fbevnts Labour exploitation and criminal law enforcement

Sfruttamento della persona a scopo lavorativo e strumenti di contrasto penale

29.08.2021

Lara Ferla

Dottore di ricerca in Diritto penale, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

 

Sfruttamento della persona a scopo lavorativo

e strumenti di contrasto penale*

 

English title: Labour exploitation and criminal law enforcement

DOI: 10.26350/18277942_000044

 

Sommario: 1. Attualità di un fenomeno antico. 2. Luoghi e forme tradizionali di sfruttamento della persona a scopo lavorativo. 2.1. (segue) Nuovi contesti lavorativi e nuove occasioni di sfruttamento della persona. 3. Il contrasto penale delle forme più gravi di sfruttamento della persona a scopo lavorativo. 4. Il focus dell’intervento repressivo sul contesto lavorativo. L’incriminazione delle condotte di intermediazione illecita e di sfruttamento del lavoro (art. 603 bis c.p.). 4.1. (segue) Il ruolo dell’art. 603 bis c.p. e la progressiva emersione delle varie forme di sfruttamento del lavoro. 5. La condizione della persona offesa, tra vulnerabilità economica e stato di bisogno. 6. Gli ulteriori strumenti di contrasto a margine dell’art. 603 bis c.p. 7. Il contrasto penale dello sfruttamento come condizione necessaria (ma non sufficiente) per la tutela della persona in ambito lavorativo.

 

 

  1. Attualità di un fenomeno antico

 

I contesti di emarginazione sociale, di disagio economico e di povertà favoriscono l’esposizione a condotte di prevaricazione e di sfruttamento a scopo di profitto. Anche in assenza di comportamenti intimidatori o violenti, di una vera e propria coartazione della volontà della persona offesa, la condizione di debolezza sul piano economico può condizionare libere scelte d’azione, inducendo a concludere contrattazioni svantaggiose. Simili dinamiche si registrano anche in ambito lavorativo. Benché produttive di utilità, alcune occupazioni risultano sostanzialmente sfavorevoli per il lavoratore, a causa delle limitazioni dei propri diritti che lo stesso si determina ad accettare.

La presenza di numerose dichiarazioni sovranazionali in materia di regolamentazione del lavoro e di tutela della persona contro forme di sfruttamento manifesta il particolare impegno dedicato dalle istituzioni internazionali ed europee alle molteplici problematiche attinenti a questo ambito[1]. Le dichiarazioni sovranazionali perseguono obiettivi di definizione di standard minimi di tutela, di fissazione dei presupposti per un lavoro «dignitoso»[2], risultati da ottenere anche negli Stati la cui tradizione giuridica è caratterizzata da una più incerta affermazione dei diritti e delle garanzie della persona in ambito lavorativo o da un minore affinamento degli strumenti giuridici di tutela. L’obiettivo delle organizzazioni sovranazionali è l’armonizzazione delle fonti normative in materia di lavoro e, pur nella complessità degli interessi coinvolti, la promozione di garanzie universalmente condivise[3].

Nell’ambito della legislazione italiana, già a partire dalla Costituzione del 1948[4] e dallo Statuto dei lavoratori del 1970 sono stati fissati importanti principi ai fini della regolamentazione del lavoro[5]. Nonostante gli anni trascorsi dalla sua introduzione, lo Statuto riveste tuttora una grande rilevanza nel quadro dei riferimenti normativi in materia di lavoro, per i principi che vi trovano riconoscimento e per l’importanza che tale dichiarazione ha assunto, anche dal punto di vista culturale, rispetto alla tutela della persona[6].

Nella legislazione in materia di lavoro, particolare impegno è stato dedicato alla predisposizione di strumenti finalizzati a far emergere il c.d. lavoro irregolare o non dichiarato oppure “nero”[7]. Il lavoro irregolare provoca conseguenze deleterie non soltanto sul piano del singolo rapporto contrattuale, per il mancato rispetto delle forme giuridiche richieste ai fini della sua valida costituzione, ma anche nella dimensione economica nazionale, per la mancanza di trasparenza del mercato del lavoro, per la compromissione di una leale concorrenza tra le imprese, per l’inosservanza delle disposizioni di legge in materia previdenziale e fiscale[8]. Il lavoro irregolare richiede una ferma attività di contrasto, poiché nelle zone “grigie” che lo caratterizzano possono facilmente trovare radicamento prassi illecite di sfruttamento.

Il sistema degli strumenti normativi a tutela della persona che offre la propria prestazione lavorativa si compone anche di disposizioni di natura penale, con una duplice valenza. Da un lato, il diritto penale interviene in senso rafforzativo delle norme giuslavoristiche finalizzate ad assicurare la costituzione di rapporti contrattuali regolari, svolgendo un ruolo di completamento delle azioni di regolamentazione e di contrasto svolte in via primaria da questo settore, secondo una tendenza politico-criminale chiaramente riscontrabile nello scenario penalistico recente[9]. Dall’altro lato, il diritto penale conserva un ruolo autonomo nel contrasto dei fenomeni illeciti, attraverso l’incriminazione delle condotte che, imponendo al soggetto passivo prestazioni lavorative che integrano gravi forme di sfruttamento, risultano meritevoli di una risposta sanzionatoria rigorosa, anche nella forma di una privazione della libertà personale. Accanto ad una funzione sanzionatoria delle violazioni delle disposizioni poste a tutela della correttezza dei rapporti contrattuali in ambito lavorativo, dunque, al diritto penale compete un intervento repressivo delle prassi illecite che integrano lesioni dei diritti fondamentali della persona.

Studi specialistici e casistica giudiziaria, oltre ad inchieste giornalistiche e a fatti di cronaca, evidenziano che l’ambito lavorativo può costituire lo scenario nel quale sono perpetrate gravi forme di offesa alla persona: da intimidazioni e violenze fondate sull’asimmetria del rapporto lavorativo[10], ad azioni lesive della vita e dell’integrità fisica causate al lavoratore dal mancato rispetto delle norme dettate in materia di igiene e sicurezza del lavoro. Accanto alle irregolarità derivanti dal mancato adeguamento ai parametri di sicurezza relativi al settore di riferimento, emergono deliberate violazioni delle norme contrattuali a tutela del lavoratore. Quest’ultimo, non di rado, assume il ruolo di quell’«ingranaggio fragile» del sistema[11], sul quale ricadono i costi delle decisioni assunte per mantenere l’impresa entro determinati standard di profitto e di competitività[12].

Lo scenario del lavoro, già contrassegnato da varie criticità, è mutato di recente, in modo improvviso, per effetto dell’emergenza sanitaria da Covid-19, iniziata nei primi mesi del 2020. Il carattere sanitario di questa emergenza, oltre a segnalarne la cifra di rilevanza in una dimensione globale[13], ha determinato l’adozione di provvedimenti di ordine pubblico, che hanno imposto limitazioni alla libertà di circolazione e forme di distanziamento sociale, contribuendo a delineare un nuovo significato di “pericolosità” delle attività lavorative, che include quelle che implicano una normale interazione fisica[14].

A seguito di tali provvedimenti, sono state incrementate prestazioni lavorative che si avvalgono delle nuove tecnologie, modalità alternative già in via di sviluppo nel nostro ordinamento[15], che hanno consentito lo svolgimento del lavoro in condizioni di sicurezza. Il potenziamento degli strumenti di comunicazione tecnologica e l’impegno collettivo verso una più estesa digitalizzazione hanno permesso la conservazione di molte attività produttive di beni e servizi. In altri settori, nei quali tali adattamenti non sono stati possibili, si sono verificate, al contrario, situazioni di grave crisi d’impresa, che hanno comportato la fuoriuscita dal mercato di varie unità produttive, sprovviste di risorse economiche o incapaci di attuare un rapido adattamento alle mutate condizioni del contesto[16].

Questi recenti sviluppi, che hanno coinvolto in modo diretto la realtà economica del nostro Paese con effetti a lungo termine non ancora prevedibili, hanno avuto ripercussioni dirette su numerosi rapporti contrattuali in ambito lavorativo, generando “nuove povertà” e situazioni di emarginazione sociale. Simili mutamenti nel sistema economico nazionale richiedono un’attenta sorveglianza da parte del sistema penale, costituendo fattori di rischio di esposizione delle persone in condizioni di debolezza economica a contesti criminali di sfruttamento sul piano lavorativo[17]. In questa prospettiva, l’indagine che segue intende focalizzarsi sulle potenzialità e sui limiti dell’attuale disciplina penale in materia di sfruttamento lavorativo, quale modalità di offesa dei diritti fondamentali della persona.

 

  1. Luoghi e forme tradizionali di sfruttamento della persona a scopo lavorativo

 

Il contrasto del fenomeno dello sfruttamento a scopo lavorativo richiede, in primo luogo, l’identificazione del contesto nel quale la condotta illecita avviene[18].

In alcuni casi, l’attività svolta rientra nelle forme tipiche di un contratto di lavoro, ma è attuata in violazione di disposizioni di legge che regolano la materia. La pattuizione contrattuale può integrare una situazione di illiceità per elementi quali le caratteristiche del soggetto coinvolto, come emblematicamente avviene per il lavoro prestato da immigrati in condizioni di clandestinità[19] oppure da minori di età inferiore a quella stabilita dalla legge per l’avviamento al lavoro[20]. Sono analogamente illecite le situazioni nelle quali la prestazione lavorativa è svolta con modalità difformi rispetto a quanto pattuito nel contratto di lavoro. Violazioni più o meno gravi e sistematiche delle disposizioni di legge determinano l’ambito giuridico di pertinenza dell’illiceità e il conseguente coinvolgimento di strumenti sanzionatori, di natura civilistica o pubblicistica.

Nelle sue forme più tradizionali, lo sfruttamento a scopo lavorativo rievoca le situazioni di impiego della forza-lavoro e delle energie fisiche della persona in contesti particolarmente gravosi. Tra gli ambiti nei quali ricorrono con maggiore frequenza situazioni di sfruttamento della persona a scopo lavorativo, il settore agricolo occupa tuttora un posto di particolare rilevanza[21]. Numerosi studi hanno evidenziato, alla luce di dati statistici eloquenti, che nel settore agricolo proliferano prassi di lavoro irregolare o non dichiarato[22]. Oltre alle posizioni lavorative non formalizzate in contratti aventi forma scritta e alle irregolarità attinenti al mancato rispetto delle disposizioni che regolano la valida costituzione del rapporto di lavoro, sono emersi dati drammatici che segnalano la presenza di situazioni di grave sfruttamento dei lavoratori[23]. Attività ispettive compiute da organi di vigilanza e attività investigative delle autorità di pubblica sicurezza, in una «cornice di ordine pubblico»[24], hanno evidenziato negli ultimi anni una tendenza in crescita dei casi di irregolarità, in un settore tradizionalmente segnato da prassi di sfruttamento della persona a scopo lavorativo. Da questi dati, pubblicati in rapporti ufficiali anche ad opera delle organizzazioni sindacali[25], emergono i vari profili nei quali lo sfruttamento del lavoratore si manifesta.

Quanto alle modalità del trattamento illecito, ai lavoratori sono imposte ore lavorative in numero superiore a quelle previste dagli accordi contrattuali ovvero condizioni retributive notevolmente sproporzionate rispetto all’entità e alla tipologia delle prestazioni richieste. Non vi è riconoscimento del diritto al riposo settimanale o alle ferie, i lavoratori sono collocati in locali fatiscenti e in condizioni di degrado e il versamento della retribuzione avviene in misura ridotta rispetto a quanto pattuito ovvero è del tutto assente. Nei casi più drammatici, le condizioni di sfruttamento hanno condotto ad eventi mortali durante lo svolgimento della prestazione lavorativa[26].

Accanto alle violazioni inerenti alla regolamentazione del rapporto contrattuale, secondo le indagini svolte nel settore agricolo si sono delineate situazioni che implicano la totale soggezione del lavoratore al contesto di sfruttamento, ottenuta mediante intimidazioni e violenze. L’ambito dell’agricoltura si è rivelato particolarmente permeabile a prassi gravemente lesive dei diritti della persona, che esulano dal singolo rapporto di lavoro per assumere una dimensione strutturata e sistemica. Il fenomeno del caporalato, da tempo oggetto di attenzione da parte delle istituzioni incaricate di compiti di vigilanza sul lavoro[27], negli ultimi anni ha assunto caratteristiche e dimensioni di particolare gravità, per l’instaurazione di collegamenti con reti criminali operanti nell’ambito dell’immigrazione clandestina e della tratta di esseri umani[28].

Le problematiche dello sfruttamento in agricoltura attengono, dunque, anche alle situazioni di vulnerabilità in cui versano le persone offese. Oltre ai soggetti in condizioni di debolezza economica, che incontrano difficoltà nel reperire un’occupazione per l’assenza di competenze professionali, il lavoro in agricoltura costituisce un punto di approdo di numerose persone di nazionalità straniera, con un notevole coinvolgimento di cittadini provenienti da Stati esterni all’Unione Europea, presenti sul territorio nazionale in condizioni di clandestinità[29]. Tali condizioni, attinenti allo status giuridico della persona coinvolta, che non dovrebbero autorizzare discriminazioni di trattamento sul piano dei diritti e delle tutele, assumono una rilevanza di fatto[30], come fattori di vulnerabilità. L’assenza di una rete di sostegno sociale ostacola le possibilità di accedere a strumenti di tutela e la condizione di clandestinità connota di maggiore fragilità la situazione delle persone offese. Anche in considerazione delle deliberazioni assunte dalle autorità pubbliche rispetto al contrasto dell’immigrazione clandestina, infatti, la condizione di immigrato irregolare induce il soggetto coinvolto ad occultare la propria presenza sul territorio; nel contempo, la prospettiva del rischio di espulsione opera come un fattore di condizionamento strumentalizzabile dal datore di lavoro per ottenere l’assoggettamento a gravose prestazioni lavorative[31].

 

2.1.                  (segue) Nuovi contesti lavorativi e nuove occasioni di sfruttamento della persona

 

Il settore agricolo presenta specificità che lo hanno reso un punto di osservazione privilegiato per la sorveglianza dei fenomeni di sfruttamento della persona a scopo lavorativo. Benché tale approccio trovi ampia conferma nei dati empirici e in alcune caratteristiche strutturali dell’agricoltura nel nostro Paese[32], l’analisi di queste problematiche deve essere aggiornata, estendendo la prospettiva d’indagine a molti altri contesti lavorativi.

Recenti indagini condotte dall’Ispettorato nazionale del lavoro, nell’ambito dell’attività periodica di vigilanza e di controllo sulle attività produttive nel nostro Paese, hanno evidenziato situazioni di irregolarità in molteplici ambiti: dall’edilizia, alla produzione tessile, al turismo, alla ristorazione[33]. Anche in questi settori, le attività lavorative, sebbene regolarizzate (o regolarizzabili), sono risultate spesso svolte al di fuori delle forme giuridiche previste ovvero in contrasto con le pattuizioni contrattuali dichiarate, integrando casi di sfruttamento della persona.

Problematiche particolari sono state suscitate, inoltre, dalla diffusione di attività lavorative attraverso gli strumenti tecnologici, secondo il modello della c.d. gig economy[34]. Queste forme di svolgimento delle prestazioni lavorative, di recente fortemente potenziate a seguito delle limitazioni alla circolazione disposte per esigenze di contenimento dei rischi per la salute collettiva, costituiscono occasioni di possibile sfruttamento, attraverso l’imposizione di un numero eccessivo di ore lavorative[35] o di retribuzioni irrisorie, ampiamente sproporzionate rispetto alla tipologia della prestazione richiesta. In questi nuovi contesti lavorativi, «non-luoghi globalizzati»[36], nei quali la quantificazione della durata e dell’entità della prestazione lavorativa risulta particolarmente difficile[37], sono generalmente esposti allo sfruttamento anche soggetti dotati di una preparazione professionale e di competenze specialistiche.

Ulteriori occasioni di sfruttamento si sono delineate, come effetto dell’emergenza sanitaria, nel settore del trasporto di merci e delle consegne a domicilio. A causa dell’abnorme incremento di queste attività, chiamate a soddisfare le esigenze di consumo di una larghissima fascia della popolazione, le imprese impegnate nei settori di riferimento hanno ottenuto un notevole sviluppo, che ha sollecitato la ri-organizzazione della manodopera e dei mezzi tecnologici impiegati. I risultati di efficienza raggiunti, tuttavia, sono stati ottenuti in non pochi casi attraverso lo sfruttamento dei lavoratori (tra di essi, i c.d. riders) e la loro sottoposizione a gravi limitazioni dei propri diritti. La scoperta, talvolta fortuita[38], dell’irregolarità di alcune posizioni lavorative ha consentito di appurare che dietro l’apparenza di start up innovative e di successo possono celarsi pratiche di sfruttamento della persona a scopo lavorativo[39].

L’emersione di casi di sfruttamento del lavoro in settori moderni e tecnologicamente avanzati ha sollecitato l’avvio di una riflessione sulla necessità di tutelare queste categorie di lavoratori, anch’essi da riconoscere in condizioni di “debolezza”, per la discontinuità del reddito, per l’incertezza dell’occupazione e l’inadeguatezza previdenziale ed assicurativa, limitazioni che hanno sollecitato il legislatore all’introduzione di alcune tutele, attuate con legge 2 novembre 2019, n. 128[40].

Dal punto di vista penalistico, le forme di sfruttamento emergenti dall’uso delle nuove tecnologie sollecitano riflessioni circa il contenuto da attribuire a questo concetto. Lo “sfruttamento” non si identifica esclusivamente con l’impiego della forza-lavoro in contesti che richiedono prestazioni gravose o caratterizzati da degrado ambientale ma ha assunto forme più subdole e sottili[41]. La formalizzazione di posizioni lavorative che assegnano alla persona una posizione di (apparente) autonomia nell’esercizio delle proprie mansioni ovvero la predisposizione di accordi contrattuali fittizi, in contraddizione con le condizioni effettive di lavoro[42], costituiscono possibili strategie finalizzate ad eludere le norme di contenuto obbligatorio e a creare le condizioni per forme di sfruttamento, che rischiano di sfuggire al controllo delle autorità competenti. I dati disponibili circa le irregolarità riscontrate nell’ambito dei principali settori produttivi non consentono di classificare tali situazioni sulla base della loro pertinenza all’ambito degli illeciti di natura giuslavoristica ovvero dei fatti penalmente rilevanti. Nondimeno, le indagini svolte evidenziano un’ampia diffusione dello sfruttamento lavorativo, fenomeno da non considerare circoscritto a specifici settori o a determinate aree produttive. Si tratta, al contrario, di un fenomeno diffuso, che si irradia dal singolo rapporto contrattuale irregolare fino ad assumere carattere endemico a livello nazionale[43].

 

  1. Il contrasto penale delle forme più gravi di sfruttamento della persona a scopo lavorativo

 

L’accertamento di situazioni lavorative illecite, che si concretizzano non soltanto nel mancato rispetto di forme giuridiche tipiche o di disposizioni di legge finalizzate a garantire la regolarità del rapporto contrattuale ma anche nell’imposizione di condizioni che incidono sulla salute, sull’integrità fisica e sulla dignità del lavoratore, implica la necessità di attuare un sistema di protezione della persona che non può prescindere dall’intervento del diritto penale.

Nel contempo, il ruolo del diritto penale non deve essere sovrastimato. La regolamentazione delle forme di lavoro appartiene, in via primaria, alla competenza di uno specifico settore giuridico, il diritto del lavoro, al quale è rimessa la determinazione delle forme tipiche e delle modalità di reazione rispetto alle violazioni della disciplina dettata in materia[44]. Sia che agli strumenti del diritto penale siano affidati compiti di rafforzamento delle disposizioni giuslavoristiche, sia che sia richiesto un intervento diretto nei confronti delle violazioni che integrano gravi offese ai diritti della persona, è comunque necessaria un’azione sinergica di contrasto, della quale il momento sanzionatorio costituisce soltanto il punto conclusivo[45]. Com’è stato evidenziato da autorevole dottrina giuslavoristica, di fronte ad un fenomeno eterogeneo e sistemico come lo sfruttamento della persona a scopo lavorativo, la frammentarietà degli strumenti di intervento e l’assenza di un progetto per il loro coordinamento costituiscono, per un verso, sintomi di una conoscenza parziale del fenomeno e dei suoi tratti caratterizzanti e, per altro verso, indici di una strategia di intervento prevedibilmente inefficace[46].

Tra gli strumenti penalistici utili alla repressione delle condotte di sfruttamento a scopo lavorativo, vengono in rilievo alcune figure di reato poste a tutela della persona, sotto il profilo della sua personalità individuale.

Il sistema penale non è indifferente alle offese arrecate alla persona in ambito lavorativo; la problematicità di questo contesto, peraltro, è emersa con evidenza soltanto negli ultimi decenni, anche in considerazione del forte potenziamento subito dalla legislazione in materia di igiene e di sicurezza del lavoro. In assenza di disposizioni del codice penale espressamente dirette alla repressione delle condotte di sfruttamento in ambito lavorativo, è stata l’attività interpretativa svolta in sede giudiziaria ad apportare un significativo contributo sul punto.

Nell’ambito della categoria dei delitti contro la personalità individuale, ha assunto un particolare rilievo l’art. 600 c.p., che disciplina i reati di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù. Questa disposizione è stata oggetto di vari interventi di riforma[47], all’esito dei quali è stato introdotto, tra le varie modalità della condotta, il riferimento alla costrizione a svolgere «prestazioni lavorative», assente nella formulazione originaria della norma secondo il codice penale del 1930[48]. La disposizione in questione, sprovvista inizialmente di una specifica tipizzazione delle condotte, evidenziava la concentrazione del disvalore nell’offesa arrecata alla dignità della persona. Sul piano applicativo, queste figure di reato sono risultate a lungo assenti nei repertori di giurisprudenza, anche in considerazione di una diffusa interpretazione dei loro presupposti – la “schiavitù” e la “servitù” – come elementi normativi espressivi di uno status giuridico, non suscettibile di riscontro nella realtà degli ordinamenti democratici moderni[49].

Negli ultimi decenni, invece, in ragione di un’interpretazione in senso sostanziale della condizione servile, l’art. 600 c.p. ha acquistato una rinnovata rilevanza nella prassi giudiziaria, censurando le situazioni nelle quali la persona offesa subisce gravi violazioni dei propri diritti fondamentali[50]. La disposizione ha trovato applicazione, in particolare, nei casi di sfruttamento della persona a scopo di profitto economico in contesti di illiceità della prestazione, quali l’attività di prostituzione[51], di accattonaggio[52], di costrizione al compimento di attività costituenti reato[53]. Le fattispecie disciplinate dall’art. 600 c.p. sono state ritenute sussistenti anche in contesti lavorativi apparentemente leciti, nei quali sono state accertate condotte di sfruttamento della persona e gravi violazioni dei suoi diritti[54]. Nell’ambito delle pronunce giudiziarie sono state punite ai sensi dell’art. 600 c.p. forme continuative di sfruttamento integranti una “mercificazione” della persona offesa per scopi di profitto[55].

Uno strumento di contrasto dello sfruttamento in ambito lavorativo è stato individuato, ancora in via interpretativa, nell’art. 572 c.p., che incrimina i maltrattamenti contro familiari e conviventi. Sebbene contrassegnata dal riferimento alla dimensione familiare, la figura di reato in considerazione prevede presupposti normativi estensibili anche a relazioni esterne al contesto familiare propriamente inteso[56]. Hanno assunto rilevanza, sotto questo profilo, rapporti di natura parafamiliare instaurati in ambito lavorativo. Secondo un orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità, la fattispecie di maltrattamenti può trovare applicazione anche in contesti caratterizzati da «prossimità permanente per le dimensioni e la natura del luogo di lavoro […] per la stretta comunanza di vita», nonché per l’«affidamento e la fiducia del sottoposto (soggetto più debole) rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità»[57]. In ambito lavorativo, la disciplina dettata dall’art. 572 c.p. è stata utilizzata come forma di repressione del mobbing[58], fenomeno che identifica la condizione di sofferenza psico-fisica subita dal soggetto inserito in un contesto lavorativo nel quale sono abitualmente attuate condotte offensive, degradanti e umilianti. In alcune occasioni, tuttavia, la disciplina in questione ha trovato applicazione anche come forma di tutela della persona sottoposta a sfruttamento mediante l’imposizione di condizioni lavorative suscettibili di provocare uno stato di sofferenza fisica e psicologica continuativa[59].

Ulteriori strumenti di contrasto delle forme di sfruttamento della persona a scopo lavorativo sono stati individuati in fattispecie di reato quali i delitti di violenza privata (art. 610 c.p.) e di estorsione (art. 629 c.p.)[60]. Per quanto simili soluzioni interpretative siano rimaste sostanzialmente isolate, per l’inadeguatezza delle rispettive formulazioni normative ad identificare il disvalore specifico insito nello sfruttamento lavorativo, le decisioni della Corte di legittimità hanno opportunamente valorizzato, per un verso, le modalità violente o intimidatorie utilizzabili dal datore di lavoro come forme di costrizione allo svolgimento della prestazione e, per altro verso, la condizione nella quale possono trovarsi i lavoratori, posti in una posizione di subordinazione materiale e psicologica nei confronti del datore di lavoro.

Accanto alle disposizioni codicistiche, peraltro, discipline espressamente dedicate alla repressione di condotte di sfruttamento della posizione di debolezza del lavoratore sono emerse anche nella legislazione complementare.

A seguito dell’incremento dei flussi migratori nel nostro Paese, la constatazione del coinvolgimento di persone di nazionalità straniera nelle vicende di sfruttamento ha sollecitato la predisposizione di tutele anche sotto questo profilo. Nell’ambito del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286[61], in materia di disciplina dell’immigrazione e della condizione dello straniero, è stata introdotta una disposizione specificamente finalizzata al contrasto delle attività di sfruttamento della persona in ambito lavorativo. Con l’art. 22, 12° comma, del d.lgs. 286/1998[62]il sistema di regolamentazione dell’immigrazione è stato integrato da disposizioni che attengono alla materia del lavoro. Ai fini dell’incriminazione, il disvalore è focalizzato sulla condotta dell’imprenditore che tenga alle proprie dipendenze persone in condizioni di irregolarità. La disciplina finalizzata alla tutela della persona sul piano lavorativo non assume, in questo caso, un’autonomia specifica ma rientra nell’ambito dei problemi di tutela connessi alla condizione delle persone immigrate[63]. Sebbene lo sfruttamento della persona non sia stato considerato come l’oggetto principale dell’intervento legislativo, tale previsione normativa risulta nondimeno significativa, poiché dimostra l’acquisita consapevolezza che le condizioni di speciale fragilità della persona possono costituire elementi strumentalizzabili a fini di profitto[64], mediante ricatti e minacce di segnalazione alle autorità pubbliche[65]. Anche in ragione della particolare vulnerabilità degli immigrati in condizioni di clandestinità, la casistica giudiziaria appare, sul punto, consistente. Accanto a vicende nelle quali lo sfruttamento lavorativo si concretizza in gravi violazioni dei diritti della persona, ricorrono esemplificazioni di posizioni lavorative irregolari, per le quali il mancato adempimento di specifiche norme di legge persegue obiettivi di profitto illecito[66].

 

  1. Il focus dell’intervento repressivo sul contesto lavorativo. L’incriminazione delle condotte di intermediazione illecita e di sfruttamento del lavoro (art. 603 bis c.p.)

 

Il sistema degli strumenti di contrasto dello sfruttamento della persona in ambito lavorativo è stato arricchito, di recente, da un intervento legislativo che ha focalizzato il contesto lavorativo come ambito di realizzazione del reato. Con la legge 14 settembre 2011, n. 148, è stato introdotto, tra i delitti contro la personalità individuale, l’art. 603 bis c.p. L’inserimento nel codice penale di questa nuova norma assume rilevanza sia come considerazione diretta di uno specifico fenomeno criminale, sia come attestazione della gravità dei fatti oggetto di repressione, equiparati ai delitti che arrecano offesa alla personalità individuale. La rubrica dell’art. 603 bis c.p. (Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro) rende esplicito lo scopo della norma di contrastare due distinte condotte, rispettivamente riconducibili al soggetto che svolge attività di reclutamento della manodopera e di intermediazione con gli imprenditori interessati al suo impiego, ed al soggetto che si occupa dell’assunzione e dell’organizzazione del lavoro delle persone sottoposte a sfruttamento. Nella sua formulazione originaria, peraltro, la norma contemplava presupposti normativi che consentivano di identificare il soggetto autore di reato soltanto nel c.d. caporale. Nonostante sia stata evidenziata la possibilità di estendere la responsabilità penale anche al datore di lavoro, sia in via diretta sia attraverso l’applicazione delle norme in materia di concorso di persone nel reato (art. 110 ss. c.p.)[67], la disposizione richiamata è risultata insoddisfacente sotto i profili della struttura dell’incriminazione e della complessità dei presupposti normativi, ritenuti di difficile accertamento processuale[68].

Modificata con un intervento legislativo nel 2016[69] e sottoposta al confronto con la dimensione giudiziaria, la disciplina ha progressivamente manifestato la sua rilevanza, attraverso una portata applicativa ben più incisiva rispetto alla formulazione originaria. Nelle intenzioni del legislatore, l’introduzione dell’art. 603 bis c.p. è stata dettata dall’esigenza di contrastare lo sfruttamento lavorativo con particolare riferimento al settore agricolo. L’obiettivo politico-criminale perseguito è stato quello di contrastare il fenomeno del caporalato, che affligge vari settori produttivi ma che trova un particolare radicamento nella filiera agro-alimentare[70].

Nel periodo immediatamente successivo alla loro introduzione, le fattispecie di reato disciplinate dall’art. 603 bis c.p. non hanno ottenuto un significativo riscontro nella prassi. Il numero esiguo di applicazioni giudiziarie è stato inteso come dimostrazione di sostanziale ineffettività della disciplina, derivante da un’inadeguatezza di natura tecnico-strutturale. Nel dibattito penalistico si sono diffuse osservazioni critiche rivolte, in primo luogo, alla formulazione della disposizione: nella previsione di presupposti normativi troppo selettivi o riferiti a situazioni che implicano la reiterazione di condotte offensive secondo modalità organizzate, con le difficoltà probatorie conseguenti, sono state ravvisate scelte errate sul piano della tecnica legislativa[71]. La formulazione della norma non è apparsa in grado di intercettare il fenomeno dello sfruttamento del lavoro nelle sue molteplici forme di manifestazione. Sono stati evidenziati, in particolare, problemi di determinatezza della fattispecie, che hanno indotto ad esprimere prognosi di sicura ineffettività della disciplina[72].

I correttivi apportati al testo normativo, se per un verso hanno determinato un “alleggerimento” della fattispecie incriminatrice[73], ossia la rinuncia a qualificazioni e a precisazioni in grado di caratterizzare in termini eccessivamente restrittivi le condotte oggetto di incriminazione, per altro verso hanno reso la disciplina di più estesa applicazione, proprio in ragione della minore selettività dei parametri normativi, parzialmente ridefiniti, e di una caratterizzazione in termini di minore disvalore[74], com’è dimostrato anche dalla riduzione delle cornici edittali originariamente assegnate al reato[75]. In occasione di questa riforma, è stato perseguito l’obiettivo ulteriore di un coinvolgimento più diretto nella responsabilità penale del datore di lavoro[76]. Nonostante la rilevanza del ruolo del “caporale”, che svolge compiti di mediazione tra domanda ed offerta, di reclutamento delle persone da destinare all’attività lavorativa in condizioni di sfruttamento e di collegamento con gli imprenditori interessati[77], è alla figura del datore di lavoro che occorre ascrivere, in termini maggiormente espliciti, una posizione di rimproverabilità penale, rappresentando quest’ultimo il soggetto al quale è riconducibile il contesto organizzativo all’interno del quale lo sfruttamento avviene e il principale beneficiario dei profitti dell’attività illecita[78]. Da questo punto di vista, l’identificazione in via diretta, nel dato normativo, di una responsabilità che in precedenza risultava di minore visibilità e concretizzazione esprime in modo univoco il disvalore autonomo della condotta del datore di lavoro.

 

4.1.                  (segue) Il ruolo dell’art. 603 bis c.p. e la progressiva emersione delle varie forme di sfruttamento del lavoro

 

Se l’obiettivo dell’introduzione di una norma specificamente dedicata alla tipizzazione delle condotte di intermediazione illecita e di sfruttamento del lavoro è stato contrastare le gravi violazioni dei diritti dei lavoratori nel settore agricolo, l’art. 603 bis c.p. ha rivelato importanti potenzialità di repressione nei confronti di numerose altre forme di sfruttamento della persona a scopo lavorativo. Queste potenzialità sul piano repressivo sono ascrivibili anche alla formulazione di indici di sfruttamento, che attengono alle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, alla corresponsione di retribuzioni in modo sproporzionato rispetto alla qualità e quantità del lavoro svolto, alla violazione delle disposizioni che regolano gli orari di lavoro e il diritto al riposo, alla violazione delle norme in materia di sicurezza e igiene del lavoro[79]. Tali indici, dei quali è dibattuta la natura giuridica[80] – di requisiti di tipicità della condotta[81], di indicatori di valore essenzialmente probatorio[82] ovvero di elementi utili a definire, contestualizzare e caratterizzare in senso dinamico la fattispecie di reato[83] – risultano particolarmente rilevanti sul piano funzionale, per l’idoneità ad identificare le “condizioni di sfruttamento”[84], presupposto sul quale si impernia la condotta offensiva[85], nei più differenti contesti lavorativi.

Per quanto emerge dalla casistica giudiziaria, le nuove fattispecie incriminatrici hanno ottenuto una significativa e crescente rilevanza, emergendo dalla situazione di marginalità nella quale sembravano relegate nel periodo immediatamente successivo alla loro introduzione. Le numerose occasioni nelle quali l’art. 603 bis c.p. ha costituito la componente principale dell’impianto accusatorio inducono ad attenuare i rilievi critici che la formulazione della norma aveva inizialmente sollecitato[86].

La considerazione dell’esperienza applicativa formatasi sull’art. 603 bis c.p., tuttavia, deve essere accompagnata da una duplice cautela: la prima, attinente all’elevato livello di cifra oscura[87] che caratterizza il fenomeno dello sfruttamento in ambito lavorativo. Sul punto si tornerà[88], ma occorre sin d’ora riflettere sui risultati delle inchieste svolte da più istituzioni – uffici dell’Ispettorato nazionale del lavoro e Forze dell’ordine – sul fenomeno. È stata rilevata, infatti, una notevole discrepanza tra il numero delle unità produttive presenti sul territorio nazionale e i dati relativi, rispettivamente, alle ispezioni effettuate a titolo di controllo, alle irregolarità accertate, al numero dei lavoratori impiegati e ai procedimenti giudiziari instaurati. L’anomalia tra l’ampiezza dei contesti lavorativi ed il numero delle irregolarità accertate e dei provvedimenti emessi lascia supporre l’esistenza di una consistente quantità di casi di sfruttamento ancora ignoti.

Sotto altro profilo, deve essere evidenziato che molti dei procedimenti penali instaurati sulla base dell’art. 603 bis c.p. attengono, attualmente, alla fase cautelare[89]. La Corte di legittimità è stata chiamata ripetutamente a pronunciarsi circa la sussistenza dei presupposti normativi per l’applicazione di misure cautelari, personali e reali. Benché si tratti di procedimenti giudiziari con specificità proprie e con un angolo prospettico di approfondimento sprovvisto dell’ampiezza tipica del giudizio di cognizione[90], è possibile nondimeno riconoscere che i casi emersi presentano molteplici profili di interesse, consentendo di sottoporre all’attenzione dei giudici un panorama multiforme di contesti lavorativi esposti a pratiche di sfruttamento della persona a scopo di profitto.

Dalla giurisprudenza emerge, altresì, che l’identificazione dell’art. 603 bis c.p. come ipotesi accusatoria ha sottratto spazio ad altre possibilità di giudizio, in particolare per i reati di cui agli articoli 572 e 600 c.p. Quest’ultima disposizione risulta applicabile alle forme di sfruttamento che si caratterizzano per una spiccata gravità, per aver determinato uno stato di totale asservimento della persona offesa[91]. L’applicazione dell’art. 603 bis c.p. ricorre, invece, nei casi caratterizzati da una gravità intermedia tra i reati di riduzione in schiavitù o mantenimento in servitù e le figure di illecito contravvenzionale o amministrativo che disciplinano la materia del lavoro[92]. La fattispecie in esame è applicabile nei casi in cui la condotta illecita si caratterizza per la presenza di una situazione lavorativa che implica gravi violazioni delle disposizioni di legge di riferimento, con l’effetto di sottoporre il lavoratore ad un trattamento lesivo dei suoi diritti. Tali violazioni sono state riscontrate, tra l’altro, nel non aver stipulato alcun contratto di lavoro con la persona effettivamente impegnata in un’attività lavorativa ovvero nell’aver concluso con il lavoratore un accordo contrattuale fittizio, finalizzato a dissimulare l’effettivo inquadramento lavorativo, con la conseguente limitazione delle corrispondenti tutele giuridiche[93]. Gli indici di sfruttamento contenuti nell’art. 603 bis c.p., che non di rado ricorrono contestualmente, risultano efficaci per l’identificazione delle condotte che, integrando gravi e plurime violazioni delle disposizioni di legge inerenti al trattamento del lavoratore, denotano la necessità che gli strumenti sanzionatori giuslavoristici siano affiancati dalla più rigorosa risposta sanzionatoria di natura penale.

La conoscenza progressiva delle potenzialità di questa nuova figura di reato ha consentito di estenderne l’ambito operativo a settori differenti da quello agricolo, inizialmente considerato il suo naturale ambito di intervento. Ipotesi accusatorie per attività di intermediazione illecita e di sfruttamento del lavoro sono state formulate in vari contesti produttivi di beni e servizi. Oltre al settore agricolo, forme di sfruttamento della persona a scopo lavorativo sono emerse nell’ambito dell’edilizia[94], dei cantieri navali[95], della gestione di impianti per il recupero di rifiuti[96], della ristorazione, del turismo[97], dell’assistenza domiciliare a persone non autosufficienti[98]. Contesti proficui per queste forme di sfruttamento si sono rivelati anche i settori dei trasporti e della consegna di merci[99]. Rispetto a questi ultimi ambiti, le occasioni di sfruttamento a scopo lavorativo sono aumentate – come si è detto[100] – per effetto dei provvedimenti pubblici che, avendo disposto limitazioni alla circolazione per preminenti esigenze di salute collettiva, hanno determinato un momento di particolare espansione di questi settori. La prospettiva di ingenti profitti derivanti dall’incremento esponenziale delle opportunità lavorative è stata alla base di strategie di sfruttamento attuate mediante la violazione delle norme vigenti in materia di contratti di lavoro.

L’intermediazione illecita di manodopera finalizzata allo sfruttamento emerge dalla prassi giudiziaria come un’attività tendenzialmente non occasionale e caratterizzata da stabilità. Negli ultimi tempi la stessa si è rivelata idonea a costituire uno strumento di collegamento di organizzazioni criminali dedite al reclutamento di un numero considerevole di persone da destinare ad attività lavorativa in condizioni di sfruttamento[101]. Anche dal punto di vista degli autori di reato, dunque, le vicende emerse evidenziano sul piano criminologico un fenomeno vasto e differenziato, che coinvolge, oltre a singoli imprenditori motivati da finalità di profitto individuale, anche enti costituiti in forma societaria e associazioni coinvolte in attività delittuose con metodi caratteristici della criminalità organizzata[102].

Alla luce di quanto emerge dalla casistica giudiziaria, le fattispecie di reato disciplinate dall’art. 603 bis c.p. manifestano una particolare flessibilità e capacità di adattamento a differenti contesti lavorativi, rivelandosi idonee ad individuare, nel complesso ed eterogeneo scenario dello sfruttamento della persona, situazioni che esulano da un’illecita regolamentazione dei rapporti di lavoro – da riservare tendenzialmente alla competenza degli strumenti di tutela di natura giuslavoristica – e che meritano, piuttosto, un fermo intervento di contrasto attraverso il diritto penale.

 

  1. La condizione della persona offesa, tra vulnerabilità economica e stato di bisogno

 

Anche in un ambito ampio e articolato come quello dello sfruttamento della persona a scopo lavorativo la comprensione del fenomeno criminale oggetto di repressione non può prescindere dalla considerazione delle caratteristiche della persona offesa[103]. L’occupazione in attività lavorative svantaggiose dal punto di vista economico e talora mortificanti sul piano personale richiede un’indagine circa le circostanze che hanno indotto un individuo, capace di scelte responsabili, ad accettare simili contrattazioni. È di intuitiva evidenza che l’intervento del diritto penale non può essere invocato nei confronti di qualsiasi regolamentazione contrattuale contenente sperequazioni di trattamento per una delle parti. Attiene alla sfera dell’autonomia individuale l’accettazione di condizioni lavorative sostanzialmente svantaggiose. Valutazioni soggettive di opportunità, infatti, possono indurre ad accettare posizioni lavorative gravose o scarsamente retribuite, se giudicate funzionali ad obiettivi di miglioramento della propria posizione professionale o sociale[104]. Nel contempo, devono essere oggetto di particolare attenzione, come potenziali fatti di rilevanza penale, le situazioni nelle quali, dietro l’apparenza di un consenso liberamente prestato ad una contrattazione sostanzialmente sfavorevole, si trovano forme di condizionamento ambientale o economico, alle quali il soggetto coinvolto non è in grado di sottrarsi.

In ambito giuridico, al fine di delineare la condizione della persona esposta a condotte offensive dei propri diritti è ricorrente il riferimento al concetto di “vulnerabilità”. Anche per effetto di sollecitazioni provenienti dalle dichiarazioni sovranazionali, in particolare dalla Direttiva 2011/36/UE[105], questa condizione è stata introdotta come elemento normativo in alcune figure di reato presenti nel nostro sistema penale. Tale riferimento, pur con le criticità derivanti dalla sua indeterminatezza, ha assunto una rilevanza specifica in ambito penale, contribuendo alla definizione di categorie di “vittime vulnerabili”, ossia soggetti particolarmente esposti a condotte offensive[106].

Il riferimento alla condizione di “vulnerabilità” della persona offesa è presente come elemento normativo nell’art. 600, 2° comma, c.p.[107], che incrimina condotte di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, fattispecie che possono costituire la qualificazione giuridica di alcune forme di sfruttamento della persona a scopo lavorativo[108]. Tale riferimento non ricorre, invece, nell’ambito dell’art. 603 bis c.p. che, pur appartenendo alla medesima categoria di delitti – contro la personalità individuale – si caratterizza per la qualificazione della condizione del soggetto passivo in termini di “stato di bisogno”. La scelta del legislatore merita alcune riflessioni, rispetto a fattispecie di reato accomunate da un’evidente affinità di contenuti e di oggetti di tutela[109].

Ai fini della definzione del concetto di debolezza economica o di povertà, nel codice penale sono utilizzate formulazioni normative quali “stato di necessità”, di “difficoltà economica o finanziaria” e di “stato di bisogno”. Tali definizioni caratterizzano, di volta in volta, la posizione del soggetto agente ovvero quella della persona offesa dal reato[110]. Occorre osservare, tuttavia, che nessuna delle formule indicate è accompagnata da una norma definitoria: il riferimento alla condizione economica del soggetto assume la natura giuridica di elemento normativo, il cui contenuto richiede una precisazione, in via interpretativa, condotta sul singolo caso, attraverso l’attività della giurisprudenza. Il concetto di “vulnerabilità”, inteso in senso economico[111], avrebbe potuto essere considerato pertinente in relazione all’ambito di rilevanza criminologica dello sfruttamento del lavoro, per il suo legame con una condizione – quella di povertà – suscettibile di riscontri empirici attraverso rilevazioni statistiche svolte in relazione ad un determinato contesto geografico e in un determinato arco temporale[112]. Il legislatore italiano, invece, ha optato, ragionevolmente[113], per una formulazione lessicale già nota al diritto penale, che non è esente da questioni interpretative tuttora insolute: lo stato di bisogno. Quest’ultimo contribuisce alla definizione delle condotte illecite disciplinate dall’art. 603 bis c.p.[114], identificando la condizione della persona nei confronti della quale le azioni di sfruttamento e di approfittamento sono commesse.

Ai fini della delimitazione dell’ambito applicativo dell’art. 603 bis c.p., lo stato di bisogno è stato definito come una situazione «intermedia tra il mero stato di difficoltà economica o finanziaria […] e lo stato di necessità»[115]. Sul piano interpretativo, è diffuso l’accostamento del requisito in oggetto alla fattispecie di usura (art. 644 c.p.) e alle modalità con le quali è stata qualificata la condizione della persona offesa[116]. In questa figura di reato, infatti, possono essere riscontrati elementi strutturali affini a quelli che caratterizzano l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro, contrattazioni illecite alle quali il soggetto passivo può acconsentire in quanto indotto dalla propria condizione di difficoltà economica. In riferimento al delitto di usura, ai fini dell’applicazione del trattamento sanzionatorio aggravato riservato all’autore di una contrattazione usuraria “in danno” del soggetto in stato di bisogno, la giurisprudenza di legittimità ha accolto un orientamento, ampiamente consolidato, secondo il quale lo stato di bisogno si identifica «non con uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma con un impellente assillo» e cioè con una «situazione di grave difficoltà, anche temporanea, in grado di limitare la volontà della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose»[117]. Le prevalenti interpretazioni della dottrina e della giurisprudenza, dunque, convergono sull’effetto di compromissione della libertà di scelta della persona offesa dal reato.

Chiamata a pronunciarsi circa i confini interpretativi dello stato di bisogno in relazione all’art. 603 bis c.p., la Corte di cassazione ha richiamato l’orientamento giurisprudenziale emerso in relazione al delitto di usura. Attraverso questa impostazione, oltre a fissare coordinate condivise sul piano interpretativo, si è apportato un contributo ai fini della stabilità e della prevedibilità delle decisioni giudiziarie anche con riferimento alla nuova fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 603 bis c.p.

Il punto, tuttavia, sembra meritevole di una riflessione autonoma rispetto ai nuovi reati finalizzati alla repressione dello sfruttamento del lavoro, per le specificità del contesto criminologico nel quale gli stessi si inseriscono.

La prima questione interpretativa che occorre affrontare attiene, infatti, all’angolo visuale dal quale valutare la sussistenza di uno “stato di bisogno” giuridicamente rilevante, poiché da tale impostazione derivano notevoli implicazioni circa l’ambito applicativo della fattispecie. Lo stato di bisogno potrebbe essere considerato da un punto di vista oggettivo, esterno alla dimensione della persona offesa ed ancorato a parametri puramente economici. Diversamente, il requisito dello stato di bisogno potrebbe essere considerato dal punto di vista della persona offesa, valorizzando la sua soggettiva percezione della condizione di bisogno nonché le implicazioni psicologiche che da tale condizione derivano, in termini di limitazione della possibilità di esprimere libere scelte d’azione.

La prima opzione appare utile, nella misura in cui consente di contestualizzare la contrattazione svantaggiosa in un ambito caratterizzato da parametri univoci, evitando nel contempo forme di disuguaglianza legate alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti. La persona che accede alla contrattazione, infatti, potrebbe essere condizionata da fattori culturali e sociali – come accade per le persone provenienti da contesti sociali con standard economici molto differenti da quelli del nostro Paese – che inducono a considerare “accettabile” un accordo contrattuale intrinsecamente iniquo[118]. Tale impostazione, tuttavia, rischia di non valorizzare adeguatamente la componente psicologica inerente alla persona offesa e il condizionamento derivante dal proprio stato di difficoltà economica.

Per altro verso, un eccessivo risalto attribuito alla dimensione psicologica del soggetto passivo del reato può introdurre elementi di incertezza insuperabile nella valutazione del requisito dello stato di bisogno. Il punto è già stato evidenziato dalla dottrina, che ha sottolineato quanto possano incidere, nella considerazione delle proprie condizioni economiche, gli stimoli provenienti da una società consumistica, nella quale risulta sostanzialmente alterata la concezione di cosa si debba intendere per “bisogno” e per condizioni di “difficoltà economica”[119]. Se il riconoscimento della rilevanza da attribuire alla componente psicologica dello stato di bisogno coglie, per un verso, l’effetto di condizionamento che le situazioni di difficoltà economica possono svolgere rispetto all’accettazione di un contratto di lavoro fortemente svantaggioso, per altro verso simile valutazione introduce problemi di determinatezza nella definizione dei presupposti del reato.

Il requisito dello stato di bisogno, dunque, appare intrinsecamente complesso, in quanto fondato sulla sussistenza di obiettive condizioni di difficoltà economica, tali da incidere sui processi motivazionali del soggetto passivo, indotto ad accettare contrattazioni sfavorevoli in ambito lavorativo[120]. Pur escludendo che valgano ad integrare il presupposto normativo valutazioni della persona che esprimono «bisogni soggettivamente percepiti»[121], l’attribuzione di un significato definito allo stato di bisogno può avvenire soltanto nell’ambito della singola vicenda, mediante una valutazione attenta alle specificità del caso.

Sul punto, in sede di applicazione giudiziaria dell’art. 603 bis c.p. è emerso – come si è detto – un orientamento della Corte di legittimità che richiama i principi enunciati con riferimento all’art. 644 c.p. Sul piano giudiziario, peraltro, non sembra sia stata finora offerta una compiuta elaborazione circa i termini della questione interpretativa dello stato di bisogno. Questo dato è spiegabile, per un verso, con la concentrazione delle valutazioni giudiziarie sui presupposti della condotta, in particolare sul concetto di approfittamento e sulla verifica della sussistenza degli indici di riferimento presenti nell’art. 603 bis c.p.[122]. Per altro verso, la già segnalata natura cautelare della maggior parte dei procedimenti ai sensi dell’art. 603 bis c.p. attualmente instaurati presso la Corte di cassazione[123] non ha consentito, finora, un adeguato approfondimento dei presupposti sostanziali del reato. Il requisito in questione, inoltre, presenta difficoltà applicative, analoghe a quelle già emerse nell’ambito della giurisprudenza in materia di usura[124].

Nondimeno, l’analisi delle sentenze emesse consente di riscontrare importanti indicazioni circa l’attenzione prestata dai giudici alle caratteristiche del contesto e il rifiuto di argomentazioni meramente presuntive. Nell’ambito di vicende di sfruttamento lavorativo che hanno coinvolto immigrati come persone offese, la Corte di legittimità ha dichiarato che tale status non costituisce un elemento autonomamente valutabile ai fini dell’integrazione dello stato di bisogno. La Cassazione ha ribadito in varie occasioni che «la mera condizione di irregolarità amministrativa del cittadino extracomunitario nel territorio nazionale, pure accompagnata da una condizione di disagio e di bisogno di accedere alla prestazione lavorativa, non può di per sé costituire elemento valevole […] ad integrare la fattispecie di cui all’art. 603 bis cod. pen.»[125]. La condizione in questione, dunque, non assume rilevanza decisiva rispetto alla qualificazione di uno stato di bisogno, risultando necessaria una verifica delle condizioni in cui il lavoratore effettivamente si trova, evitando valutazioni in termini astratti, derivanti dall’assegnazione della persona offesa ad una categoria di soggetti, dei quali si presume l’esposizione ad uno stato di bisogno.

Analoga attenzione la Corte di legittimità sta manifestando rispetto alle difficoltà economiche indotte da fattori esterni, quali la crisi economica e occupazionale, che coinvolge indifferentemente cittadini e stranieri, costretti ad affrontare “nuove povertà”. Sul punto, la Corte ha ritenuto corretta «l’opzione interpretativa […] che ha ravvisato nella condizione delle vittime (non più giovani e/o non particolarmente specializzate e, quindi, prive della possibilità di reperire facilmente un’occupazione lavorativa) una condizione di difficoltà economica capace di incidere sulla loro libertà di autodeterminazione a contrarre»[126]. Sono state considerate sussistenti condizioni economiche disagiate, rilevanti ai fini dello “stato di bisogno”, anche nei casi in cui i lavoratori si siano assoggettati a situazioni lavorative opprimenti e pregiudizievoli, spinti da circostanze quali l’assenza di altri mezzi di sostentamento[127], l’esigenza di far fronte ai bisogni di mantenimento proprio e della famiglia, la mancanza di un alloggio[128].

Nell’ambito semantico dello “stato di bisogno” confluiscono, dunque, molteplici elementi meritevoli di considerazione. Nonostante le importanti indicazioni provenienti dalla giurisprudenza, appare opportuno sviluppare una più specifica riflessione circa il contenuto da assegnare al requisito normativo che qualifica la condizione della persona offesa, tralasciando le formule elaborate rispetto al reato di usura, che rischiano di essere trasposte in modo tralatizio nell’ambito applicativo dell’art. 603 bis c.p. Sarebbe opportuno, in proposito, valorizzare le specificità che emergono dal contesto criminologico specifico – l’ambiente lavorativo – nel quale il fenomeno dello sfruttamento si manifesta. Una corretta interpretazione dei presupposti normativi corrisponde ad esigenze fondamentali del sistema penale, ossia il riconoscimento dei tratti distintivi delle singole figure criminose e il rispetto del carattere frammentario delle norme incriminatrici.

 

  1. Gli ulteriori strumenti di contrasto a margine dell’art. 603 bis c.p.

 

In occasione dell’intervento di riforma dell’art. 603 bis c.p., avvenuto con la l. 29 ottobre 2016, n. 199, il legislatore ha affiancato alla fattispecie incriminatrice ulteriori strumenti giuridici finalizzati alla repressione dello sfruttamento della persona a scopo lavorativo, contenuti negli articoli 603 bis.1 e 603 bis.2 c.p.[129]. Le disposizioni in questione sono dettate dalla finalità di contrastare le condotte offensive in ambito lavorativo attraverso i profili che ne caratterizzano, nella prassi, lo svolgimento.

Un ruolo di rilievo è assegnato, in primo luogo, alla confisca obbligatoria (art. 603 bis.2 c.p.), misura che risulta di particolre utilità nel contrastare le attività produttive di beni e di servizi, attraverso le quali avviene lo sfruttamento dei lavoratori. Applicando modelli già efficacemente impiegati nell’ambito della criminalità d’impresa, il legislatore ha affiancato alle fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p. la confisca obbligatoria delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o il profitto. È prevista, altresì, la possibilità della confisca dei beni di cui il reo ha la disponibilità, anche indirettamente o per interposta persona, per un valore corrispondente al prodotto, prezzo o profitto del reato[130].

Da quanto emerge dalla giurisprudenza della Corte di legittimità, molti dei procedimenti cautelari instaurati per reati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro attengono alla misura del sequestro preventivo finalizzato alla confisca dei beni aziendali[131]. La pluralità di iniziative dirette all’applicazione della misura della confisca nei confronti dei beni e degli strumenti utilizzati nella commissione del reato sembra manifestare, anche per le fattispecie in esame, le potenzialità che lo strumento ha già espresso con riferimento ad altri fenomeni criminali: la misura consente di ostacolare la prosecuzione delle attività illecite, sottraendo al soggetto agente o all’impresa la disponibilità dei profitti del reato ovvero delle risorse economiche e degli strumenti necessari per le attività produttive[132].

Nel quadro degli strumenti di contrasto dello sfruttamento della persona a scopo lavorativo, merita considerazione anche la circostanza attenuante prevista dall’art. 603 bis.1 c.p. Tale disposizione corrisponde ad una strategia di sollecitazione della collaborazione processuale da parte dei soggetti coinvolti nell’esercizio dell’attività criminale, secondo una logica di natura premiale. Riproponendo nella materia dello sfruttamento dell’attività lavorativa un modello di intervento già applicato in altri ambiti penalistici[133], il legislatore ha previsto uno strumento di attenuazione del trattamento sanzionatorio applicabile nei casi in cui sia attuata una condotta di fattiva collaborazione da parte dei soggetti coinvolti nel reato a favore della sua repressione[134]. Dal punto di vista politico-criminale, la circostanza attenuante in esame assume il significato di uno strumento di incentivazione all’assunzione di comportamenti di cooperazione con le autorità procedenti[135], attraverso iniziative che possano risultare efficaci per la repressione del reato e per il recupero dei profitti illeciti conseguiti[136]. Sul piano della formulazione tecnica, suscita rilievi critici la mancata indicazione, nel testo normativo, di limiti temporali entro i quali la collaborazione è ammessa[137], in considerazione delle esigenze di accertamento probatorio secondo tempistiche coerenti con le ordinarie cadenze del processo penale.

A differenza da quanto è emerso in relazione alla misura della confisca, peraltro, lo strumento della circostanza attenuante non sembra aver dato prova di una concreta operatività nella prassi. A distanza di alcuni anni dalla sua introduzione, avvenuta con l. 29 ottobre 2016, n. 199, non constano applicazioni giudiziarie significative di questa disciplina. L’assenza di dimostrazioni dell’applicazione della circostanza attenuante in oggetto deve essere valutata, peraltro, avendo riguardo alle specificità che connotano il contesto criminologico nel quale la stessa si inserisce. Gli ambienti criminali caratterizzati da attività di sfruttamento del lavoro presentano difficoltà legate alla natura organizzata di simili contrattazioni e, non di rado, al coinvolgimento di organizzazioni criminali. In queste condizioni, non appare agevole sollecitare condotte di cooperazione con le autorità per la repressione del reato. Le organizzazioni criminali, infatti, operano spesso con modalità caratterizzate da violenza ed intimidazione, cosicché la prospettiva di affrontare i rischi di ritorsioni e di pericoli per la propria incolumità può costituire un fattore significativo di disincentivazione delle condotte di collaborazione con le autorità[138].

Se dal punto di vista applicativo la disposizione in esame non ha ancora manifestato significativi sviluppi, la disciplina appare nondimeno meritevole di interesse sul piano politico-criminale. Le strategie dirette ad ottenere la collaborazione processuale da parte di un soggetto che abbia partecipato alla commissione di un reato presentano profili di ambiguità, attinenti al fatto che l’ordinamento giuridico dimostra la propria disponibilità ad una differente modulazione della risposta sanzionatoria nei confronti di chi ha operato all’interno del contesto criminale che la fattispecie incriminatrice si propone di ostacolare[139]. La prospettiva di un trattamento sanzionatorio attenuato in favore di un soggetto che abbia partecipato alla realizzazione di fatti penalmente rilevanti appare discutibile, nella misura in cui sia intesa come implicita ammissione, da parte delle istituzioni, dell’incapacità di contrastare un fenomeno criminale in modo efficace, con gli strumenti giuridici disponibili. Il ricorso ad un comportamento collaborativo, sostanzialmente equiparabile ad una delazione[140], rappresenta, in questo senso, una dimostrazione di inadeguatezza delle ordinarie risorse del sistema penale[141].

Per il soggetto che si avvalga delle possibilità offerte dalla collaborazione processuale, inoltre, sono intuitive le riflessioni critiche rispetto alle motivazioni che possono aver sollecitato simile comportamento. Considerata la gravità delle accuse e la prospettiva di un trattamento sanzionatorio rigoroso, la collaborazione processuale può costituire espressione di valutazioni meramente utilitaristiche, che non rappresentano verosimilmente l’esito di un percorso di revisione critica della propria condotta illecita da parte dell’interessato[142].

Nonostante la ragionevolezza delle obiezioni sollevate nei confronti delle discipline fondate sulla collaborazione processuale, occorre prendere atto che, sul piano operativo, misure di questo tipo hanno dato prova in passato di grande utilità, consentendo di contrastare fenomeni criminali che, in assenza di un consistente apparato probatorio, risultano di difficile controllo. I dati empirici disponibili e le statistiche giudiziarie evidenziano che le attività di sfruttamento dei lavoratori implicano in molte occasioni una struttura organizzata che, pur non richiedendo la partecipazione di più persone[143], si concretizza anche nel coinvolgimento di organizzazioni criminali. Accanto alle ipotesi di concorso di persone nel reato[144], infatti, ricorrono casi di sfruttamento a scopo lavorativo attuato da organizzazioni criminali dotate di una struttura associativa stabile e articolata, la cui attività criminale si svolge secondo programmi criminosi definiti[145]. Di fronte ai gravi rischi di realizzazione in forma seriale di condotte di sfruttamento di più persone e all’incremento dei già segnalati coinvolgimenti di imprese italiane nel traffico di esseri umani finalizzato allo sfruttamento lavorativo, la previsione di strumenti giuridici ritenuti in grado di sollecitare la dissociazione di alcuno dei partecipi appare opportuna, non soltanto per (tentare di) indebolire la struttura organizzativa di matrice criminale[146], ma anche per ottenere informazioni utili alla prosecuzione delle indagini e delle attività di contrasto, delineando i differenti contesti criminali, le tipologie di organizzazioni coinvolte, le modalità dello sfruttamento e gli eventuali progetti criminosi di futura realizzazione.

L’assenza di precedenti giudiziari significativi, da questo punto di vista, risulta spiegabile con le peculiarità del contesto criminale di riferimento; nondimeno, la mancanza di una consistente esperienza applicativa dell’istituto non costituisce indice della sua inutilità: al contrario, può essere intesa come incentivo «per una rinnovazione e implementazione della cultura investigativa»[147].

 

 

 

 

  1. Il contrasto penale dello sfruttamento come condizione necessaria (ma non sufficiente) per la tutela della persona in ambito lavorativo

 

Gli strumenti legislativi volti al contrasto dello sfruttamento in ambito lavorativo, nelle varie forme con le quali lo stesso può essere realizzato, hanno rivelato importanti potenzialità nel confronto con la prassi. Alla più recente disciplina dettata dall’art. 603 bis c.p. può essere riconosciuto il merito di aver focalizzato il disvalore della condotta nello sfruttamento a scopo lavorativo di una preesistente condizione di vulnerabilità della persona sul piano economico. Per quanto lo strumento giuridico articolato nei termini delineati non sia esente da insidie in relazione ai suoi elementi strutturali e al relativo accertamento probatorio, lo stesso appare meritevole di una rinnovata riflessione, rispetto alle valutazioni critiche inizialmente espresse[148]. Sembrano meritevoli di essere ridimensionate le iniziali riserve formulate circa il profilo simbolico della disciplina in questione[149], che risulterebbe connotata da aspirazioni efficientistiche difficilmente raggiungibili. Sebbene ispirato da logiche di risposta sanzionatoria “emergenziale”, nel sistema penale è stato introdotto uno strumento che ha ovviato ad una lacuna normativa esistente nella repressione delle forme di sfruttamento della persona.

Nondimeno, la complessità del fenomeno, unita al carattere composito della stessa legislazione in materia di lavoro[150], suggeriscono che la disciplina in oggetto non può che costituire il tassello di un sistema articolato di tutele, che dovrebbe essere indirizzato alla predisposizione di strumenti che possano ostacolare, in via preventiva, lo sfruttamento della persona. Come per altri casi, anche nella materia in esame l’intervento del diritto penale, sebbene caratterizzato da severità e rigore, interviene in un momento successivo rispetto alla commissione di gravi offese ai danni degli interessi coinvolti. Nel contempo, la reiterazione di condotte illecite in ambito lavorativo e i fenomeni di sfruttamento di natura sistemica risultano indicativi del fatto che molteplici situazioni di irregolarità sono sfuggite alle maglie del sistema dei controlli e della sorveglianza in materia di lavoro[151]. Simili criticità, che hanno assunto una notevole accentuazione a seguito dell’emergenza sanitaria[152], costituiscono nondimeno situazioni radicate nel nostro Paese, a dimostrazione dell’incapacità dell’attuale sistema dei controlli di intercettare situazioni anche di spiccata gravità.

La crisi finanziaria ha contribuito a creare uno scenario di preoccupante vulnerabilità economica diffusa, nell’ambito del quale le scelte d’azione risultano condizionate dalla mancanza di risorse patrimoniali e dimostrano l’adattamento a situazioni che, per quanto temporanee, sono sostanzialmente pregiudizievoli. Dalle vicende giudiziarie è emerso, altresì, che la particolare vulnerabilità delle persone sottoposte a sfruttamento in ambito lavorativo, oltre a costituire un ostacolo specifico per l’accesso alla giustizia e alle forme di tutela, accentua le difficoltà di conoscenza e di ricostruzione dei contesti criminali, incidendo sulle possibilità materiali di contrasto dei reati. Soffermando l’attenzione sulle modalità con le quali le vicende di sfruttamento sono giunte a conoscenza delle autorità pubbliche, infatti, risultano decisamente isolati i casi nei quali sono state presentate denunce da parte delle persone offese: le situazioni di sfruttamento sono emerse, in molte occasioni, mediante segnalazioni alle autorità ovvero attraverso attività di controllo e di vigilanza svolte dall’Ispettorato del lavoro e dalle Forze dell’ordine[153]. A conferma delle difficoltà di una spontanea cooperazione delle persone offese, elementi utili di riflessione emergono dallo svolgimento degli accertamenti processuali. Gli elementi probatori sono stati raccolti, prevalentemente, attraverso verbali di autorità ispettive e di controllo[154], attività di osservazione sul territorio svolte dalla polizia giudiziaria[155], prove documentali – quando esistenti[156] – ed intercettazioni telefoniche o ambientali[157]. In alcune vicende, inoltre, l’accertamento dei fatti è stato ostacolato dalla condotta processuale delle persone offese, le quali, attraverso dichiarazioni testimoniali inattendibili o controverse ovvero mediante la loro ritrattazione[158], hanno manifestato la presenza di un profondo condizionamento psicologico legato all’esistenza di un rapporto di lavoro con la parte coinvolta nell’accertamento processuale[159]. Le difficoltà sono risultate ancora maggiori in relazione ai contesti criminali di particolare pericolosità, nei quali le persone offese sono esposte ad elevati rischi di atti di ritorsione e a pericoli per la propria incolumità in caso di cooperazione con le autorità[160].

La mancanza di disponibilità alla denuncia dei fatti, il contegno processuale e le ulteriori difficoltà di accertamento riconducibili alle condizioni della persona offesa costituiscono conferme di un fenomeno criminale caratterizzato da un elevato livello di cifra oscura. Rispetto ad esso, l’introduzione di strumenti repressivi sul piano penale non costituisce una soluzione in grado di eliminare le criticità emerse.

La materia dello sfruttamento a scopo lavorativo, pur connotandosi di particolare gravità e richiedendo necessariamente l’intervento del diritto penale per le forme più gravi di offesa ai diritti della persona, si inserisce nella più ampia problematica del lavoro irregolare. Gli effetti negativi di tali irregolarità implicano conseguenze riconoscibili dalla prospettiva delle singole persone coinvolte, in termini di violazioni dei propri diritti e di esperienze d’ingiustizia[161], ma si ripercuotono altresì sul sistema economico complessivamente inteso[162]. La costruzione di un sistema organico volto al contrasto del fenomeno dello sfruttamento lavorativo deve avvenire, dunque, a partire dagli strumenti del diritto del lavoro e da forme efficienti di rilevamento del lavoro irregolare. L’intervento nei contesti di sfruttamento dovrebbe essere attuato a partire dal potenziamento degli strumenti con funzione preventiva, intensificando i controlli, le ispezioni e la vigilanza sulle attività lavorative e sui luoghi nei quali le stesse si svolgono, sollecitando l’attenzione collettiva anche sui contesti isolati e disagiati, nei quali possono radicarsi con maggiore facilità prassi illecite. Il potenziamento dei controlli e delle verifiche eseguite da soggetti con incarichi istituzionali può svolgere un ruolo di grande significato anche sul piano dimostrativo, evidenziando l’impegno comune nel contrasto delle pratiche di sfruttamento.

Gli strumenti preventivi, così come quelli sanzionatori, possono offrire un contributo notevole ai fini della repressione dello sfruttamento del lavoro. Per una più effettiva tutela della persona rispetto a simili pratiche, tuttavia, è necessario un mutamento di approccio dal punto di vista culturale. Lo sviluppo di un nuovo percorso di tutela della persona in ambito lavorativo può avvenire soltanto promuovendo una cultura del rispetto delle regole, anche in assenza della minaccia di controlli e di reazioni sanzionatorie. Si è rilevato, a questo proposito, che il contrasto delle pratiche di sfruttamento del lavoro risulta difficile, anche perché esiste «una relativa accettazione sociale del metodo»[163]. In questo scenario, neppure le sollecitazioni provenienti dall’Organizzazione internazionale del lavoro possono riuscire a promuovere standard minimi di tutela, in mancanza di un intervento strutturale di «educazione» sociale al rispetto della persona del lavoratore e dei suoi diritti[164].

 

Abstract: The article analyses the issue of labour exploitation and the criminal regulation aimed at its contrast. At a criminological level, work contexts highlight different forms of exploitation, the most recent of which are linked to the impact of new technologies. This change has been further induced, among other reasons, by the Covid-19 outbreak and consequent pandemic. The sanitary emergency has led to an increased use of smart working, which in turn has proved to be a very demanding model of work. The need to ensure social distancing and like-precautionary measures on the workplace has created multiples occasions for the exploitation of workers. To better assess the effectiveness and the efficacy of criminal law in countering these forms of labour exploitation, the provisions of art. 603 bis of the Italian Criminal Code, concerning a series of illicit conducts in this domain, are analysed. These provisions are becoming increasingly important in the criminal justice system, giving rise to criminal proceedings and judgments. Article 603 bis of the Italian Criminal Code currently represents a point of reference in the fight against labour exploitation. The complexity of this multifaceted phenomenon, however, requires to combine criminal law with other tools, and especially with preventive measures that promote decent work conditions, transparency of labour intermediation and adequate tools for the timely identification of the various forms of exploitation.

 

Key words: Labour exploitation, Forced or compulsory labour, Migrant workers, Smart working, Vulnerability, Decent work, Criminal law.


* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] Fin dalla Convenzione di Ginevra del 25 settembre 1926 in materia di schiavitù, le istituzioni internazionali hanno evidenziato la necessità di assicurare tutela alla persona nei confronti di condotte di sfruttamento in ambito lavorativo che, in considerazione delle modalità coattive di esecuzione, integrano il fenomeno del lavoro forzato. Cfr. anche la Convenzione supplementare di Ginevra del 7 settembre 1956, sull’abolizione della schiavitù, del commercio di schiavi e delle istituzioni e pratiche assimilabili alla schiavitù, e la Direttiva 2011/36/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2011, concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime.

[2] Secondo la più pregnante traduzione del termine – decent – utilizzato nelle fonti sovranazionali, come rileva V. Ferrante, Libertà economiche e diritti dei lavoratori. Il contrasto al lavoro “non dichiarato” nella legislazione internazionale, europea e nei trattati commerciali, Milano, 2020, p. 12.

[3] Assume particolare importanza, in questo ambito, l’attività svolta dall’ILO (International Labour Organization), con le numerose dichiarazioni dalla stessa emesse in materia di lavoro. L’ampiezza e la specificità di contenuto che queste fonti hanno progressivamente acquisito costituisce un indice inequivocabile dei molteplici profili di criticità della materia del lavoro e della necessità di interventi di regolamentazione dettagliati e finalizzati alla soluzione dei problemi di tutela propri di un ambito normativo in continua evoluzione. Per un quadro aggiornato delle principali fonti sovranazionali in materia di lavoro, cfr. V. Ferrante, Libertà economiche e diritti dei lavoratori, cit., p. 11 ss. V. anche L. Calafà, Lavoro degli stranieri, in Enc. dir., Annali, vol. VIII, Milano, 2015, p. 593 ss.; M. Borzaga, Politiche di contrasto allo sfruttamento del lavoro: OIL e UE tra sanzioni e prevenzione, in Lav. dir., 2021, 2, p. 215 ss.

[4] Sono numerose le disposizioni costituzionali inerenti al tema del lavoro. La rilevanza assegnata al lavoro nella Carta costituzionale emerge, in primo luogo, dall’art. 1, 1° comma, Cost e dall’art. 4 Cost., che riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, ma anche dall’art. 41, 2° comma, Cost., nel quale è previsto che le attività economiche non possano svolgersi in modo da recare danno «alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Ulteriori riferimenti sono presenti nel Titolo III, relativo ai rapporti economici, in particolare negli artt. 35, 36, 37, 38, 39, 40 e 46 Cost. Sulla tutela costituzionale del lavoro, cfr. M. Napoli, Le norme costituzionali sul lavoro alla luce dell’evoluzione del diritto del lavoro, in Jus, 2008, 1, p. 59 ss.     

[5] Per una ricostruzione degli snodi fondamentali dello sviluppo della legislazione in materia di lavoro cfr., per tutti, O. Mazzotta, Manuale di diritto del lavoro, Padova, 20219, p. 9 ss. V. anche A. Giuliani, I reati in materia di “caporalato”, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, Padova, 2015, p. 31 ss.; A. Morgante, “Quel che resta” del divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro dopo la “riforma Biagi”, in Dir. pen. proc., 2006, 6, p. 736 ss.; A. Vecce, Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (c.d. Caporalato), in Dig. disc. pen., Agg. X, Torino, 2018, p. 413; A. Scarcella, Il reato di “caporalato” entra nel codice penale, in Dir. pen. proc., 2011, 10, p. 1186; D. Amato, Lo sfruttamento della manodopera, in L. Miani – F. Toffoletto (a cura di), I reati sul lavoro, Torino, 2019, p. 298 ss. 

[6] Cfr., sul punto, O. Mazzotta, Poteri e contropoteri nello Statuto dei lavoratori cinquant’anni dopo, in Lav. dir., 2020, 4, 759 ss.; G. Santoro Passarelli, Il diritto del lavoro a cinquant’anni dallo Statuto dei lavoratori, in Riv. it. dir. lav., 2020, 1, p. 101 ss.; M. Napoli, Lo Statuto dei lavoratori ha quarant’anni, ben portati, in Lav. dir., 2010, 1, p. 123 ss.  

[7] Sul tema, cfr. V. Ferrante, Prefazione, in Id. (a cura di), Economia ‘informale’ e politiche di trasparenza. Una sfida per il mercato del lavoro, Milano, 2017, p. 11, il quale osserva che sotto «l’etichetta, consueta al linguaggio popolare, di ‘lavoro nero’ (o, più còlta, di economia ‘sommersa’ o ‘informale’) si annidano ipotesi diverse»: in particolare, «accanto ad attività semplicemente illegale (perché penalmente illecita o comunque vietata a mente delle disposizioni civili), si colloca una vasta area di attività di lavoro, spesso di tipo autonomo, ‘non dichiarato’ alle autorità pubbliche e quindi suscettibile di regolarizzazione, almeno nei casi in cui non sussistono condizioni ostative che impediscono una immediata sanatoria». V. anche M. Esposito, Lavoro sommerso, in Enc. dir., Annali, vol. V, Milano, 2012, p. 752 ss.

[8] Cfr., in particolare, M. Napoli, Povertà vecchie e nuove e diritto del lavoro, in Jus, 2006, 1, p. 61 ss.; M. Esposito, Lavoro sommerso, cit., p. 752 ss.

[9] Cfr., in particolare, M. Romano, Ripensare il diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, 1, p. 1 ss., il quale evidenzia la tendenza in atto a riconoscere al diritto penale un ruolo rafforzativo dei contenuti di norme appartenenti ad altri ambiti disciplinari, a porre le «norme penali a presidio di ogni settore di attività umana anche a base lecita», ivi, p. 5. In questa tendenza è possibile intravvedere una diffusa sfiducia circa l’attitudine di queste normative ad ottenere uno spontaneo adeguamento da parte dei destinatari.

[10] Si veda, sul tema, la recente dichiarazione dell’ILO (International Labour Organization), “Violence and Harassment Convention, 2019 (No. 190)”. La Convenzione persegue obiettivi di contrasto dei fenomeni di violenza in ambito lavorativo, includendo in questa definizione «a range of unaccettable behaviours and practices, or threaths thereof, whether a single occurrence or repetead, that aim at, risult in, or are likely to result in physical, psychological, sexual or economic harm, and includes gender-based violence and harassment» (Art. 1).

[11] R. Blaiotta, Diritto penale e sicurezza del lavoro, Torino, 2020, p. 11.

[12] Evidenzia la complessità dei reati commessi nell’esercizio dell’attività d’impresa, anche con riferimento alle ricadute offensive nei confronti della persona, F. Giunta, Il diritto penale dell’economia: tecniche normative e prova dei fatti, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2017, 3-4, p. 545 s.

[13] Si vedano, sul punto, le riflessioni di A. Poggi, Oltre la globalizzazione. Il bisogno di uguaglianza, Modena, 2020, p. 7 ss. L’A., dopo aver evidenziato le drammatiche ripercussioni della pandemia da Covid-19 sull’economia, ha sottolineato una contrazione, nell’attuale scenario di globalizzazione, delle relazioni economiche mondiali e un corrispondente ripiegamento di ciascuno Stato sulle proprie risorse, alla ricerca delle soluzioni adeguate alle specifiche problematiche emerse all’interno dei propri confini nazionali. Per effetto della pandemia, inoltre, si è manifestata una tendenza «ad un più forte ruolo dello Stato nell’economia», sollecitato «dall’aumento globale della povertà e della disuguaglianza nella povertà», ivi, p. 7. Sulla relazione tra pandemia e globalizzazione economica, v. M. Obstfeld, Globalization Cycles, in Italian Economic Journal, 2020, 6, p. 1 ss.

[14] Sul punto, cfr. T. Barbieri – G. Basso – S. Scicchitano, Italian Workers at Risk during the COVID-19 Epidemic, in Italian Economic Journal, 23 July 2021, p. 1 ss.

[15] Per una riflessione interdisciplinare sul mondo del lavoro e sulle molteplici trasformazioni indotte dall’uso delle nuove tecnologie, cfr. A. Occhino (a cura di), Il lavoro e i suoi luoghi, Milano, 2018.

[16] Si veda, sul punto, il Rapporto annuale ISTAT 2021, dedicato alla situazione del Paese, pubblicato il 9 luglio 2021. Nel rapporto, che evidenzia l’importante incremento della digitalizzazione nelle imprese italiane, sono svolte altresì analisi circa la solidità strutturale delle imprese in seguito alla pandemia e sui presupposti necessari per una ripresa economica, cfr. www.istat.it.

[17] Cfr. S. Seminara, Nuove schiavitù e società “civile”: il reato di sfruttamento del lavoro, in Dir. pen. proc., 2021, 2, p. 137 ss., il quale rileva altresì che la crisi economica suscitata dall’emergenza sanitaria da COVID-19 richiederà, anche per il futuro, un particolare impegno di vigilanza da parte delle istituzioni pubbliche, dato il presumibile incremento del numero di persone in condizioni di difficoltà economica e, conseguentemente, dei casi di sfruttamento di tali condizioni di vulnerabilità per scopi di profitto.

[18] Sulla rilevanza del contesto ai fini della definizione della dimensione di tipicità dello sfruttamento lavorativo, cfr. A. di Martino, Sfruttamento del lavoro. Il valore del contesto nella definizione del reato, Bologna, 2019, p. 149 ss.

[19] Cfr. art. 18 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

[20] La legislazione italiana in materia di lavoro minorile, dettata dalla legge 27 dicembre 2006, n. 296, all’art. 1 stabilisce che il minore, cittadino italiano o straniero, può esercitare attività lavorativa a partire dal compimento del sedicesimo anno di età e dopo aver assolto gli obblighi di istruzione. La materia è oggetto di disciplina da parte di varie dichiarazioni sovranazionali, tra le quali la Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, che tutela il minore nei confronti di forme di sfruttamento in ambito lavorativo. Sul tema, inoltre, rivestono particolare importanza le dichiarazioni dell’ILO (International Labour Organization) in materia di età minima per il lavoro (del 1973) e di proibizione delle forme peggiori di lavoro minorile (del 1999). Sulla base del presupposto per cui il minore svolge attività lavorativa a causa delle disagiate condizioni economiche della famiglia di appartenenza, inoltre, l’Organizzazione internazionale del lavoro ha evidenziato la necessità di assicurare un adeguato sostegno economico ai nuclei familiari in condizioni di povertà.

[21] Cfr. V. Pinto, Filiere agro-alimentari e agro-industriali, rapporti di produzione agricola e lavoro nero, in V. Ferrante (a cura di), Economia ‘informale’ e politiche di trasparenza, cit., p. 83 ss. Per un’indagine sulle dimensioni del fenomeno dello sfruttamento lavorativo nel settore agricolo nel nostro Paese, v. F. Carchedi, La componente di lavoro indecente nel settore agricolo. Casi di studio territoriali, in Agromafie e caporalato. Quinto Rapporto, a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto FLAI-CGIL, Roma, 2020, p. 183 ss.

[22] Gli studi dedicati al settore agricolo come ambito di radicamento di forme di lavoro irregolare sono numerosi. Si vedano, in particolare, le osservazioni di V. Pinto, Filiere agro-alimentari e agro-industriali, cit., p. 83 ss. Sulla base dei risultati delle indagini condotte dall’ISTAT circa la regolarità delle posizioni lavorative nel nostro Paese, l’A. evidenzia la presenza, per il settore agricolo, di dati anomali, in quanto ampiamente superiori alla media nazionale. Nella difficile ricerca delle ragioni che possano spiegare tali risultati, l’A. rileva che, nel settore agricolo, «la diffusione e la generalizzazione di comportamenti datoriali ‘devianti’ sembra attestare – prima ancora che un’insufficienza del tradizionale dispositivo vigilanza / repressione – l’esistenza di una ‘anomalia’ che attiene alle dinamiche di mercato e al modello di specializzazione produttiva», ivi, p. 84.

[23] Cfr. il “Rapporto annuale delle attività di tutela e vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale”, relativo all’anno 2020, dell’INL (Ispettorato nazionale del lavoro), in www.ispettorato.gov.it.

[24] Cfr. A. di Martino, Sfruttamento del lavoro, cit., p. 15, il quale evidenzia che le informazioni circa lo sfruttamento del lavoro e le forme della sua manifestazione provengono, in larga misura, dalle autorità di pubblica sicurezza e «dagli organismi centrali delle tre forze di polizia».

[25] V., in particolare, il Quinto Rapporto in materia di “Agromafie e caporalato”, cit., a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto e di FLAI-CGIL. 

[26] Sul punto, v. M. Colucci, Morire nei campi. Alcuni casi dal 1989 ad oggi, in Agromafie e caporalato. Quinto Rapporto, cit., p. 73 ss., oltre all’importante indagine di A. Leogrande, Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Milano, 20193.

[27] Si vedano, sul punto, i numerosi studi condotti dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. A seguito di una documentata indagine circa la condizione del lavoro in particolare nel settore agricolo, è stato predisposto il “Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato”, che sviluppa una strategia nazionale di contrasto del fenomeno per il periodo 2020-2022. Tale strategia intende svilupparsi in tre fasi: analisi del fenomeno, interventi emergenziali nelle zone critiche ed azione di sistema sul territorio nazionale, cfr. www.lavoro.gov.it.

[28] Cfr. M. Lombardo, Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Dig. disc. pen., Agg., vol. VII, Torino, 2013, p. 359, che evidenzia la significativa trasformazione subita dal fenomeno del caporalato a partire dagli anni ’80 del Novecento, per effetto dell’immigrazione. La presenza sul territorio nazionale di stranieri in condizioni di clandestinità e di emarginazione ha contribuito ad indebolire «i limiti, anche di tipo sociale, ai quali il caporale era soggetto» in passato, cosicché la funzione di organizzazione e di gestione della forza-lavoro ha perso progressivamente rilevanza a fronte delle finalità di sfruttamento del lavoro altrui e della ricerca del massimo profitto. Sul tema, cfr. V. Militello, La tratta di esseri umani: la politica criminale multilivello e la problematica distinzione con il traffico di migranti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 1, p. 86 ss., il quale rileva che, nonostante la modernità delle forme di interposizione, la tratta conserva «un nucleo comune», che consiste nel creare «condizioni di sfruttamento antichissime, quali quelle sessuali o lavorative», ivi, p. 89 s. V. anche Militello – A. Spena (a cura di), Il traffico di migranti. Diritti, tutele, criminalizzazione, Torino, 2015. In giurisprudenza, cfr., tra le altre, Cass., sez. V, 9 settembre 2019, n. 47081.

[29] Dati statistici relativi alle persone impiegate nel settore agricolo, con riferimenti alla distribuzione geografica, alla nazionalità e alla tipologia di contratti, sono reperibili nelle analisi a cura dell’Osservatorio sul mondo agricolo, presso l’INPS (cfr. www.inps.it). Cfr., altresì, il “Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato”, cit., p. 2 ss., per rilevazioni statistiche circa la nazionalità delle persone coinvolte nel lavoro in agricoltura e le forme contrattuali previste. Sul tema, v. C. Faleri, Il lavoro povero in agricoltura, ovvero sullo sfruttamento del (bisogno) di lavoro, in Lav. dir., 2021, 2, p. 149 ss.

[30] Si vedano, sul punto, le osservazioni di D. Pulitanò, Lo straniero e la sicurezza sul lavoro, in F. Curi (a cura di), Lo straniero nel diritto penale del lavoro e dell’impresa, Bologna, 2011, p. 73 ss.

[31] Sulla questione dei lavoratori immigrati in condizioni di clandestinità e sulla maggiore vulnerabilità che caratterizza la loro situazione rispetto a condotte ricattatorie per finalità di sfruttamento, cfr. A. di Martino, Sfruttamento del lavoro, cit., p. 39. V. anche D. Mancini, I «Decreti Salvini». I lavoratori agricoli stranieri diventano più vulnerabili, in Agromafie e caporalato. Quinto rapporto, cit., p. 27 ss.

[32] Si vedano, sul punto, le osservazioni di T. Treu, Conclusioni, in V. Ferrante (a cura di), Economia ‘informale’ e politiche di trasparenza, cit., p. 231, secondo il quale una delle aree in cui risulta più difficile l’azione di contrasto del lavoro irregolare è il settore agricolo, area «a basso livello di innovazione e a basso livello di organizzazione». L’agricoltura, «isolata, senza reti, senza connessione organizzata alla distribuzione e all’industria» manifesta minori capacità di resistenza alla pressione del fenomeno del lavoro irregolare, «che è una pressione da costi».

[33] Cfr. il “Rapporto annuale delle attività di tutela e vigilanza in materia di lavoro e legislazione sociale”, relativo all’anno 2020, dell’INL (Ispettorato nazionale del lavoro). Nel rapporto si evidenzia che l’attività di vigilanza e di controllo, condotta pur con le limitazioni imposte dall’emergenza sanitaria da Covid-19, ha consentito di svolgere 61.942 ispezioni presso le imprese italiane. Di esse, 40.705 ispezioni si sono chiuse con un verbale di contestazione di illeciti. La percentuale complessiva delle irregolarità riscontrate, rispetto alle ispezioni effettuate, è pari al 65,7%. Quanto ai settori oggetto di controllo, oltre all’agricoltura, i dati evidenziano indici di irregolarità elevati nel settore dell’edilizia (67,2%)  e nel terziario (66,2%). Con riferimento al settore terziario, il tasso di irregolarità è risultato maggiore nei seguenti ambiti: servizi di alloggio e ristorazione, servizi di supporto alle imprese, trasporto e magazzinaggio, attività sportive e di intrattenimento. Per questi dati, cfr. www.ispettorato.gov.it.

[34] Per un approfondimento sul punto, nella prospettiva penalistica, cfr. A. Merlo, Il contrasto allo sfruttamento del lavoro e al “caporalato” dai braccianti ai riders. La fattispecie dell’art. 603 bis c.p. e il ruolo del diritto penale, Torino, 2020, p. 21 ss.

[35] Sollecitando il problema del c.d. diritto alla disconnessione, cfr. V. Ferrante, Il lavoro a distanza e il diritto “alla disconnessione”, in A. Occhino (a cura di), Il lavoro e i suoi luoghi, cit., p. 119; C. Spinelli, Tecnologie digitali e organizzazione del lavoro: lo smart-working è davvero la nuova frontiera della conciliazione vita-lavoro?, ivi, p. 174 ss.; M. Altimari, Il diritto alla disconnessione: un “vecchio” diritto ineffettivo?, ivi, p. 181 ss.

[36] G. Forti, Lavoro, città, diritto, in A. Occhino (a cura di), Il lavoro e i suoi luoghi, cit., p. 9.

[37] Si veda, sul punto, l’ampia e aggiornata indagine svolta dall’Organizzazione internazionale del lavoro, ILO (International Labour Organization), Working from home. From invisibility to decent work, Geneva, 2021, spec. p. 31 ss. V. anche F. Bano, Quando lo sfruttamento è smart, in Lav. dir., 2021, 2, p. 303 ss.

[38] Emblematico, sul punto, il contenuto del “Comunicato stampa” emesso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano in data 24 febbraio 2021. Nel comunicato si ripercorrono i principali sviluppi investigativi inerenti a casi di sfruttamento lavorativo dei c.d. riders, lavoratori nel settore delle consegne a domicilio che hanno ottenuto una particolare notorietà durante il periodo delle limitazioni della circolazione a causa della pandemia da Covid-19. Nel comunicato si evidenzia che, a partire da alcuni infortuni stradali, è stata avviata un’intensa attività di collaborazione tra le differenti autorità di pubblica sicurezza e gli organi preposti alla vigilanza sul lavoro, al fine di accertare i termini e le condizioni contrattuali di questi lavoratori. È emersa, in particolare, una situazione di diffusa violazione delle normative in materia di contratti di lavoro, oltre ad alcune condizioni di grave sfruttamento a scopo di profitto.

[39] Cfr., a proposito di uno dei casi più noti, C. Inversi, Caporalato digitale: il caso Uber Italy Srl, in Lav. dir., 2021, 2, p. 335 ss. Sul punto v. anche A. Merlo, Il contrasto allo sfruttamento del lavoro, cit., p. 15 s.; A. Esposito, I riders di Uber Italy S.r.l., in Riv. it. dir. lav., 2020, 11, p. 558 ss.   

[40] Sul tema, v. R. Tonelli, Legge n. 128 del 2019: nuove tutele per i cc.dd. platform workers e disposizioni dirette al superamento delle crisi industriali, in Studium iuris, 2020, 7-8, p. 858 ss.

[41] In questi termini, V. Mongillo, Il contrasto penale al forced labour: riduzione in schiavitù, caporalato e responsabilità da reato delle società, in AA.VV., Impresa, mercato e lavoro schiavistico: alla ricerca di regole efficaci, Milano, 2019, p. 36.

[42] Emblematica la vicenda decisa da Cass., sez. IV, 16 marzo 2021, n. 24441. Nel caso giunto all’attenzione della Corte di legittimità, nell’ambito di un procedimento cautelare, è stato appurato che una società cooperativa procedeva sistematicamente all’impiego di lavoratori subordinati in assenza di un inquadramento contrattuale corrispondente all’effettiva attività prestata. Ai suddetti lavoratori era stata attribuita la posizione contrattuale di “volontari” a titolo gratuito dell’associazione. La Corte di legittimità ha riscontrato, invece, la sussistenza di «tutti gli indici del rapporto di lavoro subordinato (soggezione al potere direttivo del datore di lavoro; inserimento nell’organizzazione del datore di lavoro; previsione di un compenso fisso e di un orario di lavoro)», accompagnata da irregolarità quali il mancato versamento dei contributi, la corresponsione di rimborsi in misura inferiore ai minimi contrattuali, il mancato riconoscimento di lavoro straordinario, ferie, riposi. Sulla base di quanto è emerso, la Cassazione ha ravvisato la sussistenza di elementi indiziari sufficienti per l’applicazione del provvedimento cautelare, avvalorando l’impostazione accusatoria che identificava, nella fattispecie, i presupposti normativi dell’art. 603 bis, 1° comma, n. 1) e 4° comma, c.p. Sulla diffusione di prassi di sfruttamento lavorativo attraverso l’istituzione di cooperative fittizie, finalizzate ad eludere le disposizioni in materia di lavoro subordinato sul piano retributivo, fiscale e previdenziale, v. P. Brambilla, “Caporalato tradizionale” e “nuovo caporalato”: recenti riforme a contrasto del fenomeno, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2017, 1-2, p. 193.  

[43] Cfr. T. Treu, Conclusioni, cit., p. 230.

[44] Si vedano, sul punto, le riflessioni di S. Borelli – L. Calafà – M. D’Onghia – S. Laforgia – M. Ranieri, L’altro art. 18. Riflessioni giuslavoristiche sullo sfruttamento del lavoro. Introduzione, in Lav. dir., 2021, 2, p. 187 ss.

[45] Sul punto, v. V. Ferrante, Libertà economiche e diritti dei lavoratori, cit., p. 24 ss.

[46] T. Treu, Conclusioni, cit., p. 232 s.

[47] Cfr., in particolare, la l. 11 agosto 2003, n. 228, in materia di misure contro la tratta delle persone.

[48] Secondo la formulazione originaria del codice Rocco del 1930, l’art. 600 c.p. (Riduzione in schiavitù) disponeva che «Chiunque riduce una persona in schiavitù, o in una condizione analoga alla schiavitù, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni».

[49] Sul punto, cfr. M. Bertolino, Il minore vittima di reato, Torino, 20103, p. 138 s.

[50] Si vedano, sul punto, Corte ass. Milano, 18 maggio 1988, in Foro it., 1989, II, p. 121 ss., con nota di L. Sola, Il delitto di «riduzione in schiavitù»: un caso di applicazione, ivi, p. 121 ss.; Cass., sez. V, 7 dicembre 1989, in Foro it., 1990, II, p. 369 ss., con nota redazionale di R. Pezzano; Corte ass. Firenze, 23 marzo 1993, in Foro it., 1994, II, p. 298 ss., con nota di A. di Martino, «Servi sunt, immo homines». Schiavitù e condizione analoga nell’interpretazione di una corte di merito, ivi, p. 298 ss.

[51] Cfr., tra le altre, Corte ass. Trento, 20 novembre 2007, n. 5246, in Giur. merito, 2008, 6, p. 1669 ss., con nota di F. Resta, Neoschiavismo e dignità della persona, ivi, p. 1673 ss.

[52] V., tra le altre, Cass., sez. III, 26 ottobre 2006, n. 2841; Cass., sez. V, 28 settembre 2012, n. 37638, che ha evidenziato la sussistenza di un «integrale asservimento ed esclusiva utilizzazione [della persona] a fini di sfruttamento economico».

[53] Cfr., tra le altre, Cass., sez. V, 7 dicembre 1989, in Foro it., 1990, II, p. 369 ss.

[54] V., in particolare, Cass., sez. V, 29 aprile 2009, n. 22652. Nel caso oggetto di giudizio, l’imputato, proprietario di un negozio di alimentari, aveva tenuto presso il proprio esercizio commerciale un minorenne in condizioni di soggezione continuativa, obbligandolo a prestazioni lavorative per svariate ore al giorno e senza compenso. V. anche Cass., sez. II, 24 settembre 2010, in Cass. pen., 2012, p. 563: in questo caso, gli imputati avevano ridotto in condizione di soggezione continuativa, a scopo lavorativo, alcune persone provenienti dall’Europa orientale, privandole dei passaporti, collocandole in luoghi isolati e senza alcuna relazione con l’esterno, corrispondendo retribuzioni inadeguate e imponendo loro ulteriori privazioni con violenza e minaccia. Cfr. altresì Cass., sez. V, 8 febbraio 2013, n. 16313, in Giur. it., 2013, p. 2333 s., con nota di M.A. Federici, Sugli elementi costitutivi del delitto di riduzione in schiavitù, ivi, p. 2334 ss. Nella vicenda oggetto di giudizio, relativa allo sfruttamento di alcune persone per l’esercizio dell’attività di “mimi”, la Cassazione ha chiarito che «la condotta criminosa non si ravvisa per sé nell’offerta di lavoro implicante gravose prestazioni in condizioni ambientali disagiate verso un compenso inadeguato, poi neanche versato, sol che la persona si determini liberamente ad accettarla, ma possa, al contempo, sottrarvisi una volta rilevato il disagio concreto che ne consegue», ivi, p. 2333. V. anche Cass., sez. V, 19 dicembre 2013, n. 3893; Cass., sez. V, 3 marzo 2011, n. 13557.

[55] In questi termini, tra le altre, Cass., sez. V, 8 marzo 2019, n. 37315; Cass., sez. V, 4 aprile 2002, n. 26636.

[56] Sul punto cfr., in particolare, A. Spena, Reati contro la famiglia, in Trattato di diritto penale diretto da C.F. Grosso – T. Padovani – A. Pagliaro, Parte speciale, vol. XIII, Milano, 2012, p. 347 ss.

[57] In questi termini, Cass., sez. VI, 28 settembre 2016, n. 51591, Rv. 268819. V. anche Cass., sez. VI, 28 marzo 2013, n. 28603.

[58] Sul tema, v., in particolare, R. Bartoli, Fenomeno del mobbing e tipo criminoso forgiato dalla fattispecie di maltrattamenti in famiglia, in Corr. merito, 2012, 2, p. 166 ss.

[59] Cfr., tra le altre, Cass., sez. VI, 11 aprile 2014, n. 24057. Nell’occasione, dopo aver respinto l’impostazione accusatoria fondata sull’art. 600, 1° comma, c.p. per avere l’imputato tenuto alle proprie dipendenze dei lavoratori stranieri in condizioni di estremo degrado ambientale, la Corte ha affermato che la  sussistenza di uno stretto rapporto di vicinanza e di collaborazione lavorativa tra il datore di lavoro ed i subordinati suggeriva l’esistenza di un rapporto di lavoro di natura “parafamiliare”, con la conseguente qualificazione dei fatti ascritti come maltrattamenti, ai sensi dell’art. 572 c.p. Nel caso di specie, i lavoratori erano ospitati in locali fatiscenti, in pessime condizioni igienico-sanitarie, con scarsa somministrazione di cibo e con privazione del compenso per l’attività prestata.

[60] V., tra le altre, Cass., sez. V, 16 gennaio 2018, n. 7871; Cass., sez. II, 13 ottobre 2015, n. 2248; Cass., sez. II, 4 luglio 2013, n. 40077; Trib. Catania, sez. I penale, 21 gennaio 2016, n. 316, in Giurisprudenza penale, 18 aprile 2016. Cfr. altresì Cass., sez. II, 4 luglio 2013, n. 40077: nel confermare la decisione della Corte d’appello che, anteriormente all’introduzione dell’art. 603 bis c.p., aveva qualificato la condotta dell’imputato come “caporalato”, la Corte di cassazione ha osservato che integra gli estremi del reato di estorsione la richiesta di consegna del 10% del guadagno percepito da alcune lavoratrici di nazionalità straniera, dietro la minaccia della denuncia alle autorità della loro condizione di immigrate in condizioni di irregolarità.

[61] Contenente il Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero.

[62] L’art. 22, 12° comma, del d.lgs. 286/1998 sancisce che «Il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa di 5000 euro per ogni lavoratore reclutato». Il successivo comma 12-bis prevede, inoltre, aggravamenti di pena in base al numero di lavoratori occupati e alle «condizioni lavorative di particolare sfruttamento», di cui all’art. 603 bis, 3° comma, c.p.

[63] Si consideri, a questo proposito, anche la disposizione contenuta nel medesimo art. 22, commi 12-quater e 12-quinquies, del d.lgs. 286/1998, che prevede il rilascio del permesso di soggiorno per le vittime di grave sfruttamento lavorativo; sul punto, cfr. L. Masera, I permessi di soggiorno per gli stranieri vittime di reato, in M. Bargis – H. Belluta (a cura di), Vittime di reato e sistema penale. La ricerca di nuovi equilibri, Torino, 2017, p. 452 ss. V. anche P. Brambilla, “Caporalato tradizionale” e “nuovo caporalato”, cit., p. 201 ss.

[64] Cfr. F. Curi, Impiego di stranieri privi del permesso di soggiorno: un nuovo reato presupposto per gli enti?, in Id. (a cura di), Lo straniero nel diritto penale del lavoro e dell’impresa, cit., p. 179 ss.

[65] V., in particolare, Cass., sez. I, 6 maggio 2008, n. 20310.

[66] In giurisprudenza, sul punto, Cass., sez. I, 3 marzo 2009, n. 18550, relativa all’illecito impiego di lavoratori stranieri, sprovvisti del permesso di soggiorno, nell’ambito di un’azienda operante nel settore calzaturiero. V. anche Cass., sez. VI, 6 maggio 2008, n. 21466: oggetto di giudizio della Cassazione è stata una complessa vicenda di favoreggiamento della permanenza in Italia di immigrati clandestini al fine di sfruttarne l’attività lavorativa. Lo sfruttamento del lavoro è stato dedotto «dalle molteplici e gravissime violazioni delle norme antinfortunistiche e dalla mancanza di ogni copertura assicurativa a favore dei lavoratori, elementi tutti che ragionevolmente convergono nella conclusione che la condotta del ricorrente fosse unicamente volta a trarre ingenti e ingiusti profitti dallo sfruttamento dei propri connazionali». V. anche Cass., sez. I, 26 maggio 2021, n. 25672; Cass., sez. IV, 2 marzo 2017, n. 14621.  

[67] Cfr. A. di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correlazione (troppo) scontata, in Dir. pen. contemp. – Riv. trim., 2/2015, p. 115 ss. 

[68] Sulla disciplina dell’art. 603 bis c.p., nella sua formulazione originaria, v. S. Fiore, (Dignità degli) uomini e (punizione dei) caporali. Il nuovo delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in A. Castaldo – V. de Francesco – M. del Tufo – S. Manacorda – L. Monaco (a cura di), Scritti in onore di Alfonso M. Stile, Napoli, 2013, p. 871 ss.; E. Lo Monte, Osservazioni sull’art. 603-bis c.p. di contrasto al caporalato: ancora una fattispecie enigmatica, ivi, p. 953 ss.; A. Scarcella, Il reato di “caporalato” entra nel codice penale, in Dir. pen. proc., 2011, 10, p. 1183 ss.; P. Scevi, Il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: alcuni spunti di riflessione, in Riv. pen., 2012, 11, p. 1059 ss. V. anche P. Rausei, Intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera, in Dir. prat. lav., 2011, 1989 ss.; C. Pugnoli, Intermediazione illecita con sfruttamento: un nuovo reato, ibidem, p. 2744 ss.; F. Rivellini, Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, ivi, 2013, p. 1287 ss.; A. Valsecchi, L’incriminazione delle moderne forme di schiavitù, in F. Viganò – C. Piergallini (a cura di), Reati contro la persona e contro il patrimonio, in Trattato teorico-pratico di diritto penale diretto da F. Palazzo e C.E. Paliero, Torino, 20152, p. 253.

[69] Cfr. la l. 29 ottobre 2016, n. 199.

[70] Sul tema v., in particolare, Agromafie e caporalato. Quinto rapporto, cit.

[71] In questo senso, T. Padovani, Un nuovo intervento per superare i difetti di una riforma zoppa, in Guida dir., 2016, n. 48, p. 49 ss.; E. Lo Monte, Osservazioni sull’art. 603-bis c.p., cit., p. 959 ss. che evidenzia problemi di tassatività della norma, in contrasto con i principi costituzionali in materia penale. V. anche S. Fiore, La nuova disciplina penale della intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, tra innovazioni e insuperabili limiti, in Dir. agr., 2017, 2, p. 269. 

[72] Cfr., tra gli altri, E. Lo Monte, Osservazioni sull’art. 603-bis c.p., cit., p. 962.

[73] In questi termini, V. Torre, Il diritto penale e la filiera dello sfruttamento, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2018, 2, p. 294. V. anche G. Rotolo, A proposito del ‘nuovo’ delitto di ‘intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro’. Note critiche sul controllo penale del c.d. caporalato, in V. Ferrante (a cura di), Economia ‘informale’ e politiche di trasparenza, cit., p. 154; Id., Dignità del lavoro e controllo penale del “caporalato”, in Dir. pen. proc., 2018, 6, p. 811 ss.

[74] Cfr. V. Mongillo, Il contrasto penale al forced labour, cit., p. 39.

[75] Critiche alla definizione delle cornici edittali previste dall’art. 603 bis c.p. sono espresse da S. Seminara, Nuove schiavitù e società “civile”, cit., p. 141 ss.

[76] Sul punto, cfr. A. di Martino, Sfruttamento del lavoro, cit., p. 24; V. anche V. Mongillo, Il contrasto penale del forced labour, cit., p. 38; E. Lo Monte, Osservazioni sull’art. 603-bis c.p., cit., p. 958; A. Vecce, Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, cit., p. 417.

[77] Cfr. A. Giuliani, I reati in materia di “caporalato”, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, Padova, 2015, p. 18 ss., il quale evidenzia la componente di “signoria”, di “dominio” che caratterizza la figura del caporale.

[78] Evidenzia il punto, A. di Martino, Sfruttamento del lavoro, cit., p. 24, il quale rileva che la modifica dell’art. 603 bis c.p. avvenuta con l. 199/2016, ha attribuito maggiore evidenza alla responsabilità del datore di lavoro, e costituisce l’innovazione «più importante e politicamente impegnativa, foriera di sviluppi a un tempo prevedibili e pericolosi nei rapporti fra diritto penale e assetti del sistema produttivo». V. anche T. Padovani, Un nuovo intervento, cit., p. 48. 

[79] Rilievi critici circa la formulazione tecnica degli indici di sfruttamento, che non risultano perfettamente allineati alle corrispondenti discipline giuslavoristiche, sono espressi da V. Ferrante, Libertà economiche e diritti dei lavoratori, cit., p. 85 ss. V. anche V. Torre, L’obsolescenza dell’art. 603 bis c.p., cit., p. 85, che esprime critiche circa la formulazione degli indici di sfruttamento, per la loro preminente attinenza a forme di lavoro subordinato. Cfr., altresì, L. Bin, Problemi “interni” e problemi “esterni” del reato di intermediazione illecita e sfruttamento di lavoro (art. 603-bis cp), in Legisl. pen., 10 marzo 2020. 

[80] Per un quadro di sintesi, G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, Vol. II.1, Bologna, 20205, p. 194 s.; F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, vol. I, Delitti contro la persona, Milano, 20197, p. 333 s.; A. di Martino, Sfruttamento del lavoro, cit., p. 65 ss.

[81] In questo senso, A. Gaboardi, La riforma della normativa in materia di “caporalato” e sfruttamento dei lavoratori: corretto lo strabismo, persiste la miopia, in Legisl. pen., 3 aprile 2017, p. 66; V. Torre, Il diritto penale e la filiera dello sfruttamento, cit., p. 289 ss. V. anche S. Fiore, La nuova disciplina penale, cit., p. 277 s., il quale osserva che gli indici di sfruttamento non hanno soltanto un significato di “orientamento probatorio” ma «svolgono una funzione descrittiva, sia pure in forma diversa da quella consueta». Essi costituiscono espressione, infatti, di una «tecnica di tipizzazione integrata […] che si basa sulla interazione tra diritto sostanziale e dinamiche probatorie», ivi, p. 278.

[82] Cfr. E Cadamuro, Il nuovo volto del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (“caporalato”), in Riv. trim. dir. pen. econ., 2016, 3-4, p. 833; G. Rotolo, A proposito del ‘nuovo’ delitto, cit., p. 157; A. Merlo, Il contrasto allo sfruttamento del lavoro, cit., p. 71.

[83] In questo senso, A. di Martino, Sfruttamento del lavoro, cit., p. 21, il quale evidenzia che lo sfruttamento lavorativo «è misurato da “indicatori” internazionalmente condivisi e intrinsecamente razionali», che affiancano «direttive probatorie […] a metodologie moderne delle scienze sociali, componendo un prodotto sofisticato». Il termine di riferimento degli indici di cui all’art. 603 bis c.p. «esprime, in sostanza, una valutazione di contesto, nel senso che il disvalore del reato s’impernia sull’esistenza di un elemento di contesto (le condizioni di sfruttamento) a sua volta indiziato da varie circostanze di fatto che, per l’appunto, quel contesto concorrono a definire», ivi, p. 72. V. anche Id., Tipicità di contesto. A proposito dei c.d. indici di sfruttamento nell’art. 603-bis c.p., in Arch. pen., 2018, 3, p. 5 ss.

[84] V. ancora A. di Martino, Sfruttamento del lavoro, cit., p. 72, il quale evidenzia che «il referente teleologico dell’indice non è neppure lo sfruttamento non meglio specificato, ma la produzione di “condizioni di sfruttamento” […] Ogni elemento di fatto, significativo ai fini dell’indice, deve dunque esprimere il significato di coartazione del soggetto a vivere una condizione lavorativa di cui subisce l’imposizione».

[85] Cfr. S. Seminara, Nuove schiavitù e società “civile”, cit., p. 141 s., il quale sottolinea la necessità di un’interpretazione restrittiva degli indici di sfruttamento, da riferire a «reiterati trattamenti prossimi alla reificazione della vittima, degradata a mero strumento di profitto», ivi, p. 143.

[86] Cfr. A. di Martino, Sfruttamento del lavoro, cit., p. 30 ss. L’A., pur avendo espresso in precedenti scritti alcuni rilievi critici nei confronti della formulazione originaria dell’art. 603 bis c.p., in una più recente ed approfondita analisi della disciplina ha esposto argomentate osservazioni a sostegno delle scelte del legislatore. Evidenziando che la marginalità della disciplina nella casistica giudiziaria può essere agevolmente spiegata con le esigenze tecniche di svolgimento delle indagini e con i tempi richiesti dalle varie fasi processuali, l’A. ha osservato che il «tempo di latenza» della norma soltanto impropriamente potrebbe essere inteso come sicuro indice di ineffettività della stessa, ivi, p. 36.

[87] Sul tema, fondamentali gli scritti di G. Forti, Tra criminologia e diritto penale. Brevi note su “cifre nere” e funzione generalpreventiva della pena, in G. Marinucci – E. Dolcini (a cura di), Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, p. 53 ss.; Id., L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, Milano, 2000, pp. 64, 404 ss.

[88] Cfr. postea, § 7.

[89] Tra le numerose decisioni della Corte di legittimità emesse nell’ambito di procedimenti cautelari instaurati in relazione all’art. 603 bis c.p. cfr., in particolare, Cass., sez. IV, 13 aprile 2021, n. 17777; Cass., sez. IV, 9 marzo 2021, n. 10554; Cass., 25 febbraio 2021, n. 15523; Cass., sez., IV, 2 febbraio 2021, n. 6905; Cass., sez. IV, 16 settembre 2020, n. 27582, Rv. 279961; Cass., sez. IV, 28 gennaio 2020, n. 13876; Cass., sez. IV, 4 dicembre 2019, n. 7569; Cass., sez. IV, 14 novembre 2019, n. 50452; Cass., sez. IV, 9 ottobre 2019, n. 49781, in Cass. pen., 2020, 6, p. 2383, con nota di C. Rossi, Gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 603-bis c.p., ivi, p. 2388 ss.; Cass., sez. IV, 8 ottobre 2019, n. 43683; Cass., sez. III, 4 ottobre 2019, n. 49746; Cass., sez. V, 23 novembre 2016, n. 6788, Rv. 269447; Cass., sez. IV, 20 settembre 2016, n. 43310; Cass., sez. IV, 12 aprile 2016, n. 18232; Cass., sez. V, 18 dicembre 2015, n. 16735, in Riv. pen., 2016, 6, p. 558 ss.; Cass., sez. I, 7 maggio 2014, n. 23680; Cass., sez. V, 4 febbraio 2014, n. 14591, in Foro it., 2014, p.te II, p. 331 s. Per alcune emblematiche esemplificazioni, v. anche S. Seminara, Nuove schiavitù e società “civile”, cit., p. 137.

[90] Ribadisce espressamente questo punto, Cass., sez. V, 24 settembre 2013, n. 44385: «altra è la valutazione tipica della procedura incidentale de libertate, in funzione della sommaria cognitio della sussistenza del fumus commissi delicti, necessaria per la delibazione del coefficiente di gravità indiziaria richiesto ai fini della legittimità della misura cautelare; altra cosa è il giudizio di piena cognizione in ordine alla reale sussistenza dei presupposti necessari per la configurazione del reato contestato».

[91] Sul punto, v. F. Giunta, Il confine incerto. A proposito di “caporalato” e lavoro servile, in disCrimen, 17 febbraio 2020, p. 4. L’A. evidenzia la difficile delimitazione dell’ambito applicativo dell’art. 603 bis c.p. rispetto all’art. 600 c.p., in ragione del requisito comune dello sfruttamento. Il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro copre «un’area di illiceità penale compresa tra gli estremi del lavoro servile, da un lato, e dall’altro del lavoro meramente irregolare sotto il profilo della disciplina in materia di collocamento […] e di sicurezza».     

[92] Cfr. G. Rotolo, A proposito del ‘nuovo’ delitto, cit., p. 158; S. Seminara, Delitti contro la personalità individuale, in R. Bartoli – M. Pelissero – S. Seminara, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Torino, 2021, p. 132 s.; M. Pierdonati, Appunti in tema di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Giust. pen., 2017, p.te II, p. 500 s.

[93] Cfr., tra le altre, Cass., sez. IV, 16 marzo 2021, n. 24441: nella vicenda oggetto di valutazione da parte della Corte di legittimità, nell’ambito di un procedimento cautelare, il datore di lavoro – una società cooperativa operante nel settore dei trasporti – aveva instaurato rapporti contrattuali con i propri dipendenti nella forma di una partecipazione all’associazione a titolo di volontariato gratuito.

[94] V., in particolare, Cass., sez. V, 18 dicembre 2015, n. 16735, in Riv. pen., 2016, 6, p. 558 ss.

[95] Cfr. Cass., sez. IV, 25 febbraio 2021, n. 15523; Cass., sez. IV, 18 febbraio 2020, n. 11547.

[96] Cfr. Cass., sez. IV, 4 dicembre 2019, n. 7569.

[97] Tra le altre, cfr. Cass., sez. IV, 30 aprile 2014, n. 41695.

[98] Cfr. Cass., sez. IV, 9 ottobre 2019, n. 49781, Rv. 277424. Nell’ambito di un procedimento cautelare, è stata oggetto di valutazione l’attività di un’associazione – “Badante Brava Onlus” – dedita al reclutamento di persone da destinare all’assistenza domiciliare di persone non autosufficienti. Secondo l’impostazione accusatoria, l’organizzazione operava coinvolgendo soggetti di nazionalità straniera, sottoposti a condizioni di sfruttamento ai sensi dell’art. 603 bis c.p.

[99] V., tra le altre, Cass., sez. IV, 18 marzo 2021, n. 26327.

[100] V. supra, § 2.1.

[101] Cfr., tra le altre, Cass., sez. IV, 12 aprile 2016, n. 18232. Nella vicenda sottoposta alla Corte di legittimità, nell’ambito di un procedimento cautelare, è stata oggetto di valutazione, a titolo di intermediazione illecita ai sensi dell’art. 603 bis c.p., la condotta di un soggetto, accusato di essere componente di un’associazione per delinquere finalizzata a commettere una serie indeterminata di delitti inerenti all’immigrazione clandestina, allo sfruttamento del lavoro e alla truffa. La Cassazione ha ritenuto sussistenti le esigenze cautelari nei confronti dell’indagato, per la rete di collegamenti criminali che lo stesso è stato in grado di utilizzare, per lo sfruttamento di un numero elevato di persone, per l’abilità nell’ostacolare le attività d’indagine e per il rischio di recidiva.

[102] Sul punto, v. G. Morgante, Caporalato, schiavitù e crimine organizzato verso corrispondenze (quasi) biunivoche, in Giur. it., 2018, p. 1704 ss. Cfr. anche S. Manacorda, in AA.VV., Impresa, mercato e lavoro schiavistico, cit., p. 162 ss., il quale evidenzia le difficoltà di identificare, nella complessità dell’attuale scenario dello sfruttamento del lavoro, le forme e i limiti delle responsabilità personali e delle responsabilità delle imprese nella realizzazione del reato.

[103] Secondo un’impostazione ricorrente nella criminologia, cfr. H. Von Hentig, The Criminal and his Victim. Studies in the Sociobiology of Crime, Yale University Press, 1948; M. Bard – D. Sangrey, The crime victim’s book, New York, 1979; R.F. Sparks, Research on victims of crime: accomplishments, issues, and new directions, Rockville, 1982; T. Bandini, Vittimologia, in Enc. dir., Milano, 1993; G. Zara, La psicologia della «vittima ideale» e della «vittima reale». Essere vittime e diventare vittime di reato, in Riv. it. med. leg., 2018, 2, p. 615 ss. V. anche D. Fassin – R. Rechtman, L’impero del trauma. Nascita della condizione di vittima, trad. it., Milano, 2020.

[104] Si veda, sul punto, l’indagine di A. Merlo, Il contrasto allo sfruttamento del lavoro, cit., p. 21 ss., nella quale l’A. evidenzia differenti condizioni occupazionali – tra le quali stages, praticantato – che, benché possano divenire occasioni di sfruttamento lavorativo, sono spesso accettate dagli stessi lavoratori, sprovvisti di esperienza professionale ovvero sottoposti ad un percorso obbligatorio di formazione. V. anche A. di Martino, Sfruttamento del lavoro, cit., p. 202.

[105] Secondo le fonti sovranazionali, in particolare secondo la Direttiva 2011/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2011, concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, per vulnerabilità si intende «una situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima» (Art. 2.2).

[106] Sul concetto di vulnerabilità, ricorrente nelle fonti sovranazionali, e con riferimento a particolari categorie di “vittime vulnerabili”, cfr. M. Bertolino – G. Varraso, Le vittime vulnerabili. Introduzione al focus, in Riv. it. med. leg., 2018, 2, p. 511 ss.; M. Bertolino, La violenza di genere e su minori tra vittimologia e vittimismo: notazioni brevi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, 1, p. 65 ss. V. anche C. Amalfitano, La vittima vulnerabile nel diritto internazionale e dell’Unione europea, ivi, p. 523 ss.; M. Killias, Vulnerability: Towards a better understanding of a key variable in the genesis of fear of crime, in Violence and Victims, 1990, 5, p. 97 ss.; M. Venturoli, La vittima nel sistema penale. Dall’oblio al protagonismo?, Napoli, 2015, p. 19 ss.

[107] Ai fini della sussistenza dei reati di riduzione o di mantenimento della persona in stato di soggezione, si richiede che la condotta sia attuata, tra l’altro, mediante «approfittamento di una situazione di vulnerabilità». Il riferimento è stato introdotto dal d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24.

[108] V. supra, § 3.

[109] Per un’ampia disamina della questione, cfr. A. di Martino, Stato di bisogno o condizione di vulnerabilità tra sfruttamento lavorativo, tratta e schiavitù. Contenuti e metodi fra diritto nazionale e orizzonti internazionali, in Arch. pen., 2019, 2, p. 531 ss.

[110] Cfr., in particolare, art. 626, 1° comma, n. 2, c.p.; art. 644, 3° comma, c.p.; art. 644, 5° comma, n. 3, c.p.

[111] Cfr. J. Morduch, Poverty and Vulnerability, in The American Economic Review, vol. 84, No. 2, (May, 1994), p. 221 ss.; E. Ligon – L. Schechter, Measuring Vulnerability, in The Economic Journal, 2003, (113), p. 95 ss.

[112] Si pensi, per l’Italia, alle statistiche ISTAT sulla situazione economica del Paese e sulla determinazione delle soglia di povertà. Attraverso tali rilevazioni, che consentono di stabilire in termini tendenzialmente obiettivi il reddito medio della popolazione italiana, possono essere identificare le fasce della popolazione che versano in condizioni di difficoltà economica o di indigenza, cfr. le statistiche ISTAT: “Povertà in Italia”, anno 2019, in www.istat.it e, ivi, i dati statistici disponibili.

[113] In questo senso, A. di Martino, Sfruttamento del lavoro, cit., p. 205, il quale evidenzia altresì il carattere “non fungibile” delle definizioni di “stato di bisogno” e di “vulnerabilità”.

[114] Evidenzia che lo “stato di bisogno” costituisce l’«unica nota modale delle condotte delittuose sopravvissuta alla riforma» attuata con legge n. 199/2016, A. Gaboardi, La riforma della normativa in materia di “caporalato”, cit., p. 58.

[115] In questi termini, F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale, vol. I, cit., p. 332, il quale rileva che, mentre lo stato di difficoltà economica o finanziaria «non incide sulla volontà in modo tale da costringere il lavoratore» ad accettare la contrattazione vessatoria, lo stato di necessità «annienta la libertà di scelta».

[116] Sul punto, cfr. S. Orlando, Il delitto di “caporalato” tra diritti minimi della persona e tutela del mercato del lavoro, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2020, 3-4, p. 645 ss.; G. Rotolo, Dignità del lavoratore e controllo penale del “caporalato”, in Dir. pen. proc., 2018, 6, p. 817.

[117] Cfr., tra le altre, Cass., sez. II, 16 dicembre 2015, n. 10795. Evidenzia che le semplici difficoltà economiche si differenziano dallo stato di bisogno «solo allorché siano momentanee e tali da non incidere sulla libertà negoziale del soggetto», Cass., sez. II, 17 maggio 2010, n. 18592. In dottrina, cfr. S. Seminara, Nuove schiavitù e società “civile”, cit., p. 140, il quale rileva che lo “stato di bisogno” deve essere inteso come «una condizione di forte assillo economico […] tale da rendere la vittima particolarmente vulnerabile, privandola di ogni libertà contrattuale, al punto che il suo sfruttamento non postula necessariamente l’uso di violenza o minaccia». Sul punto, cfr. anche F. Giunta, Il confine incerto, cit., p. 2 s.; S. Braschi, Il concetto di “stato di bisogno” nel reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Dir. pen. contemp. – Riv. trim., 1/2021, p. 113 ss.; G. Rotolo, A proposito del ‘nuovo’ delitto, cit., p. 156; A. Vecce, Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, cit., p. 418.

[118] Si vedano, sul punto, le osservazioni di A. di Martino, Sfruttamento del lavoro, cit., p. 203, il quale rileva che nella valutazione dello “stato di bisogno” potrebbe «entrare in gioco la prospettiva della vittima, il suo calcolo costi-benefici culturalmente condizionato ed effettuato rispetto alle condizioni “di partenza”». V. anche O. Hammar – D. Waldenström, Global Earnings Inequality. 1970-2018, in The Economic Journal, 130 (November) 2020, p. 2526 ss., che illustrano i risultati di una ricerca empirica sulle disuguaglianze nei redditi da lavoro, nel periodo 1970-2018.

[119] Cfr. S. Braschi, Il concetto di “stato di bisogno”, cit., p. 115 ss.

[120] V. A. di Martino, Stato di bisogno o condizione di vulnerabilità, cit., p. 540, il quale rileva che il «contenuto minimo determinabile del concetto di stato di bisogno è dunque espresso dalla mancanza di mezzi di sussistenza come presupposto per soccombere ad un assoggettamento personale». 

[121] S. Seminara, Nuove schiavitù e società “civile”, cit., p. 143, il quale osserva che sono estranee all’ambito applicativo della norma penale le situazioni non caratterizzate dallo stato di bisogno della persona offesa ma da «bisogni soggettivamente percepiti».

[122] Evidenzia il punto, S. Braschi, Il concetto di “stato di bisogno”, cit., p. 116.

[123] V. supra, § 4.1.

[124] In questo senso, V. Torre, Il diritto penale e la filiera dello sfruttamento, cit., p. 295, la quale rileva che «proprio le difficoltà e le disparità interpretative sorte rispetto a tale elemento della tipicità hanno portato il legislatore a calibrare la fattispecie di usura su di un parametro oggettivo, quale il superamento dei tassi usurari». 

[125] In questi termini, Cass., sez. IV, 9 ottobre 2019, n. 49781, Rv. 277424. L’orientamento è stato ribadito anche dalla giurisprudenza successiva, cfr. Cass., sez. IV, 16 settembre 2020, n. 27582, in Lav. giur., 2021, 7, p. 721 ss., con nota di S. Rossi, Lo sfruttamento del lavoratore tra sistema sanzionatorio e misure premiali, ivi, p. 723 ss.

[126] In questi termini, Cass., sez. IV, 16 marzo 2021, n. 24441.

[127] Cfr. Cass., sez. IV, 8 ottobre 2019, n. 43683.

[128] In questi termini, Trib. Termini Imerese, 2 marzo 2020, n. 46. Sulla decisione, cfr. A. Merlo, Il contrasto allo sfruttamento del lavoro, cit., p. 95 ss.

[129] Evidenzia l’importanza del sistema di disposizioni che affiancano l’art. 603 bis c.p., S. Seminara, Delitti contro la personalità individuale, cit., p. 136.

[130] Lo strumento della confisca, nelle sue differenti forme, si inserisce in una prospettiva di politica criminale rivolta alla repressione del fenomeno dello sfruttamento del lavoro anche quando commesso da enti. In occasione della riforma attuata con la l. 29 ottobre 2016, n. 199, a tale proposito, è stato modificato l’art. 25 quinquies, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, con l’inserimento dell’art. 603 bis c.p. tra i reati per i quali può sorgere la responsabilità degli enti. Nella letteratura, cfr. V. Mongillo, Il contrasto penale al forced labour, cit., p. 3 ss.; S. Seminara, Nuove schiavitù e società civile, cit., p. 143; G. Rotolo, Dignità del lavoratore e controllo penale del “caporalato”, cit., p. 821; A. Vecce, Intermediazione illecita, cit., p. 426; A. Madeo, La riforma del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Studium iuris, 2017, 2, p. 290 s. In termini critici rispetto alla severità della risposta sanzionatoria, V. Torre,  L’obsolescenza dell’art. 603 bis c.p. e le nuove forme di sfruttamento lavorativo, in Labour and Law Issues, 2020, 2, p.78. 

[131] Cfr., tra le altre, Cass., sez. IV, 16 marzo 2021, n. 24441; Cass., sez. IV, 28 gennaio 2020, n. 13876; Cass., sez. IV, 14 novembre 2019, n. 47208; Cass., sez. III, 4 ottobre 2019, n. 49746; Cass., sez. IV, 20 settembre 2016, n. 43310.

[132]Per alcune applicazioni giudiziarie, cfr. Cass., sez. IV, 18 marzo 2021, n. 26327; Cass., sez. IV, 18 febbraio 2021, n. 10188. V. anche Cass., sez. IV, 28 gennaio 2020, n. 13876, nella quale sono evidenziate le caratteristiche specifiche della confisca prevista dall’art. 603 bis.2 c.p.  

[133] Circostanze attenuanti di natura premiale, il cui riconoscimento è fondato su condotte di collaborazione processuale, sono presenti, tra l’altro, in relazione ai delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630, 4° e 5° comma, c.p.), per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione (art. 323 bis c.p.). Per quest’ultima ipotesi, in giurisprudenza, cfr. Cass., sez. VI, 5 novembre 2020, n. 9512.

[134] Secondo l’art. 603 bis.1 c.p. (Circostanza attenuante), per i delitti di intermediazione illecita e di sfruttamento del lavoro «la pena è diminuita da un terzo a due terzi nei confronti di chi, nel rendere dichiarazioni su quanto a sua conoscenza, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti o per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite».

[135] Cfr. T. Padovani, Un nuovo intervento, cit., p. 50 s.; E Cadamuro, Il nuovo volto del delitto di intermediazione illecita, cit., p. 834; A. Gaboardi, La riforma della normativa in materia di “caporalato”, cit., p. 71 ss. 

[136] Secondo uno schema diffuso nelle discipline finalizzate ad ottenere la collaborazione processuale da parte dei soggetti coinvolti nella realizzazione del reato, si richiede una cooperazione fattiva nel contrasto dello stesso, nell’identificazione dei colpevoli e nel recupero delle somme. Il contributo offerto deve risultare concreto e causalmente determinante, al fine del raggiungimento dei risultati, sostanziali e processuali, ai quali la disposizione è finalizzata.

[137] Cfr. D. Piva, I limiti dell’intervento penale sul caporalato come sistema (e non condotta) di produzione: brevi note a margine della legge n. 199/2016, in Arch. pen., 2017, 1, p. 192. Contra, P. Brambilla, “Caporalato tradizionale” e “nuovo caporalato”, p. 213, che ravvisa nella mancata indicazione di un limite temporale uno strumento di incentivazione delle condotte di collaborazione processuale.

[138] Cfr., sul punto, Cass., sez. V, 4 febbraio 2014, n. 14591: in relazione a fatti di caporalato commessi da un’organizzazione criminale nel settore agricolo, la Corte ha rilevato la sussistenza di atti intimidatori, consistenti in «qualunque condotta, palese ma anche implicita, larvata, indiretta ed indeterminata, purché idonea, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell’agente, alle condizioni soggettive della vittima, alle condizioni ambientali in cui questa opera, ad incutere timore, a coartare la volontà del soggetto passivo, al fine di ottenere risultati non consentiti».

[139] Sul punto, v. D. Pulitanò, Tecniche premiali fra diritto e processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1986, p. 1012 s.

[140] A proposito delle differenti ipotesi di “ravvedimento” presenti nel sistema penale, si vedano le osservazioni di T. Padovani, La soave inquisizione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1981, p. 545: «Il quadro che si delinea in prospettiva è così quello di un sistema penale e processuale che, nella repressione delle forme più gravi di delinquenza, si affida alla delazione, e stabilisce la graduazione della responsabilità in funzione dell’atteggiamento del reo durante le indagini e nel corso del procedimento. È probabile che un sistema così fatto soddisfi le esigenze della ragione strumentale, ottenga cioè quei risultati pratici che i normali mezzi di indagine e l’azione politica non possono assicurare; ma quale prezzo debba essere pagato, in termini di civiltà del sistema penale e del costume giudiziario, è difficile dire».

[141] Cfr. T. Padovani, Un nuovo intervento, cit., p. 50 s.: «la previsione di queste forme “premiali” segnala sempre fenomeni tanto diffusi e tanto radicati da non poter essere efficacemente contrastati con i normali poteri di controllo e di coercizione […] Un triste messaggio, soprattutto quando i fenomeni in gioco sono […] di carattere sociale e connessi ad attività che, in teoria, sarebbero, per loro stessa natura, suscettibili di controllo e di prevenzione».    

[142] Sull’opportunità di sollecitare una risposta al reato che costituisca, per l’autore, l’avvio di un «percorso» di revisione critica del fatto commesso, cfr. L. Eusebi, Su violenza e diritto penale, in E.A. Ambrosetti (a cura di), Studi in onore di Mario Ronco, Torino, 2017, p. 122, il quale evidenzia la necessità di «costruzione di un modello sanzionatorio diverso», ricollegabile «all’idea della risposta al reato intesa come progetto, secondo una prospettiva di prevenzione generale reintegratrice».

[143] Sulla base della formulazione letterale dell’art. 603 bis c.p., non ricorrono elementi indicativi di un reato realizzabile in forma necessariamente associativa. In giurisprudenza, nel medesimo senso, anche con riferimento alla formulazione originaria dell’art. 603 bis c.p., Cass., sez. V, 23 novembre 2016, n. 6788, Rv. 269447.

[144] Per procedimenti penali instaurati sulla base di ipotesi accusatorie ai sensi degli articoli 110 e 603 bis c.p., cfr., tra le altre, Cass., sez. IV, 9 marzo 2021, n. 10554; Cass., sez. IV, 18 febbraio 2020, n. 11547; Cass., sez. IV, 4 dicembre 2019, n. 7569; Cass., sez. V, 23 novembre 2016, n. 6788, Rv. 269447; Cass., sez. V, 4 febbraio 2014, n. 14591, in Foro it., 2014, p.te II, p. 331 s.

[145] Per vicende giudiziarie instaurate nei confronti di organizzazioni criminali costituite secondo il modello di cui all’art. 416 c.p. v., tra le altre, Cass., sez. I, 25 maggio 2021, n. 25672; Cass., sez. IV, 13 aprile 2021, n. 17777; Cass., sez. IV, 9 ottobre 2019, n. 49781, Rv. 277424; Cass., 9 settembre 2019, n. 47081; Cass., sez. IV, 12 aprile 2016, n. 18232; Cass., sez. V, 18 dicembre 2015, n. 16735, in Riv. pen., 2016, 6, p. 558 s.

[146] Si vedano, sul punto, le osservazioni di L. Eusebi, «Gestire» il fatto di reato. Prospettive incerte di affrancamento dalla pena «ritorsione», in C.E. Paliero – F. Viganò – F. Basile – G.L. Gatta (a cura di), La pena, ancora: fra attualità e tradizione, vol. I, Milano, 2018, p. 246 s., il quale rileva che la risocializzazione dei condannati anche per delitti gravi di criminalità organizzata «non risponde soltanto a istanze di umanità, ma assume un particolare valore strategico dal punto di vista preventivo».   

[147] In questi termini, B. Giordano, Il contrasto allo sfruttamento del lavoro e una politica penale del lavoro, in G. De Santis – S.M. Corso – F. Delvecchio (a cura di), Studi sul caporalato, Torino, 2020, p. 84.

[148] Persuasive, sul punto, le argomentate riflessioni di A. di Martino, Sfruttamento del lavoro, cit., p. 30 ss.

[149] Per queste critiche, in dottrina, cfr. E. Lo Monte, Osservazioni sull’art. 603-bis c.p., cit., p. 962, il quale rileva che l’introduzione della fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p. è avvenuta in una prospettiva di rassicurazione dei consociati «sulla ‘controllabilità’ dei fenomeni criminali più allarmanti», ivi, p. 963.

[150] Evidenzia il punto, V. Mongillo, Forced labour e sfruttamento lavorativo nella catena di fornitura delle imprese: strategie globali di prevenzione e repressione, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2019, 3-4, p. 658 ss.

[151] Cfr. C. Faleri, Non basta la repressione. A proposito di caporalato e sfruttamento del lavoro in agricoltura, in Lav. dir., 2021, 2, p. 265 s.

[152] Si vedano, sul punto, le osservazioni di K. Bragason, I lavoratori dell’agroalimentare duramente colpiti dal COVID-19, in Agromafie e caporalato. Quinto rapporto, cit., p. 15 ss.

[153] Cfr. A di Martino, Sfruttamento del lavoro, cit., p. 9 ss.

[154] V., tra le altre, Cass., sez. IV, 8 ottobre 2019, n. 43683; Cass., sez. IV, 20 settembre 2016, n. 43310.

[155] Cfr., sul punto, Cass., sez. IV, 13 aprile 2021, n. 17777; Cass., sez. IV, 18 febbraio 2021, n. 10188; Cass., sez. IV, 2 marzo 2017, n. 14621; Cass., sez. IV, 12 aprile 2016, n. 18232.

[156] L’accertamento dei fatti di cui all’art. 603 bis c.p. attraverso prove documentali risulta frequentemente ostacolata dall’occultamento, da parte degli interessati, dei registri e dei documenti aziendali che comprovano l’effettiva consistenza del personale dipendente e, molto spesso, dall’assenza di contratti di lavoro in forma scritta. In alcune vicende giudiziarie, nondimeno, utili elementi di prova a carico degli indagati sono stati dedotti da una “contabilità parallela”, riepilogativa dei giorni di lavoro e delle mansioni effettivamente svolte dai lavoratori, cfr. Cass., sez. V, 23 novembre 2016, n. 6788, Rv. 269447.

[157] Cfr., tra le altre, Cass., sez. I, 26 maggio 2021, n. 25672; Cass., sez. IV, 9 marzo 2021, n. 10554; Cass., sez. IV, 26 gennaio 2021, n. 18960; Cass., sez. IV, 28 gennaio 2020, n. 13876; Cass., sez. V, 18 dicembre 2015, n. 16735, cit., p. 558 ss. Cfr. anche Cass., sez. V, 23 novembre 2016, n. 6788, cit.: nella vicenda oggetto di giudizio, in sede cautelare, sono stati utilizzati come elementi di prova anche i risultati acquisiti dai sistemi di rilevamento satellitare installati sui furgoni utilizzati per il trasporto dei braccianti.

[158] In alcune sentenze, nell’ambito di procedimenti giudiziari relativi all’accertamento di fatti relativi al contesto lavorativo, la ritrattazione delle precedenti dichiarazioni costituisce la manifestazione, da parte del testimone, del conflitto psicologico e motivazionale legato al timore di ripercussioni sulla propria posizione lavorativa, cfr. Cass., sez. VI, 7 luglio 2020, n. 22253. Per un’ampia disamina dei problemi di tutela inerenti alla ritrattazione in ambito penale, cfr. G. Amarelli, La ritrattazione e la ricerca della verità, Torino, 2006.

[159] I problemi dell’attendibilità delle dichiarazioni testimoniali assunte in relazione a fatti avvenuti nel contesto lavorativo ricorrono frequentemente nella giurisprudenza, anche con riferimento ai casi di violazione della normativa in materia di sicurezza e di igiene del lavoro. Le dichiarazioni testimoniali sono spesso oggetto di ritrattazione, a causa delle difficoltà, per il lavoratore, di esprimere dichiarazioni con effetti pregiudizievoli nei confronti del datore di lavoro, per il timore di ripercussioni sulla propria posizione lavorativa. Nell’ambito della giurisprudenza relativa all’art. 376 c.p., che disciplina l’istituto della ritrattazione e i requisiti per la non punibilità del colpevole, si vedano, tra le altre, Cass., sez. VI, 28 settembre 2012, n. 42502, Rv. 253618.

[160] Si veda, sul punto, Cass., sez. VI, 29 aprile 2021, n. 24471. Nel caso oggetto di giudizio, nell’ambito di un procedimento cautelare, le denunce delle persone offese hanno consentito l’ampliamento delle indagini sui fatti inerenti al caporalato, fino all’identificazione di un’associazione criminosa, qualificabile ai sensi dell’art. 416 c.p. Nell’ambito del medesimo procedimento sono emersi, altresì, elementi indiziari, che hanno indotto ad ipotizzare la commissione di un omicidio di un lavoratore di origini pachistane, deceduto in circostanze sospette, dopo aver denunciato alle autorità gravi episodi di sfruttamento della manodopera avvenuti nelle coltivazioni agricole.

[161] Si vedano, sul punto, le riflessioni di F. Stella, La giustizia e le ingiustizie, Bologna, 2006, p. 19, il quale evidenzia che proprio l’esperienza dell’ingiustizia dovrebbe costituire «lo stimolo per far riconoscere quei diritti che rendono giusta una società».

[162] Cfr. M. Napoli, Povertà vecchie e nuove e diritto del lavoro, cit., p. 64 ss.

[163] In questi termini, T. Treu, Conclusioni, cit., p. 232.

[164] T. Treu, Conclusioni, cit., p. 232.

Ferla Lara



Download:
10 Ferla.pdf
 

Array
(
    [acquista_oltre_giacenza] => 1
    [can_checkout_only_logged] => 0
    [codice_fiscale_obbligatorio] => 1
    [coming_soon] => 0
    [disabilita_inserimento_ordini_backend] => 0
    [fattura_obbligatoria] => 1
    [fuori_servizio] => 0
    [has_login] => 1
    [has_messaggi_ordine] => 1
    [has_registrazione] => 1
    [homepage_genere] => 0
    [homepage_keyword] => 0
    [insert_partecipanti_corso] => 0
    [is_login_obbligatoria] => 0
    [is_ordine_modificabile] => 1
    [libro_sospeso] => 0
    [moderazione_commenti] => 0
    [mostra_commenti_articoli] => 0
    [mostra_commenti_libri] => 0
    [multispedizione] => 0
    [pagamento_disattivo] => 0
    [reminder_carrello] => 0
    [sconto_tipologia_utente] => carrello
    [scontrino] => 0
    [seleziona_metodo_pagamento] => 1
    [seleziona_metodo_spedizione] => 1
)

Inserire il codice per attivare il servizio.