dunque meraviglia che allo smarrimento sul piano sentimentale segua uno smarrimento sul piano intellettuale, e, giuristi e non giuristi, noi ci chiediamo che cosa è il diritto con lo stesso stato d’animo di Pilato che si chiedeva – e nella domanda era già la triste risposta – che cosa è la verità. Ma questa domanda per il giurista diventa un’angoscia profonda, perché essa comporta il crollare intorno a lui e in lui dell’oggetto stesso della sua conoscenza: onde gli sorge imperiosa la necessità di una risposta, poiché senza la risposta – e Dio sa se potrà darla – manca la ragione stessa del suo vivere”[39].
Angoscia, quindi: questo, insieme allo smarrimento, genera, nel giurista, la domanda sempiterna su che cosa sia il diritto, che non a caso, ci viene detto, ha la medesima natura di quella di Pilato intorno alla verità, che sono entrambe domande massimamente filosofiche. Non solo perché di esse si siano, da sempre, occupati i filosofi, ma perché, in radice, esse domande sono quelle che fanno esperire all’uomo lo smarrimento che si accompagna all’angoscia. Però, e qui veramente solo accenno alcuni sviluppi, diritto e filosofia non sono la stessa cosa: hanno molto in comune, lo abbiamo già detto, in punto di metodo e anche, vediamo ora, di stato d’animo fondamentale. Però diverse essi sono perché il diritto richiede risposte che sono pubbliche ed istituzionali, ed hanno il carattere della performatività che quelle filosofiche ovviamente non hanno e, lo ribadiamo ulteriormente, il diritto si spiega in un contesto retorico di agire pratico, di scelte in vista di un’azione, mentre la filosofia di un confronto teoretico di tipo dialettico (che, ovviamente, può non essere privo di risvolti pratici o essere richiesto dall’agire pratico: sapere, per esempio, cosa è bene è utile per agire bene).
Ma se questo è ancora un po’ troppo al di là dei limiti di questo scritto, c’è un’ultima cosa che vale la pena di nuovamente sottolineare ricordando le parole di Satta: che il mistero del processo, che è esperienza autenticamente filosofica nella misura in cui ci consente di porci al cospetto di quel Mistero che ci trascende ma che ci fa anche essere in questa nostra limitatezza, questo Mistero può venire negato dal diritto stesso, che su esso invece si fonda.
E ciò avviene quando il diritto si riduca alla legge, in cui si cerca (lo si legge ne Il giorno del giudizio) quella «certezza che ci sfugge nella vita, finendo peraltro a scambiare la vita con la legge»[40]. Cosa che è puntualmente avvenuta con il formalismo della scienza giuridica, quella «frattura dell’esperienza giuridica» cui Satta non risparmia alcunché, denunciandone tutti i limiti e pericoli, perché «il formalismo comincia dove il diritto finisce», sostituendo all’«esperienza giuridica e al suo libero movimento» un vuoto simulacro, «una falsa esperienza, cioè l’immobile vuoto, che si tratta come cosa salda, modellandolo in forme che, essendo forme del vuoto, hanno il pregio di essere infinite»[41].
In effetti, Satta, nello stesso passo, prima già parzialmente citato, in cui aveva affermato che è proprio dell’opera del giurista l’elaborare dei concetti, tosto chiarisce che
“il grave pericolo di questa elaborazione, comune a tutto il pensiero speculativo, ma particolarmente sensibile per il giurista, è che a un certo punto le posizioni si capovolgano, come in quel singolare esperimento della topologia per cui dalla superficie diritta si passa invisibilmente alla superficie rovesciata, cioè si aboliscono le due superfici: e così i concetti acquistino una tale assolutezza da diventare generatori della realtà, in luogo di essere generati, un arcano immobile mondo al quale il concreto mutevole mondo dell’esperienza deve adeguarsi. È una sorta di teologismo o di donchisciottismo giuridico, una posizione diametralmente opposta a quella dell’empirismo, e di questa non meno pericolosa per la conoscenza. Nessuno dubita, ad esempio, della verità del concetto di ordinamento giuridico, e della sua adeguatezza a rappresentare la realtà stessa, in quanto appunto si presenta ordinata. Ma questo stesso concetto acquista a un certo punto tanta forza di suggestione che si stacca dalla realtà ordinata, della quale si presenta come ordinatrice, un Ordinamento con l’o maiuscola, una personificazione o deificazione, del quale si dice che si attua, che si concreta, che si viola, che ha i suoi ministri, e al quale gli uomini sono soggetti ed estranei. Lo stesso può dirsi del concetto di diritto soggettivo, di interesse, di organo, di azione, di processo, di parte, di terzo, e via via di tutti i concetti che nel loro coordinamento danno vita al cosiddetto sistema. Non vi è bisogno di illustrare i guai che questa deformazione produce: e sarebbero guai sopportabili se restassero sul piano della conoscenza teorica. Alla fin fine, il mondo uno se lo concepisce come vuole. Ma purtroppo nel diritto la conoscenza è esperienza; e non esiste dualismo tra teoria e pratica”[42].
Questo diceva Salvatore Satta il 4 ottobre 1958 durante una relazione al IV convegno dell’Associazione italiana degli studiosi del processo civile: più di sessant’anni dopo, oggi, al capezzale del formalismo giuridico e di buona parte del giuspositivismo, possiamo, anzi dobbiamo, tornare a riconsiderare il fondamento e la natura del diritto (che fa tutt’uno con quella del giudizio), perché le cose stanno molto peggio di come stavano al tempo di Satta: per questo, oggi proprio come in tutti i momenti di crisi, la filosofia, una buona filosofia, necessita di essere articolata e proposta.
Anche quando si rifletta intorno al giudicare, al giudicare come arte ovvero all’arte del giudicare: che, nella memoria imperitura della lectio latina, è tale, e quindi veramente giudizio, laddove se ne custodisca il mistero e quindi laddove il giudice non creda di avere le risposte già pronte[43], ma sappia rifuggire da quella supponenza che chiunque abbia frequentato le aule giudiziarie ha almeno una volta subito, allorquando il giudice abbia dato pessima mostra di sé palesando che lei/lui sapeva già come stavano le cose e aveva bell’e formato il suo arbitrario (auto)convincimento, senza che fosse necessario attardarsi a celebrare il processo, oramai ridotto a farsa e pura messinscena.
È invece necessario che il giudice conservi la capacità di potersi stupefare di quell’«Anvedi!» che però, di fronte al dolore e alla tragedia del processo e delle vicende umane che lì si consumano – e su cui, nonostante tutto, è chiamato a decidere conoscendo e prescrivendo –, deve anche essere capacità di sopportare l’angoscia che viene dall’osservare all’opera ciò che più di ogni altro è meraviglia, che è spaesamento ed inquietudine[44], che è anzi il più inquietante di ogni inquietante, il to deinotaton: perché, come recita il Coro nel primo stasimo dell’Antigone di Sofocle, «molte meraviglie vi sono al mondo, [ma] nessuna meraviglia è pari all’uomo».
Abstract: The aim of this paper is to propose some reflections on Salvatore Satta’s thought with the aim to investigate the relationship between philosophy and law, or, better to say, the possible philosophical value of legal experience. To do this, at first, I will take into consideration the reason why, according to Satta, the trial has no purpose, thus discovering the Mistery that constitutes it and that has nevertheless been removed by the modern age. This will give me the opportunity to question the nature of philosophical knowledge and its ostensible worthlessness, also in relation with law and the typical activity of the jurist, which consists in a work of creating concepts. In this way, I will finally be able to consider the origin of the philosophical experience, since has always been identified with the ‘wonder’, by trying to connect it to the legal one.
Keywords: Salvatore Satta, the trial’s mistery, legal experience, judgment, philosophical wonder.
* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
** Questo scritto raccoglie ed amplia le riflessioni presentate nel corso dei “Dialoghi di Ius in Fabula” 3. L’arte di giudicare. Percorsi ed esperienze tra letteratura, arte e diritto, tenutisi a Verona il 15-16 dicembre 2017. Dedico questo scritto a Augusto Marcon (1931-2020), che ho avuto il privilegio e la fortuna di incontrare, conoscere e stimare, come padre, marito e nonno.
[1] La letteratura sulle opere sattiane è cospicua e interessa le prospettive tanto giuridiche e filosofico-giuridiche, quanto di natura più proprie di critica letteraria. La natura di questo scritto (peraltro volutamente ispirato dal desiderio di proporre delle riflessioni sullo statuto della filosofia e della filosofia giuridica a partire direttamente dagli scritti dell’Autore sardo) renderà assai arduo offrire un esaustivo esame della critica su Satta. Mi sia quindi concesso, per il momento, limitarmi a richiamare e rimandare, per ulteriori dovuti approfondimenti, ex multis, a: I. Belloni, La donna che “non esiste”. Rappresentazioni del femminile nell'opera giuridico-letteraria di Salvatore Satta, in C. Faralli e M.P. Mittica (eds.), ISLL Papers. The Online Collection of the Italian Society for Law and Literature, 5 (2012), pp. 1 ss. (disponibile online al sito https://www.lawandliterature.org/area/papers/Belloni%20-%20La%20donna%20che %20non%20esiste%20-%202012.pdf, consultato il giorno 29 marzo 2020); B. Bigi, L'autorità della lingua: per una nuova lettura dell'opera di Salvatore Satta, Ravenna 1994; A. Carrera, Il principe e il giurista. Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Salvatore Satta, Roma 2001; M. Corda, La filosofia della vita in dimensione esistenzialista. Salvatore Satta filosofo, Roma 2004; U. Collu (a cura di), Salvatore Satta giuristascrittore, Cagliari, 1990; Id. (a cura di), Salvatore Satta, oltre il giudizio. Il diritto, il romanzo, la vita, Roma 2005; A. Delogu, Le radici capograssiane di Satta giurista scrittore, in U. Collu (a cura di), Salvatore Satta giuristascrittore, cit., pp. 419 ss.; A. Delogu, Giustizia e pena in Salvatore Satta in Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto, 4 (2007), pp. 547 ss.; V. Gazzola Stacchini, Come in un giudizio. Vita di Salvatore Satta, Roma 2002; A. Jellamo, Il terribile giudizio, in M.P. Mittica (a cura di), Diritto e narrazioni. Temi di diritto, letteratura e altre arti, Milano 2011, pp. 183 ss.; M. Masala, Il giorno del giudizio: ambiti e modelli di lettura, Cagliari 2007; A. Scerbo, Il pensiero di Salvatore Satta tra scienza e filosofia, in Panorami, 5 (1993), pp. 236 ss.; E. Torchio, Salvatore Satta. Il peccato di essere vivi, in Studi Novecenteschi, 32 (2005), pp. 11 ss.
[2] S. Satta, Il mistero del processo, Milano 1994, p. 23 (corsivi miei).
[3] Ivi, pp. 23-25 (corsivi miei).
[4] In una tensione con il teologico per comprendere la quale ci sia permesso rimandare, almeno, a F. D’Agostino, Il diritto come problema teologico. Ed altri saggi di filosofia e teologia del diritto, 7a ed., Torino 19973.
[5] E. Agazzi, L’oggettività scientifica e i suoi contesti, Milano 2018, p. 52.
[6] Ivi, p. 56.
[7] G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi, Torino 1970 (disponibile on line al sito http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_6/t333.pdf, consultato il 15 giugno 2020), pp. 130-131.
[8] E. Kandel, The Age of Insight. The Quest to Understand the Unconscious in Art, Mind, and Brain, from Vienna 1900 to the Present, New York, 2012 (= L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni, tr. it. di G. Guerrerio, Novara 2016), p. 27.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, p. 29.
[11] S. Satta, Il mistero del processo, cit., p. 79.
[12] Ivi, p. 69.
[13] Mutuiamo l’espressione dal titolo di N. Irti, Il salvagente della forma, Roma 2007.
[14] S. Satta, Il giorno del giudizio, Milano 1979, p. 94.
[15] Ivi, pp. 93-94.
[16] Così P. Carta, Lottare per il diritto. Ritratti di giuristi umanisti del ’900, Vicenza 2020, p. 62 che, poco prima, nelle sue riflessioni intorno alla figura e al pensiero di Salvatore Satta, ricordando la genesi de “Il giorno del giudizio”, osserva come «non si trattò solamente di un romanzo e neppure di un’autobiografia, quanto piuttosto dell’esito assai più articolato di un processo del pensiero, per cui la meditazione sul diritto era divenuta per lui meditazione sulla vita o come ancora scrisse a Capograssi, la meditazione sulla vita si era rivelata nient’altro che meditazione sul diritto» (ivi, p. 60).
[17] Nel descrivere la «terza Nuoro», il cui «simbolo» era «il lungo corso appena lastricato» (così S. Satta, Il giorno del giudizio, cit., p. 38), si narra come «in questo tratto pianeggiante si raccoglieva naturalmente tutta Nuoro, gli avvocati incontravano i clienti, i proprietari dei paesi dal costume brillante spiavano i mercanti per barattare astutamente i loro prodotti, l’olio e le mandorle della Baronia, il vimo di Oliena, il formaggio di Mamojada e di Fonni. E di qui dovevano passare, al mattino, tutti quelli che andavano da dio terragnolo che era il tribunale, o dal dio anfibio che era la chiesa enorme, sproporzionata, fatta costruire da un vescovo ricco, il quale vi aveva fatto scolpire nel lungo cornicione frontale: Deiparae virgini a nive sacrum, che neppure i preti riuscivano a tradurre. Santa Maria della neve e il tribunale stavano l’una di fronte all’altro, e per arrivare si doveva salire una strada ampia, selciata a dovere, passare l’arco del seminario, oltre il quale di ergeva l’immensa rupe di una delle cime dell’Orthobene, come un gigante pietrificato. Nei giorni di Corte d’Assise e nelle grandi feste religiose era una variopinta processione, e ciascuno andava di lassù col suo segreto fardello» (ivi, pp. 38-40). P. Carta, Lottare per il diritto, cit., in part. pp. 51-97, ci dà la possibilità di meglio comprendere il senso di tale vissuto e di contemplare dal punto di vista storico-filosofico l’opera di Satta nel confronto con altri grandi Giuristi del nostro Novecento.
[18] S. Satta, Il giorno del giudizio, cit., p. 147.
[19] Lungo tale linea di pensiero, vengono spontaneamente alla memoria le parole di S. Tommaso d’Aquino, per cui «Deus nos instruit per legem et iuvat per gratiam»: il legame fra dimensione giuridica e dimensione religiosa è veramente non occasionale, almeno secondo tale prospettiva.
[20] A. Massarenti - P. Morelli - A. Varzi, Meravigliarsi come i bambini. Conversazioni sulla filosofia con Filippo La Porta, Roma 2017, p. 14.
[21] Ivi, p. 15.
[22] G. Deleuze - F. Guattari, Qu'est-ce que la philosophie?,Paris 1991 (= Che cos'è la filosofia, a cura di C. Arcuri, trad. di A. De Lorenzis, Torino 1996), p. XV.
[23] Ivi, p. XII.
[24] Ivi, pp. XI; XIII.
[25] Ivi, p. 92.
[26] A. Massarenti - P. Morelli, A. Varzi, Meravigliarsi come i bambini, cit., p. 16.
[27] G. Deleuze - F. Guattari, Qu'est-ce que la philosophie?, cit.,p. XII.
[28] A. Massarenti - P. Morelli - A. Varzi, Meravigliarsi come i bambini, cit., p. 25.
[29] G. Deleuze - F. Guattari, Qu'est-ce que la philosophie?, cit.,p. XI.
[30] S. Satta, Il mistero del processo, cit., p. 95.
[31] Siamo così in presenza di un tipo di relazione simile a quella che sussiste fra dialettica e retorica: il metodo della filosofia (che corrisponde alla prima) ha qualcosa in comune con quello del diritto (che corrisponde alla seconda): sono entrambi argomentativo-dialogici, ma il metodo della filosofia – ben lo spiega ad esempio E. Berti, Logo e dialogo, in Studia Patavina, 45 (1995) (disponibile on line al sito https://www.filosofico.org/gnoseologia/Berti_logo-dialogo.php, consultato il 15 giugno 2020) – è dialettico, perché si gioca sul piano teoretico, mentre quello del diritto – ben lo spiega l’Aristotele della Retorica –, è, per l’appunto, retorico, in quanto si gioca sul piano delle scelte pratiche e con l’espresso fine di persuadere un uditorio agendo sulle concorrenti pisteis dell’ethos, del logos e del pathos – come bene spiega F. Piazza, La retorica di Aristotele. Introduzione alla lettura, Roma 2008 –, e se lo si considera principalmente dialettico si confonde il diritto con la filosofia: e questo non va fatto, come anche dirò in corpo di testo.
[32] Affermare ciò comporta, evidentemente, assumere una posizione di realismo aletico che però, come bene spiega F. D’Agostini, Realismo? Una questione non controversa, Torino, 2013, se correttamente intesa non è un’opzione fra altre, ma l’unica possibile.
[33] Qui, a dirla tutta, occorrerebbe interrogarsi non solo sul rapporto fra filosofia sic et simpliciter e diritto, ma tra filosofia teoretica e filosofia pratica, tra filosofia pratica e saggezza (la phronesis, determinante per l’esperienza giuridica che la conosce ciceronianamente con il nome di ‘prudentia’) e tra queste e il diritto: cosa che non ho lo spazio per fare e sarebbe veramente troppo oltre i ristretti limiti che mi sono imposto. Mi limito così a rimandare, per un’utile disanima e chiarificazione almeno delle questioni connesse alle diverse forme di sapere filosofico, a E. Berti, Saggezza o filosofia pratica?, in Etica & Politica / Ethics & Politics, 2 (2005) (disponibile on line al sito http://www.units.it/etica/2005_2/BERTI.htm, consultato il 15 giugno 2020).
[34] Basti qui fare riferimento a quanto Platone e Aristotele affermano, laddove l’Ateniese ci ricorda, facendo parlare Socrate, che «si addice particolarmente al filosofo questa tua sensazione: il meravigliarti. Non vi è altro inizio della filosofia, se non questo» (Platone, Teeteto, 155d), mentre lo Stagirita – così anche segnando una rilevante, e a volte ignorata, continuità fra il sapere del mythos e quello del logos – ritiene che «gli uomini hanno iniziato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia. [...] Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in un certo senso, filosofo: il mito infatti è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia» (Aristotele, Metafisica, I, 2, 982b).
[35] A. Massarenti - P. Morelli - A. Varzi, Meravigliarsi come i bambini, cit., p. 25.
[36] Così chiarisce F. Volpi alla voce «Angst» che compare nel Glossario a completamento dell’edizione italiana di M. Heidegger, Was ist Metaphysik?, Frankfurt a.M. 1929, ora in: M. Heidegger, Gesamtausgabe, Vol. XI, a cura di F.-W. Von Herrmann, Frankfurt a.M. 1976 (= Che cos’è metafisica, ed. e tr. it. di F. Volpi, Milano 2001), p. 134, opera a cui riferire, in linea con la tradizione della metafisica occidentale, anche le caratterizzazioni della filosofia che seguono in corpo di testo.
[37] S. Satta, Il mistero del processo, cit., p. 112.
[38] Ibidem.
[39] Ivi, pp. 112-13.
[40] S. Satta, Il giorno del giudizio, cit., p. 240. Qui vale forse la pena di sottolineare una certa ambiguità del termine ‘legalismo’ che potrebbe essere utilizzato per indicare la tendenza che Satta censura nel passo appena citato ma, allo stesso tempo, anche per riferirsi all’esperienza giuridica dell’antica Grecia, segnata dall’assenza di una classe di giuristi che sarà tipica di Roma e dalla collegata importanza riconosciuta al momento processuale come scaturigine del diritto: in effetti, la «cultura giuridica dell’antica Grecia» (per mutuare il titolo di E. Stolfi, La cultura giuridica dell’antica Grecia, Roma 2020), è segnata dall’identificazione del diritto con il nomos, la legge – e basti a giustificare tale affermazione il dialogo che Socrate ha proprio con l’impersonificazione delle Leggi nel Critone platonico – e quindi da un possibile legalismo ante litteram. Si dà però il fatto che quella è la stessa cultura in cui matura anche il sapere filosofico, che condurrebbe però ad un atteggiamento teoretico del tutto antitetico all’anzidetto detto legalismo. L’apparente aporia è sciolta agevolmente dallo stesso Stolfi, il quale osserva, con ampia messe di condivisibili argomenti, come «in definitiva, non solo il “legalismo” dei greci appare lontano da ogni moderno “positivismo giuridico”, ma è la loro stessa idea di nomos che si rivela intraducibile alla “legge” per come, da Roma in poi, noi la conosciamo» (ivi, p. 101) giacché, in sintesi, rimanda necessariamente a «disposizioni ultramondane, che governano altri luoghi in cui va incontro l’uomo (o, almeno, la sua anima) e a lui senz’altro preesistono, incrollabili» (ivi, p. 108), come manifestazioni di quell’orizzonte metafisico che è indagato, non a caso, e in un legame tutt’altro che accidentale, dalla filosofia.
[41] S. Satta, Il mistero del processo, cit., p. 86.
[42] Ivi, pp. 95-96.
[43] In tal senso, A. Lo Giudice, Giudizio. Lo scarto tra intelletto e volontà, in A. Andronico - T. Greco - F. Macioce (a cura di), Dimensioni del diritto, Torino 2019, pp. 249 ss. offre la possibilità di riflettere sulla natura del giudizio proprio prendendo le mosse dalle considerazioni del Mistero del processo per poi giungere alla discussione delle massime kantiane del giudizio che, infine, grazie anche alla lezione di Carnelutti e, ancora, Satta, «ci conducono alla corretta comprensione filosofica del giudizio giuridico come giudizio prevalentemente, se non esclusivamente, riflettente. In particolare, questa prevalenza si spiega nella misura in cui si comprende come il giudizio giuridico non sia mai risolvibile in un giudizio puramente tecnico e conoscitivo» (ivi, p. 267. Corsivo mio).
[44] Seguendo l’interpretazione dell’Antigone data dall’Heidegger di Introduzione alla metafisica, su cui si v. il commento di A. Ardovino, L’Antigone di Heidegger. La tragedia come parola dell’essere, in P. Montani (a cura di), Antigone e la filosofia. Un seminario a cura di Piero Montani, Roma 2001, p. 149 ss.
Puppo Federico
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