Sacramental seal, priest-penitent privilege and obligations to report: the reasons behind the safeguard of the secrecy between Canon law and State law

Sigillo sacramentale, segreto ministeriale e obblighi di denuncia-segnalazione: la ragioni della tutela della riservatezza tra diritto canonico e diri

26.02.2020

Geraldina Boni

Professore Ordinario di Diritto Canonico e Diritto Ecclesiastico,

Alma Mater Studiorum, Università di Bologna

 

Sigillo sacramentale, segreto ministeriale e obblighi di denuncia-segnalazione: la ragioni della tutela della riservatezza tra diritto canonico e diritto secolare, in particolare italiano*

 

English title: Sacramental seal, priest-penitent privilege and obligations to report: the reasons behind the safeguard of the secrecy between Canon law and State law, namely in Italy

DOI: 10.26350/18277942_000003

 

Sommario: PARTE PRIMA: 1. Sigillum confessionis, secretum, intimitas, segreto, riservatezza, privacy: definire e delimitare ma non tracciare invalicabili confini in una prospettiva interordinamentale. - 2. Un tema ‘classico’ sul quale oggi urge una rinnovata riflessione giuridica alla luce di recenti sviluppi sullo scenario nazionale e mondiale. - 3. La disciplina del ‘segreto ministeriale’ in Italia nella normativa unilaterale e in quella bilaterale: status quaestionis… - 4. Segue: …con particolare riferimento agli interessi tutelati, tra ordinamento canonico e ordinamento italiano. - 5. Orientamenti giurisprudenziali ‘eversivi’: loro infondatezza e impellenza di interventi correttivi. - 6. Una digressione minima: il chierico del Terzo Millennio. PARTE SECONDA: - 7. La lotta alla ‘piaga della pedofilia’ nel panorama internazionale: possibili derive. - 8. Le risposte del diritto canonico universale, in particolare l’obbligo di segnalazione-denuncia: criticità. - 9. Una parentesi: le Linee guida della Conferenza Episcopale Italiana. - 10. I rischi di debilitazione della salvaguardia del segreto ministeriale. La Nota della Penitenzieria Apostolica sull’importanza del foro interno e l’inviolabilità del sigillo sacramentale del 29 giugno 2019. - 11. Le ragioni e le strategie della tutela: dalla specificità del bene canonisticamente presidiato all’invocazione del regime generalmente riconosciuto, dalla rivendicazione (massima e desiderabile) della differenza alla pretesa (minima ma irrinunciabile) all’uguaglianza. L’‘ultima trincea’. - 12. Exitus.

 

PARTE PRIMA

  1. Sigillum confessionis, secretum, intimitas, segreto, riservatezza, privacy: definire e delimitare ma non tracciare invalicabili confini in una prospettiva interordinamentale

 

La Chiesa cattolica è sovente dipinta come ammantata di una segretezza torbida e torva; e se a volte queste accuse di esorbitante eccesso nel precludere irremovibilmente ad esterni la conoscenza di quanto avviene entro la ‘cinta’ della sua giurisdizione[1] non erano del tutto prive di ogni fondamento, soprattutto nel passato, la nomea sinistra delle ‘segrete inquisitoriali’ è davvero invincibilmente resistente all’usura. L’evocazione proprio dell’Inquisizione non è casuale: certamente una ‘pagina nera’ della storia ecclesiale, ma la cui truce ‘leggenda’ è stata oltremodo nutrita e resa più oscura e terribile proprio dall’insensata e inestinguibile riluttanza ecclesiastica a divulgare atti processuali che potevano tranquillamente essere resi noti: tra l’altro non raramente permeati da un garantismo per l’accusato del tutto inesistente nei coevi tribunali secolari. Del pari la segretezza di cui talora sono avvolti principalmente e ancora i processi penali canonici rischia di alimentare una cattiva fama che, invece, risulta in gran parte ingiustificata: segretezza a volte essenziale, specie laddove sia volta ad assicurarne il corretto andamento e prioritariamente a non ledere la buona fama dell’indiziato o dell’imputato[2], ma, per contro, non di rado, specie a processo concluso con sentenza definitiva, soverchiante e superflua perché non sostenuta da idonee ragioni.

La segretezza non va solo attentamente dosata, circoscrivendola esclusivamente allorquando si dimostri assolutamente imprescindibile a preservazione di interessi non sacrificabili: a pena altrimenti di un effetto boomerang devastante. Lo avvertiva già, nel (davvero) remoto 1971, l’Istruzione pastorale Communio et progressio[3], con una premonizione stupefacente in un’‘era’ in cui ancora non era neppure baluginata la propagazione dei mass media e l’avvento di internet. Ma, allorquando adottata, di essa vanno anche chiaramente esplicate e fatte comprendere le motivazioni. Spesso, infatti, siamo fermamente convinti che al fondo dell’infittirsi e dell’avvilupparsi delle problematiche relativamente a questa materia si situi un ‘cortocircuito’ di incomprensione che rende il dialogo della Chiesa con il ‘mondo circostante’, già talora in sé venato di inimicizia e di astiosità, arduo e non di rado assai estenuante oltre che doloroso per chi ne risulta implicato.

E anzitutto, proprio nell’ottica della chiarificazione, occorre intendersi sulla terminologia. Un vocabolo, quello di ‘segretezza’ che, come esordivamo, se non rimanda a narrazioni inquietanti e lugubri, certo è nimbato e in qualche modo inquinato da una cortina di negatività che è complicato, se non quasi impossibile, dissolvere. Mentre, invece, sempre per quelle ‘giunture’ imponderabili di cui la storia è ricca - e per la cui non semplice decifrazione rinviamo a chi professionalmente si occupa dell’evoluzione dei fenomeni sociali - la parola ‘riservatezza’, ma anche il lemma inglese privacy (o anche confidentiality) sono maggiormente rassicuranti, ispirano quasi affidamento, attirando universale adesione. Non paiono, inoltre, confliggenti e diametralmente incompatibili con quella ‘trasparenza’, ormai idolatrato mito della post-modernità[4], che tutto dovrebbe impregnare e verso cui dovrebbe convergere l’impegno di ognuno: anche della Chiesa[5]. Già nel sentire comune, poi, la persona riservata riscuote simpatia, coltiva una virtù da apprezzare e valorizzare: per converso chi conserva il segreto ha qualcosa di losco, disonesto e indegno da nascondere.

Non sono, le riflessioni di quest’incipit, un divertissement ozioso o solo suggestivo. Al contrario reputiamo che disquisire di tutela della riservatezza, piuttosto che di tutela del segreto[6], rappresenterebbe già un primo passo per una delucidazione piena della ratio che impronta l’istituto di cui intendiamo occuparci in questa esposizione. D’altronde, proprio per far cessare ‘malintesi semantici’, Papa Francesco, nell’ottobre del 2019, ha cambiato la sola denominazione del pluricentenario Archivio Segreto Vaticano in Archivio Apostolico Vaticano, motivando con la cupa colorazione e il pregiudizio che attornia il termine secretum[7]. Anche quanto al nostro ambito di interesse accantonarlo agevolerebbe nell’eliminazione di posizioni intrise di prevenuta avversione e, al fondo, di ignoranza circa la natura del medesimo ed i valori alla cui salvaguardia è indirizzato: appropinquandoli invece opportunamente ad altri valori sui quali confluisce un corale consenso. Senza con ciò, beninteso, volerci in alcun modo avventurare nelle eterogenee e mutevoli ‘sembianze’, anche normative, che la stessa riservatezza ha assunto negli ultimi decenni anche solo in Italia[8]. È del resto vero, si potrebbe obiettare per quanto propriamente concerne la disciplina giuridica degli ordinamenti secolari, che altra cosa è il ‘segreto’ - declinato poi a sua volta in un’ampia congerie di segreti distinti, anche se a volte complementari -, altra la ‘riservatezza’, altra la privacy. Così come, sullo speculare versante canonistico, a parte il peculiarissimo sigillum confessionis, altro è il secretum - anche qui articolato in quello correlato al foro interno extra-sacramentale ovvero alla direzione spirituale, nel secretum pontificium e in altri obblighi di segreto variamente configurati a seconda dell’ambito di riferimento, dal processo al matrimonio alla conservazione e gestione di registri e archivi -, altro il riserbo e la difesa dell’intimitas. E tuttavia, pur potendosi e dovendosi accuratamente sceverare le differenti specificità e il conseguente modularsi dei registri giuridici (e a ciò anche noi ci accingeremo, sia pur in estrema sintesi), paventiamo che certe distinzioni troppo sottili rischino non solo di offuscare i legami esistenti, neppure troppo reconditi, ma di ottenebrare la chiarezza del quadro giuridico: apparendo tra l’altro, non di rado, in assenza di ancoraggi normativi precisi che fungano da ponte tra gli ordinamenti più disparati, costruite schematicamente e ‘a tavolino’ dalla dottrina, la quale perciò si mostra largamente discorde nelle premesse e nei risultati. Tra l’altro ormai la disputa su questi temi non è più segregata nella cerchia delle dotte e sofisticate elucubrazioni dei giuristi, ma è divenuta una rumorosa bagarre coram populo ove spesso anche proprio le inflessioni linguistiche esercitano un loro peso.

Una ferrea rigidità di confini tra istituti giuridici pare, infine, aprioristicamente da escludersi in ragione proprio di quell’ottica interordinamentale che si impone necessariamente in ragione della connessione ineludibile tra il diritto e le esigenze della Chiesa cattolica e dei christifideles da una sponda, e, dall’altra, i diritti degli Stati entro i quali essi operano, cui devono ottemperare e coi quali si devono rapportare[9]. Il bene da difendere, infatti, trae origine saldamente in un ordinamento, quello canonico, e qui viene provveduto di garanzie, le quali, però, devono rinvenire poi un puntello ed un’adeguata rispondenza in norme secolari; a pena, altrimenti, che quelle garanzie, su alcune delle quali invece non si può patteggiare o, peggio, capitolare, vengano inghiottite nell’empireo delle aspirazioni - quanto si vuole legittime - deluse, e dei reclami - quanto si vuole sdegnati - inascoltati: a scapito dei cittadini al contempo fedeli.

Ma soprattutto - e qui, sia pur parzialmente, preannunciamo una delle conclusioni cui approderemo - siamo persuasi che, nel contesto odierno, le ragioni della tutela degli interessi plurimi sottesi al mantenimento, in certi casi, di un’intransigente riservatezza debbano rinvenire, anzi ritrovare un essenziale fondamento unitario nell’incrocio tra ordinamento ecclesiale e ordinamenti civili, il solo in grado di conservare robustezza e solidità: senza, con questo, sminuire le ragioni ecclesiali, al fondo di diritto divino, naturale o rivelato, ma in modo che le strategie da adottare dinanzi agli attentati ed alle cedevolezze che attualmente minano tale tutela fino a comprometterla possano davvero essere efficaci nella temperie dell’hic et nunc. Efficaci perché ben radicate, efficaci perché condivise: efficaci, infine, perché pienamente conformi a giustizia.

 

  1. Un tema ‘classico’ sul quale oggi urge una rinnovata riflessione giuridica alla luce di recenti sviluppi sullo scenario nazionale e mondiale

 

Come premesso, l’ambito tematico implicato dalla sfaccettata normativa sul segreto con riferimento specifico alla condizione della Chiesa cattolica[10] nonché, più in generale e laddove sia opportuno un riferimento, delle altre confessioni religiose è alquanto multiforme: innestandosi poi nelle poliedriche coordinate giuridiche del segreto[11], «tipico concetto di relazione»[12]. Attesa quindi l’impossibilità di un esaustivo «viaggio attraverso le vaste province del segreto»[13], e dunque in una rassegna che desidera unicamente schizzarne i contorni, e solo in relazione alla porzione prescelta - invero minima se commisurata all’immensità del tema, trasversale a tutti i rami del diritto -, possiamo rammentare che, ex parte Status, segnatamente italiano, è oggetto di attenzione specialmente, quanto al ‘fatto religioso’, il segreto nelle comunicazioni e nella corrispondenza, nonché quello in relazione al trattamento dei dati personali: comparti entrambi - in special modo l’ultimo, per le inarrestabili innovazioni normative, anche quelle incisive dello scorso anno nell’Unione Europea[14] - postulanti un prisma di profili problematici diversificati dal punto di vista giuridico, sui quali ha indugiato un’abbondante letteratura.

Ex parte Ecclesiae, poi, le norme sul segreto spaziano dal diritto del fedele alla propria buona fama e intimità (can. 220[15]), a quei numerosi precetti che, appunto al fine di non pregiudicarlo, lo declinano nel dispiego delle attività di tipo informativo e processuale (ad esempio i cann. 269[16], 645, 699; i cann. 1339, 1546, 1602, 1719[17]), fino alla normativa relativa alla destinazione di certi atti all’archivio segreto (regolato dai cann. 489-490[18]: cfr., ad esempio, can. 413 § 2[19]). Ancora, si trascorre dall’indiretta e fugace recezione positiva del segreto professionale (laddove, al can. 1548 § 2 n. 1, si esimono dall’obbligo della testimonianza in giudizio - oltreché i chierici per quanto conosciuto in ragione del proprio ministero - magistrati, medici, ostetriche, avvocati, notai), all’assai ingente normativa sui rapporti tra la funzione ricoperta e le varie fattispecie di segreto ad essa riferibili: e qui, ulteriormente, si va dal segreto d’ufficio vero e proprio (degli addetti alla curia diocesana: can. 471; dei giudici, uditori e, in casi particolari, di testimoni, parti e avvocati nei processi: cann. 1455, 1457, 1609), alle disposizioni poste, sempre al riguardo, per le modalità di accesso a certi incarichi (oltre alla segretezza del voto nel suffragio elettivo: can. 172), come per le nomine episcopali (ad esempio il can. 377), per giungere alla designazione del successore di Pietro, ove il segreto è minuziosamente imposto nella normativa extracodiciale sul conclave[20]. Da non dimenticare, in questa veloce carrellata,il segreto afferente all’attività della Curia romana, ovvero quel secretum pontificium[21] la cui disciplina, anch’essa extra Codicem[22], da tempo e da più parti si vorrebbe sottoporre ad una qualche rettifica[23], almeno allo scopo di renderne più limpida la strumentalità alla libertà non abdicabile del munus petrinum[24]. E invero Papa Francesco ha già apportato alcune modifiche: una nel 2016 passata pressoché inosservata[25], e quella del dicembre 2019 a proposito dell’‘abolizione’ del segreto pontificio per «le denunce, i processi e le decisioni» relativi a delitti concernenti prevalentemente gli abusi sessuali - ai quali in seguito faremo riferimento -, che è invece rimbalzata largamente (e acclamata) sui media internazionali[26].

Sempre in questo giro d’orizzonte si perviene quindi - e ci avviciniamo al nucleo del nostro ragionare - al segreto connesso ad alcuni sacramenti quali anzitutto la confessione ma anche al foro interno extra-sacramentale (sui quali qui momentaneamente soprassediamo essendo oggetto preminente di questa trattazione[27]), e al matrimonio (cann. 1130-1133; 1159). Davanti a tale architettura imponente di norme che dall’amministrazione trascorre al processo fino appunto al munus sanctificandi[28], la canonistica si è cimentata largamente, investendosi d’altronde ambiti dai quali non raramente filtra con nitore l’afferenza teleologica alla suprema lex ordinamentale della salvezza oltremondana[29]: soprattutto proprio nell’ultimo che abbiamo enumerato, che tocca immediatamente i bona Ecclesiae e la cura animarum.

La normativa confessionale e quella statuale, tuttavia, non restano tra loro appartate come monadi disinteressate l’una all’altra, ma si sovrappongono, si influenzano reciprocamente, si ibridano: e anzitutto si uniscono in qualche modo nelle disposizioni concordatarie. Una disamina che non ne tenesse conto risulterebbe certamente avvincente - forse anche assai erudita nell’approfondimento - ma, per la maggior parte dei problemi concreti che si agitano in materia, mutila e incapace di prospettare soluzioni: e questo senza ingenuità o presunzione, ma con la consapevolezza umile che si tratti di proposito oltremodo ambizioso e temerario nella complessità giuridica odierna.

Naturalmente la disamina va in qualche modo perimetrata: così, pur talora istituendo i dovuti collegamenti tra settori contigui, allorquando proficui, noi ci concentreremo sul tema, in questo momento più che mai nevralgico e rovente, delle deroghe all’obbligo della testimonianza a favore dei ministri di culto, in specie della Chiesa cattolica, nel diritto italiano in congiunzione con quello canonico. Anche questa una materia ‘classica’ e diffusamente esplorata, ma che merita una rinnovata considerazione specificamente nel contesto italiano, sia pur rapportato con le ‘epifanie’ di tale scottante problematica a livello planetario, oggi non più sottovalutabili anche proprio nelle loro multiple rifrazioni: se nel 1999 Rafael Palomino poteva - nella sua monografia incentrata sul tema - designare la protezione giuridica di questo segreto come una problematica del diritto «en pie de guerra»[30], attualmente davvero la conflagrazione è intercontinentale.

Nel panorama internazionale, infatti, la cronaca dà giornalmente conto di attacchi sempre più serrati al segreto ministeriale e della confessione, laddove - in particolare, di recente, in Irlanda, Stati Uniti, Australia, Belgio, India, Cile[31] -, sovente cavalcando il disagio suscitato dallo scandalo della ‘pedofilia’[32] all’interno della compagine ecclesiastica e dalle negligenze e ‘coperture’ che avrebbero permesso, oltre a recidive ancor più deleterie, una vergognosa impunità, si sono avanzati progetti di legge (alcuni invero giunti o in procinto di arrivare implacabilmente in porto nonostante le diffuse opposizioni[33]) per coartare i sacerdoti a rompere e profanare persino il sigillo sacramentale. D’altronde non da oggi vari Paesi, per lo più rientranti nell’area del common law, sono refrattari - almeno in qualche caso[34] - a non pregiudicare il ‘segreto religioso’[35], che viene senza remore sacrificato sull’altare del maggior bene sociale e dell’ordine pubblico, così come peraltro autoreferenzialmente concepiti dai magistrati statuali.

E se è vero che negli ultimi mesi si sono ‘sventate alcune aggressioni’[36], inducendo al ritiro di proposte di legge che avevano sollevato forti contestazioni, lo scontro sta divenendo oltremodo virulento, non risparmiando nessuna ‘piazza’. Comunque sia, anche sul nostro suolo nazionale ci sono indizi inquietanti che non vanno minimizzati: alludiamo ad una recente sentenza della Corte di Cassazione che ha segnato una drastica svolta negli orientamenti sinora consolidati e tutto sommato soddisfacenti. Di essa, pure accolta criticamente da dottrina avvertita, non si sono, a nostro avviso, afferrati appieno i corollari che non esiteremmo a definire eversivi: i quali si inseriscono in maniera eclatante in questo allarmante trend globale. Ma prima di inoltrarsi entro tali ultime ‘derive’ può essere conveniente sintetizzare concisamente lo status quaestionis relativamente alla ‘situazione giuridica’ italiana.

 

  1. La disciplina del ‘segreto ministeriale’ in Italia nella normativa unilaterale e in quella bilaterale: status quaestionis

 

Come noto, l’espressione ‘segreto professionale del ministro di culto’ o ‘di confessione religiosa’[37] è stata disapprovata sotto diversi profili, ma è a tutt’oggi quella invalsa e comunque preferibile, allorquando ben contestualizzata, come vedremo, rispetto ad altre, pur talora utilizzate, quali ‘segreto d’ufficio’, ‘segreto confessionale’, ‘segreto religioso o religiosamente motivato’: il range delle opinioni dottrinali è comunque assai screziato. A nostro parere forse l’espressione più adeguata, consentanea al lessico legislativo e che dovrebbe altresì consolidarsi nell’uso, è quella di ‘segreto ministeriale’ che fa richiamo alla qualifica del soggetto che lo eccepisce[38]: anzi, come abbiamo in precedenza spiegato (ma sul punto torneremo), si dovrebbe parlare, proprio per dipanare ambiguità e preconcetti, di ‘riservatezza ministeriale’.

Per quanto afferisce al quadro normativo in Italia[39], esso è disegnato dall’art. 200 del Codice di Procedura Penale (C.P.P.)[40] primo comma lett. a), secondo il quale «Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria: /a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano […]»[41]. Questi ultimi, dunque, hanno la facoltà di astenersi dal dovere di testimoniare; la norma, che acclude quello ministeriale tra i segreti professionali di cui alla rubrica dell’articolo medesimo, è ubicata infatti nell’ambito della disciplina della testimonianza, accanto ad altre ‘tipologie’ di segreti (familiare, d’ufficio, di Stato, di polizia), posti quali limiti alla piena operatività del suddetto mezzo di prova[42]. Inoltre, quale ulteriore tassello, l’art. 256 del medesimo Codice disciplina l’esibizione e il sequestro degli atti e documenti inerenti al segreto professionale e prevede che i ministri di culto possano declinare la consegna intimata dall’autorità giudiziaria, dichiarando per iscritto che si tratta appunto di segreto inerente al loro ufficio o professione[43]: il segreto, quindi, da semplicemente ‘orale’ diviene ‘documentale’[44]. La tutela processuale del segreto trova peraltro un rafforzamento o comunque un ‘contrappunto’ nel diritto sostanziale[45], laddove, ai sensi dell’art. 622 del Codice Penale (C.P.)[46], si fa divieto di rivelazione a chiunque abbia avuto notizia di un segreto per ragione del suo stato, ufficio o della propria professione o arte[47], e la rivelazione del medesimo è punita quando sia avvenuta senza giusta causa[48], se dal fatto può derivare nocumento[49].

Ma, per quanto concerne la Chiesa cattolica cui particolarmente facciamo riferimento, al diritto statale unilaterale deve abbinarsi l’art. 4 n. 4 dell’Accordo di Villa Madama[50] - reso esecutivo con la legge n. 121 del 25 marzo 1985[51] - per il quale gli «ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero»[52]. Emerge immediatamente che l’ambito applicativo della previsione bilaterale si estende ben oltre la testimonianza, coprendo qualsivoglia contesto in cui si ponga un problema di richiesta-rivelazione di dati conoscitivi: si tratta invero di una norma che incastona un principio generale idoneo a ricomprendere la generalità dei mezzi di prova ad oggi sussistenti, non meno di strumenti investigativi futuri resi disponibili dal progresso tecnologico[53].

Non volendo qui vergare un trattato scientifico su questo istituto al quale già altri hanno egregiamente provveduto[54], ci limitiamo in questa sede ad alcune osservazioni propedeutiche alle considerazioni che intendiamo svolgere. Così, notiamo che tra le due prescrizioni, l’art. 200 C.P.P. e l’art. 4 n. 4 del Concordato del 1984 appena riportato[55], si registrano varie consonanze: anzitutto «nel configurare il segreto del ministro di culto alla stregua di facoltà di astensione dal deporre anziché di divieto di deporre o di essere sottoposto ad esame - il che sgombra il campo da ogni dubbio sulla legittima utilizzabilità a fini di prova delle dichiarazioni che i titolari del predetto segreto […] rendano spontaneamente»[56], mentre, viceversa l’abrogato art. 7 del Concordato del 1929 «si prestava ad una lettura più rigida, tale da configurare un radicale divieto di testimonianza»[57]. Ma, già prima facie, si notano divaricazioni testuali incisive sulle quali dottrina e giurisprudenza si sono sperimentate a lungo: ad esempio per raffrontare, quanto a ‘volume’ soggettivo, la qualifica di ‘ministri di confessioni religiose’, la quale compare nell’art. 200 del Codice di rito, e ‘ecclesiastici’ che è invece usata nell’art. 4 dell’Accordo di Villa Madama. Senza qui diffonderci sul diverbio per nulla accademico al fine di sincronizzare i contenuti dei due lemmi e sul quale altrove abbiamo indugiato[58], segnaliamo solo che resta tuttora conteso se, quanto alla Chiesa cattolica, godano dello ius tacendi, per così dire, esclusivamente i sacerdoti, ovvero anche tutti i chierici o i consacrati non ordinati in sacris, ed altresì alcuni laici, laddove investiti di certe ‘funzioni ministeriali’.

Si conviene invece, non diversamente dagli altri segreti professionali, sul nesso di causalità che deve sussistere tra l’apprendimento della notizia su cui è chiamato a deporre l’ecclesiastico e l’esercizio del suo ministero: non sono, quindi, coperte da segreto le informazioni conosciute come comune cittadino o rivelate a puro titolo di amicizia, o percepite in modo del tutto occasionale e fortuito, oppure anche fornite al ministro al solo scopo di abusare fraudolentemente della garanzia del segreto. Sono poi significativi - soprattutto per ciò che osserveremo in seguito - ulteriori allineamenti alle altre ipotesi enumerate dall’art. 200 C.P.P. Si è infatti concluso che «già su un piano generale - a prescindere, quindi, dalla posizione specifica del ministro di culto - nessun limite al segreto professionale possa ravvisarsi nell’obbligo di denuncia posto dall’ordinamento a carico dei privati. In caso contrario, almeno fino all’introduzione dell’apposita esenzione di cui all’art. 334 bis c.p.c., risalente solo alla legge 7 dicembre 2000, n. 397, perfino il difensore dell’imputato di un reato a ‘denuncia obbligatoria’ sarebbe stato paradossalmente costretto alla delazione del suo assistito, in totale dispregio del diritto di difesa costituzionalmente garantito. Ne segue che il limite ex art. 200, comma 1, c.p.p. va circoscritto alle situazioni in cui il professionista, in quanto tale o in quanto qualificabile come pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, non in quanto quivis de populo, sia tenuto a riferire all’autorità giudiziaria»[59]: omnibus perpensis non sembra pertanto che il segreto del ministro di culto possa trovare limiti in obblighi concernenti la notizia di reati[60]. Così come si può continuare ad opporre qualunque di questi segreti anche allorquando l’informazione sia divenuta di pubblico dominio[61].

Rimarchevole - e, nella prospettiva qui perlustrata, cruciale - la divergenza insorgente, per contro, dal tenore del secondo comma dell’art. 200 C.P.P. secondo cui «Il giudice, se ha motivo di dubitare che la dichiarazione resa da tali persone per esimersi dal deporre sia infondata, provvede agli accertamenti necessari. Se risulta infondata, ordina che il testimone deponga»[62]: previsione assente nella revisione del Concordato lateranense firmata al termine di prolungate e laboriose trattative (e così anche in varie intese concluse, ex art. 8 terzo comma della Costituzione, con altre confessioni religiose[63]). Non ci si diffonderà ora sulla diatriba che ha visto il discostarsi ed anzi il moltiplicarsi delle opinioni dottrinali. Nonostante personalmente siamo dell’avviso che il brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit ricopra un calibro interpretativo assai accentuato in specie nelle stipulazioni bilaterali quali quelle concordatarie[64], e senza voler accedere seccamente alla tesi - invero non affatto peregrina ed avventata - per la quale la normativa di derivazione pattizia come legislazione ‘rinforzata’[65], oltre che lex in qualche modo specialis[66] contenente precetti ad hoc[67], faccia aggio su quella unilaterale ordinaria attribuendo all’ecclesiastico una facoltà ‘assoluta’ dispensata da ogni supervisione, riteniamo peraltro che almeno si possa dar credito alla posizione più ‘moderata’, patrocinata da cospicua parte della dottrina ecclesiasticistica. Si obietta infatti che «La prevalenza legittimamente riconosciuta al diritto pattizio nei rapporti tra fonti di produzione unilaterale e bilaterale non sembra […] tale da impedire all’atto dell’applicazione della norma nell’ordinamento dello Stato l’esercizio da parte dell’autorità competente di quel minimo di controlli necessari a stabilire se ricorrano effettivamente i presupposti su cui si fonda la fattispecie invocata. Esame da limitarsi ovviamente a circostanze esteriori senza incorrere in valutazioni di merito inevitabilmente lesive dell’indipendenza e dell’autonomia confessionale»[68]. In questa visuale i poteri di sindacato esplicabili da parte del magistrato statuale dovrebbero eminentemente vertere - assodato il possesso della qualifica de qua - sul «semplice accertamento del nesso causale tra apprendimento della notizia ed esercizio della professione»[69]: e sempre con cautela e prudenza per non debordare in immistioni nell’organizzazione interna, segnatamente della Chiesa cattolica, le quali, tra l’altro, sarebbero in flagrante contraddizione con quanto suggellato dalla Costituzione[70]. Una voce certo non imputabile di accondiscendenza nei confronti delle autorità ecclesiastiche ha puntualizzato che le «differenze […] tra esercizio delle professioni ed esercizio del ministero sacerdotale inducono a ritenere quanto meno doveroso (sul piano del diritto) un self restraint dei poteri del giudice chiamato a quell’apprezzamento, di modo che la norma sia interpretata ed applicata in modo quanto più conforme possibile alla ratio ed alla disposizione della norma pattizia»[71].

Ma anche altra dottrina, sul presupposto che la norma imponente il controllo di fondatezza da parte del giudice, «dovendo coinvolgere i requisiti fondanti la tutela del segreto onde poterne valutare la concreta sussistenza, va a toccare aspetti prettamente interni alla confessione religiosa»[72], osserva come anche a prescindere dalle disposizioni pattizie, «- e quindi, per ipotesi, anche qualora non fosse stata approvata alcuna intesa e non vigesse un Concordato con la Chiesa cattolica - [sia] evidente che essa si pone in termini di difficile conciliabilità con il principio di autonomia confessionale sancito dall’art. 7 co. 1 e dall’art. 8 co. 2 Cost. nella misura in cui consente ad autorità statali di sindacare profili intrinsecamente connessi alle regole proprie dei diversi gruppi religiosi. Nel tentativo di risolvere la quaestio, si tende diffusamente a sostenere che il controllo giudiziale debba limitarsi a dati estrinseci e minimali, circoscritti alle circostanze di fatto in cui è stata appresa la notizia»[73]. D’altro canto, gli stessi processualpenalisti, e significativamente in rapporto a tutti i segreti professionali senza distinzioni, sono propensi - come ancora vedremo - a porre insormontabili barriere al suddetto potere di sindacato dei giudici, il quale dovrebbe concretarsi, oltre al controllo che il soggetto rientri nelle categorie previste, nella sola valutazione della causalità ovvero della connessione funzionale della conoscenza con lo svolgimento di una professione o di un ministero[74]: «Le esigenze di tutela dei diritti di libertà che sono richiesti nello svolgimento delle professioni contemplate dall’art. 200 c.p.p., infatti, conducono a ritenere che la decisione di cui si tratta sia lasciata alla discrezionalità - eventualmente vincolata dalle norme dell’ordinamento alle quali il soggetto appartiene - del testimone il quale dovrà interrogare la sua coscienza per stabilire quale sia, nel caso concreto, il comportamento più adeguato da serbare»[75]. Ciò che vale per tutti non può perciò non valere, in riferimento a ciò che abbia appreso ‘per ragione del proprio ministero’, per il ministro del culto: e forse a maggior ragione stante, oltre ai principi costituzionali, il disposto concordatario, il quale non può comunque eclissarsi tamquam non esset.

A questo riguardo è inoltre del tutto pacifico - e non da oggi[76] - che non potrà operarsi, nel contesto del processo statale, distinzione alcuna tra notizie apprese in occasione della confessione sacramentale e altre pure ascrivibili al ministero[77], essendo la norma del Codice di Procedura Penale rivolta ai ministri di tutte le confessioni religiose e non unicamente della Chiesa cattolica, alla quale, pressoché esclusivamente, pertiene il sigillum confessionis. Ad essa non potrebbe quindi essere riservato un trattamento deteriore, concedendo garanzie da invasioni indebite solo ad un ‘tipo’ di segreto alquanto più ‘angusto’ rispetto a quello salvaguardato per le altre confessioni: un rilievo, questo, dirimente e che, come suole dirsi, ‘taglia la testa al toro’, benché, come constateremo partitamente in seguito, riemergano - sia pur surrettiziamente - tentativi di porlo nel nulla.

Infine, l’‘ecclesiastico’, come già emerso, tenuto a comparire se regolarmente citato, è, come del resto gli altri professionisti, facultato ma non obbligato[78], sul piano del contegno processuale, a tacere sempre le informazioni apprese: potrebbe appunto decidere, e sempre secondo la propria coscienza, di non allegare il segreto e di non astenersi dal deporre, prestando volontariamente testimonianza. Questo nonostante l’obbligo del segreto da cui è astretto ex art. 622 del Codice Penale di cui il loquens sua sponte, per così dire,dovrà eventualmente rispondere[79] (come del resto della veridicità di quanto afferma)[80] ma «con una sfera di applicazione […] destinata, secondo l’opinione preferibile, a non incidere direttamente sulla validità dell’atto processuale compiuto in sua violazione»[81]: e nonostante, nel caso particolare, i doveri di silenzio e riservatezza imposti dal diritto dell’ordinamento confessionale, quindi dallo ius canonicum, la cui rilevanza resta peraltro confinata entro il medesimo[82].

 

  1. Segue: …con particolare riferimento agli interessi tutelati, tra ordinamento canonico e ordinamento italiano

 

Ma, al di là degli incisivi parallelismi pur tra disparità redazionali con correlate dissonanze disciplinari, l’affiancarsi della prescrizione concordataria al diritto processuale italiano ci pare debba precipuamente riflettersi sulla focalizzazione dell’interesse sul quale il segreto ministeriale può e deve vigilare e che deve incentivare. Anzi, questa è probabilmente la ragione prima che ne ha determinato l’ascrizione - certo non superflua e ad pompam - nel corpus delle pattuizioni tra Italia e Santa Sede.

Generalmente infatti, almeno finora[83] - ed anche qui ci esoneriamo da un più esauriente esame, rinviando alla letteratura citata nelle note -, e salvo quanto più oltre rileveremo, la ratio che sorregge le forme di tutela del segreto professionale incluse nel Codice di rito viene fatta riposare sul beneficio del singolo individuo, in virtù altresì di una colleganza col diritto sostanziale di cui al ricordato art. 622 C.P.[84]: questi sarebbe ‘costretto’ a confidarsi per fruire di servizi professionali specializzati contrassegnati (oltre che da una certa ‘tecnicalità’) da un rapporto schiettamente e strettamente fiduciario e insurrogabili per la realizzazione di sue libertà e di suoi diritti corredati dell’intangibile guarentigia predisposta direttamente dalla Costituzione[85]. Tuttavia tale angolatura, pur dilatata, risulta parziale, ristretta e, in definitiva, incoerente se si trapassa al piano dei contatti interordinamentali.

Qui la disposizione concordataria richiama la duplice afferenza e la duplice portata dell’operato del ministro di culto: nell’ordinamento italiano e in quello della Chiesa cattolica, i cui tratti di ‘indipendenza’ e ‘sovranità’ riconosciuti dal primo comma dell’art. 7 della Costituzione, sono confermati, tra l’altro, dalla firma di un trattato internazionale; abbiamo altrove abbondantemente setacciato e soppesato gli equilibri di tale ‘coesistenza’ e qui sorvoliamo[86]. Va ora ribadito come la facoltà concessa dal suddetto art. 4 n. 4, acconciamente inquadrata in questo contesto, «miri a salvaguardare in primo luogo e direttamente il ministro di culto, affinché egli sia messo in condizione di rispettare quei precetti confessionali che circondano di garanzie di assoluta riservatezza il compimento di determinati atti di culto (confessione sacramentale) e di compiere liberamente atti che implicano, per loro natura, margini piuttosto ampi di autonomia e non ingerenza da parte dei poteri statali»[87]. Pertanto, all’interesse di colui che si è confidato si aggiunge e si integra quello del soggetto ‘esponenziale’ che all’ordinamento confessionale ‘pertiene’ ed a cui, per così dire, ‘risponde’. Non solo però. Riteniamo infatti che valga la pena in qualche modo avviare, più che un superamento, un’integrazione di tale lettura cui è giunta la riflessione dottrinale e che è ormai acquisita[88], al fine di porre in luce come l’oggetto della tutela possa e debba eccedere ed oltrepassare anche questo aspetto, pure non secondario ma sempre individuale, per sfociare nella considerazione di un interesse che involge la Chiesa tutta, e non soltanto (anzi non tanto) nel suo aspetto gerarchico, al contrario altresì proprio della Chiesa come populus Dei: un interesse, cioè, di ogni fedele (e non unicamente[89]) ma, senza alcuna antinomia, insieme condiviso da tutti gli appartenenti alla compagine ecclesiale, in quella comunionalità che disegna la fisionomia indelebile della societas baptizatorum.

Ci pare sia proprio su questo sfondo che debba appropriatamente incastonarsi la protezione, rigorosamente intrasgredibile nell’ordinamento canonico, del sacramentale sigillum; e, ad un livello certamente diverso rispetto ad esso intra Ecclesiam ma tutt’altro che irrisoriamente intra Statum, la protezione di altre esigenze di riservatezza afferenti ai rapporti personalissimi e irripetibili tra i membri della Chiesa e i loro pastori. Esigenze che l’ordinamento ecclesiale circonda con una serie di norme: a partire proprio dal sigillo sacramentale che è inviolabile, come recita il can. 983 § 1, pertanto non è assolutamente lecito - «nefas est»[90] - al confessore rendere noto anche solo in parte il penitente con parole o in qualunque altro modo e per qualsiasi causa; quanto poi al contenuto del sigillo, esso ricomprende «tutti i peccati sia del penitente che di altri conosciuti dalla confessione del penitente, sia mortali che veniali, sia occulti sia pubblici, in quanto manifestati in ordine all’assoluzione e quindi conosciuti dal confessore in forza della scienza sacramentale. Inoltre ricadono nell’ambito del sigillo le circostanze dei peccati, il nome e il peccato di eventuali complici»[91]. All’obbligo di osservare il segreto sono tenuti invece l’interprete, se vi fosse, e tutti gli altri ai quali in qualunque modo sia giunta notizia dei peccati della confessione (can. 983 § 2)[92]: la diversificazione anche terminologica operata dal Codice giovanneo paolino - rettificando quello del 1917[93] - rispetto al sigillo che tocca unicamente il confessore, peraltro, non «debilita la seriedad y rigor de la obligación de secreto, que vincula a todos receptores de materia informativa vertida en la confesión»[94]. Le pene poi per le infrazioni sono severissime: i superlativi non sono oziosi anche perché, commenta la canonistica, non si dà mai, in questo campo, parvità di materia[95]. Si infligge infatti la scomunica latae sententiae riservata alla Santa Sede nel caso della violazione diretta del sigillo sacramentale (la rivelazione sia del peccato sia di chi l’ha commesso)[96], cioè la pena più grave, che non è stata mitigata in alcun modo dalla codificazione postconciliare; mentre la violazione indiretta è punita con una pena ferendae sententiae indeterminata e obbligatoria, proporzionalmente alla gravità del delitto (can. 1388 § 1)[97]. Ab immemorabili[98], d’altronde, si inculca con veemenza specialmente nei sacerdoti[99] l’assoluta non violabilità del sigillo né per il bene personale ma neppure per il bene comune. L’interprete, infine, e le altre persone di cui al can. 983 § 2 che infrangono il segreto sono puniti con una giusta pena, non esclusa la scomunica (can. 1388 § 2)[100].

I canonisti (ed anche i teologi) si sono poi profusi nell’esplicazione per lumeggiare minutamente questa normativa non certo ridondante ma corposa e soprattutto gravida di storia, e ad essi rinviamo, bastandoci alcune annotazioni ora pertinenti. Così, si è sottolineato come l’obbligo di tacere sia al contempo determinato ex motivo iustitiae ed ex motivo religionis: «Il primo configura il sigillo nell’ottica del segreto commesso, quasi un contratto sebbene implicito tra penitente e confessore. Un’ottica contrattualistica dove è prevalente il diritto del penitente che affiderebbe per contratto il sigillo al confessore. /Ma insieme a questo aspetto, ne è sempre stato considerato un altro, evidenziato come la caratteristica propria della inviolabilità del sigillo che procede “ex religione”, trattandosi, nella celebrazione del sacramento della penitenza, di un atto di culto. Sia sufficiente uno dei tanti passaggi dove San Tommaso individua il principio secondo cui il confessore tiene il posto di Dio per cui “illud autem quod sub confessione scitur, est quasi nescitum, cum non sciat ut homo, sed ut Deus”. A tale affermazione dell’Aquinate si è rifatta la dottrina nel corso dei secoli. Così, anche qualora cessi ogni obbligo secretum servandi dovuto, per giustizia, allo stesso penitente, rimane sempre, ed è ben più che sufficiente, la motivazione che longe praevalet, che è il bonum sacramenti, e cioè il rispetto dovuto al sacramento, all’atto di culto divino che è la celebrazione del sacramento della penitenza»[101]. Inoltre, e non secondariamente, «la violazione del segreto (o anche la sola possibilità che ciò possa essere ammesso) renderebbe odioso il sacramento della penitenza agli occhi dei fedeli. In particolare, considerato che la confessione individuale e segreta costituisce l’unico modo con cui il fedele è riconciliato con Dio e con la Chiesa (cf can. 960), è necessario garantire in modo assoluto al fedele questa possibilità, rimuovendo ogni ostacolo (quale sarebbe, per esempio, ammettere clausole o possibilità, sia pure estreme, di infrazione di questo segreto) nel suo cammino verso la salvezza eterna. Diversamente sarebbe compromessa la salus animarum»[102]. Proprio per questa duplicità non scindibile e assai ricca di implicanze che trascende l’interesse puramente personale attraendolo nel rilievo del bonum publicum vel commune, la dottrina, pressoché unanimemente, sia pur dopo qualche querelle ora quasi del tutto sopita[103], reputa che non si diano exceptiones seu derogationes[104], e in particolare che neppure il penitente possa sciogliere il confessore: «Il sigillo sacramentale non tutela solamente il penitente interessato, così che, in base al brocardo “scienti et consentienti non fit iniuria”, quest’ultimo potrebbe liberare il confessore dal vincolo di segreto originato dalla confessione sacramentale. Il sigillo sacramentale è deputato a tutelare (anche) il sacramento stesso e pertanto lo scioglimento del confessore dal sigillo non è nella disponibilità del penitente»[105]. E la Penitenzieria Apostolica ha, di recente, autorevolmente accreditato la tesi dell’assoluta non disponibilità del sigillo[106].

Il segreto non astringe solo quanti siano venuti a conoscenza di peccati accusati in confessione, ma pure il confessore per quegli elementi che non sono propriamente oggetto di quest’ultima ma siano stati appresi nell’occasione[107]: infatti «Omnino confessario prohibetur scientiae ex confessione acquisitae usus cum paenitentis gravamine, etiam quovis revelationis periculo excluso», secondo quanto dispone il can. 984 § 1[108]. E neppure, come all’unisono oggi si conviene, si potrà «far ricorso alle conoscenze acquisite dalla confessione sacramentale, quand’anche altre ragioni, come il bene del penitente, del confessore stesso o della comunità potrebbero indurre ad agire diversamente»[109], e pure laddove «non ci sia pericolo di rivelazione o aggravio del penitente, non è mai lecito servirsi delle conoscenze acquisite in occasione della confessione se ciò può suscitare scandalo o offesa dei fedeli o far nascere il sospetto che sia stato violato il sigillo sacramentale»[110]. Insomma, tale uso, fatto sempre salvo il sigillo, sarà lecito in quei davvero risicatissimi casi nei quali non sussista sicuramente alcun pericolo di rivelazione e gravamen del penitente, invero di tutti i possibili e potenziali penitenti[111]; e non ne derivi virtualmente alcuno scandalo[112] nei fedeli[113]. Alla protezione ‘oggettiva’ del sacramento si appaia pertanto, nell’ordinamento canonico, la protezione ‘soggettiva’ non solo del penitente, ma di ogni penitente, rectius di ogni appartenente alla Chiesa non essendo nessuno affrancato dal peccato. Significativo quanto si osserva in relazione all’appena ricordato can. 984: «- si badi - quando gli autori interpretano la clausola cum paenitentis gravamine affermano che si deve tener conto non solo del danno che si farebbe a quel determinato penitente che si è confidato con il confessore, ma di ogni altro eventuale penitente che, ormai non più così sicuro della riservatezza prevista dalla confessione, sarebbe scoraggiato dal confessarsi a sua volta o al quale risulterebbe più gravoso»[114].

Ancora, come già emerso, per lo ius canonicum il sacerdote è incapace a rendere testimonianza su tutto ciò che gli è stato rivelato nella confessione sacramentale, anche se il penitente ne richieda la rivelazione (can. 1550 § 2 n. 2[115]), mentre i chierici sono liberati dal dovere di rispondere per quanto fu loro manifestato ratione sacri ministerii (can. 1548 § 2 n. 1[116]). Le due situazioni, incapacità ed esenzione (la cui fruizione è rimessa alla discrezione del sacerdote), come risalta evidente dalla formulazione letterale del testo codiciale[117], sono giuridicamente assai differenti, la seconda potendo qualificarsi più latamente come - ed essere attratta nel ‘concetto civilistico’ di - ‘segreto ministeriale’[118]: il quale, sebbene non nello stesso grado del sigillo, trova pieno riconoscimento nello ius canonicum. Infatti, al sacerdote il fedele non si indirizza solo per il perdono dei peccati: nonostante l’indubbio rilievo ricoperto dall’assoluzione sacramentale, il sacrum ministerium, menzionato appunto nel can. 1548 § 2 n. 1, presenta uno spettro ben più articolato, coincidendo peraltro i destinatari che sono quei christifideles al cui bene sempre occorre avere riguardo. Così, come è stato di recente molto opportunamente esplicitato dalla Penitenzieria Apostolica[119], di grande importanza è anche il «cosiddetto “foro interno extra-sacramentale”, sempre occulto, ma esterno al sacramento della Penitenza», appartenente anch’esso «All’ambito giuridico-morale del foro interno»[120] per quanto nell’assai lata nozione[121] che ne fornisce lo stesso dicastero: «Anche in esso la Chiesa esercita la propria missione e potestà salvifica: non rimettendo i peccati, bensì concedendo grazie, rompendo vincoli giuridici (come ad esempio le censure) e occupandosi di tutto ciò che riguarda la santificazione delle anime e, perciò, la sfera propria, intima e personale di ciascun fedele. /Al foro interno extra-sacramentale appartiene in modo particolare la direzione spirituale, nella quale il singolo fedele affida il proprio cammino di conversione e di santificazione a un determinato sacerdote, consacrato/a o laico/a. […] /Nella direzione spirituale, il fedele apre liberamente il segreto della propria coscienza al direttore/accompagnatore spirituale, per essere orientato e sostenuto nell’ascolto e nel compimento della volontà di Dio. /Anche questo particolare ambito, perciò, domanda una certa qual segretezza ad extra, connaturata al contenuto dei colloqui spirituali e derivante dal diritto di ogni persona al rispetto della propria intimità (cf. can. 220 CIC). Per quanto in modo soltanto “analogo” a ciò che accade nel sacramento della confessione, il direttore spirituale viene messo a parte della coscienza del singolo fedele in forza del suo “speciale” rapporto con Cristo, che gli deriva dalla santità di vita e - se chierico - dallo stesso Ordine sacro ricevuto»[122]. Con il codicillo non affatto frustraneo che ci sentiamo di aggiungere - ma ne risulta conscio lo stesso Tribunale[123] - secondo il quale la circonlocuzione ‘direzione spirituale’ appare oggi un poco démodé e obsoleta, instillando quasi diffidenza: tanto che è stata rimpiazzata, specialmente nel magistero di Papa Francesco, dall’espressione, con contenuto pressoché uguale, di ‘accompagnamento spirituale’[124]. Perciò, pure queste estrinsecazioni tipiche del ministero, e con similari e non accessorie afferenze ecclesiali, pretendono, sia pur non con il rigore da cui è circonfuso il sigillo della confessione, di essere rivestite del diaframma protettivo della riservatezza - si parla ‘tecnicamente’ di ‘segreto naturale’ ovvero di ‘segreto commesso’[125], appressandosi, con i dovuti distinguo, al segreto professionale[126] -: riservatezza che sola può rendere appetibile e fruttuoso per i fedeli il ricorso ad esse. Peraltro, a parte la citata norma che esonera il chierico dal deporre su quanto gli è stato manifestato ratione sacri ministerii, non parrebbero esserci canoni specifici sull’obbligo del segreto, rimettendosi alla coscienza del sacerdote medesimo che gli indicherà il comportamento da tenere. E ciò è sufficiente, se si ha ben presente poi quel dovere di mai illegitime laedere la buona fama e segnatamente di non violare l’intimità delle persone di cui al can. 220 evocato dalla stessa Penitenzieria: diritto umano e insieme cristiano di basilare importanza in cui l’interesse individuale e il bene comune sono tra loro peculiarmente congiunti[127].

L’intervento chiarificatore del dicastero è stato, anche al proposito, provvidenziale in questi tempi che vedono lo sgretolamento di nozioni, e delle collegate esigenze di protezione, un tempo da tutti comprese e assecondate con docilità, anzitutto all’interno del coetus fidelium. Essi, come affiorato da questo condensato ma essenziale excursus sullo ius canonicum – condotto sul solco di autorevoli scolii dottrinali –, sono il referente ultimo di ogni prescrizione giuridica: anche se mai individualisticamente ed atomisticamente concepiti, bensì unitariamente inseriti nel populus Dei vocato alla salvezza. Certo non tutto ciò che ha appreso va taciuto dal sacerdote: ma dal solo interesse dei fedeli (non di quel solo che a lui si è rivolto) la coscienza di quest’ultimo - restando intatto il sigillo sacramentale di cui egli non dispone - deve farsi guidare nel discernimento, invero non semplice, di cosa non può divulgare in forza appunto del segreto naturale e del segreto commesso, e cosa invece può, ha cioè il diritto, anche di fronte agli ordinamenti secolari, semmai il dovere morale[128], non però l’obbligo giuridico di comunicare[129].

Riposizionandoci ora di nuovo sul crinale dell’intreccio normativo in Italia, la tutela del segreto dunque nasce contestualmente all’interesse ‘privato’ di chi si confida, e a questo il diritto secolare potrebbe ipoteticamente accontentarsi di fornire usbergo giuridico, a guisa di una certa interpretazione dello stesso art. 200 C.P.P.: ma poi, senza soluzione di continuità, essa si trasmette a quello del ministro di culto[130]. Tuttavia, nell’‘emisfero’ canonistico, assunto compiutamente nel disposto concordatario e quindi divenuto rilevante pure per l’ordinamento italiano, tale tutela finisce per accorparli e ricomprenderli entrambi, inglobando l’interesse di ogni christifidelis che potesse versare nelle medesime contingenze, un interesse cioè indivisibile e coeso, indissolubilmente innervato nel bonum commune Ecclesiae in virtù primariamente (ma non solo, come visto) dell’intrinseca sua natura di communio sacramentorum. Solamente con riguardo a questo aggregarsi e compenetrarsi di più oggetti di tutela si può parlare cumulativamente di interesse ‘istituzionale’ di cui si è fatta latrice la Chiesa cattolica nelle negoziazioni per addivenire alla norma bilaterale. Ma occorre intendersi bene: è istituzionale non nel senso che appartiene all’istituzione in quanto tale, a scudo di franchigie e privative a profitto di chissà quale apparato di potere. Perché al fondo ci sono, per converso, esigenze inalienabili della persona civis ma al contempo, e insopprimibilmente, fidelis che l’ordinamento canonico custodisce ma di cui anche l’ordinamento dello Stato non può non farsi carico: c’è, perciò, l’implementazione della libertà religiosa dell’intero popolo di Dio, sacerdoti compresi, la quale non può essere pesantemente calpestata e compressa, come già Francesco Carnelutti, oltre cinquant’anni or sono, con grande acume, prefigurava[131]. Perciò l’inadempienza o l’applicazione a senso unico di questa congerie di precetti imposta dal diritto dello Stato a presidio della riservatezza di certi rapporti personali, oltre a vessare colui che si è confidato e ad esacerbare il conflitto di lealtà gravante sul ministro del culto, turberebbero e destabilizzerebbero l’intero corretto rapporto fra i due ‘ordini’, riflettendosi negativamente su tutti i cives-fideles: i quali sono cerniera tra essi e ragione ultima del loro fecondo interrelazionarsi.

Tra l’altro, la prospettiva approcciata            tende ad incontrarsi con letture avanzate dello stesso ‘diritto comune’ italiano, ove rinveniamo singolari omogeneità ed assonanze, sia pur da apprendere cum grano salis, con quanto appena verificato partendo dal piano canonistico per pervenire a quello concordatario. Così si assevera come la conservazione del segreto non sia posta solo a beneficio del confidente ovvero del professionista per sgravarlo delle responsabilità penali in cui potrebbe incorrere ex art. 622 C.P.: «la ratio dell’art. 200 c.p.p. non può essere ridotta all’esigenza di tutelare il professionista dal rischio di un’incriminazione, o il confidente da una rivelazione che gli arrecherebbe nocumento, ma, come chiarito anche dalla Corte costituzionale[132], risiede nell’esigenza, di natura pubblicistica, di garantire il libero esercizio di attività professionali volte alla salvaguardia di diritti costituzionalmente protetti, ed il cui rilievo, quindi, giustifica, comunque, nell’ottica del bilanciamento di valori costituzionalmente rilevanti, il sacrificio dell’interesse dell’ordinamento ad accertare i fatti-reato e le relative responsabilità, al quale è funzionale l’obbligo testimoniale»[133]. D’altronde, in una recente monografia (a quanto ci risulta, la più recente) sui segreti professionali in genere, non già di un ecclesiasticista ma di un processualpenalista, la tesi pervicacemente sposata sul tema si discosta dall’impostazione forse più diffusa nell’ultimo scorcio del Secondo Millennio: ‘riesumando’ invece enunciazioni giurisprudenziali[134] e opinioni già in passato sostenute[135], le rinnova con considerazioni condivisibili, evinte specie dall’intensa evoluzione sociale nel frattempo intervenuta e che ha condotto ad una «rivalutazione del bilanciamento di quei valori che sono ritenuti meritevoli di essere contrapposti alla esigenza dell’accertamento penale»[136]. Secondo questa tesi, lo sbarramento ai poteri istruttori dell’autorità giudiziaria e all’intrusione degli inquirenti per preservare appunto il segreto professionale su tutto ‘quanto conosciuto’[137] è imperniato su esigenze di salvaguardia che, pur contemplandone gli interessi, finiscono per prescindere, per così dire ad postremum, dalle parti direttamente coinvolte[138]. Si scollano anzitutto le due previsioni, quella del Codice Penale - tutelante essenzialmente un interesse privato - e quella del Codice di rito - tutelante essenzialmente un interesse pubblico -, separando ed epurando quest’ultima da ogni ‘contaminazione sostanzialistica’: poiché trarre dal diritto sostanziale ragioni, superficie e modalità della copertura del segreto comporterebbe un annullamento della vis garantista dell’art. 200 sia associandola necessariamente al detrimento del confidente[139], sia soprattutto legittimando il giudice a sindacati sull’opportunità dello ius oppone

Boni Geraldina



Download:
3 Boni.pdf
 

Array
(
    [acquista_oltre_giacenza] => 1
    [codice_fiscale_obbligatorio] => 1
    [coming_soon] => 0
    [disabilita_inserimento_ordini_backend] => 0
    [fattura_obbligatoria] => 1
    [fuori_servizio] => 0
    [has_login] => 1
    [has_messaggi_ordine] => 1
    [has_registrazione] => 1
    [homepage_genere] => 0
    [insert_partecipanti_corso] => 0
    [is_ordine_modificabile] => 1
    [moderazione_commenti] => 0
    [mostra_commenti_articoli] => 0
    [mostra_commenti_libri] => 0
    [multispedizione] => 0
    [pagamento_disattivo] => 0
    [reminder_carrello] => 0
    [sconto_tipologia_utente] => carrello
)

Inserire il codice per attivare il servizio.