fbevnts Imperial rescripts to be produced in courts in the postclassical and Justinian period: subscriptions, litterae caelestes, purpurea scriptio and other

Sui rescritti “insinuabili” in età postclassica e giustinianea tra sottoscrizioni, lettere celesti, scrittura purpurea e altre formalità

05.11.2019

Giorgia Maragno

Assegnista di ricerca in diritto romano, Università di Ferrara

 

Sui rescritti “insinuabili” in età postclassica e giustinianea tra sottoscrizioni, lettere celesti, scrittura purpurea e altre formalità*

 

Imperial rescripts to be produced in courts in the postclassical and Justinian period: subscriptions, litterae caelestes, purpurea scriptio and other formal qualities

 

Sommario: 1.Premessa: autenticità e originalità dei rescritti insinuabili secondo Diocleziano in C. 1.23.3. – 2. La subscriptio nostra manu. – 3. Litterae caelestes e κενασαφκαρχααγράμματα. – 4. La purpurea scriptio. – 5. La clausola si preces veritate nituntur. – 6. Le innovazioni di Giustiniano: a) La data. b) L’adnotatio del quaestor sacri palatii e Atanasio Emesino. c) L’adnotatio del quaestor sacri palatii e Teodoro Ermopolita. – 7. Conclusioni.

 

1. Premessa: autenticità e originalità dei rescritti insinuabili secondo Diocleziano in C. 1.23.3.

 

È noto il ruoloprocessuale dei rescritti imperiali – sia rescripta ad preces sia ad consultationes emissa – nel periodo postclassico e giustinianeo[1]. Tralasciamo questi ultimi e concentriamo l’attenzione sui rescritti inviati a privati, osservando che particolare enfasi è stata dedicata al loro utilizzo quale atto introduttivo di un procedimento ordinario oppure, secondo una teoria oggi criticata, di un procedimento speciale, così detto “per rescritto”[2]. Ebbene, pur nell’ambito di un tema assai ampio, i cui tentativi di ricostruzione si sono rivelati complessi e non di rado contrastanti, vi è un aspetto, se si vuole, più marginale che non sembra aver destato dubbi. Ci riferiamo all’esigenza, emergente dalle fonti e già osservata dagli studiosi, che il rescriptum ad precem emissum da esibirsi in giudizio presentasse determinate caratteristiche. Tra queste, le prime a dover essere accertate – da parte dell’autorità giudiziaria competente – erano le ‘formalità’ che dovevano garantire l’effettiva provenienza imperiale del documento (si è parlato, in proposito, di “requisiti formali”)[3]. L’operazione di verifica delle formalità del rescritto era senza dubbio facilitata dalla presenza di alcuni ‘indicatori’, la cui esistenza valeva a provarne la natura genuina. Nelle compilazioni postclassiche manca un punto di vista d’insieme dei requisiti formali in discorso, anche se – è cosa nota – abbastanza numerosi sono i titoli dedicati alla materia dei rescritti[4]. Ciononostante, tentativi di elaborare una lista delle formalità sono stati avanzati da studiosi di diritto romano e di altre discipline, quali la diplomatica e la paleografia[5].

Ci proponiamo in questa sede di rimeditare l’argomento, alla ricerca di ulteriori spunti di riflessione.

In sede preliminare, il punto di partenza obbligato è rappresentato da un noto provvedimento attribuito a Diocleziano e contenuto in C. 1.23.3[6], già largamente analizzato in merito ad altri aspetti dell’attività rescrivente imperiale.

 

C. 1.23.3 Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Crispino praesidi provinciae Phoenice. Sancimus, ut authentica ipsa atque originalia rescripta et nostra manu subscripta, non exempla eorum, insinuentur. D. prid. k. April. Hannibaliano et Asclepiodoto conss. (a. 292)[7]

 

Dal testo ora citato si apprende che è volontà di Diocleziano e Massimiano che possano essere “insinuati” soltanto i rescritti autentici e originali, con subscriptio di mano imperiale, e non exempla (cioè “copie”)[8]. Sul significato da attribuire al verbo insinuare si sono concentrati gli sforzi ermeneutici degli studiosi, per la maggiore parte ormai propensi a credere che sia da intendere come “esibire in giudizio”[9]. E questa opinione ci sembra rafforzata dal fatto che nell’epoca di riferimento l’ambito di utilizzo dei rescritti sembra essere eminentemente – se non esclusivamente – processuale[10]. Tra i fautori di questa tesi non c’è uniformità di vedute sul preciso valore processuale da attribuire all’insinuatio[11]. Si possono rilevare, in estrema sintesi, due principali[12] modi di intendere l’esibizione in giudizio del rescritto: secondo alcuni[13], si tratterebbe dell’atto introduttivo di un procedimento speciale (c.d. processo per rescritto), oppure, secondo altri[14], dell’atto introduttivo del processo ordinario, del quale rappresenterebbe semplicemente uno dei modi per avviarlo. È noto, peraltro, che un numero sempre crescente di opinioni pone in dubbio l’effettiva esistenza del “fantasma del processo per rescritto”[15], anche in età giustinianea[16]. Le complesse problematiche ivi sottese non possono essere affrontate, neppure a titolo ricognitivo, in questa sede[17]. Ai fini della presente ricerca importa soltanto sottolineare che sembra convincente l’opinione, come detto ora largamente condivisa, secondo cui insinuare vale “presentare in giudizio”.

Dunque, Diocleziano e Massimiano stabiliscono che il rescritto insinuabile debba essere authenticum atque originale. Avanti di approfondire il significato di queste parole, è da mettere subito in evidenza la loro opposizione ad exemplum, ossia alla copia del documento[18]. Forse giova anche richiamare il pensiero degli esperti di diplomatica i quali hanno in genere considerato l’aggettivo originalis come sinonimo di authenticus, non di rado ponendo l’accento proprio sulla combinazione authentica atque originalia impiegata nel testo dioclezianeo[19]. Le due parole sembrano, dunque, doversi intendere come “una semplice dittologia sinonimica”[20] e non portatrici di significati distinti[21].

Una conferma dell’equivalenza dei due termini può essere, a nostro avviso, ricavata dal corrispondente testo dei Basilici:

 

B. II, 5, 22 (ed. Scheltema, van der Wal, A I, 74): Μηδεὶς τὰἴσα τῶν βασιλικῶν ἀντιγραφῶν, ἀλλ’ αὐτὰ μεθ’ ὑπογραφῆς βασιλικῆς τὰ αὐθεντικὰ προφερέτω.

 

Una sola parola, τὰ αὐθεντικὰ, è ivi utilizzata per tradurre la coppia authentica atque originalia, in contrapposizione a τὰἴσα[22].

Da C. 1.23.3 emerge pertanto con chiarezza che il rescritto (per meglio dire, il documento che lo conteneva) doveva essere genuino, anzi “autentico e originale”, al fine del suo utilizzo in giudizio[23]. È comunemente ammesso che tale carattere del rescritto dovesse essere verificato, in via preliminare, da parte del giudice di fronte al quale era insinuato[24].

A tale scopo il giudice poteva avvalersi, quali indicatori di autenticità e originalità, di quei requisiti formali a cui già abbiamo accennato[25]. Di questi gli studiosi di diritto romano e di altre discipline hanno compilato alcune elencazioni che ci pare forse possibile integrare attraverso una rilettura critica della materia[26].

 

2. La subscriptio nostra manu.

 

L’enumerazione degli indicatori di autenticità e originalità del rescritto insinuabile non può che partire dal requisito rappresentato dalla subscriptio imperiale, sia per la sua capitale importanza[27], sia per la sua risalenza, giacché, secondo un’accreditata opinione, dovrebbe identificarsi con il primo elemento della dibattuta formula di chiusura di non pochi provvedimenti di età classica (“rescripsi” e “recognovi”)[28]. Già sappiamo dalla lettura di C. 1.23.3 che il rescritto doveva essere nostra manu subscriptum, vale a dire riportare la subscriptio[29] di pugno dell’imperatore. Mentre non sembrano esserci dubbi sul significato di nostra manu, riconducibile, senza difficoltà, all’autografia[30], merita una maggiore attenzione quello da attribuire a subscripta, dato che subscriptio è – l’abbiamo già osservato[31] – una parola dalle diverse accezioni. Nel presente contesto, sebbene non di rado sia stata intesa alla stregua della moderna firma[32], riteniamo più corretto pensare ad una sottoscrizione[33] (nel senso di intere proposizioni, o di semplici parole come legi, legimus, oppure rescripsi) redatta dalla mano dell’imperatore[34]. Si deve notare che, nell’opinione degli studiosi, proprio rescripsi (collocato, come detto, assieme a recognovi, nell’escatocollo di vari provvedimenti di età classica) indicherebbe la sottoscrizione autografa dell’imperatore (posta da lui stesso, a conferma del fatto che il contenuto del documento rispecchiava la sua volontà)[35]. Recognovi costituirebbe, viceversa, la sottoscrizione del responsabile della procedura di redazione dell’atto, ossia del soggetto posto all’apice della cancelleria imperiale (a conferma del fatto che la decisione del sovrano era stata riportata in maniera corretta)[36]. Secondo la riflessione degli studiosi, ciò comporterebbe – anche se nei documenti pervenutici recognovi è collocato dopo rescripsi – che il responsabile della cancelleria[37] ponesse per primo la sua sottoscrizione, in modo che il testo fosse presentato all’imperatore soltanto dopo essere stato controllato in ogni sua parte[38]. Tale dicotomia, dunque, allude a due formalità diverse: una a cura dell’imperatore (assai probabilmente Diocleziano intendeva imporre la presenza in ogni rescritto insinuabile di una o più parole la cui funzione era equiparabile a quella del rescripsi) e una a carico del responsabile della sua cancelleria (il requisito del controllo del quaestor sacri palatii, assimilabile al recognovi, sarà valorizzato, come vedremo, da Giustiniano)[39].

Valga segnalare subito che la formalità della subscriptio imperiale è prevista anche in una costituzione di Leone del 470 (C. 1.23.6)[40].

 

3. Litterae caelestes eἐκεῖναἀσαφῆκαὶἀρχαῖαγράμματα.

 

Il Codice di Teodosio II contiene una costituzione di Valentiniano I del 367, non accolta nel Codex giustinianeo, ove si delinea, anche se implicitamente, un’altra peculiarità del rescritto insinuabile. È un requisito che la dottrina romanistica non ha inserito – così ci sembra – negli elenchi delle formalità, ma al contrario ben conosciuto da quella paleografica[41]:

 

C. Th. 9.19.3 (367 Iun.? 9)[42]. Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Festum proconsulem Africae. Serenitas nostra prospexit inde caelestium litterarum coepisse imitationem, quod his apicibus tuae gravitatis officium consultationes relationesque complectitur, quibus scrinia nostrae perennitatis utuntur. Quam ob rem istius sanctionis auctoritate praecipimus, ut posthac magistra falsorum consuetudo tollatur et communibus litteris universa mandentur, quae vel de provincia fuerint scribenda vel a iudice, ut nemo stili huius exemplum aut privatim sumat aut publice. Dat. V id. Iun. Treviris Lupicino et Iovino conss.

 

Valentiniano dichiara di aver compreso come fosse iniziata l’imitazione delle litterae caelestes[43] dal fatto che l’ufficio del proconsole d’Africa[44] aveva composto (ed evidentemente inviato) consultationes relationesque con quei segni grafici (apices)[45] di cui facevano uso gli scrinia imperiali. Perciò, l’imperatore stabilisce che da quel momento in poi fosse soppressa la “consuetudine maestra di falsi”[46] e che fossero affidate (mandentur)[47] alle litterae communes tutte le cose che avrebbero dovuto essere scritte de provincia[48] o da parte del giudice, affinché nessuno prendesse a modello tale stile, né in privato né in pubblico[49].

L’imperatore, dunque, vieta l’utilizzo delle litterae caelestes alle cancellerie periferiche, riservandolo soltanto alla propria. Pertanto, il provvedimento interessava anche la redazione dei rescritti poiché questi provenivano esclusivamente dalla cancelleria imperiale.

È da ritenere che la cancelleria imperiale utilizzasse da tempo questo stile scrittorio[50]; in particolare, secondo un’ipotesi avanzata dagli studiosi di paleografia, sarebbero stati probabilmente i cosiddetti antiquarii gli addetti alla redazione di testi in litterae caelestes[51].

Quantunque gli studiosi fossero già pervenuti a comprendere che doveva trattarsi di un particolare sistema di segni alfabetici[52], solo nella seconda metà del secolo scorso le litterae caelestes sono state identificate con la “corsiva romana antica” o “ancienne écriture commune” (in uso fino al III secolo), da contrapporre alla “corsiva romana nuova” o “nouvelle écriture commune”[53], vale a dire la scrittura indicata da Valentiniano con la locuzione litterae communes[54].

L’utilizzo dei caratteri ‘celesti’ era, dunque, da intendersi vietato a tutte le cancellerie periferiche[55]: per questo motivo, un documento vergato da tali segni grafici – se non era un falso – doveva necessariamente essere stato redatto da quella imperiale. E, come già osservato, poiché i rescritti da lì provenivano, appare corretto individuare, seppure in via indiretta, un altro requisito formale: dovevano essere composti, come tutti i provvedimenti imperiali, in quella particolare scrittura detta litterae caelestes. Ciò non significa, però, che l’imperatore apponesse la sua subscriptio in tale grafia[56].

Finché la costituzione rimase in vigore, è da ritenere che le lettere celesti rappresentassero un’ulteriore formalità dei rescritti insinuabili. La costituzione di Valentiniano, accolta nel Codice Teodosiano, fu dunque applicata anche in Oriente. Tuttavia, l’uso delle litterae caelestes pare essere presto decaduto sia in Occidente sia nella parte orientale dell’impero (il provvedimento non è inserito nel Codex repetitae praelectionis) [57].

Un’estrema allusione alle litterae caelestes potrebbe, a tutta prima, essere colta nel riferimento a “quelle oscure e arcaiche lettere” (ἐκεῖναἀσαφῆκαὶἀρχαῖαγράμματα) evocate nel capo secondo nella Novella 47 di Giustiniano, intitolata Ut nomen imperatoris instrumentis et actis praeponatur, et ut tempora latinis litteris indicata accuratius scribantur (a. 537)[58]. Nel primo capo della Novella l’imperatore stabilisce che in tutti gli atti, pubblici e privati, la data fosse annotata secondo un nuovo e preciso schema (anno di regno, nome del console, indizione, mese, anno)[59]. Nel secondo capo, Giustiniano comanda a coloro che registravano la data nei verbali dei giudizi (οἱ τὸν χρόνον ἐν τοῖς δικαστηρίοις ἀποσημαίνοντες), dopo averla composta con “quelle lettere oscure e antiche” (ἐκεῖναἀσαφῆκαὶἀρχαῖαγράμματα), di ripeterla, nella riga seguente, usando le “lettere comuni” (τὰ κοινὰ, ossia caratteri chiari e facilmente leggibili da tutti, in greco se il resto del documento era in tale lingua, oppure in latino)[60]. Le lettere oscure e antiche in discorso, secondo i paleografi, non coincidono con le litterae caelestes: i caratteri con cui era composta la data in questo periodo sono stati, piuttosto, identificati con le ben note “scritture iniziali”[61] di verbali processuali dei tribunali egiziani e dei papiri ravennati (la “misteriosa scrittura grande di Ravenna”)[62], a quell’epoca già in uso[63].

La ‘doppia datazione’ (in lettere oscure e antiche e in lettere comuni) è imposta dalla Novella in esame solo per i verbali giudiziari. Nulla si dice in merito alle altre tipologie di documenti – dunque, neppure per i rescritti.

 

4. La purpurea scriptio.

 

Se la scrittura in litterae caelestes può essere a buon diritto ritenuta una formalità dei rescritti insinuabili nonostante la sua obliqua previsione legislativa, nessun dubbio per una costituzione di Leone del 470 che pone al suo centro proprio la tematica di cui ci occupiamo.

È un testo non privo di difficoltà, che tenteremo, per quanto possibile, di spiegare nei dettagli solo dopo aver dato conto del suo significato complessivo. Si consideri, dunque

 

C. 1.23.6 Imp. Leo A. Hilariano magistro officiorum et patricio. Sacri adfatus, quoscumque nostrae mansuetudinis in quacumque parte paginarum scripserit auctoritas, non alio vultu penitus aut colore, nisi purpurea tantummodo scriptione illustrentur, scilicet ut cocti muricis et triti conchylii ardore signentur: eaque tantummodo fas sit proferri et dici rescripta in quibuscumque iudiciis, quae in chartis sive membranis subnotatio nostrae subscriptionis impresserit. 1. Hanc autem sacri encausti confectionem nulli sit licitum aut concessum habere aut quaerere aut a quoquam sperare: eo videlicet, qui hoc adgressus fuerit tyrannico spiritu, post proscriptionem bonorum omnium capitali non immerito poena plectendo. D. VI k. April. Iordane et Severo conss. (a. 470)

 

Orbene, nel principium, Leone ordina che qualunque (quoscumque) dichiarazione imperiale (sacri adfatus) il principe avesse fatto per iscritto in qualsiasi parte dei fogli venisse alla luce soltanto per mezzo della scrittura purpurea, ossia che i sacri adfatus fossero contrassegnati dallo splendore della murice cotta e del conchylium tritato[64]. Era inoltre lecito che fossero presentati (proferri) ed esposti (dici) in qualunque giudizio soltanto i rescritti che la subnotatio dell’imperiale subscriptio[65] avesse impresso sul papiro o sulla pergamena[66]. E a nessuno – così stabiliva il paragrafo primo – era concesso produrre il sacro inchiostro, o possederlo o cercare di ottenerlo o sperarlo da qualcuno: era evidente che colui che avesse tentato ciò, con animo da usurpatore, sarebbe stato colpito, non immeritatamente, da pena capitale dopo la proscrizione dei beni[67].

È ragionevole chiedersi quale fosse la scrittura impiegata nelle dichiarazioni imperiali per le quali la costituzione si affretta a disporre l’uso rigoroso dell’inchiostro purpureo. Con tutte le incertezze del caso, a noi sembra assolutamente plausibile che non fossero le litterae caelestes – ormai, se non all’epoca di Leone sicuramente di Giustiniano, in declino – bensì quelle communes.

Tornando al nostro testo, senza indugio poniamo la questione ermeneutica più importante, vale a dire il significato di sacri adfatus. Alcuni studiosi hanno interpretato l’espressione nel senso di documento di provenienza imperiale considerato nella sua interezza[68]. Su questa linea, è stata avanzata l’identificazione dei sacri adfatus con le adnotationes, che avrebbero dovuto essere scritte in inchiostro purpureo in tutte le loro parti, in antitesi ai rescripta (da considerarsi simplicia) per i quali sarebbe bastata la sola subscriptio[69]. Con il sostegno di importanti opinioni[70], noi riteniamo invece che sacri adfatus indichi le sole parole autografe dell’imperatore (è dunque letterale il significato da dare al sintagma nostrae mansuetudinisscripserit auctoritas)[71]. Nella prima parte della costituzione, Leone comanda semplicemente che ogni parola autografa dell’imperatore, in qualunque punto delle pagine si trovasse, dovesse essere resa riconoscibile a colpo d’occhio grazie all’uso del sacro inchiostro purpureo. Tale prescrizione è da riferirsi a tutti gli atti imperiali, senza, dunque, necessità di distinguere tra adnotationes e rescripta simplicia[72]. Come ripetiamo, ci sembra più aderente al testo ritenere che l’inchiostro purpureo identificasse ogni parola scritta di proprio pugno dall’imperatore in qualsiasi documento ufficiale[73].

In secondo luogo, il testo precisa che i rescripta – senza specificazioni e quindi, a nostro parere, è lecito leggere in chiave generalizzante i rescripta di Leone come gli universa rescripta di Zenone[74] – potevano essere presentati in giudizio soltanto se recavano la sottoscrizione imperiale[75], ovviamente vergata con il sacrum encaustum. L’uso della porpora, si sa, doveva identificare il solo imperatore[76] e nessun altro, nemmeno i membri della sua cancelleria[77]. Il divieto di usarlo era, anzi, rivolto proprio al magister officiorum (e, di conseguenza, a tutti i suoi sottoposti).

L’unitaria considerazione di tutti i rescritti da noi supposta nel testo di Leone sembra trovare conferma nel corrispondente passo dei Basilici, in cui si dichiara invalido (ἀνίσχυρος) il rescritto imperiale (βασιλικὴἀντιγραφὴ, senza aggiunte) privo della subscriptio del sovrano nel suddetto inchiostro[78].

Da ultimo, si deve osservare come in questa costituzione sia specificato che i rescritti dovessero contenere la subscriptio imperiale. Nella sistematica giustinianea, questo requisito è una ripetizione perché già presente nel provvedimentodi Diocleziano, citato nello stesso titolo poco prima (C. 1.23.3). Viceversa, al tempo di Leone non vi era forse alcuna replica, ma le incerte vicende di trasmissione della costituzione dioclezianea non consentono certezze a riguardo. A ben guardare, poi, la subscriptio imposta da Leone doveva essere scritta con l’inchiostro di porpora[79], circostanza di cui non si fa cenno nel testo dioclezianeo. Si tratta, dunque, verosimilmente, di una nuova formalità.

 

5. La clausola ‘si preces veritate nituntur’.

 

Pochi anni dopo, Zenone, con la costituzione del 477 contenuta in C. 1.23.7[80], introduce un ulteriore requisito formale dei rescritti, come è stato autorevolmente segnalato in dottrina. Si tratta della cosiddetta “clausola fidei[81] (si preces veritate nituntur), ivi stabilita, con cui si subordinava l’efficacia della risposta imperiale alla verità delle allegazioni. La presenza nel testo di tale clausola non era solo un modo per escludere l’utilizzo di un rescritto viziato da ‘falsità ideologica’ ma doveva rappresentare una vera e propria formalità del rescritto stesso: se, per qualche motivo, ne fosse stato privo, lo si sarebbe considerato non insinuabile[82]. Come prosegue il paragrafo primo, il quaestor e i magistri scriniorum che avessero osato dettare un rescritto (responsum) senza tale clausola, così come i giudici che lo avessero ammesso, sarebbero stati passibili di biasimo (reprehensio), mentre i materiali estensori del testo avrebbero perso il cingulum. Il che si traduceva nella regola per cui ogni rescritto (ἀντιγραφή) doveva contenere la suddetta formula, come ripetono i Basilici[83].

 

6. Le innovazioni di Giustiniano.

 

A suggello di questa ricostruzione delle misure escogitate per garantire l’autenticità dei rescritti insinuabili, troviamo alcune innovazioni di epoca giustinianea.

 

a) La data.

 

Anzitutto, si devono registrare due interventi in tema di datazione. Il primo, abbastanza discutibile, avviene in occasione dell’inserimento in C. 1.23.4 di una costituzione di Costantino già riportata nel Teodosiano (C. Th. 1.1.1): i compilatori sostituiscono le parole edicta sive constitutiones con beneficia personalia[84].

 

C. 1.23.4 Imp. Constantinus A. ad Lusitanos. Si qua beneficia personalia sine die et consule fuerint deprehensa, auctoritate careant. D. VII k. Aug. Savariae Probiano et Iuliano conss. (a. 322).

 

Orbene, è stato suggerito in letteratura che il sintagma beneficia personalia si riferisca alle pragmaticae sanctiones. Poiché queste ultime sono intese come rescritti – almeno a giudicare dal testo di Zenone il quale le inserisce tra gli universa rescripta[85] – sarebbe confermata l’identificazione tra beneficia personalia e i rescritti, con la conseguenza di dover riconoscere con C. 1.23.4 l’introduzione di un’ulteriore formalità, valida almeno limitatamente a questo tipo di rescritti. Costantino per bocca di Giustiniano stabilisce dunque che i beneficia personalia dovevano recare indicazione della data, espressa per mezzo del giorno e del console[86].

Pochi anni dopo, Giustiniano ha modo di tornare a legiferare sulla registrazione della data con un intervento di più ampia portata che abbiamo già considerato in tema di litterae caelestes. Nel primo capo della Novella 47 (a. 537) egli dispone, infatti, che la data – negli atti giudiziari, in quelli dei tabelliones e in generale in ogni actum da confezionare – dovesse seguire un nuovo e preciso schema (anno di regno, nome del console, indizione, mese, anno). È una norma di applicazione universale[87]: è stato constatato che anche la cancelleria imperiale si adeguò subito, a partire già dalla medesima Novella 47 e, a seguire, in tutte quelle emanate successivamente[88]. Sembra ragionevole ritenere che tale regola si applicasse anche nel caso dei rescritti, i quali avrebbero dovuto recare, da quel momento in poi, la datazione secondo il novello schema, abbandonando quello più risalente indicato in C. 1.23.4.

 

b) L’adnotatio del quaestor sacri palatii e Atanasio Emesino.

 

Ma ancora più importante è la formalità rinvenibile nella Novella 114 (Ut divinae iussiones subscriptionem habeant gloriosi quaestoris) del 541, concepita nell’ambito della ridefinizione dell’uso processuale dei rescritti[89]. Nella Novella è parola di sacrae (o divinae) iussiones, il cui riferimento ai rescritti è fuori discussione[90]. In questa prospettiva, si legga dunque

 

Nov. 114 (Ut divinae iussiones subscriptionem habeant gloriosi quaestoris). Idem (Iustinianus) Aug. Theodoto pp. Praefatio. Nostrae serenitatis sollicitudo remediis invigilat subiectorum, nec cessamus inquirere, si quid sit in nostra republica corrigendum: ideo namque voluntarios labores adpetimus, ut quietem aliis praeparemus. Unde ad universorum utilitatem pertinere perspeximus, si sacras etiam iussiones cum competenti iubeamus cautela procedere, ne aliquibus liceat eas pro sua voluntate conficere. 1. Nam praesenti lege decernimus nullam divinam iussionem neque per viri magnifici quaestoris adiutores neque per aliam cuiuslibet militiae aut dignitatis aut officii personam cuicumque iudici confectam a quolibet suscipi cognitore, cui magnifici viri quaestoris adnotatio subiecta non fuerit, qua contineatur et inter quos et ad quem iudicem vel per quam fuerit directa personam, quatenus omni posthac ambiguitate submota nulla cuilibet excusationis relinquatur occasio; scientibus iudicibus vel administratoribus universis, quod si in quolibet negotio sacram susceperint iussionem, nisi cui viri magnifici quaestoris fuerit subiecta notatio, multa viginti librarum auri ...., et officium eorum simili poena plectetur. Quibus iubemus, si qua ad eos iussio talis advenerit, mox ad praedictum virum magnificum quaestorem referre, aut cum illo qui haec ingerit destinare, ut in eum vindicta procedat quam in falsarios iura nostra constituunt, Theodote parens karissime atque amantissime. Quam legem perpetuo valituram celsitudo tua ad universorum faciat pervenire notitiam. Dat. kal. Nov. CP. dn. Iustiniani pp. Aug. anno XV. Basilio vc. cons. (a. 541)

 

Giustiniano, nell’incessante tentativo di apportare miglioramenti all’ordinamento statale, sancisce che, per il bene di tutti, nella redazione delle sacrae iussiones si dovesse procedere con la debita cautela (competenti cautela), affinché a nessuno dei membri della cancelleria a ciò preposti fosse permesso di prendere decisioni arbitrarie[91].

Ebbene, nel paragrafo primo della Novella l’imperatore comanda che nessuna divina iussio – redatta dagli adiutores del quaestor o da un altro soggetto (di qualsiasi militia, dignitas, officium) per qualunque giudice – avrebbe potuto essere accolta in un giudizio se non avesse riportato, nella parte finale, l’adnotatio del quaestor. Si tratta, dunque, di un’altra formalità imprescindibile dei rescritti.

Tale adnotatio doveva consistere nell’indicazione dei nomi delle parti, del giudice e della persona a cui era demandata la trasmissione del documento[92]: non è tuttavia chiaro se all’adnotatio così formulata dovesse accompagnarsi una subscriptio questoria ricalcata sul modello della formula recognovi di età classica[93]. Il testo giustinianeo non offre alcuna specificazione in merito ma prosegue affermando che ogni ambiguità sarebbe stata in tal modo rimossa e non sarebbe rimasta alcuna occasione per addurre una qualsiasi scusa. I iudices vel administratores che avessero accettato una sacra iussio in cui non fosse stata apposta l’adnotatio del quaestor sarebbero stati colpiti da una sanzione aurea di venti libbre e i loro officia da una pari pena. Se ai giudici fosse stata esibita una tale iussio (vale a dire, priva dell’adnotatio), avrebbero sùbito dovuto riferirne al quaestor o inviarla a lui assieme alla persona che l’aveva presentata in giudizio, affinché contro quest’ultimo si potesse procedere secondo le norme riguardanti il falso[94]. Competente a giudicare di tale crimine – se ben comprendiamo – era, quindi, il quaestor.

Il giudice doveva, dunque, verificare che nel rescritto insinuato fosse presente l’adnotatio del quaestor: se così non fosse stato, il documento non poteva essere ammesso (suscipi). La funzione di vigilanza esercitata dal quaestor era di particolare rilievo[95]; del resto, è appena il caso di ricordare la sua competenza, nella stesura dei provvedimenti imperiali, enfatizzata nelle fonti atecniche[96].

 

Ebbene, dalla Novella intesa alla lettera si apprende che proprio nella adnotatio del quaestor doveva leggersi – o rileggersi, se erano già state indicate nel resto del documento – l’indicazione delle parti, del giudice e della persona incaricata di trasmettere il documento. Non altrettanto nel corrispondente luogo dei Basilici:

 

B. II, 6, 27 (ed. Scheltema, van der Wal, A I, 81): Πᾶσα θεία κέλευσις ὑπογραφὴν ἐχέτω τοῦ κοιαίστωρος καὶ δηλούτω περὶ τίνων ἐξεφωνήθη καὶὅτι ποῖον δίδωσι δικαστήν.

 

Nel presente passo si afferma che ogni θεία κέλευσις (sacra iussio) dovrà recare l’ὑπογραφή del quaestor, indicare chiaramente i soggetti interessati e specificare quale sia il giudice dato. Non può sfuggire che il soggetto è sempre θεία κέλευσις[97]. Secondo quando riportato dai Basilici, non è dunque dall’adnotatio del quaestor, ma dal rescritto complessivamente considerato che dovevano emergere i dati essenziali relativi alla controversia. L’ὑπογραφή del questore è indicata nel testo in esame soltanto come uno degli elementi che dovevano necessariamente essere contenuti nel rescritto, quasi fosse una semplice subscriptio, o, per meglio dire, un recognovi[98]

Coerente con il dettato della Novella giustinianea – ove, come si è appena visto, questi requisiti sono contenuti nell’adnotatio – è, viceversa, l’interpretazione di Atanasio Emesino[99], il quale afferma che i punti fondamentali della sacra iussio dovevano essere messi in luce attraverso l’ὑπογραφή (διὰ τῆς ὑπογραφῆς) del quaestor, che non poteva dunque limitarsi ad una sola parola[100].

 

c) L’adnotatio del quaestor sacri palatii e Teodoro Ermopolita.

 

Pare corretto ritenere che l’adnotatio del quaestor non si sostituisse ma si aggiungesse alla subscriptio dell’imperatore. Con la Novella 114 Giustiniano faceva, dunque, quasi ritorno al modello del rescripsi, recognovi già ideato nel principato, con la compresenza della subscriptio dell’imperatore e dell’adnotatio del responsabile del procedimento volto all’emanazione del rescritto. Autorevole dottrina[101] ha ritenuto di trovare conferma di tale necessaria compresenza in uno scolio dello scolastico Teodoro Ermopolita ai Basilici, riferito a “ὑπογραφὴν κοιαίστωρος”[102]. Teodoro commenta altresì la Novella 114 in un passo della sua Epitome[103], in cui sembra proporre una lettura tesa a conciliare il dettato della Novella con quello del Codice[104] all’insegna dell’obbligatorietà di entrambe le sottoscrizioni.

Tuttavia, lo scolio si discosta dal dettato dell’Epitome per un’unica frase di chiusura contenente un’insanabile contraddizione: i rescritti che recano l’adnotatio del quaestor non devono essere sottoscritti dall’imperatore (δῆλον ὅτι τὰς μὴὀφειλούσας ὑπογράφεσθαι ὑπὸ τοῦ βασιλέως)[105]. Secondo Teodoro, dunque, l’adnotatio del quaestor doveva essere apposta se non c’era la subscriptio dell’imperatore. L’opinione dello scolastico resta di ardua comprensione[106]. Non possiamo, in questa sede, addentrarci oltre nella tradizione bizantina: il nostro sguardo si arresta su Atanasio e Teodoro, consacrati dalla letteratura come privilegiati interlocutori per la comprensione della legislazione giustinianea. 

 

7. Conclusioni.

 

Terminata la ricognizione delle formalità dei rescritti insinuabili che abbiamo proposto, rileviamo ancora la mancanza di una sedes materiae specificamente dedicata a questo fenomeno, già segnalata in apertura. Non può essere considerato tale il titolo C. 1.23, De diversis rescriptis et pragmaticis sanctionibus, benché molte delle formalità analizzate vi siano contenute, poiché tratta anche di altre questioni. Tale carenza si riflette nell’assenza di un nomen iuris e di un inquadramento dogmatico dei requisiti formali, la cui elencazione corrente abbiamo cercato di arricchire con le nostre riflessioni[107].

Si deve infine osservare che i requisiti stabiliti dalla legge, con ogni probabilità, miravano non tanto ad impedire che i singoli redigessero (ed esibissero in giudizio) rescritti viziati da falsità materiale, quanto piuttosto a rafforzare il controllo dell’imperatore e dei responsabili della cancelleria sulla concessione dei rescritti ai privati richiedenti, allo scopo di reprimere ogni abuso da parte dei componenti degli uffici centrali.

 

Abstract: This essay focuses on the formal qualities of the imperial rescript to be produced in court in Late Antiquity. A constitution by Diocletian (C. 1.23.3) makes clear that the rescript to be filed in court has to be the “authentic and original” document itself and not a copy. Special ‘authenticity indicators’ for the rescript imposed by the law are to be found in the Theodosian Code, in the Code of Justinian and in the collection of his Novels. These ‘markers’ – such as the imperial subscription, the use of the type of script known as litterae caelestes, the sacred purple ink, the clause si preces veritate nituntur, the date, the adnotatio of the quaestor sacri palatii – are here taken into consideration and analyzed in detail.

Keywords: imperial rescripts, litterae caelestes, purpurea scriptio, quaestor sacri palatii.



* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] Per le opinioni volte ad esaltare la natura fondamentalmente processuale dei rescritti postclassici, cfr. le indicazioni in L. Maggio, Note critiche sui rescritti postclassici. 1. Il c.d. processo per rescriptum, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 61 (1995), p. 285. Più in generale, sui termini rescribere/rescriptum indicanti l’attività del “rispondere per iscritto”, utilizzati sia per le subscriptiones ai privati (successivamente dette rescripta ad preces emissa) sia per le epistulae (successivamente dette rescripta ad consultationes emissa), cfr., tra i molti, F. Arcaria, Referre ad principem. Contributo allo studio delle epistulae imperiali in età classica, Milano 2000, pp. 12-13, seppure in riferimento all’età classica, con indicazione di altra letteratura; per l’epoca che qui interessa si rimanda anche a É. Andt, La procédure par rescrit, Paris 1920, pp. 1-4.

[2] V. la rassegna bibliografica in L. Maggio, Note critiche sui rescritti postclassici. 1. Il c.d. processo per rescriptum, cit., pp. 288-291 e v. infra.

[3] Così U. Zilletti, Studi sul processo civile giustinianeo, Milano 1965, pp. 49-51, su cui v. infra.

[4] Cfr. C. Th. 1.2 (De diversis rescriptis); C. Th. 2.4 (De denuntiatione vel editione rescripti); C. 1.19 (De precibus imperatori offerendis et de quibus rebus supplicare liceat vel non); C. 1.20 (Quando libellus principi datus litis contestationem facit); C. 1.21 (Ut lite pendente vel post provocationem aut definitivam sententiam nulli liceat imperatori supplicare); C. 1.22 (Si contra ius utilitatemve publicam vel per mendacium fuerit aliquid postulatum vel impetratum); soprattutto C. 1.23 (De diversis rescriptis et pragmaticis sanctionibus).

[5] Cfr. U. Zilletti, Studi sul processo civile giustinianeo, cit., p. 50, nt. 117; A. Fernandez Barreiro, La previa informacion del adversario en el proceso privado romano, Pamplona 1969, p. 364, nt. 243; S. Sciortino, Note in tema di falsificazione dei rescritti, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 45.2 (1998), pp. 445-456; tra i paleografi, G. Nicolaj, Documento privato e notariato: le origini, in J. Trenchs (éd.), Notariado público y documento privado: de los orígenes al siglo XIV. Actas del VII Congreso Internacional de Diplomática, vol. II, València 1989, p. 978. Sul contenuto delle elencazioni, cfr. infra.

[6] Cfr. il titolo C. 1.23, De diversis rescriptis et pragmaticis sanctionibus.

[7] Sulle (modeste) varianti del testo, v. Codex Iustinianus. Recognivit et retractavit P. Krüger, Bonn 1914, r. a. Berlin 1954, p. 76.

[8] Che i commissari al lavoro sul Codice possano essere intervenuti su questo testo è un’ipotesi da non scartare, anche in considerazione della libertà con cui le parole edicta sive constitutiones sono state sostituite da beneficia personalia nel provvedimento collocato immediatamente dopo (C. 1.23.4, sul cui contenuto cfr. infra). In generale, su C. 1.23.3 v. G. Broggini, Index Interpolationum quae in Codice inesse dicuntur, Weimar 1969, p. 50.

[9] Su tale significato, cfr., soprattutto, N. Palazzolo, Le modalità di trasmissione dei provvedimenti imperiali nelle province (II-III secolo d. C.), in Iura (Rivista internazionale di diritto romano e antico), 28 (1977), p. 43. Già A. Dell’Oro, “Mandata” e “litterae”. Contributo allo studio degli atti giuridici del “princeps”, Bologna 1960, p. 106, nel senso di allegare “negli atti di causa” e A. Fernandez Barreiro, La previa informacion del adversario en el proceso privado romano, cit., p. 363. Più recentemente, L. Maggio, Note critiche sui rescritti postclassici. 2. L’efficacia normativa dei rescritti ad consultationes e dei rescritti ad preces emissa, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana. XIV Convegno Internazionale in memoria di Guglielmo Nocera, Napoli 2003, p. 374. Non sono peraltro mancate critiche alla ricostruzione di Palazzolo, come in M. Varvaro, Note sugli archivi imperiali nell’età del principato, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo, 51 (2006), pp. 381-431 (anche in Fides Humanitas Ius. Studii in onore di Luigi Labruna, vol. VIII, Napoli 2007, pp. 5767-5818), ma, se abbiamo rettamente inteso, con riferimento alla sola età predioclezianea. Per le opinioni più risalenti, ormai abbandonate, secondo le quali insinuare deve intendersi come “registrare in archivi” imperiali o, viceversa, di funzionari periferici, cfr. le indicazioni di N. Palazzolo, Le modalità di trasmissione dei provvedimenti imperiali nelle province (II-III secolo d. C.), cit., spec. pp. 42-44 e di G. Cencetti, Tabularium principis, in Studi di paleografia, diplomatica, storia e araldica in onore di Cesare Manaresi, Milano 1953, p. 152.

[10] Su tale diffusa opinione cfr. ancora i riferimenti bibliografici indicati in L. Maggio, Note critiche sui rescritti postclassici. 1. Il c.d. processo per rescriptum, cit., p. 285.

[11] Il sostantivo insinuatio, presente nella lingua latina, è utilizzato dagli studiosi nella medesima accezione qui attribuita al verbo (cfr., per tutti, N. Palazzolo, Le modalità di trasmissione dei provvedimenti imperiali nelle province, cit., p. 91). Ci limitiamo a ricordare che si tratta di un termine impiegato anche in differenti contesti, ad esempio con riferimento al documento dei tabelliones (cfr. S. Tarozzi, Ricerche in tema di registrazione e certificazione del documento nel periodo postclassico, Bologna 2006).

[12] Non mancano altri punti di vista. Si è sostenuto che dovesse essere prodotto in giudizio il rescritto autentico e originale anche se lo si intendeva utilizzare come semplice mezzo di prova (così A. Fernandez Barreiro, La previa informacion del adversario en el proceso privado romano, cit., p. 363). Sulla stessa linea anche L. Maggio, Note critiche sui rescritti postclassici. 1. Il c.d. processo per rescriptum, cit., p. 299.

[13] Questa opinione, che fa leva sull’istituto dell’editio rescripti, ha conosciuto un vasto seguito presso gli studiosi. Cfr. L. Maggio, Note critiche sui rescritti postclassici. 1. Il c.d. processo per rescriptum, cit., pp. 286-291 (spec. nt. 7), anche per l’origine di tale orientamento. Circa l’esistenza di uno speciale processo per rescritto, Palazzolo è apparso in seguito più dubbioso (v. N. Palazzolo, Circolazione delle informazioni e modi di essere del diritto, in Studi per Giovanni Nicosia, Milano 2007, vol. VI, p. 15, nt. 27). Dettagli sulla procedura in M. Kaser, K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht2, München 1996, pp. 633-636.

[14] Cfr. L. Maggio, Note critiche sui rescritti postclassici. 1. Il c.d. processo per rescriptum, cit., pp. 294-312, in cui si fa salva un’unica tipologia di processo speciale (il processo per relationem), su cui però v., per tutti, i rilievi critici avanzati in F. Pergami, Amministrazione della giustizia e interventi imperiali nel sistema processuale della tarda antichità, Milano 2007, spec. pp. 42-64.

[15] Così F. De Marini Avonzo, I rescritti nel processo del IV e V secolo, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana. XI Convegno Internazionale in onore di Felix B. J. Wubbe, Napoli 1996, p. 32.

[16] La critica esposta in L. Maggio, Note critiche sui rescritti postclassici. 1. Il c.d. processo per rescriptum, cit., è concentrata sull’età postclassica; per quella giustinianea sembra mancare una presa di posizione netta. U. Zilletti, Studi sul processo civile giustinianeo, cit., p. 48, dichiarava ancora che le fonti “sono estremamente chiare nello scolpire la distinzione fra processo per libellum e processo per rescriptum sulla base del diverso iter introduttivo della lite”, ma maggiormente caute sono le più recenti posizioni, tra gli altri, di F. Goria, La giustizia nell’Impero romano d’Oriente: organizzazione giudiziaria, in La giustizia nell’alto medioevo (secoli V-VIII). 7-13 aprile 1994, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, XLII, I, Spoleto, 1995, ora in P. Garbarino, A. Trisciuoglio, E. Scianderello (a cura di), Diritto romano d’Oriente. Scritti scelti di Fausto Goria, Alessandria 2016, p. 261; di A. Trisciuoglio, «... perché gli attori imparino a non giocare con la vita altrui...». A proposito di Nov. Iust. 53.1.4, in S. Puliatti, U. Agnati (a cura di), Princìpi generali e tecniche operative del processo civile romano nei secoli IV-VI d.C. Atti del Convegno, Parma, 18 e 19 giugno 2009, Parma 2010, p. 164, nt. 6; di L. Migliardi Zingale, L’ekbibastes in età giustinianea tra normazione e prassi: riflessioni in margine ad un papiro ossirinchita di recente pubblicazione, in S. Puliatti, A. Sanguinetti (a cura di), Legislazione, cultura giuridica, prassi dell’impero d’Oriente in età giustinianea tra passato e futuro, Atti del Convegno (Modena, 21-22 maggio 1998), Milano 2000, pp. 231-232, nt. 13; di C. Zuckerman, Les deux Dioscore d’Aphroditè ou les limites de la pétition, in D. Feissel, J. Gascou (éds.), La pétition à Byzance. XXe Congrès International des Études byzantines (19-25 août 2001), Paris 2004, p. 88, nt. 39.

[17] Non ci proponiamo, infatti, di contribuire in questa sede a definire in quale specifico momento del processo fosse da collocarsi la produzione del rescritto e quale valore fosse da attribuire a tale atto.

[18] Un provvedimento emanato dagli stessi imperatori due anni più tardi (C. 9.22.20) chiariva che alla controparte doveva essere notificato non l’“autentico e originale” rescritto, depositato in giudizio, ma un suo exemplum, ossia una copia (si discute se ciò dovesse avvenire a cura dell’attore o del giudice: sul punto cfr., per tutti, N. Palazzolo, Le modalità di trasmissione dei provvedimenti imperiali nelle province, cit., p. 92 e U. Zilletti, Studi sul processo civile giustinianeo, cit., p. 49, con altra letteratura). Il processo non subiva alcuna conseguenza negativa nel caso in cui l’exemplum presentasse una divergenza dovuta ad un errore e non a dolo. Sul termine exemplum cfr. le osservazioni di L. De Sarlo, Il documento oggetto di rapporti giuridici privati. Studio di diritto romano, Firenze 1935, p. 83: il significato di ‘copia’, emergente dal testo in esame, è riscontrabile anche in un passo delle Pauli Sententiae in cui l’exemplum è posto in antitesi all’authenticum (Paul. Sent. 5.12.11). Per exemplum come “copia integra” v. A. Dell’Oro, “Mandata” e “litterae”. Contributo allo studio degli atti giuridici del “princeps”, cit., pp. 109-110, pur nel contesto di una ricostruzione successivamente criticata (su cui v. N. Palazzolo, Le modalità di trasmissione dei provvedimenti imperiali nelle province, cit., spec. p. 91, nt. 179). Esterno alla nostra indagine ma tuttavia degno di menzione è il fatto, peraltro noto, che le accezioni del termine exemplum non appaiono sempre riducibili al concetto di ‘copia’, essendo a volte designati come exempla anche “più documenti in tutto identici, i quali hanno il medesimo contenuto” (così L. De Sarlo, Il documento oggetto di rapporti giuridici privati, cit., p. 82). Numerose leggi imperiali e addirittura il Codice Teodosiano e il Codice Giustinianeo sarebbero rappresentabili come casi in cui un “testo documentario, fin dalla sua emissione, è prodotto in exemplaria plurimi” (v. G. Nicolaj, Exemplar. Ancora note di terminologia diplomatica in età tardoantica, in Papyrologica Lupiensia, Supplemento al numero 24 (2015), p. 359). Sugli “originali” del Codice Teodosiano e sugli “esemplari prodotti in forma autentica” secondo precise modalità di riproduzione e di diffusione previste dal potere centrale, si rimanda, per tutti, a V. Crescenzi, Authentica atque originalia. Problemi critici per l’edizione dei testi normativi, in Initium (Revista catalana d’Història del dret), 8 (2003), spec. pp. 288-302 (cfr. anche pp. 333-349 per la compilazione giustinianea); a Id., Testo originale e testo autentico nella tradizione delle compilazioni normative: il caso del Teodosiano, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana. XVI Convegno internazionale in onore di Manuel J. García Garrido, Napoli 2007, pp. 303-323; a L. Atzeri, Gesta senatus Romani de Theodosiano publicando. Il Codice Teodosiano e la sua diffusione ufficiale in Occidente, Berlin 2008, spec. pp. 221-264.

[19] Cfr. la voce originalis in Thesaurus Linguae Latinae, vol. IX, 2, Lipsiae 1968 - 1981, coll. 978-980, in cui l’uso del termine in C. 1.23.3 riguarda “de scriptis authenticis”; la costituzione di Diocleziano è riportata anche alla voce authenticus in Thesaurus Linguae Latinae, vol. ΙΙ, Lipsiae 1900, coll.1598-1599, senza ulteriori specificazioni circa il suo significato (un calco del greco αὐϑεντιϰός). Gli studiosi di diplomatica hanno fatto notare la differenza con l’accezione moderna del termine, rilevando che “il termine di autentico è di origine greca, da authenteo (= domino assolutamente, ho piena autorità su), e indica in primo luogo e senz’altro ciò che ha in sé potere assoluto ed è in sé e per sé autoritativo, e non a caso nell’uso tardo latino sarà riferito anche a documentazione pubblica” (così G. Nicolaj, Note di terminologia diplomatica: originale, autentico, in B. Attila, D. Gábor, S. Kornél (szerkesztette), Arcana Tabularii. Tanulmányok Solymosi László tiszteletére, vol. I, Budapest-Debrecen 2014, p. 152; v. anche Id., Exemplar. Ancora note di terminologia diplomatica in età tardoantica, cit., p. 355). Sulla sinonimia dei termini ‘autentico’ e ‘originale’, cfr., altresì, tra gli altri, H. Bresslau, Manuale di diplomatica per la Germania e l’Italia, tr. it. A. M. Voci-Roth, Roma 1998, spec. p. 83, nt. 1 e p. 85, con richiamo a Paul. 5 Sent. D. 22.4.2; J. de Ghellinck, «Originale» et «originalia», in Archivium Latinitatis Medii Aevi (Bulletin du Cange), 14.2 (1939), spec. p. 97. Il termine ‘originale’ nelle fonti giuridiche romane assume, quasi sempre, il significato di ‘originario’, ‘indigeno’ (cfr. G. Nicolaj, Note di terminologia diplomatica: originale, autentico, cit., p. 149; per attestazioni dell’uso di ‘autentico’, cfr. pp. 152-156).

[20] Così G. Nicolaj, Exemplar. Ancora note di terminologia diplomatica in età tardoantica, cit., 354, nt. 7. L’A. afferma che C. 1.23.3 “sembra stabilire che siano trasmessi rescritti imperiali assolutamente e di per sé imperativi (authentica) e originanti proprio dall’autore giuridico (originalia), contrassegnati pertanto dalla sottoscrizione autografa dell’imperatore” (Id., Note di terminologia diplomatica: originale, autentico, cit., p. 153). Per l’equivalenza di authenticus “a originalis” nel pensiero della studiosa, cfr. Id., “Originale”, “authenticum”, “publicum”: una sciarada per il documento diplomatico, in A. J. Kosto, A. Winroth (ed.), Charters, Cartularies, and Archives: The Preservations and Transmission of Documents in the Medieval West. Proceedings of a Colloquium of the Commission Internationale de Diplomatique (Princeton and New York, 16-18 September 1999), Toronto 2002, pp. 8-21, anche in Id., Storie di documenti, storie di libri. Quarant’anni di studi, ricerche e vagabondaggi nell’età antica e medievale, Dietikon-Zürich 2013, pp. 113-120.

[21] Gli esperti di diplomatica sembrano differire su un’importante questione di fondo nella definizione – valevole anche per il periodo che ci interessa – del documento “originale”. Cfr. l’esposizione delle due principali tesi in H. Bresslau, Manuale di diplomatica per la Germania e l’Italia, cit., p. 83 e in Th. Sickel, Acta Regum et Imperatorum Karolinorum Digesta et Enarrata. Die Urkunden der Karolinger (...), Erster Theil: Urkundenlehre (...), Wien 1867, spec. p. 13; v. anche Id., Das Privilegium Otto I für die Römische Kirche vom Jahre 962, Innsbruck 1983, p. 37); sulla scia di Sickel, con esplicito riferimento all’età romana e di particolare interesse per il nostro testo, v. G. Nicolaj, Note di terminologia diplomatica: originale, autentico, cit., p. 2. Per le fonti giuridiche, cfr. V. Crescenzi, Authentica atque originalia, cit., con ulteriori riferimenti bibliografici: l’A. si sofferma ad analizzare il concetto di originale come strettamente connesso “alla figura dell’autore” (p. 271), anche di testi normativi (pp. 277-280), e la differenza tra “testo originale” e “testo originario” (pp. 280-283). Circa il concetto di autenticità, egli osserva che “è autentico solo ciò che l’ordinamento costruisce e di conseguenza riconosce come tale”, ossia “soltanto ciò che viene in essere in conformità con le norme che disciplinano l’autenticità” (p. 287), condividendo l’idea già espressa in G. Cencetti, “Archivio”. Progetto di “voce” per vocabolario, di Charles Saraman. Traduzione e osservazioni, in Archivi, 5 (1938), ora in Id., Scritti archivistici, Roma 1970, p. 34, secondo cui l’autenticità è sempre relativa alla “persona” o “ente” per cui una certa scrittura poteva dirsi autentica, “cioè necessariamente credibile”. Ulteriori considerazioni in P. Mari, L’armario del filologo, Roma 2005, spec. pp. 87-91 e 230-235. Con specifico riferimento al Codice Teodosiano, cfr. V. Crescenzi, Testo originale e testo autentico nella tradizione delle compilazioni normative: il caso del Teodosiano, cit., pp. 303-323.

[22] Cfr. sul punto anche E. A. Sophocles, Greek Lexicon of the Roman and Byzantine Periods (from B. C. 146 to A. D. 1100), New York 1900, p. 276, con rimandi ad altre fonti: “Substantively, τὸαὐθεντικόν, authenticum, the original of a document; opposed to ἴσον, copy”.

[23] L’autenticità del documento proveniente dalla cancelleria centrale, munito della subscriptio del principe, non è una caratteristica rilevante solo per i rescritti: si pensi, ad esempio, anche alle sacrae probatoriae, ossia alle patenti imperiali di nomina (cfr. in proposito due costituzioni di Leone riportate in C. 12.59.9 e in C. 12.59.10).

[24] Obbligo disposto espressamente, per l’età giustinianea, da C. 12.60.7. Dalla lettura di quest’ultima costituzione gli studiosi (per tutti, cfr. U. Zilletti, Studi sul processo civile giustinianeo, cit., pp. 49-57 e M. Kaser, K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht2, cit., p. 635, nt. 22, entrambi con altri riferimenti bibliografici) hanno già rilevato che il giudice, secondo un principio valido anche in caso di insinuatio di un rescritto, era tenuto a procedere ad un’istruzione (ἐξετάζειν, come nota U. Zilletti, Studi sul processo civile giustinianeo, cit., p. 50, nt. 117, vale inquirere) volta ad escludere la presenza di un falso (è ciò che qui interessa: “si tratta di verificare l’autenticità del rescriptum, attraverso la ricognizione della esistenza di quegli elementi e requisiti, come ad es. le dovute sottoscrizioni o il medesimo materiale scrittorio, che certificano della legittima provenienza dell’atto della cancelleria imperiale”), di συναρπαγῆς (ossia di obreptio) e di elementi contrari alle leges. Altri dettagli sulla procedura in U. Zilletti, Studi sul processo civile giustinianeo, cit., pp. 51-57.

[25] È del tutto evidente che la natura di autenticità e originalità del rescritto (‘falsità materiale’) è problema distinto dall’eventuale falsità delle allegazioni che hanno indotto l’imperatore a concederlo. Sul sentito problema della ‘falsità ideologica’, si rimanda alle costituzioni in C. 1.22 (Si contra ius utilitatemve publicam vel

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