Scienze sacre nell’Ateneo di Padova dall’Impero asburgico al Regno d’Italia (1866)
Manlio Miele
Professore ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico, Università degli Studi di Padova
Scienze sacre nell’Ateneo di Padova
dall’Impero asburgico al Regno d’Italia (1866) [1]
Sommario: 1. Introduzione – 2. I prodromi della secolarizzazione – 3. Il modello francese e quello austriaco: un’apparente antinomia – 4. L’autonomia disciplinare del diritto canonico - 5. Il dibattito subalpino e postunitario – 6. Conclusione.
- Introduzione
Non è facile identificare la nozione di scienza sacra ai fini del tema che mi è stato assegnato; o meglio, è difficile – e certo non questo il luogo per farlo – identificare una nozione di scienza in generale, tale da consentirne un processo di comparazione con le scienze sacre in generale e con la teologia in particolare[2]. Nel Dictionnaire de théologie catholique della prima metà del Novecento, alla celebre voce théologie di M.-J. Congar[3] faceva riscontro quella di science. Nella prima, non solo veniva analizzata la questione tomasiana Utrum sacra doctrina sit scientia[4], ma, della disciplina teologica, si aveva cura di enumerare le divisioni o parti secondo la loro qualificazione o come discipline ausiliarie o come scienze strumentali preparatorie[5]. Della sacertà di una certa scienza[6], invece, possiamo trovare qualche indicazione nel linguaggio comune, visto che la distinzione tra scienza sacra e scienza profana viene data per presupposta negli stessi documenti canonici ufficiali odierni[7].
Ma, per quel che qui interessa, è soprattutto dalla contestualizzazione storica che noi possiamo ricevere i lumi maggiori per comprendere l’espressione “scienze sacre” riferita alla secolare esperienza universitaria padovana. La definizione che scelgo, pertanto, non è diretta ma dedotta; dopo la riforma protestante, quando un determinato insegnamento, la sua istituzione, la sua organizzazione, la nomina del docente preposto ad esso, la conservazione di questo docente nel suo incarico, diventano terreno di scontro tra lo Stato e la Chiesa, molto probabilmente ci troviamo di fronte ad una scienza ritenuta sacra. Una scienza sacra, pertanto, diventa oggetto di materia del contendere tra i due ordinamenti nell’ampio e progressivo moto di secolarizzazione delle istituzioni scolastiche in generale e delle università in particolare[8]; quel moto, più esattamente, per cui le università diventano governative in correlazione con l’analoga «graduale secolarizzazione delle pubbliche amministrazioni nel sec. 18°»[9]. Questo moto di laicizzazione si concretizza sensibilmente nell’università napoleonica[10], salvo talvolta, per la Chiesa, la possibilità di praticare l’esperienza delle università “libere”[11]. Del resto, puntualmente Pio IX, nel Syllabus annesso all’enciclica Quanta cura del 1864, condannava, nella proposizione quarantacinquesima, la tesi per la quale «tutto il regime delle scuole pubbliche nelle quali si educa la gioventù di qualsiasi stato cristiano, fatta eccezione soltanto in qualche modo dei seminari vescovili, può e deve essere attribuito all’autorità civile, e attribuito inoltre in modo tale, da non riconoscersi a una qualsiasi altra autorità nessun diritto di immischiarsi nell’organizzazione delle scuole, nel regolamento degli studi, nel conferimento dei gradi, nella scelta e nell’approvazione dei maestri»[12].
Essa era derivata da una precedente allocuzione concistoriale del 1850, nella quale era presa di mira, anche, la sarda c.d. legge Bon Compagni (R.D. 4 ottobre 1848, n. 818[13]) con cui si provvedeva non solo a laicizzare il sistema scolastico, ma anche a creare il Consiglio superiore della Pubblica istruzione (art. 7 ss.)[14]. D’altra parte, non può essere dimenticato che con il sistema della c.d. legge Casati (R.D.L. 13 novembre 1859, n. 3725[15]), a differenza della Francia e del Belgio, in Italia neppure le università libere erano ammesse, visto che le guarentigie sull’insegnamento superiore non comprendevano la facoltà di aprire università su iniziativa non statale, ma la libertà di insegnare nelle università esistenti e garantite dallo Stato[16].
- I prodromi della secolarizzazione
La contesa Stato-Chiesa sugli insegnamenti delle discipline sacre trova il suo fondamento remoto sul «divorzio tra saperi sacri e saperi profani», tra humanae litterae e divinae litterae[17]. Essa, peraltro, s’intravvede a condizione che l’insegnamento possa considerarsi realmente e strutturalmente inserito nell’organizzazione universitaria. In effetti, per Padova, sono ben note le osservazioni che Antonino Poppi fece a Paul Oskar Kristeller sulla reale appartenenza o meno delle scuole o facoltà di teologia alla sua Università[18]. La questione era già stata sollevata, in prospettiva storica, dal Colle[19], e non è il caso di ritornarvi; ma se Poppi, da un lato, afferma tale formale appartenenza, riferita a diverse epoche, dall’altro è (direi quasi) costretto a rilevarne e a enfatizzarne quelle peculiarità per le quali «la facoltà… presentava delle caratteristiche proprie nell’organizzazione interna, stante la natura specifica dei suoi corsi, i cui contenuti concernevano la rivelazione divina di cui è custode geloso e sovrano interprete il magistero della Chiesa»[20]. Al contempo, egli si sente in dovere di eccepire la successiva e progressiva perdita di autonomia, a partire dal ‘700 (anche in conseguenza della riforma delle cattedre del 1739)[21], che sarebbe dovuta principalmente alla «politica degli studi condotta dalla Repubblica veneziana»; questa «rivendicava il controllo pieno degli insegnamenti, dei docenti e degli studenti del curricolo teologico», per cui la facoltà teologica sarebbe divenuta «un nome sempre più svuotato di consistenza o di autonomia»[22], ciò fino al 1806, anno della (prima) soppressione napoleonica[23].
Naturalmente queste valutazioni – sembrerebbe non positive – circa una progressiva perdita di libertà da parte della facoltà teologica, procedono da un punto di vista ben preciso; quel punto di vista per il quale la misura della libertas Ecclesiae in ambito scolastico è direttamente proporzionale alla capacità della gerarchia di esercitare poteri immediati sulla nomina, sulla conservazione nell’insegnamento dei docenti e sul controllo dei programmi di studio da essi svolti. Tanto più l’insegnamento della scienza sacra sarebbe libero, quanto più esso dipenda dalle determinazioni dell’autorità ecclesiastica.
Presupposta tale visione, non sorprende pertanto che siffatta svalutazione colpisca anche il periodo successivo alla ricostituzione, nel 1815, della facoltà teologica patavina[24]. Eppure tale ricostituzione proveniva da un governo il cui capo adottava anche l’aggettivo di “maestà apostolica” e che nel 1855 avrebbe stipulato un Concordato giudicato da Arturo Carlo Jemolo (a partire dall’analisi dell’opinione pubblica liberale dell’epoca), come una sostanziale «abdicazione dello Stato alla Chiesa»[25]. Quel Concordato che i cattolici festeggiarono «come vittoria della Chiesa sullo Stato», che i liberali stigmatizzarono[26] e la cui adozione avrebbe espresso «la sconfitta del giuseppinismo e il trionfo della libertas Ecclesiae»[27]. Sull’insegnamento della teologia il Concordato, che sarebbe entrato in vigore nel Lombardo-Veneto in forza di una patente del 5 novembre 1855, disponeva all’art. 6 nel senso di una sostanziale nomina statale dei professori. Alle timide perplessità prospettate sul punto da qualche vescovo dell’Impero, nel 1856, rispondeva l’arcivescovo di Vienna, card. Rauscher: l’imperatore si era riservato un diritto di veto «ne in professores eligantur qui quoad res politicas in juventutem perniciosum influxum exercere possint»[28].
Ciò nonostante, si commenterà che, con la Restaurazione, si sarebbe aperta «un’era nuova: la teologia giuridicamente fa parte delle quattro facoltà ufficiali dell’università ed è interamente sottomessa alle direttive e all’ispirazione gallicana e giuseppinista delle analoghe facoltà imperiali di Vienna e di Praga. Vi sono prescritti i corsi obbligatori da seguire, i manuali vengono imposti dall’alto e tutto fa capo all’unica autorità centrale del rettore dell’ateneo, il quale deve rispondere direttamente all’autorità imperiale»[29] (conformi Poppi e Gambasin).In fondo, sia il professor Poppi che il professor Gambasin, ripercorrono (sommessamente e con garbo) le ragioni e le polemiche curialistiche tradizionali ostili ad insegnamenti di materie ritenute di spettanza ecclesiastica ma, più o meno liberamente, gestite dallo Stato e a spese dello Stato.
A ben vedere, i motivi per i quali si introducono e si sostengono, nelle università pubbliche, materie ritenute sacre, variano in dipendenza delle modalità con cui si atteggiano i rapporti tra Stato e Chiesa; decidere sullo statuto di tali materie, significa misurare i rispettivi poteri e le reciproche libertà[30].
- Il modello francese e quello austriaco: un’apparente antinomia
Notevoli effetti, per le scienze sacre, sortì la seconda dominazione napoleonica in Padova (1805-1813). Come noto, infatti, la legge napoleonica sulla pubblica istruzione, 4 settembre 1802[31], venne mandata ad esecuzione a Padova con decreto del 25 luglio 1806[32]. All’interno delle tre classi istituite (fisica e matematica, morale e politica, letteraria) non trovava più posto una scuola di Teologia[33]; nella facoltà legale, non lo trovavano né un diritto pubblico ecclesiastico, comunque inteso, né un diritto dei canoni[34]. Anzi, considerando i programmi (oggi noi diremmo le declaratorie) riguardanti gli insegnamenti schiettamente giuridici conservati nella Classe delle scienze morali e politiche, nessun accenno v’ha non solo al diritto confessionale, ma neppure alla problematica generale dei rapporti dello Stato con le religioni[35].
Ciò sembra alquanto singolare, visto che l’interesse della legislazione napoleonica per le materie ecclesiastiche era notoriamente continuo e penetrante. Di esso sono una testimonianza, tra altre, i due volumi dei Regolamenti del Ministero pel culto (1808 e 1813)[36], nei quali è onnipresente la firma del ministro Bovara[37]. Sembra pertanto improbabile che, nel momento in cui la legislazione ecclesiastica napoleonica veniva progressivamente applicata anche nei diversi dipartimenti veneti, a Padova non ci si interessasse di essa. In realtà, proprio nel Veneto, questa applicazione conduceva a disegnare una capillare nervatura religiosa che, in fondo, il successivo Regno Lombardo-veneto avrebbe confermato ed esaltato; centrale, in tale disegno, era la parrocchia territoriale[38]. Se l’ente era antico e, specialmente dopo il Concilio di Trento, già ben consolidato nei territori della Repubblica veneta come elemento identificativo della vita religiosa e civile[39], la stessa legislazione napoleonica portava con sé una ferrea e strutturata riorganizzazione della parrocchia territoriale. In essa erano centrali i due enti, ben definiti, del beneficio parrocchiale e della fabbriceria[40]. Il primo riguarda il parroco, ma la seconda riguarda la chiesa parrocchiale, centro della comunità, punto di riferimento sociale e titolo di vanto della cittadinanza. Uno dei primi oggetti di tale titolo di vanto è il campanile, le sue fattezze, la sua altezza e anche la capacità distintiva del suono da esso diffuso.
La vera e propria esaltazione della parrocchia territoriale, portava con sé lo sfavore verso tutti quelli che potevano essere considerati elementi di disturbo rispetto alla centrale funzione parrocchiale e del parroco come persona fisica. Così, già la legislazione napoleonica non si esimeva dal regolare, significativamente, a partire dal Decreto imperiale del 1807, simultaneamente, confraternite e fabbricerie (I, 166). La storia – non solo giuridica – dell’impianto nel Veneto della fabbriceria napoleonica, della sua capacità autodecisionale rispetto al parroco, del suo significato politico nella comunità locale, della sua dinamica rappresentativa rispetto alla stessa comunità, forse dovrebbe essere ulteriormente indagata[41].
Da lontano, tuttavia, in modo parallelo, questi stessi orientamenti si erano già sviluppati a Vienna con la legislazione teresiana e giuseppina, influenzando direttamente, questa volta, la formazione culturale in genere, e universitaria in specie, dei chierici[42]. Come tipico della forma mentale tedesca, gli orientamenti erano stati oggetto di teorizzazione a Vienna. Maria Teresa era partita dall’assunto per il quale le università, tutte le università, anche quelle che si occupavano di materie sacre o confessionali, dovessero essere poste direttamente sotto l’amministrazione dello Stato, visto che qualunque tipo di studio poteva risultare vantaggioso per l’interesse dello Stato (e, quindi, di tutti)[43]. La grande riorganizzazione della Teologia pastorale da parte dell’abate benedettino Stephan Rautenstrauch[44] – che certo non creava la disciplina, ma le conferiva uno statuto destinato a durare nel tempo – s’imperniava proprio sulla convinzione della coincidenza tra interessi religiosi e interessi pubblici: un fedele ben formato, infatti, è anche un suddito ben formato[45]. Si scorge, qui, l’indubbio riflesso dello spirito utilitaristico, teresiano e giuseppino, che veniva a condizionare le riforme degli studi in generale e degli studi teologici in particolare[46]. Centrale, a tal fine, è già dunque la figura del parroco come formatore, come educatore, anzi come medico. Riformulando un progetto di vent’anni prima, nella nuova riforma commissionata da Maria Teresa nel 1772, e approvata nel 1774, il parroco assume «una doppia posizione: statale ed ecclesiastica», mentre «il baricentro posava naturalmente, in modo unilaterale, sui doveri del pastore nei riguardi dello stato»[47]; quindi, il pastore d’anime «non doveva trascurare gli studi profani che servivano agli interessi dello stato medesimo, quali le scienze riguardanti la finanza, la polizia, il mondo della natura e perfino la veterinaria»[48].
Nell’Institutum facultatis theologicae vindoboniensis – l’ordinamento degli studi della facoltà teologica viennese pubblicato nel 1778[49] – la prefazione presenta in modo nitido gli ideali per i quali Rautenstrauch, che era un religioso, un abate benedettino, prestava i propri servigi ad una monarchia assoluta e confessionista, ma illuminata da nuove convinzioni che toccavano molteplici campi dei saperi. La religione è fonte di felicità non solo per gli uomini concepiti nella loro individualità, ma anche nel loro essere congiunti socialmente[50]. Dunque, non possono mancare – numerosi e idonei[51] – coloro che insegnino ai popoli non solo la vera religione, ma tutto quello che essa comporta («omnem eius complexum»). La ragione dell’inserimento delle discipline “teologiche” nelle accademie e nelle università ormai erette (dopo che per secoli tali discipline erano state insegnate presso cattedrali o monasteri) doveva ravvisarsi in quell’esigenza di pubblicità («palam») che proveniva proprio dall’assunzione, da parte dello Stato, della felicità globale dei sudditi come proprio fine generale; quella felicità che – laddove i sudditi, perché poco indotti in materia di vera religione, quest’ultima avessero abbandonato per abbracciare culti falsi – non sarebbe stata né garantita né tutelata.
Scopriamo qui il processo inverso rispetto a quello che in Italia, dopo l’instaurazione dello Stato unitario, avrebbe condotto alla soppressione delle facoltà teologiche negli atenei di Stato (e, ahimè anche, alla soppressione dell’insegnamento di diritto canonico), su cui ritorneremo. Per questo processo, l’Italia unita, in applicazione di una certa idea di separatismo, rinunciava ad identificare in una delle finalità originarie dello Stato gli interessi religiosi dei singoli e sceglieva di ravvisare in questi interessi, piuttosto, un oggetto – uno tra i molti – rilasciato alla sfera di libertà e di autonomia degli individui. Questo conduceva sia alla soppressione delle facoltà di teologia sia alla soppressione dell’insegnamento del corso di diritto canonico nelle facoltà giuridiche; o forse, più esattamente, alla sua trasformazione in un nuovo Diritto ecclesiastico.
Nel progredire di una certa idea di libertà, l’applicazione del principio del monopolio statale in materia di istruzione universitaria[52] va di pari passo con la diffidenza verso i motivi di condizionamento scolastico o di influenza culturale della dottrina cattolica[53].
- L’autonomia disciplinare del diritto canonico
La soppressione del corso (autonomo) di Diritto canonico, nelle Università nazionali post-unitarie, è stata ben ricostruita da Francesco Falchi[54]. Questa soppressione, disposta dal ministro Ruggiero Bonghi col R.D. 11 ottobre 1875, n. 2775, va di pari passo con l’affermazione dell’insegnamento del “Diritto ecclesiastico”, denominazione, però, contenutisticamente non più intesa come sinonimo del Diritto canonico[55]. In effetti, nell’800 italiano, dal “Diritto ecclesiastico” della c.d. legge Casati del 1859[56], si passa alle Istituzioni di diritto ecclesiastico e al “Diritto ecclesiastico-materia beneficiaria” del regolamento Mamiani del 1860 (R.D. 27 ottobre 1860, n. 4379) e, di nuovo, al “Diritto canonico” del regolamento Matteucci del 1862 (R.D. 14 settembre 1862, n. 842); le diverse denominazioni indicavano comunque lo studio dei canoni[57].
Il Diritto canonico, per la verità, nei lavori condotti a livello ministeriale, viene fatto oggetto di una duplice operazione. Da un lato si comincia ad auspicare un allargamento dei suoi contenuti rispetto a quelli tradizionali; in particolare, accanto alle consuete trattazioni della potestà ecclesiastica, della res beneficiaria e del matrimonio (canonico), comincia a far capolino il tema «“… delle relazioni tra la Chiesa e lo Stato”»[58], o anche dei «“limiti delle attribuzioni dell’uno e dell’altra”»[59]. La circolare ministeriale del 29 ottobre 1865, n. 174, appare influenzata da tale impostazione[60]. Alla stessa Circolare alluderà il ministro Broglio nel 1867, quando egli comincerà a relativizzare le dimensioni contenutistiche del corso di Canonico. Per esso non era più necessaria un’autonoma cattedra, giacché i beni ecclesiastici erano oggetto delle leggi del Regno, il matrimonio era stato ormai laicizzato dal Codice civile del 1865, mentre dello studio delle relazioni Stato-Chiesa poteva «“occuparsi il professore di Diritto Costituzionale”»[61].
Si rivela qui la seconda tendenza, quella della destrutturazione della materia attraverso la sua «ripartizione»[62]. Così, in un intervento del Ministero relativo al caso specifico alla cattedra dell’Università di Modena, si dice esplicitamente che la materia matrimoniale potrebbe essere svolta nel corso di Diritto civile, quella delle relazioni tra Stato e Chiesa nel corso di Diritto costituzionale, quella beneficiaria nel corso di Diritto amministrativo[63]. Alla competenza dei docenti di queste materie, sul Diritto canonico smembrato, si aggiungerà quella degli Storici del diritto, ciò chiaramente a partire dal 1869[64]. In questo senso andranno gli sviluppi ulteriori. Le cattedre di Diritto canonico dovevano estinguersi per esaurimento e comunque non esser più ritenute di obbligatoria attivazione; i suoi contenuti distribuiti tra altri insegnamenti; infine, quelle cattedre, (dovevano) essere formalmente soppresse, ciò che avvenne con il decreto Bonghi del 1875 sopra citato[65]. A questo risultato aveva contribuito anche l’istituzione della cattedra di Storia del diritto, come sottolineava nel 1874 l’illustre ex studente padovano Luigi Luzzatti, membro del Consiglio superiore della P.I.[66]. Entrato in vigore il Regolamento Bonghi, il Diritto canonico dovrà intendersi come soppresso mentre alcuni suoi temi potevano rientrare nel programma di Storia del diritto italiano; questo, del resto, era l’intendimento di Bonghi in relazione all’art. 4, co. II, del suo R.D.[67].
La successiva evoluzione dell’ordinamento degli studi per le facoltà di Giurisprudenza, attuatasi col Regolamento Coppino[68], è nota; essa comportava una forma di reviviscenza del Diritto canonico, ch’era previsto come corso autonomo. Esso ritornava così obbligatorio, ma in una forma compromissoria. Poteva essere infatti o conservato in capo al titolare di una cattedra ancora esistente, o conferito per nomina, o organizzato come corso libero o, infine, ripartito tra altri insegnamenti[69].
Dal punto di vista contenutistico, già prima della prolusione palermitana del 1884 di Scaduto[70], s’era lentamente sviluppato il moto evolutivo che avrebbe condotto alla trasformazione del Diritto canonico in Diritto ecclesiastico. Alla vigilia dell’entrata in vigore del regolamento Bonghi, nel caso particolare del docente di Canonico a Bologna, nel mentre si proponeva il suo trasferimento alla cattedra di Storia del diritto, il professore interessato chiedeva esplicitamente l’attivazione anche di un corso di Diritto ecclesiastico, esplicitandone il contenuto nello svolgimento delle «nostre leggi ecclesiastiche nella loro connessione colle relative discipline canoniche»[71]. Altri commentatori dell’epoca non mancavano di esprimere la medesima esigenza. In un commento di un docente torinese avente per oggetto l’organizzazione degli studi giuridici, pubblicato nel 1880, non si manca di far affiorare la stessa sensibilità[72].
Nella cit. Prolusione del 1884, Francesco Scaduto diceva che «l’insegnamento del così detto Diritto Canonico praticamente si era reso fra noi non molto meno inutile della facoltà di Teologia»[73]; nello stesso anno egli aveva ottenuto l’incarico per Diritto ecclesiastico a Palermo[74] mentre la cattedra relativa sarà bandita a Napoli e da lui assunta nel 1886[75].
5. Il dibattito subalpino e postunitario
La soppressione delle facoltà di teologia, o meglio la loro esclusione dagli atenei di Stato, va detto, ancor oggi è spesso avvolta da qualche fraintendimento, rilevabile soprattutto quando si imputa tale soppressione, attuata con la legge del 1873[76], all’anticlericalismo. Mi limito solo ad aggiungere qualche ulteriore elemento di valutazione, procedendo all’esame di alcuni brani delle discussioni parlamentari risalenti ad almeno un decennio prima, tenendo presente che una disamina attenta dei lavori parlamentari era già stata fatta da altri, e da Francesco Scaduto anzitutto[77].
Va ricordato come la c.d. legge Casati (l. 13 novembre 1859, n. 3725[78]) avesse conservato le facoltà di Teologia negli atenei di Stato; vi provvedevano gli artt. 49[79], 51[80] e 70[81]. Naturalmente, come gli altri docenti, anche quelli delle facoltà teologiche venivano nominati con regio decreto, senza alcuna intromissione formale dell’autorità ecclesiastica[82]. Ciò, del resto, era una fondamentale conseguenza della legge Bon Compagni del 1848[83], il cui art. 58 escludeva ingerenze ecclesiastiche nella scelta o nell’approvazione di professori o membri delle facoltà universitarie[84].
La legge Casati prevedeva anche, sempre in capo alla Pubblica Amministrazione, la competenza disciplinare sui docenti universitari delle facoltà teologiche, visto che tra i motivi per cui i membri del Corpo accademico potevano essere sospesi o rimossi vi era «l’aver coll’insegnamento o cogli scritti impugnate le verità sulle quali riposa l’ordine religioso e morale»[85]; pare, però, che la disposizione non abbia avuto applicazioni concrete, benché «occasioni non sarebbero mancate»[86]. Tuttavia, la scelta di Casati di conservare le facoltà di Teologia non era stata seguita, in Italia, dai governi provvisori preunitari, che provvedevano alla loro soppressione. D’altra parte, la progressiva unificazione italiana non conduceva ad una correlata applicazione della legge Casati in questa materia. Un dato era comune e pressante, infatti, alle facoltà di Teologia statali pre e post-unitarie: il loro spopolamento. Dal 1859 al 1869, mediamente gli iscritti non ammontavano a più di ventiquattro annui, così che i professori diventavano più numerosi degli allievi[87].
Si cominciò, dunque, col bloccare gli aumenti degli stipendi dei professori delle facoltà teologiche, ciò che avvenne con una legge del 1862[88].
Nel 1863 si ripresentò in Parlamento la questione; la discussione terminò con un ordine del giorno (12 marzo 1863) con cui si chiedeva al Ministero di non riempire più le cattedre divenute vacanti, volontà che poi, in genere, venne rispettata[89].
Gli interventi parlamentari in quell’occasione già sono interessanti perché, al di là del concreto tema trattato, rivelano attitudini, convinzioni e modalità diverse con cui, sia dalla Destra che dalla Sinistra, si riteneva di concretare il sistema del separatismo; fin da allora, si scolpiscono argomenti che si sarebbero trascinati fino alla soluzione definitiva.
Separatismo poteva significare il disinteresse e la rinuncia totale dello Stato ad organizzare direttamente la formazione teologica dei chierici. Poteva significare anche il contrario: lo Stato unitario, appena formato, non poteva rilasciare totalmente alle strutture ecclesiastiche la formazione di quei pastori che comunque erano in grado di esercitare un’influenza capillare sulle masse dei nuovi sudditi, senza contare che alle facoltà di teologia statali potevano iscriversi anche i laici[90] e che, nei loro ordinamenti, erano previste materie di interesse culturale generale.
Nella sessione della Camera 12 marzo 1863, nella quale si discuteva anche del bilancio del Dicastero dell’istruzione pubblica per quell’anno, il Relatore (Galeotti) rispondeva alla proposta del deputato Macchi[91], ricordando quanto la Commissione aveva osservato:
«La Commissione osservava che di fronte alle ragioni espresse dall’onorevole Macchi a sostegno della sua proposta vi erano considerazioni di eguale gravità, le quali forse consigliavano ad impugnarla. Osservava la Commissione che nel completo insegnamento di una Università trova luogo l’insegnamento della facoltà teologica come qualunque altro insegnamento; e che sotto il nome di facoltà teologica non viene solamente la teologia propriamente detta e la casuistica, ma vengono molti insegnamenti di altro ordine, i quali sarebbe deplorabile che mancassero in tutte le Università italiane, ché, se non è necessario che queste cattedre esistano in tutte le Università, è però bene che in qualche luogo vi siano come vi sono nelle Università estere. Si dubitò egualmente che fosse questa una questione che interessasse anche la politica dello Stato, l’avere cioè nelle Università una teologia più alta, più libera, più indipendente di quella la quale si insegna nei seminari»[92].
Quali erano gli insegnamenti cui qui si allude? Lo desumiamo da Bonghi, il quale, se consentiva nella sostanza con Macchi, da esso anche si distingueva, giacché
«ho dichiarato in quella conferenza, e credo oggi ancora che le facoltà di teologia debbano essere soppresse nelle Università italiane: ma questa soppressione, dissi allora e qui ripeto, non potersi fare senza trasformare le facoltà di filosofia e lettere. Quando voi sopprimeste nella facoltà teologica parecchi insegnamenti di una importanza scientifica generale e non meramente dogmatica, verreste, vi garantisco, a dare all’Europa un meschino concetto di ciò che debba essere, secondo voi, la coltura in Italia»[93].
E ancora Bonghi: «Voi dite, e lo ripete l’ordine del giorno Macchi, non vogliamo che una sola teologia sia insegnata. Voi dite: noi domandiamo la soppressione della facoltà teologica al nome della libertà del pensiero e dell’uguaglianza civile. Io credo che non si potrebbe motivar peggio la distruzione delle facoltà teologiche. Le facoltà teologiche furono mantenute nelle Università moderne, quando le Università moderne perdettero il carattere ecclesiastico (col quale alcune di esse, non tutte; non le italiane più illustri soprattutto, nacquero da principio); furono mantenute, dico, a nome dei diritti dello Stato dirimpetto alla Chiesa, per attestato della necessità e del diritto che lo Stato avesse di temperare alcuni principii che la Chiesa voleva far prevalere rispetto all’estensione dei suoi poteri e alla assolutezza della sua azione»… […] Sotto un punto di vista politico, ho bisogno di una mutazione nelle relazioni dello Stato e della Chiesa, mutazione accettata così da una parte come dall’altra. Questa mutazione non s’è sino ad oggi fatta. Le facoltà teologiche, alle quali i vescovi ripugnano molto più che non facciano gli onorevoli Macchi e Boggio, sono ancora l’asserzione di un diritto che lo Stato conserva rigidamente rimpetto alla Chiesa. Io sono pronto ad abbandonare questo diritto il giorno però che la Chiesa ne abbandoni anche da parte sua. E del pari oggi io non accetto la soppressione delle facoltà teologiche ad un punto di vista scientifico, perché, sino a che voi non avrete trasferito la maggior parte delle cattedre della facoltà teologica nella facoltà di filosofia e lettere, voi che credete di giovare alla libertà del pensiero, voi invece precludete la via al pensiero laicale d’introdursi, d’ingerirsi in quello che la Chiesa pretende essere dominio esclusivo della teologia positiva… Voi recidete, voi tagliate, voi precludete tutta quanta la cultura italiana dal partecipare ad un movimento immenso che si è andato negli ultimi trent’anni facendo al di là delle Alpi, in Inghilterra, in Germania, nella stessa Francia, e che in Italia non è neanche al suo principio, impedito com'esso è stato sinora dalla concorde tirannide della Chiesa e dello Stato»[94].
Il ripetuto accenno alla scarsità degli studenti di Teologia trova una spiegazione storica in altro relatore, Pier Carlo Boggio[95]:
«L’onorevole preopinante ha posto nella sua vera luce la questione quando vi ha detto che nel prendere un partito intorno alla mozione Macchi voi dovete avere due criteri, un criterio politico ed un criterio scientifico. Quanto al criterio politico, l’onorevole Bonghi vi diceva: badate che l’insegnamento teologico fu introdotto nelle Università allorquando queste cominciarono ad emanciparsi dall’esclusiva ingerenza ieratica, e fu introdotto dai Governi appunto acciocché il pensiero laico potesse nelle Università, mediante l’insegnamento teologico, esercitare una specie di sindacato sulle eccessive teorie che, nel nome della Chiesa, si cercavano di rendere generali! Or bene, l’onorevole Bonghi dimentica qui una circostanza di fatto molto importante. Allorquando s’introdusse quell’insegnamento, si fece con quello scopo, ed è possibile che sia stato raggiunto; ma oggidì codesto scopo si ottiene egli ancora? Qui sta il nodo della questione. Ciò che l’onorevole Bonghi disse con frase forse più scientifica, prima di lui l’avevano accennato altri oratori; e lo disse lo stesso ministro d’istruzione pubblica, quando chiamando le cose addirittura col nome loro, ed indicandole con una espressione adattata alla intelligenza anche di chi non siede in questo recinto vi diceva alla franca: noi vogliamo avere l’insegnamento teologico per fabbricare, mediante le nostre facoltà di teologia, dei teologi amici del Governo. Questo è il criterio politico. Lasciamo andare la fraseologia del medio evo, e riportiamoci al 1863, nell’anno in cui viviamo, e la cosa si riduce in questi termini: La ragione politica di conservare la facoltà teologica consiste nella speranza di poter con questa facoltà creare teologi amici al Governo, o, dirò meglio, amici alla nazione, amici al movimento liberale. Questo è il criterio politico, e non altro; parlerò poi del criterio scientifico. Ora questo scopo lo raggiungiamo noi? Signori, la cifra che v’ho accennato, cifra che la stessa vostra Commissione ha rinvenuta esatta e che vi dà in media un quinto di studente per ogni professore di teologia, questa cifra è accidentale, oppure non è dessa l’espressione di un fatto che noi non possiamo modificare? Qui è riposta tutta la questione, ed è qui appunto dove a parer mio sbagliava l’onorevole ministro, quando rispondendo a quella mia prima osservazione, diceva: ma voi ragionate come se gli studenti di teologia dovessero sempre essere pochi, io desidero e spero che saranno molti. Ora è precisamente questo ch’io non credo potersi sperare. Perché le nostre scuole di teologia sono ora deserte o quasi deserte? Forseché i professori che insegnano da 4 o 5 anni a questa parte sono peggiori di quelli che insegnavano dieci anni addietro quando gli studenti erano molto numerosi? No, signori, perché insegnano oggi nelle nostre Università, per la maggior parte quei professori medesimi che insegnavano dieci anni sono. Non è la natura dell’insegnamento, non è la capacità dei professori, ma è il divieto dei vescovi che fa deserte le scuole di teologia (Bravo!) Non vi sono studenti di teologia perché i vescovi non permettono ai preti delle loro rispettive diocesi di recarsi a studiare nelle nostre Università»[96].
6. Conclusione
La seconda idea di separatismo sopra accennata, che si direbbe di separatismo realista – quella secondo cui lo Stato unitario di recente formazione non poteva rinunciare, quantomeno, al tentativo di influenzare la formazione culturale dei chierici operanti sul territorio nazionale –, non oltrepassava il limite oltre il quale il separatismo avrebbe smentito se stesso, arrivando cioè a rendere le facoltà teologiche obbligatorie per chi doveva assumere uffici ecclesiastici e in particolare per quelli che sarebbero stati investiti della cura delle anime di coloro che erano in contemporanea fedeli della Chiesa e sudditi dello Stato; un tale obbligo avrebbe trasformato il separatismo nel più schietto giurisdizionalismo[97].
La desertificazione delle facoltà teologiche gestite dallo Stato, frutto di un preciso disegno dei vescovi che su di esse non potevano esercitare un controllo effettivo, e la rinuncia dello Stato a renderne obbligatoria, per i chierici, la frequenza, dovevano condurre alla decisione definitiva della loro soppressione del 1873, dieci anni dopo il dibattito appena visto; soppressione che – non mutandosi gli elementi della questione[98] – appare il frutto non di un accanimento anticlericale, ma di una convergenza di interessi distinti e paralleli.
Cosa desumiamo da tutto ciò? Che forse, ieri come oggi, a costituire terreno di scontro non è la presenza nelle università pubbliche delle facoltà di teologia o di insegnamenti ritenuti sacri, ma la definizione del loro statuto epistemologico, la determinazione delle guarentigie che tutelano i docenti nell’esercizio della libertà di insegnamento, ciò che influisce direttamente sulla stessa loro capacità di proporre agli studenti una formazione critica e idonea ad atti di autonomia intellettuale.
Nell’art. 6 del Concordato del 1855, il problema era risolto secondo un modello tipico delle diverse forme di alleanza trono-altare, forme oggi sgradite ma all’epoca niente affatto respinte da parte ecclesiastica, in quanto espressione di un pieno riconoscimento degli effetti derivanti dalla teorica (e dall’apologetica) del jus publicum ecclesiasticum[99].
Abstract: The present essay aims to contribute to the debate on the qualifiability as sciences of the confessional disciplines, in particular theology and canon law. The passage from Austrian jurisiditionalism to postunitarian liberal separatism allows us to understand the history of the current Italian system of studies, which excludes theology from themhosting canon law in academic courses.
Key words: canon law, theology,confessional disciplines, Italian system of studies
[1] Relazione tenuta dall’A., il 23 novembre 2016, durante il Convegno dal titolo L’Ateneo di Padova nel Risorgimento: dall’Impero asburgico al Regno d’Italia, organizzato dal Centro per la storia dell’Università di Padova e coordinato dal professor Filiberto Agostini. Versione lunga del contributo verrà pubblicata negli Atti.
[2] Sul processo storico di tematizzazione della teologia come scientia, cfr. J.-Y. Lacoste, s.v. théologie, in Dictionnaire critique de théologie, dir. da J.-Y. Lacoste, Paris 1998, coll. 1128-1132. Sul rapporto di complementarietà o di contraddittorietà tra scienza e teologia, cfr. J.C. Puddefoot, s.v. sciences de la nature, ivi, coll. 1076-1077. Utili trattazioni della problematica, da tener presenti come termini di confronto: E. Baccarini., Passione per l’originario. Fenomenologia ed ermeneutica dell’esperienza religiosa, Roma 2000; G. Bof e A. Stasi, La teologia come scienza della fede. Saggio sullo statuto epistemologico della teologia, Bologna 1982; S. Bongiovanni, Lasciar-essere: riconoscere Dio nel pensare. Studi di teologia filosofica I, Trapani 2007; P. Coda, Teo-logia. La parola di Dio nelle parole dell’uomo, Roma 2005; C. Colombo, La metodologia e la sistemazione teologica, in Problemi e orientamenti di teologia dogmatica, a cura della Pontificia Facoltà Teologica di Milano, vol. I, Milano 1957; G. Colombo, La ragione teologica, Milano 1995; G. Cottier, Le vie della ragione. Temi di epistemologia teologica e filosofica, Cinisello Balsamo, 2002; W. Kern – F.J. Niemann, Gnoseologia teologica, Brescia 1984; B.J.F. Lonergan B, Collected works of Bernard Lonergan 23: Early works on theological method 2 (edited by Doran R. M. and Monsour H. D.; translated by Shields M. G.), Toronto 2013; G. Lorizio, Che cos'è la teologia? Riflessioni introduttive a carattere epistemologico", in Metodologia teologica. Avviamento allo studio e alla ricerca pluridisciplinare, a cura di G. Lorizio e N. Galantino, Cinisello Balsamo 1994; W. Pannenberg, Epistemologia e teologia, Brescia 1975; Benedetto XVI (J. Ratzinger), Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa contemporanea. Storia e dogma, Milano 2015; P. Sequeri, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Brescia 1996. Inoltre, per un percorso di approfondimento storico intorno al configurarsi della teologia come scienza con riferimento al secolo d’oro della Scolastica, cfr. M. Arosio, “Credibile ut intellegibile”: sapienza e ruolo del “Modus ratiocinativus sive inquisitivus” nell’epistemologia teologica del Commento alle sentenze di Bonaventura da Bagnoregio, Roma 1994; M.D. Chenu, La teologia come scienza: la teologia nel tredicesimo secolo, Milano 1971; L. Sileo, Teoria della scienza teologica. “Quaestio de scientia theologiae” di Odo Rigaldi e altri testi inediti (1230-1250), coll. Studia Antoniana, 27, Roma 1984.
[3] M.-J. Congar, s.v. théologie, in Dictionnaire de théoloqie catholique, vol. V, 1, Paris 1946, col. 341 e ss..
[4] Congar, s.v. théologie, cit., coll. 379 e ss..
[5] Congar, s.v. théologie, cit., coll. 492 e ss.. Sono evocate, secondo una prima classificazione, la Storia biblica e la Storia ecclesiastica, Dogmatica e Morale, il Diritto canonico e la Pastorale (Ivi, col. 493).
[6] Il termine di scienza sacra, appaiato a quello della teologia, si trova evocato ad es. in Congr. de inst. cath., Istruzione sugli Istituti di scienze religiose del 28 giugno 2008, Città del Vaticano 2008. Questa cita la cost. ap. Sapientia Christiana del 1979, in Acta Apostolicae Sedis, LXXI (1979), pp. 469 e ss. che, a sua volta, fa riferimento esplicito al documento del Vaticano II Gravissimum Educationis (quest’ultimo in Acta Apostolicae Sedis, LVIII (1966), pp. 728 e ss. Il rinvio alla cost. ap. Deus scientiarum Dominus è non appagante, dal momento che questo documento non usa mai l’espressione scienza sacra, ma solo quella di scienza/scienze.
[7] Oltre ai testi dei cui alla nt. precedente, v. Congr. pro clericis, Il dono della vocazione presbiterale. Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, Città del Vaticano, 2017.
[8] Cfr. Quaderni di storia, 27-28 (1988), p. 196. Cfr., ancor oggi illuminante, B. Spaventa, La libertà d’insegnamento: una polemica di settant’anni fa, Firenze 1922, p. 55. Cfr. Cultura scuola, 129-130 (1994), p. 176.
[9] Cfr. R. Moscati, L’università, in Dizionario di storia, Roma 2011. W. Frijhoff, Universities: 1500-1900, in The encyclopedia of higher education, II, Oxford, 1992.
[10] Cfr. in generale Histoire des Universités en France, a cura di J. Verger, Toulouse 1986.
[11] In Francia, ad esempio, cfr. la legge Wallon, 12 luglio 1875, che parla espressamente di università “libere”. Per una disamina dello statuto delle università dagli ultimi secoli della monarchia al periodo rivoluzionario e post-rivoluzionario in Francia, non solo con specifico riguardo all’insegnamento della teologia, si v. B. Neveu, L'enseignement universitaire de la théologie catholique en France de 1875 à 1885, in Revue d’histoire de l’Église de France, 81 (1995), pp. 269-294. Sulle università libere in Francia cfr. R. Naz, Universités libres (les) en France, in Dictionnaire de droit canonique, VII, Paris 1965, p. 1380 e ss..
La dottrina canonistica indica in Lovanio la prima università «vere» libera e cattolica: F.X. Wernz-P. Vidal, Ius canonicum, IV, Romae 1935, p. 94, che richiama C.M. de Robiano, De jure Ecclesiae in Universitates studiorum, Lovanii 1864, pp. 230-231; ivi, il Breve istitutivo di Gregorio XVI, 13 dicembre 1833. Per altri interventi di Leone XIII, nello stesso senso, F.X. Wernz-P. Vidal, op. cit., loc. cit. Cfr. anche G. Dalla Torre, Alle origini dell’Università cattolica, in Studium, 112 (2016), pp. 12 e ss..
[12] Proposizione 45 in Denz., p. 2945.
[13] Atti del Governo di Sua Maestà il Re di Sardegna, XVI, 2, pp. 939 e ss..
[14] Cfr. Il Sillabo di Pio IX, a cura di L. Sandoni, Bologna 2012, pp. 163-164.
[15] Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, 18 novembre 1859.
[16] Idea sviluppata da G. Cuomo, La libertà dell’insegnamento (rassegna di legislazione: 1848-1948), in L’istruzione, a cura di C.M. Iaccarino, in Congresso celebrativo del Centenario delle leggi amministrative di unificazione. Atti, L’istruzione e il culto, vol. I, Vicenza 1967, pp. 57-60.
[17] G. Dalla Torre, Alle origini dell’Università cattolica, cit., pp. 14-16 .
[18] A. Poppi, Ricerche sulla teologia e la scienza nella Scuola padovana del Cinque e Seicento, Soveria Mannelli (Catanzaro), 2001, pp. 7 e ss..
[19] F.M Colle, Storia scientifico-letteraria dello Studio di Padova, IV, Padova 1825, pp. 109 e ss..
[20] A. Poppi, op. ult. cit., p. 13.
[21] Onde nel Settecento «uno studente poteva… giungere così alla laurea come gli studenti delle altre facoltà, senza passare per le scuole ecclesiastiche»: ibid., p. 20. Sulla nominata riforma, cfr. P. Del Negro, L’Università, in Storia della cultura veneta. Il Settecento, 5/1, Vicenza 1985, pp. 63 e ss..
[22] A. Poppi, op. ult. cit., p. 21.
[23] Cfr. M.C. Ghetti, Struttura e organizzazione dell’Università di Padova dal 1798 al 1817, pp. 149 e ss.. L’insegnamento della teologia venne «relegato al seminario», ciò che contribuì a laicizzare «un’organizzazione didattica che aveva spesso patito un’opprimente soggezione ai deliberata ecclesiastici» (ivi, p. 150). Per questa riforma, dalla facoltà legale spariva anche l’insegnamento di diritto canonico: ivi, nt. 57; ciò, del resto, corrispondeva ad una generale attitudine napoleonica verso il Diritto ecclesiastico (leggasi Canonico): F. Scaduto, Il concetto moderno del Diritto ecclesiastico. Prolusione letta il 21 novembre 1884, in Gli insegnamenti del diritto canonico ed ecclesiastico dopo l’Unità d’Italia, a cura di M. Miele, Bologna 2015, p. 472. Sulla soppressione napoleonica del 1806 cfr. A. Gambasin, Theses in Sacra Teologia nell’Università di Padova dal 1815 al 1873 (Contributi alla storia dell’Università di Padova 18), Trieste-Padova 1984, pp. 1-3.
[24] M.C. Ghetti, op. ult. cit., pp. 169 e ss.. Tra le materie comprese nella nuova facoltà teologica, inserita pienamente nella struttura dell’università, è compreso il diritto canonico (ivi, nt. 140). Ma questo insegnamento è confermato anche nella facoltà politico-legale (ivi, p. 172, nt. 147). A questa circostanza, penso, si riferisca la segnalazione della Ghetti per cui la Facoltà conferiva la laurea «in ambe le leggi» (ivi), ciò che sembrerebbe alludere all’espressione in utroque iure. Sulla ricostituzione della Facoltà v. Gambasin, Theses in Sacra Teologia nell’Università di Padova dal 1815 al 1873, cit., pp. 4 e ss.. Cfr. ora G. Berti, L’Università di Padova dal 1814 al 1850 (Contributi alla storia dell’Università di Padova, 45), Treviso 2011, pp. 65 e ss..
[25] A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1948, p. 176.
[26] S. Malfèr, Chiesa e Stato in Austria nell’Ottocento. Dal giuseppinismo al concordato del 1855 e sua risoluzione, in Storia religiosa dell’Austria, a cura di F. Citterio e L. Vaccaro, Milano 1997, p. 371.
[27] A. Zanotti, Effetti del concordato austriaco del 1855 nel Lombardo-Veneto, in Storia religiosa dell’Austria, cit., p. 457.
[28] Testo e contesto riportati da A. Zanotti, Il Concordato austriaco del 1855 (Seminario giuridico della Università di Bologna 117), Milano 1986, p. 189, nt. 14.
[29] A. Poppi, op. cit., p. 22, che cita anche A. Gambasin. Cfr. Berti, L’Università di Padova dal 1814 al 1850 cit., p. 65.
[30] S. Malfèr, Chiesa e Stato in Austria nell’Ottocento. Dal giuseppinismo al concordato del 1855 e sua risoluzione, cit., p. 380.
[31] Cfr. Bollettino delle leggi della Repubblica italiana, Dalla Costituzione proclamata nei Comizj in Lione al 31 dicembre 1802, vol. I, p. 295. Riferito agli atenei di Pavia e Bologna, l’art. 7 dispone che «l’insegnamento delle scienze… è diviso in tre classi, cioè classe fisica e matematica; classe morale e politica; classe di letteratura» (corsivo nel testo). Cfr. su tutto questo V. Karady, De Napoléon à Duruy: les origines et la naissance de l’université contemporaine, in Histoire des Universités en France, cit., pp. 261-322.
A. Aulard, Napoléon Ier et le monopole universitaire, Paris 1911, p. 146.
[32] Bollettino delle leggi del Regno d’Italia, Dal I maggio al 31 agosto 1806, vol. II, p. 789. M.C. Ghetti, Struttura e organizzazione dell’Università di Padova dal 1798 al 1817, cit., p. 149.
[33] M.C. Ghetti, Struttura e organizzazione dell’Università di Padova dal 1798 al 1817, cit., pp. 150 e 156 nt. 78.
[34] Cfr. i Piani di Studj e di Disciplina per le Università nazionali, 31 ottobre 1803, in Foglio officiale della Repubblica italiana contenente i decreti, proclami, circolari ed avvisi risguardanti l’amministrazione, Pubblicati nel 1803, vol. II, pp. 155 e ss.. Modifiche nel successivo Decreto riguardante il piano d’istruzione generale, 15 novembre 1808, in Bollettino delle leggi del Regno d’Italia, Dal primo giugno al 31 dicembre 1808, II, pp. 922 e ss.. M.C. Ghetti, Struttura e organizzazione dell’Università di Padova dal 1798 al 1817, cit., p. 150. Cfr. inoltre: G. Di Renzo Villata, Formare il giurista, Milano 2004, p. 71; E. Brambilla, C. Capra, A. Scotti, Istituzioni e cultura in età napoleonica, Milano 2008, p. 235; G. Zordan, Rivista di storia del diritto italiano, 72 (2000), p. 42.
[35] Le materie enumerate sono: Filosofia morale; Diritto di natura; Diritto pubblico e delle genti; Storia e diplomazia; Istituzioni civili ed Arte notarile; Diritto civile; Diritto e procedura criminale (Piani di Studj e di Disciplina per le Università nazionali, 31 ottobre 1803, cit., p. e 170 e ss..). Non diversamente avviene con la successiva ripartizione delle cattedre per la Facoltà legale (ivi, p. 182); essa comprende: Analisi delle idee; Eloquenza latina ed italiana; Lingua e letteratura greca; Filosofia morale e Diritto di natura; Istituzioni civili ed Arte notarile; Diritto civile; Diritto e procedura criminale; Diritto delle genti e pubblico; Economia pubblica; Storia e Diplomazia; Antiquaria e Numismatica; Lingue orientali.
[36] Più esattamente, Decreti, regolamenti, istruzioni generali sopra gli oggetti appartenenti alle attribuzioni del Ministero pel culto del Regno d’Italia, vol. I, Milano 1808; vol. II, Milano 1813.
[37] Giovanni Bovara (1734-1812). Sacerdote a Milano nel 1758, professore di Istituzioni canoniche a Pavia nel 1769, membro della Commissione ecclesiastica che, a partire dal 1786, doveva occuparsi anche delle riforme universitarie (oltre che dalla polizia del clero secolare); sotto Francesco Melzi d’Eril, dal 1802, Ministro del Culto del dominio napoleonico d’Italia (Repubblica e Regno), infine inviato al Concilio di Parigi del 1811. Si v. L. Sebastiani, Bovara Giovanni, in Dizionario biografico degli italiani, 13 (1971), pp. 537-540.
[38] Si cfr. F. Agostini, La riforma napoleonica della Chiesa nella Repubblica e nel Regno d’Italia. 1802-1814, Vicenza 1990; Id., Dall’antico sistema al “nuovo ordine”: la riforma della parrocchia nel Veneto napoleonico, in Studi in onore di Angelo Gambasin, a cura di L. Billanovich, Vicenza 1992; Id., Istituzioni ecclesiastiche e potere politico in area veneta (1754-1866), Padova 2002. Cfr., in precedenza, gli studi condotti dal Gambasin e da lui indicati in A. Gambasin, Theses in Sacra Teologia nell’Università di Padova dal 1815 al 1873, cit., p. 7, nt. 19. V. anche P. Magnani, Sulla parrocchia nel Lombardo-Veneto, in Studia Patavina, LX (2013), pp. 635 e ss..
[39] Cfr. P. Prodi, Dal Rinascimento al Barocco – La Chiesa e la società veneziane, in Storia di Venezia, 1994.
[40] Ma l’impianto della fabbriceria, composta da laici, non era una novità nei territori della Repubblica veneta. Figura analoga si trova infatti nei Procuratori di chiesa, laici che amministravano i beni delle chiese con poteri vincolanti nei riguardi degli ecclesiastici addetti. Cfr., ad es., G. Gallicciolli, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche, vol I., t. II, n. 328, b) e ss., Venezia 1795, e t. 3, pp. 148 e ss..). Con speciale riguardo alle fabbricerie, la normativa legislativa e giurisprudenziale sulla parrocchia postnapoleonica in Francia può trovarsi in: D.A. Affre, Traité de l’administration temporelle des paroisses, Paris 1827.
[41] Gli ecclesiasticisti ne parlano a partire dal loro punto di vista, come già notato da M. Rosa, Le parrocchie italiane nell’età moderna e contemporanea. Bilancio degli studi e linee di ricerca, in Mélanges de l'Ecole française de Rome. Moyen-Age, Temps modernes, 88 (1986), p. 8. Si veda quindi l’importante F. Ruffini, La rappresentanza giuridica delle parrocchie, Torino 1896, spec. pp. 74 e ss..; inoltre: F. Scaduto, Diritto ecclesiastico vigente in Italia, vol. I, Torino 1892, pp. 529 e ss.; M. Moresco, Le fabbricerie secondo il decreto napoleonico del 30 dicembre 1809, Milano 1895;
[42] Note storiografiche circa il giuseppinismo in U. Dell’Orto, Concezione e ruolo dei sovrani asburgici alla luce della nunziatura a Vienna di Giuseppe Garampi (1776-1785), in Communio, 144 (1995), pp. 50 e ss..
[43] V. La Teologia del XX secolo. Un bilancio, vol. III, Prospettive pratiche, a cura di G. Canobbio e P. Coda, Roma 2003, p. 412. Cfr. U. Dell’Orto, La nunziatura, cit., 1995, pp. 16-40.
[44] Note biografiche e bibliografiche su Rautenstrauch in C. Spehr, Aufklärung und Ökumene (Beiträge zur historischen Theologie 132), Tübingen 2005, pp. 174-175, nt. 142 e p. 196.
[45] Ibid., pp. 196-200.
[46] Cfr. F.X. Arnold, Storia moderna della teologia pastorale, trad. it. di C. Vivaldelli, Roma 1970, pp. 130 e ss..
[47] Ibid., p. 131.
[48] Ibid.
[49] Institutum facultatis theologicae vindobonensis curante Francisco Stephano Rautenstrauch, Vindobonae 1778.
[50] Ivi, righe 1-5.
[51] Sulla politica circa il numero degli ordinandi ci sarebbero molte cose da dire: Giuseppe II, sviluppo della teorica dei parroci come pastori di II ordine, parrocchialismo, titolo di ordinazione. Per un sunto si veda G. Mollat, s.v. joséphisme, in Dictionnaire de droit canonique, a cura di R. Naz, vol. VI, Paris 1957, coll. 187 e ss..
[52] V. sopra nt. 14.
[53] Cfr. B. Cammarella, L’istruzione universitaria, in L’istruzione, a cura di C.M. Iaccarino, in Congresso celebrativo del Centenario delle leggi amministrative di unificazione. Atti, L’istruzione e il culto, vol. I, cit., pp. 128-129.
[54] F. Falchi, La soppressione del corso autonomo di diritto canonico delle facoltà giuridiche disposta dal ministro Bonghi nel 1875, in Gli insegnamenti del diritto canonico ed ecclesiastico dopo l’Unità d’Italia, a cura di M. Miele, Bologna 2015, pp. 375 e ss..
[55] Sull’evoluzione delle denominazioni relative allo studio dei canoni, cfr. M. Vismara Missiroli, Diritto canonico e scienze giuridiche, Padova 1998, pp. 12 e ss..
[56] Cfr. B. Cammarella, L’istruzione universitaria, in L’istruzione, a cura di C.M. Iaccarino, in Congresso celebrativo del Centenario delle leggi amministrative di unificazione. Atti, L’istruzione e il culto, vol. I, cit., p. 130.
[57] F. Falchi, La soppressione del corso autonomo di diritto canonico delle facoltà giuridiche disposta dal ministro Bonghi nel 1875, cit., pp. 378-379.
[58] È questo l’avviso dell’on. Tecchio, membro di una Commissione speciale per la riforma di Giurisprudenza, costituita dal ministro Natoli nel 1865. Cfr. F. Falchi, op. ult. cit., pp. 380 e ss.; per il voto di Sebastiano Tecchio (già allievo di Giurisprudenza a Padova), p. 383.
[59] Così il Ministro Natoli, influenzato dai lavori della Commissione: ibid., p. 384.
[60] Ibid.
[61] Ibid., pp. 389-390.
[62] Ibid., p. 391.
[63] Ibid., pp. 393-394.
[64] Cfr. la relazione de
Miele Manlio
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