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Sull’ammissibilità della cessio in securitatem (tra preclusioni tradizionali, nuove suggestioni normative e prospettive de iure condendo)

07.06.2016

Fulvio Gigliotti

Ordinario di Diritto privato nell’Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro

Sommario: 1. Premessa. – 2. Cessione del credito a scopo di garanzia e figure affini. – 3. Cessio in securitatem e legislazione speciale (anche di derivazione comunitaria). – 4. Considerazioni sistematiche. – 5. Cessione del credito a scopo di garanzia e divieto del patto commissorio: la soluzione corrente. – 6. Segue: riflessioni critiche. – 7. Impostazione del problema. – 8. Fondamento razionale del divieto del patto commissorio e rilevi desumibili dal tipo di sanzione comminata. – 9. Irrazionalità sistematica delle tradizionali giustificazioni addotte a fondamento del divieto. Ratio del divieto. – 10. Conseguenze della ricostruzione proposta e sua incidenza sul problema dell’ammissibilità di una cessione del credito a scopo di garanzia. – 11. Rilievi comparatistici e prospettive de iure condendo.

 

1. Premessa

L’istituto della cessione del credito a scopo di garanzia (o cessio in securitatem)[1] è ampiamente connesso alla tematica, di carattere più generale, delle alienazioni in funzione di garanzia[2], a sua volta strettamente collegata all’àmbito di applicazione del divieto del patto commissorio (di cui agli artt. 2744 e 1963 c.c.)[3].

Cessione del credito a scopo di garanzia e trasferimenti commissori costituiscono, nell’impostazione tradizionale del tema, istituti intimamente collegati, a tal punto che la precisa configurazione dei secondi rivela una significativa capacità di incidenza sulla stessa ammissibilità della cessio in securitatem.

In questa logica, la considerazione del divieto di patto commissorio – e, a dir meglio, del modo in cui esso è usualmente inteso nell’elaborazione dottrinale e nell’esperienza giurisprudenziale (l’una e l’altra, come si dirà, da verificare attentamente) – potrà servire ad accertare:

 - se (e, eventualmente, in che modo) esso possa ostacolare la pratica della cessio in securitatem[4];

- ovvero, e piuttosto, se in esso debbano effettivamente rinvenirsi, come usualmente si ritiene, limiti ad operazioni economiche di alienazione in garanzia diverse da quelle che coinvolgono la circolazione del credito[5];

- oppure, ed infine, se ­– tutto al contrario – il tema (più generale) del trasferimento di titolarità di situazioni giuridiche in funzione di garanzia possa (se non, addirittura, debba) essere sganciato dal pur usuale collegamento con il divieto codificato dall’art. 2744 c.c., e ne sia invece da considerare (o da ricercare) la compatibilità con il sistema in funzione di altri, e differenti, dati di diritto positivo[6].

Prima di procedere nella direzione indicata, peraltro, appare necessario, intanto, individuare esattamente i contorni della figura da sottoporre ad esame (cioè, della c.d. cessione del credito a scopo di garanzia), anche in ragione dell’opportunità di distinguerla da altre fattispecie che, pur se estremamente vicine, presentano, tuttavia, tratti differenziali sicuramente caratteristici.

Secondo una comune rappresentazione, quale soprattutto diffusa nell’esperienza giurisprudenziale, la c.d. cessio in securitatem (o cessione del credito a scopo di garanzia) ricorre quando il debitore trasferisce un credito (presente o futuro) che egli ha verso terzi al proprio creditore, con la funzione di garantire l’adempimento del debito originario, sì che il cessionario, finché persiste l’obbligazione originaria (cioè, quella garantita), potrà esigere (e potrà esigerlo come proprio, essendoglisi intanto trasferito) il credito cedutogli, e trattenere quanto serve alla soddisfazione delle sue ragioni, restituendo al debitore l’eventuale eccedenza (o, addirittura, in caso di avvenuto adempimento del debito originario, l’intero credito cedutogli)[7].

Peraltro, conformemente alla funzione di garanzia della cessione, la riscossione del credito ceduto (che abbia scadenza posteriore[8] a quella del rapporto principale) non è esattamente libera, ma è subordinata alla infruttuosa scadenza del credito garantito, nel senso che il creditore cessionario (cioè il soggetto garantito) può avvalersi della garanzia (i.e.: riscuotere il credito cedutogli) solo a fronte dell’inadempimento del debito garantito[9]; parallelamente, e per contro, se il debito originario è stato adempiuto, la funzione di garanzia viene meno, ed il trasferimento del credito ceduto non ha più ragione di esistere, per cui il credito ceduto ritorna automaticamente al cedente, secondo un meccanismo tipico delle alienazioni condizionali: in questa prospettiva – che è quella costantemente seguita dalla giurisprudenza – la cessione del credito a scopo di garanzia viene configurata come un negozio risolutivamente condizionato al fatto dell’adempimento[10].

Questa essendo la funzione del negozio, s’intende agevolmente che il cedente non è affatto liberato, attraverso la cessione, dal proprio debito, rimanendo, piuttosto, anzitutto obbligato ad adempiere in via principale.

Peraltro, se quella appena descritta è la strutturazione tipica della c.d. cessio in securitatem, va anche detto che è piuttosto frequente, specialmente nella prassi bancaria, che l’operazione si presenti in modo differente, nel senso che la cessione viene concordemente intesa dalle parti come strumento fisiologico di estinzione dell’obbligazione originaria, combinandosi con l’attribuzione di un incarico di riscossione (alla banca) del credito ceduto: sì che il cessionario non attende neanche la scadenza (infruttuosa) del debito originario, ma, soltanto, la scadenza del credito ceduto, provvedendo ad incassarlo e ad imputare la somma incassata a saldo della esposizione debitoria del cliente, restituendo l’eventuale eccedenza.

È ragionevole dubitare, peraltro, che un’operazione così strutturata possa essere appropriatamente ed interamente ricondotta ad una cessione con funzione di garanzia, evidenziando, piuttosto, prevalenti finalità solutorie[11].

Va anche detto, d’altronde, che la precisa qualificazione causale della fattispecie non può prescindere dalla specifica considerazione del contenuto del singolo accordo contrattuale, spesso non univoco nella prassi, e comunque, secondo una opinione unanimemente condivisa, non vincolato dal nomen iuris impiegato dalle parti.

2. Cessione del credito a scopo di garanzia e figure affini

Al di là di particolari strutturazioni dell’accordo, dovute alla (possibile) esplicazione dell’autonomia privata, l’analisi dei modelli contrattuali correnti, peraltro, permette di individuare alcune figure di più frequente utilizzo, che è necessario differenziare dalla cessione in garanzia.

Una prima ipotesi rispetto alla quale ormai da tempo la giurisprudenza ha elaborato con fermezza sicuri criteri differenziali è quella nota alla pratica come mandato irrevocabile all’incasso.

Ricorre questa fattispecie[12], la quale, riguardata sotto un profilo pratico, potrebbe sembrare anche assai vicina alla cessio in securitatem, quando il creditore (di solito: una banca) abbia ricevuto incarico dal proprio debitore (mandante) di riscuoterne i crediti che egli vanta verso terzi, agendo, come si usa dire, in rem propriam, nel senso, cioè, che il creditore-mandatario – il quale ha normalmente presso di sé, gestendolo, il conto del debitore-mandante – utilizzerà le somme incassate per soddisfare le proprie ragioni: la sicura vicinanza del risultato empirico non elimina, peraltro, le differenze tecniche, dal momento che, in tal caso, l’effetto dell’accordo è puramente obbligatorio, e non reale-traslativo.

Il credito utilizzato a fine di “garanzia”, in altri termini, rimane in capo al debitore-mandante, il quale può disporne (transigendo, novando, rimettendo e persino cedendo il credito, o, comunque, riscuotendolo), salva, s’intende, la valutazione di eventuali profili di responsabilità verso il mandatario; e salvo che – come opportunamente rilevato in giurisprudenza – il mandatario abbia già riscosso il credito, perché in tal caso quest’ultimo risulterebbe ormai estinto[13].

Perciò, mentre nella cessione in garanzia il creditore cessionario fa valere un diritto proprio, nel mandato all’incasso egli agisce per conto (e, se ha procura, nel nome) del mandante, facendo valere un diritto di questi[14].

Una diversa forma di utilizzo del credito in funzione di garanzia si riscontra nella fattispecie, tipizzata dal legislatore, del c.d. pegno di crediti[15]. In tal caso, esattamente come nell’ipotesi di mandato all’incasso, e differentemente dalla fattispecie della cessione in garanzia, al creditore garantito non viene trasferita la titolarità della situazione giuridica, che rimane in capo al debitore-garante; al creditore garantito, tuttavia, a differenza che nell’ipotesi del mandato irrevocabile, non è attribuita una semplice legittimazione a ricevere il pagamento, ma un autonomo diritto (di pegno), che gli assicura il vantaggio della prelazione e lo ius sequelae.

A differenza del mandato all’incasso, quindi, ove la garanzia si realizza in forma empirica e di fatto[16], in tal caso la garanzia opera appunto sul piano tecnico-giuridico, con tutte le conseguenze che da ciò derivano.

Infine, una terza figura dalla quale occorre tenere distinta la cessio in securitatem è quella – contemplata dal legislatore nell’art. 1198 c.c. – della c.d. cessione solutoria, o cessione del credito in luogo dell’adempimento[17].

In quest’ultimo caso, esattamente come nella cessione in garanzia – ma a differenza delle altre figure sin qui esaminate – si realizza il trasferimento della situazione giuridica creditoria.

Nonostante la funzione solutoria, peraltro, secondo la previsione normativa il debito originario permane intatto, e non si estingue, ad esso affiancandosi un nuovo credito (quello ceduto); la differenza con la cessione in garanzia dovrà cogliersi, nondimeno, sul piano funzionale: mentre nella cessio in securitatem il trasferimento garantisce l’adempimento del debito originario, alla cui esecuzione il debitore cedente rimane perciò primariamente tenuto, nella cessione solutoria il trasferimento sostituisce l’adempimento, sì che il creditore cessionario non può, intanto, pretendere l’esecuzione del rapporto principale.

Conseguentemente, come precisato dalla Suprema Corte[18], il credito originario entra in una fase di quiescenza, e non è esigibile né prima né dopo che diventa esigibile il credito ceduto: infatti, l’art. 1198 c.c., richiamando il cpv. art. 1267 c.c., lascia intendere, secondo una unanime interpretazione, che il creditore cessionario ha, in tal caso, l’onere della preventiva escussione del debitore ceduto.

3. Cessio in securitatem e legislazione speciale (anche di derivazione comunitaria)

Così delineata la fattispecie della cessione (del credito) in garanzia, occorre, a questo punto, interrogarsi in ordine all’effettiva ammissibilità di tale fattispecie.

La questione si pone, a ben considerare, per via del fatto che mentre nelle altre ipotesi considerate (mandato all’incasso; pegno di crediti, cessione solutoria) è lo stesso legislatore a descrivere e disciplinare, in termini generali, le singole fattispecie (le quali sono dunque tipizzate), la cessione in securitatem non è espressamente regolata: occorre chiedersi, pertanto, se ed in che limiti la stessa sia da ammettere in una prospettiva sistematica.

Per la verità, che la figura della cessio in securitatem sia del tutto priva di una positiva considerazione legislativa potrebbe anche esser messo in discussione: esistono, infatti, alcune previsioni normative di legislazione speciale[19] che espressamente fanno riferimento ad ipotesi di cessione del credito in funzione di garanzia.

Il valore effettivo di tali riferimenti normativi è stato, peraltro, fondatamente discusso, sia perché non sempre realmente rispondente allo schema ipotizzato della cessio in securitatem; sia perché, in definitiva, potrebbe comunque dubitarsi della loro idoneità a fondare una figura di portata generale[20].

Ciò è quanto deve dirsi, in particolare, anche avuto riguardo a quella disposizione oggi considerata più significativa, e da taluno persino indicata come senz’altro rivelatrice di una generale ammissibilità della cessio in securitatem: il riferimento è, in particolare, all’art. 6 del D. Lgs. n. 170/04, dettato in tema di contratti di garanzia finanziaria[21], il quale espressamente consente e regola, in quell’ambito, fattispecie di “cessione del credito o trasferimento della proprietà con funzione di garanzia”. Si tratta, infatti, come agevolmente si desume dal richiamo all’art. 2744 c.c., espressamente dichiarato inapplicabile ai contratti di garanzia finanziaria, di norma eccezionale – la quale sembrerebbe muovere, peraltro, dal generale presupposto di una tendenziale inammissibilità delle figure regolate – sebbene sia pure da riconoscere che l’ambito di applicazione dei contratti di garanzia finanziaria, quale risultante dalla definizione datane dall’art. 1, lett. d) del citato d. Lgs., sia talmente ampio da poter ricomprendere gran parte delle operazioni di cessione in securitatem oggi conosciute dalla prassi bancaria.

Qui, tuttavia, interessa riflettere sulla portata generale del fenomeno, per interrogarsi in ordine allo spazio che ad esso può essere assegnato, in termini assoluti, nel sistema, fermo restando che nei limiti (seppur abbastanza ampi) nei quali esso trova esplicito riconoscimento positivo non può più dubitarsi della sua sicura ammissibilità.

Va anche detto, del resto, che la verifica sistematica del tema d’indagine potrebbe anche evidenziare una sua già acquisita ammissibilità, riducendo, per questo verso, il preteso valore sintomatico ricavabile dalla novità normativa: ed è allora il caso di notare, già a questo punto, che – forse non proprio casualmente – il comma 2 dell’art. 6 del cit. D. Lgs. n. 170/04 (il quale contiene la “rivoluzionaria” deroga all’art. 2744 c.c.) fa esclusivo riferimento ai «contratti di garanzia finanziaria che prevedono il trasferimento della proprietà» (non anche la cessione del credito) «con funzione di garanzia», laddove nella rimanente parte dell’articolo, oltre che dell’intero provvedimento legislativo, il legislatore delegato ha sempre avuto cura di precisare il separato riferimento al trasferimento della proprietà, o alla cessione del credito, con funzione di garanzia.

  1. Considerazioni sistematiche

Si rende a questo punto indispensabile procedere ad una verifica di sistema della possibilità di configurare, in termini generali, una cessione del credito a scopo di garanzia, specialmente avuto riguardo al divieto codificato del patto commissorio, che, almeno prima facie (vedremo poi quanto ciò sia vero), sembrerebbe rivelare intime connessioni con il tema d’indagine.

In proposito, una prima considerazione sistematica potrebbe essere tratta dalla stessa configurazione strutturale del negozio (cessione di crediti) attraverso il quale si realizza la cessio in securitatem.

Invero, muovendo dalla configurazione più generale della cessione del credito, di cui agli artt. 1260 ss. c.c., in termini di negozio astratto, cioè di un negozio traslativo svincolato dalla giustificazione causale, si potrebbe persino ritenere sempre e senz’altro valida una cessione a scopo di garanzia, poiché nella prospettiva richiamata risulterebbe la stessa cessione del credito, in sé considerata, sempre ammissibile[22].

Peraltro, l’idea della cessione del credito come negozio astratto, in un sistema come il nostro che fa della causa elemento essenziale di qualsiasi negozio giuridico, non sembra meritevole di accoglimento, e non vale, pertanto, a risolvere la questione dell’ammissibilità di una cessione del credito con finalità di garanzia[23].

Abbandonata l’ipotesi del negozio astratto, rimangono percorribili altre soluzioni la cui specifica scelta non appare peraltro decisiva ai fini della questione che qui interessa: infatti, sia che si ritenga che la cessione del credito configuri un autonomo negozio dotato di una causa generica costante (l’interesse al trasferimento del credito), ed una causa specifica variabile; sia che si ritenga, invece, di dovere discorrere più che di una cessione del credito di cessioni del credito[24], o che si intenda la cessione del credito come l’oggetto, e non la causa del negozio traslativo[25], la cui specifica giustificazione causale deve essere dunque ricercata nel titolo del trasferimento[26], rimane aperto il problema di fondo: quello, cioè, di stabilire se una finalità di garanzia costituisca, o meno, valido supporto causale al trasferimento del credito.

In proposito, occorre certamente riconoscere che il codice civile vigente ha assegnato alla cessione del credito uno spazio ben più ampio di quello riconosciutogli nel vigore del codice abrogato, il quale – sulla scorta del modello francese – regolava la cessione nella disciplina del contratto di vendita (artt. 1538 ss.).

Giustamente, pertanto (almeno sotto questo profilo), il Guardasigilli, nella Relazione al cod. civ., n. 578, poteva osservare: «il codice del 1865 non tenne sufficientemente conto della genericità della causa traslativa, propria della cessione dei crediti, la quale infatti non è riportabile ad alcun tipo concreto di negozio di trasferimento. Il codice civile del 1865 tanto non ebbe esatta idea della cessione, da comprendere in essa la vendita dell’eredità, che è cessione solo se si riferisce a crediti o ad altri diritti singolarmente considerati, e da non distinguerla nettamente dalla vendita, nella cui disciplina la confuse con l’art. 1458. La vendita è in pratica la causa frequente della cessione dei crediti; ma non è la sola, perché la cessione può farsi anche a scopo di donazione […] di pagamento, di accreditamento, ecc.».

Com’è agevole rilevare, peraltro, pur nell’ampiezza dell’impostazione data dal Guardasigilli, la funzione di garanzia non è espressamente menzionata; ed è su questo punto, in particolare, che si è posto il problema dell’ammissibilità di una cessio in securitatem, specialmente avuto riguardo al limite posto dall’art. 2744 c.c., che, secondo una lettura ormai tradizionale, ancorché testualmente dettato con riferimento a beni vincolati in garanzia, vieterebbe in termini generali alienazioni in funzione di garanzia.

Nondimeno, una soluzione giurisprudenziale ormai consolidata, che muove da più risalenti pronunce, conclude senz’altro nel senso che «la cessione del credito, avendo causa variabile, può avere anche funzione esclusiva di garanzia», rinvenendo nella finalità indicata un interesse lecito e meritevole di protezione giuridica[27].

5. Cessione del credito a scopo di garanzia e divieto del patto commissorio: la soluzione corrente

È possibile che all’originaria formazione di tale indirizzo giurisprudenziale (peraltro, ormai del tutto consolidato) abbia anche contribuito l’impostazione inizialmente data dalla giurisprudenza alla stessa questione del divieto del patto commissorio.

Com’è noto, infatti – pur estendendo, da subito[28] la disposizione dell’art. 2744 c.c. ben oltre i suoi limiti formali, facendovi rientrare anche il trasferimento commissorio di cose libere – sino al 1983[29] la giurisprudenza di legittimità aveva sempre considerato validi i trasferimenti commissori (cioè in garanzia) risolutivamente condizionati, sancendo la nullità dei soli trasferimenti di proprietà sottoposti alla condizione sospensiva dell’inadempimento: conseguentemente, essendo la cessio in securitatem costantemente configurata alla stregua di un negozio traslativo (del credito) risolutivamente condizionato, la sua piena ammissibilità, almeno sino al 1983, doveva apparire fuori discussione.

Il nuovo corso dell’indirizzo giurisprudenziale, inteso a sanzionare anche trasferimenti commissori risolutivamente condizionati, inaugurato nel 1983 e successivamente mantenutosi fermo nel ritenere comunque vietati, oltre i limiti formali segnati dall’art. 2744 c.c. (nonché, è il caso di ricordare, dall’art. 1963 c.c., con riguardo al creditore anticretico), tutti i trasferimenti di proprietà con funzione di garanzia, tanto se risolutivamente che se sospensivamente condizionati alle vicende del rapporto obbligatorio “garantito” – ha posto in termini nuovamente problematici la questione dell’ammissibilità di un trasferimento del credito con funzione di garanzia, nonostante la sua struttura risolutivamente condizionata.

Specialmente in dottrina, pertanto, sono state ricercate (rinnovate) giustificazioni idonee a dar conto dell’ammissibilità di una cessione del credito a scopo di garanzia, la cui validità, peraltro, la giurisprudenza, e la prevalente (seppur non unanime) dottrina hanno comunque continuato a sostenere.

Al di là delle ragioni ricavate da svariate previsioni normative presenti nella legislazione speciale (e tra queste, da ultimo, anche dall’art. 6 D. Lgs. n. 170/04) – che tuttavia, come già precisato, non forniscono un contributo risolutivo alla questione – le ragioni in forza delle quali si è affermata una sicura ammissibilità della cessione di crediti a scopo di garanzia possono essere ricondotte, fondamentalmente, a due ordini di fattori:

a) per un verso, la circostanza che non si propongono, rispetto al credito, i problemi (soprattutto: di tipicità dei diritti reali) tradizionalmente posti da trasferimenti fiduciari della proprietà[30];

b) per altro verso, e soprattutto, la considerazione che un trasferimento del credito a scopo di garanzia non ricade nel divieto del patto commissorio, seppur estensivamente inteso (nella comune interpretazione che lo vuole riferito anche alle cc.dd. pattuizioni autonome).

In ordine a quest’ultimo profilo, sul quale è ora necessario concentrare la riflessione, sono state individuate, in particolare, molteplici e specifiche ragioni le quali, secondo una veduta corrente, giustificherebbero la sottrazione della fattispecie considerata (cessio in securitatem) alla disciplina, sia pure estensivamente intesa, dettata per il patto commissorio.

Dovendo – anche per opportune ragioni di tempo – procedere con la necessaria sintesi, tali ragioni possono essere sostanzialmente ridotte a tre ordini di considerazioni:

- in primo luogo, come relativamente di recente ribadito dalla Suprema Corte, sulla scorta di alcune indicazioni dottrinali, e con orientamento ripreso nella giurisprudenza di merito, la ritenuta natura eccezionale dell’art. 2744 c.c., come tale non estensibile in via analogica oltre le alienazioni di diritti reali e la costituzione di ipoteca e pegni (anche di crediti)[31];

- secondariamente, l’inesistenza, nel caso considerato, del rischio di un approfittamento in danno del debitore cedente, dato l’obbligo del cessionario di restituire l’eventuale eccedenza, e, conseguentemente, la strutturazione dell’accordo nei termini, sostanzialmente, di un patto c.d. marciano, usualmente reputato valido da dottrina e giurisprudenza dominanti[32];

- in logica sequenza con quanto appena detto, infine, e si tratta dell’argomento tecnico ritenuto di maggior rilievo, il dato ricavabile dall’art. 2803 c.c., dettato in tema di pegno di crediti, il quale – consentendo ciò che l’art. 2744 c.c. vieta (cioè: l’appropriazione del bene) – evidenzia come il creditore garantito (attraverso il vincolo di un credito) possa senz’altro, trattandosi di credito di danaro, e sussistendo l’inadempienza del debito originario, «ritenere del denaro ricevuto quanto basta per il soddisfacimento delle sue ragioni e restituire il residuo», esattamente come avviene nella cessio in securitatem, alla quale, pertanto, la predetta disciplina può certamente applicarsi, almeno in via analogica[33].

Dunque, le tre ragioni appena indicate (natura eccezionale dell’art. 2744 c.c.; inesistenza del rischio di abusivi approfittamenti; applicabilità analogica dell’art. 2803 c.c.) dovrebbero senz’altro dar conto della sicura ammissibilità di una cessione del credito a scopo di garanzia, nonostante l’esistenza di un generale divieto di alienazioni commissorie, quale ricavabile (secondo la communis opinio) dall’art. 2744 c.c..

6. Segue: riflessioni critiche

Nessuna delle ragioni appena indicate, probabilmente, è davvero sufficiente a dar conto di una sicura ammissibilità della cessio in securitatem, specialmente avuto riguardo al rapporto con la disposizione dell’art. 2744 c.c., almeno (è il caso di sottolineare) fintanto che ad essa si continui a dare (come pure, per le ragioni che a breve si diranno, non appare corretto) una portata assai estesa, quale quella risultante dalla communis opinio.

E ciò anche a prescindere da altre specifiche considerazioni delle quali si può fare solo un rapidissimo cenno.

a) Cominciando dal richiamo operato all’art. 2803 c.c., infatti, occorre senz’altro rilevare, intanto, come gli argomenti da esso ricavabili – a differenza di quanto creduto in dottrina – siano tutt’altro che decisivi.

Invero, la disciplina del pegno di crediti non consente al creditore garantito la diretta appropriazione del bene (il credito) vincolato in garanzia: infatti, l’art. 2804 c.c., senza peraltro distinguere in ragione del contenuto, pecuniario o meno, del credito vincolato in garanzia, prevede che il creditore pignoratizio possa soltanto farselo assegnare in pagamento, fino a concorrenza del suo credito, esattamente come è a dirsi per il pegno in generale.

La circostanza, poi, che l’art. 2803 – il quale impone al creditore garantito di riscuotere (alla scadenza) il credito datogli in garanzia – consenta al creditore che ha riscosso il credito di trattenere, ove si tratti di credito pecuniario, quanto gli spetta non costituisce, a ben vedere, una deroga al divieto del patto commissorio, ma, più semplicemente, l’attuazione della funzione di garanzia, resa direttamente possibile, come è stato esattamente rilevato in dottrina, dalle peculiari qualità del denaro, la cui diretta liquidità rende ultronea ogni attività di liquidazione[34].

D’altra parte, per quanto si evince dal comb. disp. artt. 2794 e 2807, anche nel pegno di crediti il costituente ha un diritto di restituzione, seppur condizionato al fatto dell’adempimento: la possibilità di trattenere le proprie spettanze risponde, allora, ad una logica sostanzialmente compensativa, la quale, tenuto anche conto di quanto desumibile dal cit. art. 2804 c.c. non consente di trarre specifiche illazioni sulla ammissibilità, in termini generali, di una cessione del credito a scopo di garanzia.

b) Non maggiormente decisivo è l’argomento tratto dalla struttura della cessio in securitatem in termini di sostanziale assimilazione ad un patto marciano, poiché essa muove da una pregiudiziale individuazione della ratio del divieto codificato nell’art. 2744 c.c. nella tutela del debitore contro abusivi approfittamenti del creditore (come si dirà, tutta da verificare), senza adeguatamente considerare, poi, che la restituzione dell’eccedenza è, ovviamente, connaturale ad una funzione di garanzia.

c) L’argomento dell’asserita natura eccezionale dell’art. 2744 c.c., infine, sembrerebbe difficilmente conciliabile con la straordinaria portata estensiva che alla norma è stata assegnata, in considerazione della sua pretesa natura di norma c.d. “materiale”: di norma, cioè, intesa a vietare un certo risultato economico (nella specie: l’abusivo approfittamento, da parte del creditore, in danno del debitore), piuttosto che le specifiche modalità formali attraverso le quali la sua realizzazione è stata prefigurata o immaginata dal legislatore[35].

7. Impostazione del problema

Le considerazioni da ultimo svolte rendono allora imprescindibile, a questo punto, indirizzare la riflessione sulla esatta portata, in ragione del suo fondamento, del divieto del patto commissorio.

S’intende, infatti, che secondo la diversa ricostruzione che di esso si ritenga di dover dare, differenti potrebbero essere le conseguenze sotto il profilo applicativo; e ove, in particolare, dovesse risultare che il divieto sia diretto ad impedire, in termini generali, trasferimenti “commissori”, esso potrebbe essere inteso alla stregua di un ostacolo insormontabile all’ammissibilità di una cessio in securitatem: a questa conclusione, del resto, era giunta, ormai diversi anni or sono, la più accreditata indagine monografica in tema di patto commissorio[36].

Nel concentrare ora la riflessione sulla ratio del divieto di patto commissorio occorre subito avvertire che, a causa della consistente molteplicità delle tesi elaborate in materia non è possibile, in questa sede, procedere ad una analitica rassegna delle stesse[37]; d’altra parte, ai fini che qui interessano, ciò non appare neppure indispensabile, ove si consideri che la quasi totalità delle tesi estensive, sia pure nella varietà delle ricostruzioni di dettaglio, ruota, fondamentalmente, intorno ad una – variamente articolata – esigenza di tutela del debitore (o dei creditori non partecipanti al patto, o dell’uno e degli altri insieme), che permette di svolgere, per quanto qui è utile, un discorso unitario.

Com’è noto, infatti, una opinione estremamente diffusa, soprattutto nell’esperienza giurisprudenziale, ravvisa fondamento al divieto del patto commissorio nella necessità di evitare che attraverso l’accordo commissorio il debitore – avendo necessità di ricorrere al credito, o di ottenere una dilazione di pagamento – risulti assoggettato ad una ingiustificata pressione approfittatrice da parte del creditore.

A questo fondamento, genericamente riassumibile nella formula della tutela del debitore, si accosta poi la considerazione, elaborata in dottrina ma seguita anche da una consistente giurisprudenza, che un trasferimento commissorio finirebbe per pregiudicare anche i creditori non partecipanti al patto, ai quali verrebbe sottratta la possibilità di rivalersi efficacemente sul patrimonio del debitore, con conseguente lesione della par condicio e della loro garanzia generica.

Si è così rinvenuto nella (esigenza di) tutela del debitore, o nella (esigenza di) tutela della par condicio creditorum, o, forse più frequentemente, in ambedue le esigenze, il fondamento razionale del divieto del patto commissorio; e su queste basi il divieto è costantemente giustificato nell’applicazione giurisprudenziale ed è usualmente spiegato nella manualistica corrente.

In questa prospettiva, si osserva, il divieto codificato nell’art. 2744 c.c., ancorché formalmente dettato in tema di garanzie reali (ma, occorrerebbe sin d’ora rilevare, singolarmente ripetuto, in questa logica, anche in materia anticretica, dall’art. 1963 c.c.), ha un ambito assai più ampio, perché deve ritenersi operante tutte le volte in cui sussistono le medesime esigenze di tutela; e poiché esse risultano egualmente presenti anche qualora la cosa negoziata non sia stata preventivamente vincolata in garanzia, il divieto, in quanto recato, appunto, da una norma materiale, ha portata generale, applicandosi anche a pattuizioni commissorie cc. dd. autonome, aventi cioè ad oggetto cose libere.

8. Fondamento razionale del divieto del patto commissorio e rilevi desumibili dal tipo di sanzione comminata

Nonostante l’assoluta compattezza di opinioni sul fondamento sistematico del divieto del patto commissorio, alla ricostruzione così proposta, seppur prevalentemente condivisa, possono essere mosse numerose, e non trascurabili, considerazioni critiche[38].

La prima delle quali deve muovere, ragionevolmente, dalla stessa rilevanza sistematica della sanzione con cui il divieto è colpito: sanzione da ravvisare, ovviamente, nella nullità dell’accordo.

Com’è noto, secondo un’impostazione assolutamente tradizionale, e unanimemente condivisa, la scelta legislativa di un rimedio di nullità in luogo di altri (quali, ad es., potrebbero ravvisarsi nell’annullabilità, nell’attribuzione di un diritto di recesso, etc.) denuncia l’esistenza di un interesse generale degno di protezione, il quale giustifica la radicale inidoneità dell’atto di autonomia alla produzione di effetti giuridici.

Sulla base di questo fondamentale rilievo, ci si deve allora interrogare, anzitutto, in ordine alla congruenza tra sanzione comminata e natura degli interessi usualmente individuati a fondamento del divieto del patto commissorio.

Da questo punto di vista, appare immediatamente evidente che l’esigenza di tutela del debitore, o dei creditori non partecipanti, o ambedue le esigenze, individuano interessi affatto particolari, rispetto ai quali non si giustifica, in linea di principio, la sanzione estrema della nullità, poiché quest’ultima – sistematicamente – non ha di mira la tutela di interessi particolari, la tutela di una delle parti del rapporto essendo affidata ad altri rimedî.

È bensì vero che quest’ultima affermazione potrebbe, oggi, essere considerata tutt’altro che vera, conoscendo ormai ampiamente il sistema ipotesi di nullità “speciali”, dirette a salvaguardare interessi particolari nel rapporto, per come emerge dalla categoria delle cc.dd. nullità di protezione, di cui dà testimonianza generale la previsione recata dall’art. 36 del c.d. Codice del consumo.

Leggere, tuttavia, l’art. 2744 c.c. alla luce della nuova sistematica della categoria delle nullità denuncerebbe palesemente un vizio di metodo, perché finirebbe per trascurare completamente il contesto storico tradizionale nel quale la norma si colloca, facendo della sanzione d’invalidità contenuta nell’art. 2744 c.c. una sorta di nullità di protezione ante litteram, totalmente ingiustificata, perché sconosciuta al codice civile.

A diversa conclusione, ovviamente, potrebbe pervenirsi se si potessero rintracciare già nel sistema del codice civile ipotesi di nullità di protezione (di nullità, cioè, dirette alla tutela di interessi particolari) analoghe a quella che si vorrebbe rinvenire nell’art. 2744 c.c.

Non è mancato, in dottrina, il tentativo di muoversi nella direzione indicata.

Si tratta, tuttavia, almeno a nostro giudizio, di tentativo non riuscito.

Nella prospettiva appena evocata – messo, per ora, da parte lo stesso art. 2744 c.c., su cui si ritornerà – sono state indicate come particolarmente significative le nullità dettate dagli artt. 1500, cpv., 1815, 2936, 2937 c.c.[39]. Nella stessa logica, per vero, si era anche richiamata la disciplina, ormai fuoriuscita dal codice, degli artt. 1469 bis ss., rispetto alla quale, però – anche a prescindere dal fondamentale rilievo che essa (come ora l’art. 36 Cod. consumo) non rifletteva certamente l’impianto sistematico tradizionale del codice – ci si potrebbe anche chiedere se piuttosto che una esigenza di tutela del singolo contraente non venisse (e non viene ora) in rilievo un interesse alla regolamentazione preventiva, e perciò assunta su un piano generale, di determinati settori del mercato (come pure testimonia l’opportuna presenza di un rimedio inbitorio, ora regolato dall’art. 37 Cod. consumo).

Non maggiormente rilevanti, comunque, sono le altre ipotesi richiamate, rispetto a ciascuna delle quali, in verità, sembra assai difficile individuare il fondamento della nullità nella protezione di interessi individuali, laddove assai più lineare è la riconduzione della citata disciplina ad esigenze di protezione di interessi generali.

 Così, in particolare, la nullità, ex art. 1815 c.c., degli interessi usurari sembra determinata più che dall’esigenza di protezione del singolo contraente, dalla preoccupazione (di interesse generale, e che trascende la specificità della singola negoziazione) di calmierare le condizioni del mercato del credito; neppure le ipotesi regolate dagli artt. 2936 e 2937 c.c. – che prevedono la nullità degli accordi derogatori al regime della prescrizione, o la rinuncia preventiva ai suoi effetti – possono riportarsi ad una esigenza di protezione del debitore, del quale sarebbe protetto, in questa logica, l’interesse particolare a liberarsi dal debito: vero è, piuttosto, che una sistematica deroga al regime legale, o la rinuncia preventiva agli effetti derivanti dall’istituto della prescrizione finirebbe per rendere inutile la regolamentazione legale, frustrandone completamente finalità ed essenza

Solo apparentemente suggestiva, poi, è la disciplina, pur ritenuta come particolarmente indicativa, del cpv. art. 1500 c.c., la cui asserita riconduzione ad esigenze di protezione individuale non regge ad una valutazione più approfondita.

Secondo una veduta corrente, la norma che (nella vendita con patto di riscatto, peraltro tematicamente assai vicina alle alienazioni in garanzia) vieta, a pena di nullità per l’eccedenza, il patto di restituire un prezzo superiore a quello di vendita, avrebbe l’evidente funzione di tutelare il venditore-debitore, visto nella sua sostanziale qualità di soggetto finanziato, e dunque, avrebbe di mira la tutela di un interesse particolare individuale.

In realtà, questa tradizionale giustificazione confonde quello che è un effetto pratico (cioè una conseguenza) del divieto con il suo fondamento, che trova, invece, altra assai più ragionevole giustificazione nella salvaguardia di interessi generali.

Invero, nella vendita con patto di riscatto, pur realizzandosi uno scambio (tra cosa e prezzo), la funzione dell’accordo non è certamente quella dello scambio in sé (che assume, al contrario, una valenza puramente strumentale), ma, piuttosto, quella di un finanziamento a corrispettivo, in certo senso, aleatorio[40].

In questa prospettiva – che appare l’unica corretta – la vendita con patto di riscatto deve essere funzionalmente collocata non già nell’area dello scambio, bensì del finanziamento; e precisamente, di un finanziamento verso speculazione sul valore della cosa: chi vende non paga nulla per il finanziamento ricevuto, ma rischia di perdere il maggior valore della cosa se non la riscatta; chi acquista non ottiene un vantaggio immediato (salvo casi marginali caratterizzati dal momentaneo interesse a disporre della cosa, comunque bilanciati dalla privazione del denaro necessario all’acquisto), ma ha un’alea positiva (quella di consolidare definitivamente il vantaggioso acquisto, in caso di mancato riscatto).

Rispetto a questa strutturazione dell’istituto, ben si comprende come consentire la maggiorazione del prezzo di riacquisto avrebbe alterato il senso dell’operazione, perché in tale maniera l’acquirente finirebbe per poter speculare sulla negoziazione in ogni caso (attraverso il maggior valore della cosa in caso di mancato riscatto; e attraverso il maggior prezzo di riacquisto in caso di riscatto), venendosi così a compromettere la causa della vendita con riscatto come appena descritta.

A questa ragione (già sufficiente, per vero, a giustificare una sanzione di nullità) va poi affiancata altra fondamentale considerazione: invero, se fosse valida la clausola di maggiorazione del prezzo, chi ha acquistato la cosa difficilmente la rimetterebbe sul mercato, o, comunque, la farebbe circolare innalzandone il prezzo per ragioni estrinseche al valore reale del bene. Ne risulterebbe compromessa, dunque, la stessa regolarità della circolazione dei beni, la cui portata di interesse generale è fuori discussione.

È indiscutibile, allora, come anche la disciplina della vendita con patto di riscatto non riesca ad evidenziare sanzioni invalidanti poste a protezione di interessi individuali, confermando, all’opposto, la naturale vocazione verso l’interesse generale delle nullità codicistiche.

9. Irrazionalità sistematica delle tradizionali giustificazioni addotte a fondamento del divieto. Ratio del divieto

Al di là della pur chiarissima incongruenza sistematica appena evidenziata, la nullità del patto commissorio fondata sulle ragioni della tutela del debitore, o dei creditori esclusi, evidenzia altre gravissime perplessità.

 Intanto, quanto alla protezione del debitore occorre considerare che nel sistema egli gode di una protezione assai più limitata; così, ad es., il debitore può senz’altro:

- stipulare novazioni peggiorative;

- assumere obbligazioni alternative di valore non corrispondente, anche con scelta rimessa al creditore;

- contrarre mutui svantaggiosi sino al limite dell’usura;

- assumere obbligazioni a condizioni inique, fintanto che non concorrano gli altri presupposti necessari, unitamente alla iniquità, per la rescissione;

- obbligarsi a penali svantaggiose, sino al limite della eccessività manifesta;

- assumere in stato di bisogno (prescindendo qui dal controverso rapporto tra usura e rescissione) obbligazioni iugulatorie, purché sproporzionate infra dimidium.

Sembra allora singolare che risulti colpito con la sanzione estrema della nullità un accordo solo potenzialmente lesivo, quando di fronte ad accordi che concretamente risultano tali non è previsto, almeno fino a certi limiti, alcun rimedio (comunque mai coincidente, quando concesso, con la nullità).

Ancora meno convincente, poi, si presenta l’altra tradizionale ragione posta a fondamento del divieto: cioè la tutela della par condicio creditorum.

Intanto perché, com’è ovvio, potrebbe, nel caso singolo, non ricorrere alcuna concreta esigenza di tutela (perché non c’è una pluralità di creditori, o perché la garanzia generica rimane comunque ampiamente sufficiente); ma soprattutto (il che è riferibile anche ad esigenze di protezione collocate sul piano meramente potenziale) perché, quand’anche la lesione della par condicio fosse effettiva, e non solo meramente potenziale, i creditori pregiudicati troverebbero efficace tutela in altri rimedi generali (e, precisamente, nella disciplina dell’azione revocatoria, la quale conferma, tra l’altro, che il rimedio posto a tutela di interessi particolari non è la nullità, ma di tutt’altro tipo, come del resto confermato, in una logica assai simile, dall’art. 1980, cpv., c.c., che in tema di cessione dei beni ai creditori attribuisce ai creditori estranei, in quanto pregiudicati, un rimedio pratico – l’azione esecutiva diretta – diverso dalla nullità).

Interessi particolari, dunque, non sembrano sufficienti a giustificare il divieto del patto commissorio.

D’altra parte, anche a prescindere dalle segnalate difficoltà sistematiche, la tradizionale “lettura” del divieto lascia aperti una serie di ulteriori interrogativi che, per ragioni di brevità, è possibile qui solo accennare; e cioè:

- come si coordina, sistematicamente, il divieto del patto commissorio, quale estensivamente inteso, con una serie di norme ed istituti (dalla rescissione alla vendita con patto di riscatto, alla disciplina della clausola penale) dei quali è necessario proporre, per mantenere ferma la (pretesa) ampiezza del divieto, una innaturale lettura restrittiva?;

- la ratio segnalata non avrebbe forse imposto, ai fini di una corretta formulazione della norma, la codificazione del patto marciano, da riferire anche all’ambito delle garanzie reali (mentre, detto per inciso, deve senz’altro ritenersi che un patto marciano relativo a cosa oppegnorata, o ipotecata, sia comunque da escludere) ?;

- quale specifica funzione ha la ripetizione del divieto con riguardo al creditore anticretico, posto che la medesima (se non più forte) esigenza di protezione del debitore e dei creditori potrebbe qui reputarsi presente?

Soprattutto, poi, resterebbe da chiedersi come mai il legislatore, nel dettare il divieto, avrebbe ancorato lo stesso al solo ambito delle garanzie reali, quando la sua pretesa ratio ne avrebbe imposto una formulazione più generale.

Quest’ultimo interrogativo, in particolare, schiude il problema di fondo del divieto, imponendo di indagare se non esista, invece, un intimo ed inscindibile legame tra divieto del patto commissorio e tutela di interessi propri esclusivamente della materia delle garanzie tipiche[41].

Molto rapidamente, per avviarmi a conclusione, dirò che questo legame, a mio modo di vedere, esiste indiscutibilmente.

Invero, se si considera la funzione essenziale delle garanzie reali, non si faticherà a scorgerla nella prelazione in sede esecutiva; solo una volta avvenuto l’inadempimento entra in giuoco il ruolo pregnante, il proprium, della garanzia reale: assicurare, cioè, al creditore privilegiato una preferenza satisfattiva sul ricavato. S’intende, però, che se la cosa vincolata fosse, in quel momento, già divenuta di proprietà del creditore, questi non avrebbe più interesse sul piano pratico, né modo, sul piano tecnico, di far valere la garanzia.

In questa logica, l’idoneità dell’accordo commissorio a divenire pattuizione di stile avrebbe sostanzialmente posto le basi per una scomparsa, almeno dal punto di vista pratico, delle garanzie reali, così come oggi le conosciamo.

D’altra parte, la funzione – cioè la giustificazione causale – del vincolo di garanzia reale è da cogliere, appunto, nella preordinazione del bene vincolato ad una esecuzione forzata, al fine di assicurare su un bene determinato la soddisfazione coattiva del creditore: ma se, attraverso un accordo commissorio connesso alla garanzia reale, fosse consentito di scavalcare l’attuazione processuale della garanzia, verrebbe meno la stessa giustificazione causale di essa.

Ed infatti, una davvero significativa conferma del profilo appena enunciato si ritrova nel disposto dell’art. 2911 c.c., il quale vieta al creditore assistito da garanzia reale (pegno, ipoteca, privilegio) di sottoporre ad esecuzione altri beni del debitore senza sottoporre ad esecuzione anche quelli vincolati. Nella medesima prospettiva, del resto, appare indirizzato l’art. 558 del codice di rito, il quale prevede che ove il creditore ipotecario abbia esteso il pignoramento a beni non vincolati in garanzia, il giudice dell’esecuzione possa ridurre il pignoramento ex art. 496 (dunque, sottraendo alla esecuzione i beni non vincolati), ovvero sospenderne la vendita fino al compimento di quella relativa ai beni ipotecati.

In definitiva, dunque, deve considerarsi che l’ammissibilità di un patto commissorio tipico avrebbe impedito il funzionamento della garanzia reale nel suo nucleo essenziale; ove il patto fosse consentito e divenisse, come certamente sarebbe idoneo ad essere, di stile, pegno e ipoteca non servirebbero più da cause legittime di prelazione, con un totale stravolgimento della fisionomia di tali istituti.

Se così è – come sembra invero indiscutibile – si comprende che l’estensione del divieto del patto commissorio tipico (cioè, su garanzia reale) alle pattuizioni commissorie autonome perde qualsiasi ragione di essere, perché rispetto a queste ultime non assume alcun rilievo l’esigenza di salvaguardia e conservazione delle garanzie tipiche, né si profila alcun contrasto di tipo funzionale.

Questa prospettiva, ovviamente, lascia aperto il problema della giustificazione di un patto commissorio anticretico, rispetto al quale le considerazioni svolte non rappresentano un valido fondamento. Se, tuttavia, si guarda alla funzione dell’istituto anticretico (impiego produttivo della cosa a fine solutorio), si può agevolmente rilevare che ove il patto fosse valido, il creditore non avrebbe particolare motivazione ad incrementare la produzione, ma sarebbe anzi disincentivato, per assicurarsi il conseguimento della res: la nullità del patto, per contro, incentiva il creditore ad ottimizzare l’impiego produttivo della cosa, contribuendo con ciò alla realizzazione di quell’interesse generale alla produzione che contrassegna l’intero impianto del codice vigente.

10. Conseguenze della ricostruzione proposta e sua incidenza sul problema dell’ammissibilità di una cessione del credito a scopo di garanzia

Per quanto sin qui detto[42], s’intende che patto commissorio tipico e pattuizioni commissorie autonome, benché suggestivamente simili (sul piano strutturale), costituiscono, in realtà, fattispecie completamente diverse; e la liceità, o meno, di queste ultime non può essere argomentata dalla norma che vieta il patto commissorio e, in particolare, dal fatto di rispettarne, o meno, le supposte ragioni giustificative (tutela del debitore, e/o dei creditori esclusi).

La validità dei patti autonomi, piuttosto, deve essere valutata in termini sistematici.

Da questo punto di vista, intanto, si deve considerare che l’espressione unitaria “patto commissorio autonomo” costituisce, in realtà, una sintesi verbale descrittiva di una pluralità di operazioni variamente articolate, e tendenti comunque a collegare il trasferimento della titolarità di un diritto alle sorti di un rapporto obbligatorio, preesistente (patti ex intervallo) o contestuale (patti in continenti).

Da un punto di vista pratico ciò serve sempre o a procurarsi liquidità, o a conseguire una dilazione di pagamento.

Sul piano giuridico questo intento si può realizzare attraverso strumenti tipizzati che non possono essere ritenuti in contrasto col divieto del patto commissorio, avendo questo ragione di essere solo con riguardo all’area delle garanzie reali e anticretica.

Le variabili giustificazioni causali di tali accordi, piuttosto, possono concretizzarsi in finalità (o funzioni) di tipo creditizio (come nel caso della vendita con patto di riscatto); o di tipo solutorio (come nel caso del trasferimento inteso alla immediata estinzione di un rapporto obbligatorio, con la possibilità, per il “debitore” – in effetti non più tale a seguito dell’accordo – di recuperare il bene eseguendo una prestazione corrispondente al contenuto originario del debito); ed anche, infine, di tipo sanzionatorio, come nell’ipotesi di trasferimento di un bene determinato quale conseguenza dell’inadempimento; trasferimento che – rettamente inteso – pare doversi ricondurre alla pattuizione di una clausola penale ex art. 1382 c.c.[43]

Nessuno di questi accordi urta contro il divieto del patto commissorio, fermo restando che ciascuno di essi, in ragione del suo specifico contenuto, o delle circostanze sotto le quali è stato stipulato, potrà trovare specifici limiti ed adeguati rimedi in altri istituti, spaziando dalla rescindibilità del patto, alla riducibilità del suo contenuto, ex art. 1384 c.c., sino alla possibilità di un annullamento dell’accordo, ai sensi dell’art. 1438 c.c., tutte le volte in cui risulti che il creditore ha coartato il debitore, minacciando di azionare il credito, al fine di procurarsi un ingiustificato vantaggio[44].

Alla stregua di quanto appena detto, allora, si dovrà, infine concludere anche per la cessione del credito con finalità di garanzia, in ordine alla cui ammissibilità non è dalla disciplina che vieta il patto commissorio che possono trarsi validi argomenti.

Piuttosto, deve invece rilevarsi che un argomento di particolare rilievo in ordine all’ammissibilità della figura pare doversi trarre dalla disciplina della cessione solutoria di cui all’art. 1198 c.c., nella misura in cui essa evidenzia (come già accennato) una piena compatibilità tra trasferimento del credito e sopravvivenza del rapporto originario, ed anche la possibilità che il credito ceduto risulti di maggior valore rispetto a quello originario.

Invero, il trasferimento del credito di cui all’art. 1198 c.c. si configura come una cessione solutoria salvo buon fine (e, dunque, con quiescenza del rapporto originario, che sopravvive), la quale ammette varianti convenzionali, essendo fatta salva la «diversa volontà delle parti».

Una di queste varianti è, certamente, la cessione solutoria con effetto estintivo immediato; nulla esclude, peraltro, che in una cessione solutoria venga pattiziamente conservata al debitore la possibilità di recuperare, adempiendo il debito originario (rimasto in vita), il diritto (di credito) provvisoriamente trasferito; e in questa direzione, attesa la sicura compatibilità (quale normativamente espressa dall’art. 1198 c.c.) del trasferimento attuale del credito con la sopravvivenza del rapporto originario, la finalità di garanzia si risolverebbe in nient’altro che in una peculiare regolamentazione convenzionale dell’ordine di preventiva escussione dei crediti (tutti) egualmente assegnati in titolarità al creditore (cessionario); regolamentazione convenzionale che non sembra incontrare alcun ostacolo normativo, né funzionale, in ordine alla sua praticabilità dovendo, perciò, reputarsi pienamente ammissibile e lecita, fatti salvi – ovviamente – e per quanto sopra detto, i limiti eventualmente ricavabili da altri luoghi del sistema civilistico[45].

11. Rilievi comparatistici e prospettive de iure condendo

La ricostruzione sin qui prospettata – che tiene conto del dato positivo oggi vigente – potrebbe richiedere ulteriori articolazioni, in vista dell’eventualità di una diversa (e, questa volta, espressa) regolamentazione normativa della fattispecie (cessio in securitatem) considerata.

Infatti, sulla scorta di modelli normativi proposti dall’esperienza straniera[46], è stato presentato (ad iniziativa governativa: Min. Giustizia) il ddl Delega al Governo per apportare modifiche al codice civile in materia – tra l’altro – di disciplina della fiducia (AS/2284, comunicato alla Presidenza il 15 luglio 2010, successivamente ripreso, sostanzialmente, da altre iniziative legislative[47]), il cui art. 1, dopo aver descritto il contratto di fiducia come quello «con cui il fiduciante trasferisce diritti, beni o somme di denaro specificamente individuati in forma di patrimonio separato ad un fiduciario che li amministra, secondo un scopo determinato, anche nell’interesse di uno o più beneficiari determinati o determinabili», fissa(va) tra i principi e criteri direttivi ai quali il Governo avrebbe dovuto attenersi nell’esercizio della delega legislativa anche quello di dettare una disciplina specifica per il trasferimento fiduciario a scopo di garanzia[48], quale contratto diretto a garantire crediti determinati o determinabili, con previsione (in quest’ultimo caso) dell’importo massimo garantito.

Nel contesto della predetta (ipotesi di) disciplina – indubbiamente ispirata alla normativa francese in tema di fiducie, ma da questa grossolanamente mutuata – manca, in realtà, un espresso riferimento alla cessione del credito a scopo di garanzia[49], ove si ponga attenzione al fatto che mentre nella descrizione del contratto di fiducia in termini generali si fa espressa menzione del trasferimento di diritti (oltre che di beni o somme di denaro specificamente individuati), al contrario, nella disciplina specifica della “fiducia a scopo di garanzia” si fa sempre esclusivo riferimento al trasferimento (in garanzia) di “beni” (cfr. il cit. art. 1[50], lett. d, nn. 1.1, 1.4, 1.5, il quale, tuttavia, fa anche riferimento, per il caso che siano trasferiti beni aziendali, ad “altri elementi” aziendali), onde non sembra espressamente regolato (almeno a prima impressione) il trasferimento di diritti (e, tra questi, di crediti) con funzione di garanzia[51].

Non è possibile, ovviamente, scendere in questa sede ad un esame particolareggiato dei possibili propositi legislativi.

Ciò che, tuttavia, sembra opportuno evidenziare è che l’eventuale (ed ormai altamente prevedibile) introduzione di una disciplina positiva del trasferimento fiduciario a scopo di garanzia, se realizzata nei termini che risultano dalle iniziative legislative richiamate, non appare realmente idonea ad incidere radicalmente sul tema delle alienazioni commissorie di cose libere (cioè autonome), nonostante una stereotipa assimilazione del tema appena evocato con quello dei trasferimenti a scopo di garanzia; e nonostante la proclamata ispirazione della disciplina del trasferimento fiduciario a scopo di garanzia a pretesi principi informatori della disciplina del patto commissorio[52].

Ed invero, anche a prescindere dalla circoscritta rilevanza soggettiva del contratto di fiducia a scopo di garanzia[53], occorre considerare che il tema dei patti commissori autonomi non può farsi coincidere tout court con quello dei trasferimenti fiduciari a scopo di garanzia (tale finalità essendo, anzi, attualmente estranea al sistema positivo vigente; e, comunque, quando pure normativamente ammessa, solo parzialmente sovrapponibile alla pluralità dei trasferimenti commissori possibili, in quanto potenzialmente destinati a perseguire – come sopra accennato ­– finalità (creditizie, solutorie e penali) diverse da quella di mera garanzia).

Né, va pure precisato, uno specifico rilievo sembra infine destinato ad assumere l’obbligo di restituzione dell’eccedenza di valore del bene trasferito in garanzia, in quanto la predetta soluzione (che ben si coordina, come sopra accennato (infra, nt. 45), con la finalità di garanzia del trasferimento fiduciario[54]). non è detto possa essere senz’altro trasportata, di peso, dall’area dei trasferimenti fiduciari a scopo di garanzia a quella coperta da tutti gli altri possibili trasferimenti commissori, rispetto ai quali l’attribuzione di un bene di valore superiore all’importo del credito procurato (contratti con funzione creditizia), estinto (contratti solutori) o regolato (quanto alle conseguenze dell’inadempimento: contratti con funzione penale o sanzionatoria) appare, per quanto più sopra detto, diversamente giustificabile.

[1] Sul tema, oltre allavoro di G. Bavetta, La cessione del credito a scopo di garanzia, in Dir. fall., 1995, I, 588 ss.; e alla rassegna di N. Parrino, Cessione del credito in garanzia, in P. Cendon (a cura di), Il diritto privato nella giurisprudenza. I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale. XIX. Garanzie, Torino 2004, 252 ss.,, v. U. Stefini, La cessione del credito con causa di garanzia, Padova 2007.

[2] Per una trattazione analitica del tema v. F. Anelli, L’alienazione in funzione di garanzia, Milano 1996. In estrema sintesi, e per ulteriori riferimenti bibliografici, v. P. Quarticelli, Alienazione in garanzia, in S. Patti-P. Sirena (a cura di), Dizionari sistematici. Diritto civile. Obbligazioni e contratti, Milano 2008, 312 ss.

[3] In proposito, ci permettiamo di rinviare a F. Gigliotti, Patto commissorio autonomo e libertà dei contraenti, Napoli 1997; e Id., Il divieto del patto commissorio, Milano, 1999. Per una informazione più recente v. F. Macario, Il divieto del patto commissorio e la cessione dei crediti in garanzia, in N. Lipari-P. Rescigno (dir.), Diritto civile. IV. Attuazione e tutela dei diritti, Milano 2009, 203 ss., e ivi ulteriori riferimenti.

[4] V., in proposito, M. Spinelli, Le cessioni liquidative, II, Napoli 1962, 672; C.M. Bianca, Il divieto del patto commissorio, Milano 1957, 157.

[5]Per l’illustrazione di un siffatto indirizzo v. F. Anelli, L’alienazione in funzione di garanzia, cit., 189 ss..

[6] Si tratta della soluzione che avevamo a suo tempo percorso, in termini generali, in F. Gigliotti, Patto commissorio autonomo, cit., passim.

[7] Cfr., tra le più recenti pronunce in tal senso, Cass., 3 luglio 2009, n. 15677, in Giust. civ. Mass., 2009: «la cessione del credito, quale negozio a causa variabile, può essere stipulata anche a fine di garanzia e senza che venga meno l’immediato effetto traslativo della titolarità del credito tipico di ogni cessione, in quanto è pr

Gigliotti Fulvio

 

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