Realtà, miti, finzioni in Santi Romano. Osservazioni ‘frammentarie’ di un romanista
Ernesto Bianchi
Professore ordinario di Istituzioni di Diritto Romano, Università Cattolica del Sacro Cuore
Realtà, miti, finzioni in Santi Romano. Osservazioni ‘frammentarie’ di un romanista (**)
Sommario: 1. Premessa e ragioni di un intervento. - 2. Minimi rilievi terminologici. - 3. Miti e ‘realtà giuridica’. - 4. Quale realtà per le finzioni giuridiche? Esclusione di formulazioni equiparative e di entificazioni. - 5. Colloquium fictum: il filosofo, il normativista, l’istituzionalista, il giurista romano.
- Premessa e ragioni di un intervento.
Che un romanista parli di realtà giuridica e di Santi Romano e intervenga in un dibattito occasionato anche da una recente monografia che ne considera il pensiero sotto nuovi profili, può apparire bizzarro o, quantomeno, singolare specie a motivo della diffusa opinione che vuole il diritto romano pragmatico e non teoretico e, per lunga parte del suo corso storico, piuttosto casistico che sistematico[1]. Ma, per usare le parole di Savigny – prima che, con un iter concluso con Giustiniano, das historische Ganze divenga Gesetz[2], esso è ius controversum, composto da fonti eterogenee e da pluralità di sistemi. Fonti, l’una con l’altra in continua dialettica, che creano ius tutelando situazioni fattuali o dandovi forma giuridica. Non penso solo alla (ovvia) contrapposizione ius Civile/ius Honorarium o al rapporto tra dirittosacro e laico o a quello tra diritto privato e pubblico, penso anche alle regole e alle magistrature ‘rivoluzionarie’ che una parte dei cives si dà in età arcaica, dimostrando che gruppi sociali creano diritto o, per riportarmi a fasi ancora più antiche, penso al ius gentilicium, proprio di singoli insiemi di familiae [3].
La mente corre alle parole di Santi Romano: «uno Stato, una Chiesa, una società internazionale, una famiglia, un’organizzazione sociale qualsiasi sono enti giuridici», certo non creati dal nulla, ma che acquistano nel mondo giuridico «una propria individualità ed una propria essenza», differenti dalle realtà sociali che li hanno originati e con le quali possono anche coincidere nella loro denominazione, ma rimanendo su piani diversi[4].
Certo, si potrebbe anche ricondurre la dottrina istituzionale – pur con tutta la sua novità – al fertile terreno di precedenti studi sul rapporto tra diritto e fenomeni associativi (le teorie di Robert von Mohl e di Otto von Gierke)[5] evidenziando quanto queste ricerche – pur condotte in ambito eminentemente germanistico – fossero, in un modo o in un altro, ‘impregnate’ di principi e dogmi della Romanistica. Ancora, altre connessioni potrebbero essere rinvenute negli scritti dedicati al diritto – con particolare attenzione al diritto romano – quale fenomeno sociale da Weber[6]. Per converso, ci si potrebbe anche interrogare circa l’uso che Santi Romano fece del diritto romano e circa le conoscenze che ne ebbe[7].
Ma, forse, vi è un altro motivo che potrebbe giustificare il mio intervento. Come osserva nel prologo della sua monografia Alessandro Olivari, alla domanda kantiana: ‘che cos’è il diritto?’ (Quid ius?), Romano sembra poi accostare un altro quesito: ‘che cosa vi è nel diritto?’ (Quid in iure?): non più l’ontologia del giuridico, ma l’ontologia nel giuridico[8]. Qui si profila allora un’altra affinità con gran parte del pensiero giuridico romano, volto a riempire il contenitore ius, piuttosto che a definirlo. Vero: la definitio è uno degli strumenti tecnici più utilizzati dai giuristi romani, ma vera anche la coscienza che «omnis definitio in iure civili periculosa est, parum est enim ut non subverti posset»[9].
Nel celebre passo potrebbe ravvisarsi adombrata in nuce la popperiana Fälschungsmöglichkeit? La possibilità di falsificare una teoria, che, di una teoria, non è difetto, ma pregio. Popper parla di rischi maggiori o minori cui sono esposte le teorie[10]; Giavoleno Prisco chiama ‘periculosa’–rischiosa– la definitio. Popper: Fälschungsmöglichkeit. Giavoleno: subverti – non subverti. Eppoi vi è quel parum est…[11].
Il differente contesto culturale in cui si colloca l’articolato pensiero di Popper rispetto al frammento di Giavoleno rende ardito l’accostamento che ho proposto e, al più, consente di cogliervi un’assonanza di note, forse solo un poco più marcata accettando con Kantorowicz che la definizione – in linea generale – non ha rango di affermazione di verità[12], ferma però la precisazione di Bobbio che qualunque proposizione, per poter essere verificata o falsificata, necessita di avere un significato[13].
2. Minimi rilievi terminologici.
Osservo subito che già le parole pronunziate in premessa: vero/falso non trovano perfetta corrispondenza nella lingua greca e in quella latina: nella prima, ἀλήθεια ha il senso prevalente di scoperta, di qualcosa che viene svelata, nella seconda, veritas ha la valenza di fede, di qualcosa che è affidabile. Pure per le parole solo sfiorate e che qui dovremo maggiormente considerare, realtà, ontologia (o, più precisamente, ontica), sempre Greco e Latino indicano distanza semiologica e anche semantica se si considera che ‘realitas’, proprio del lessico tardo, addirittura medievale, viene da res – cosa – e non ha quindi piena corrispondenza con il greco ὄντοςche viene da essere. Il termine che in Latino – anche nelle fonti giuridiche – è più utilizzato per indicare la realtà è ‘natura’ o ‘rerum natura’ che corrisponde, semmai, al greco φύσις.
Verborum significatus ratione, e già che poi si parlerà di finzioni, ne approfitto per dire che il senso ripreso da Silvana Borutti del latino ‘fingere’ di ‘modellare, formare, costruire’[14] è confermato anche dall’esistenza nelle arcaiche strutture sacerdotali romane dei fictores, collaboratori o, forse, colleghi minori dei pontifices, qualificati dal grammatico Servio: qui imagines vel signa ex aere vel cera faciunt[15].Del resto, ricorda Isidoro, fingere enim est facere, formare et plasmare[16]; dunque, una notevole coincidenza semantica di fingo con plάssw, plasmo[17] e anche uno dei casi in cui la tendenza ipostatica del lessico giuridico latino viene meglio dimostrata[18]. Quali altre parole, più di ‘fingere’ e di ‘fictio’, assumeranno una connotazione tanto astratta, originando da un significato così concreto? Plastico, fittile: fictio ed effigies hanno un etimo comune, ma se ‘fingere’ indica principalmente l’idea del plasmare, ‘effingere’ suggerisce soprattutto quella del creare ad arte modelli imitativi[19]. E qui, naturalmente, si aprirebbe l’universo della mίmhsiV[20].
L’esigenza di distinguere fra realtà ‘naturale’ e ‘giuridica’ è stata evidenziata innumerevoli volte da giuristi e da filosofi del diritto (per il Novento spicca il nome di Hans Kelsen[21]) e la si riscontra anche nel pensiero del creatore della teoria istituzionalistica. In ciò, sempre con Bobbio, si può rilevare un’affinità tra Istituzionalismo e Normativismo[22]. E già anticipo che alcune coincidenti visioni si colgono pure nella comune esclusione dal novero delle finzioni giuridiche di talune figure che, sovente, vi sono riportate e alle quali, a breve, farò cenno[23].
Si è detto che nel lessico latino ‘realtà’ viene spesso indicata con natura o rerum natura, termini che, però, anche nelle fonti giuridiche, assumono differenti valenze[24]. È inevitabile procedere per exempla.
Evidente il significato di realtà ‘naturale’, ‘fisica’, quando il giurista Gaio – al fine di fare un esempio nitido – dice che l’ippocentauro non è in rerum natura e che, se fatto oggetto di una stipulatio, questa sarà inutilis[25]. Ippocentauro, animale fantastico, non solo non esiste, addirittura non può esistere: in rerum natura esse non potest.
Se, in questo caso, natura vale realtà fisica o naturale, qualche maggior problema suscita la parola natura, usata dal medesimo giurista – nella stessa opera e nell’identico commentario in cui è nominato l’ippocentauro – in un senso dichiaratamente contrapposto a lex. Non in contrapposizione a una qualsiasi legge, ma addirittura alla legge delle dodici Tavole, uno dei fondamenti del ius Civile.
Gaio, infatti, dopo avere ricordato che solo il Pretore aveva introdotto un’azione penale al quadruplo per l’ipotesi di furtum prohibitum[26], cioè per il caso fosse impedita la ricerca della refurtiva presso il ladro sospettato, precisa che le disposizioni decemvirali avevano, invece, riguardato una (particolarissima) ispezione:
Gai. 3.192: … Lex…[scil. la legge delle XII Tavole] hoc solum praecipit, ut qui quaerere uelit, nudus quaerat, licio cinctus, lancem habens; qui si quid inuenerit, iubet id lex furtum manifestum esse.
Si fa riferimento, come è notissimo, all’arcaica e ‘ridicula’[27] ispezione, quaestio lance licioque, compiuta dal derubato – coperto solo da un panno e con un piatto in mano – presso la casa del ladro sospettato.
Dalla fonte apprendiamo che la legge delle XII Tavole ordinava (si legge: iubet) che il rinvenimento della refurtiva conseguito al sopralluogo costituisse (si legge: esse) furtum manifestum, cioè furto flagrante. È interessante che, al § 194, Gaio ricordi che, su tale base (si legge: propter hoc), alcuni giuristi distinguessero un furtum manifestum lege e un furtum manifestum natura[28] e dichiari un suo diverso avviso: sed uerius est natura tantum manifestum furtum intellegi[29].
La parola natura è qui intesa da alcuni autori come ius naturale o come naturalis ratio[30], espressioni – a loro volta – connesse a un’accezione di ius gentium fortemente connotata da caratteristiche metastoriche e metagiuridiche, non a quella più piana e più storicamente definita di diritto comune alle genti conosciute. Ma, senza addentrarmi in questi temi, osservo che, se l’ippocentauro è un animale fantastico e mitico, il furtum è uno dei delitti tipici del diritto romano. L’ippocentauro – come i talleri di Maria Teresa – non esiste nella realtà, ma può essere immaginato. È vero che si possono immaginare anche i comportamenti che realizzano un furto accompagnandoli con la supposizione di un determinato stato psicologico di colui che li compie, ma per dirli, riconoscerli – qualificarli? – delitto e farne conseguire gli effetti che un ordinamento (una parola moderna[31]) vi riconduce, si deve entrare in una realtà diversa, una realtà che è solo ‘giuridica’. Ragionevolmente – natura – posso distinguere le fattispecie e scandire i diversi furta: manifestum, oblatum, conceptum e prohibitum. Ma è la legge che li fa delitti, che li fa di maggior o minor gravità e che li sanziona. Con ciò, la legge crea una differente realtà che è ‘prescrittiva’, non ‘descrittiva’. Sulla realtà descrittiva la legge non può incidere: neque enin facere potest. Cosa può la legge? At illud sane lex facere potest, ut proinde aliquis poena teneatur, atque si furtum uel adulterium uel homicidium admisisset, quamuis nihil eorum admiserit[32].
Nella moderna teoria generale del diritto è assunto condiviso che il legislatore non prende in considerazione i fatti per asserirne la rispondenza o meno al vero, ma solo per disciplinarli. E, allorché una fattispecie fosse legislativamente equiparata ad altra, l’equiparazione non darebbe luogo ad alcuna alterazione della realtà (che non potrebbe neppure essere ‘dichiarata’ dal legislatore come difforme da quel che è), ma solo ad una ‘prescrizione’. Dunque si potrà avere identità – che, a seconda delle specifiche disposizioni di legge, potrà essere totale, o parziale – delle conseguenze giuridiche, ma non equivalenza dei fatti disciplinati e, tanto meno, falsa affermazione d’identità di questi fatti[33]; sotto il profilo teoretico ne è quindi corollario consequenziale che i fenomeni di tecnica normativa che costituiscono una mera equivalenza di differenti fattispecie non possono correttamente essere annoverati tra le finzioni giuridiche, le quali necessitano, invece, non di una costituzione di ‘equivalenza’, ma di una ‘sostituzione’ di un quid con altro – oggetto o fatto – che sia giuridicamente rilevante[34].
Per tornare al passo considerato, a me sembra che il giurista affermi che la flagranza è elemento composto anche da fatti[35] e contrapponga due differenti ‘realtà’: quella ‘descrittiva’ cui rimanda la parola natura – che io colgo ambigua, empirica, approssimativa – e quella ‘prescrittiva’[36], presupposta nelle parole: lex facere potest – quindi, anch’essa realtà, a mio avviso, più definita, più geometrica della prima – di sostanza esclusivamente giuridica, ma che, sulla prima, non può incidere.
Santi Romano dice che il diritto non si limita a trasportare «nella propria sfera da altre realtà, ma crea ex novo non solo intere istituzioni, ma singole posizioni, singoli rapporti»[37]. Un elemento della partizione ontologica di Romano rilevata da Olivari[38]: realtà giuridica tratta dalla realtà naturale sembra, nell’exemplum, trovare conferma.
3. Miti e ‘realtà giuridica’.
Quali i confini della realtà giuridica per Santi Romano? Con altra formulazione: cosa si pone al di fuori di questa realtà? Per una risposta in termini analitici, rimando al lavoro di Olivari[39]. Qui rilevo solo quella che, in apparenza, parrebbe un’ovvietà e, invece, tale non è: ne è al di fuori la ‘mitologia giuridica’.
Scrive Romano: «è superfluo rilevare che il mito non è verità o realtà, anzi l’opposto e, quindi, la mitologia giuridica è da contrapporsi alla realtà giuridica»[40].
Nel ‘mito’ si ravvisa: «una nonverità, un errore, una «inopia», ma anche «immaginazione... immaginazione favolosa». Una raffigurazione della ‘mitologia giuridica’, quella di Romano, che fa espressamente ricorso alle concezioni poetiche ed estetiche di Benedetto Croce[41] e, indirettamente, a quelle di Vico.
Romano riscontra analiticamente – sul piano dell’effettività – la maggior frequenza dei miti giuridici nei periodi rivoluzionari e presso i popoli meno conservatori[42]: non a caso, la Francia è indicata come nazione particolarmente incline a crearli[43] e «tipicamente mitiche» le teorie filosofiche che prepararono la rivoluzione del 1789[44].
Tra i «miti giuridici», anzitutto, Romano annovera lo «stato di natura» e si interroga se questo sia da «considerarsi tutt’uno con quello del contratto sociale» e se questi due anelli costituiscano con un «terzo» – quello «della c.d. volontà generale» – una catena di miti[45].
Par di capire che Romano, dopo averne dato atto sotto il profilo storico e sotto quello geografico, ne neghi poi l’esistenza all’interno delle coordinate in cui racchiude la ‘realtà giuridica’.
Si può anzi osservare che, per Romano, i ‘miti giuridici’ possono essere addirittura utili come lo sono i miti per Vico e per Croce. È, infatti, lo stesso Romano a dichiarare che – fatti gli opportuni distinguo – «il mito è non raramente sprone ad attività più o meno utili», che «a questi miti si deve molto» e che «non poche delle attuali realtà giuridiche non hanno che tale origine»[46]. A quanto Romano dice, i miti non sono ‘realtà giuridica’, ma alcuni di essi hanno prodotto delle ‘realtà giuridiche’. Per taluni di essi – in particolare per quello della «volontà generale» – si può giungere a collocarli ai margini della mitologia giuridica, in una «zona neutra» che sta ai confini della speculazione teorica. Ma, in ogni caso, essi sono al di fuori della ‘realtà giuridica’.
I miti, precisa Romano, vanno comunque tenuti ben distinti dalle astrazioni e da altre figure, quali le equiparazioni, le presunzioni, le apparenze, e anche dalle finzioni delle quali, talvolta, un ordinamento positivo si avvale[47] e che, a differenza dei miti, appartengono alla realtà giuridica. Tramite la finzionesi può quindi passare a ricercare cosa stia nel diritto – quid in iure? – per Santi Romano e se questa ontologia ‘nel’ giuridico profili, in qualche frammento, coincidenze con l’esperienza romana.
4. Quale realtà per le finzioni giuridiche? Esclusione di formulazioni equiparative e di entificazioni.
Sotto il comune denominatore di ‘finzioni giuridiche’, Romano rileva che «sono stati raccolti senza discriminazione figure e istituti così disparati ed eterogenei, che, per molti, sarebbe certamente più esatto non confonderli assieme in quella categoria»[48].
Si deve concordare con Romano circa l’eterogeneità di significati abbracciata dall’espressione ‘finzione giuridica’. Essenzialmente, si contrappongono, da un lato, le finzioni ‘storiche’ o ‘pratiche’ e, dall’altro, le finzioni ‘dogmatiche’ o ‘teoretiche’, dette anche e forse con miglior formulazione,‘costruttive’, quelle con le quali si è usi denominare una costruzione teoretica o un’elaborazione di concetti giuridici, per dirla con il de Ruggiero, volta al ‘raggruppamento organico delle varie concezioni giuridiche’[49]. Per il diritto romano è anche importante distinguere finzioni ‘legislative’, ‘pretorie’ e ‘giurisprudenziali’ (benché io all’esistenza di queste ultime non creda[50]). In linea generale, poi, le aggettivazioni potrebbero continuare e le classificazioni farsi numerose[51], ma Romano sembra muoversi nell’ambito della fondamentale dicotomia storiche-pratiche/teoretiche-costruttive.
Quali finzioni giuridiche appartengono per Romano alla realtà giuridica?
Ora può essere che a me sia sfuggita, ma non ho ritrovato nei suoi scritti una ‘definizione’ di finzione giuridica, anche se la si deduce tra le righe che saranno considerate a breve[52]. Con qualche maggiore sicurezza, rilevo che neppure nelle fonti giuridiche romane si rinviene una definizione[53]. In queste – assente una ‘periculosa definitio’ – troviamo, invece, espressamente qualificati come finzioni solo alcuni precisi fenomeni[54]. Per converso, negli scritti di Santi Romano, ne sono sdegnosamente esclusi dal novero casi che spesso vi sono ricondotti, nonostante moniti avversi formulati da tempo. Nitidissimi quelli di Rudolf von Jhering[55].
Dato che non rinvengo una definizione procedo per esclusione, anzi tramite le esclusioni operate da Romano che, ovviamente, nega che siano ‘autentiche’ finzioni quelle dette ‘dogmatiche’ o ‘costruttive’, ma che va anche oltre, rifiutando di identificare le finzioni con le equiparazioni[56] e rilevando che la presenza in un testo normativo di circonlocuzioni ‘equiparative’ non dà riscontro della necessaria esistenza di una finzione giuridica.
Così: «... è da notare che frequentemente una norma giuridica equipara una realtà che riconosce e considera come tale ad un’altra diversa. Tale equiparazione non si risolve in una finzione, giacché non si dà per esistente o, viceversa, per inesistente ciò che rispettivamente non esiste o esiste, ma neppure implica una vera e propria modificazione della realtà alla quale si attribuiscono, a certi effetti, trattamenti propri di un’altra realtà. A questo proposito è opportuno rilevare che essa non sempre è espressa e indicata con le stesse parole, ma non di rado ha luogo con formule e circonlocuzioni svariate»[57]. Dunque, una definizione offerta in controluce e l’avvertimento che occorre far attenzione alla sostanza, non alle parole. L’Autore va, infatti, subito al merito.
Ecco alcuni exempla addotti da Romano: «... è disposto che, agli effetti della legge penale, sono «considerati» cittadini italiani i cittadini delle colonie, i sudditi coloniali, gli apolidi residenti nel territorio dello Stato etc., e che le navi e gli aeromobili italiani sono «considerati» come territorio dello Stato, ovunque si trovino. La parola «considerati» non vuol dire che a persone che non sono veri cittadini o che a spazi che non sono territori..., si attribuiscono le qualità o i caratteri del cittadino e, rispettivamente, del territorio, che effettivamente, non hanno, ma si vuol dire che certe norme che si applicano agli uni si applicano anche agli altri»[58].
Il verbo italiano ‘considerare’ – potrei da parte mia indicare quello latino: intellegere[59]– non dà un sicuro riscontro circa la presenza di una finzione. In termini più generali, in Romano, vi è il rifiuto del riscontro del ‘come se’ del ‘als ob’. Un rifiuto, a mio avviso, corretto.
Qui ribadisco la convinzione, altre volte manifestata, riguardo all’utilità, al fine di individuare una finzione, di forme lessicali quali: quasi, perinde ac, perinde atque, proinde ac, proinde atque, ac si, pro, loco esse, velut, vice e di forme sintattiche con verbi al modo congiuntivo, ma subito rilevo che tali indici possano presentarsi in casi ove non si configura una finzione[60]. Per la disamina di queste forme lessicali, rinvio a studi specifici che portano a concordare con Romano. Così per il ‘perinde ac’ e il ‘proinde ac’[61] come per il ‘quasi’[62] e come per l’avverbio siremps, indice possibile, soprattutto, di una finzione disposta da una legge[63].
Certo che il diritto ‘consideri’ realtà, anche ‘naturali’, non è irrilevante: «gli uomini, gli animali, le piante, l’aria, la luce, la nascita degli esseri viventi, la loro morte (s’intende, non presunta) … sono tutte realtà che si dicono giuridiche, non perché esistenti per virtù e in forza del diritto, ma solo perché il diritto le prende in considerazione»[64]. Queste realtà divengono ‘giuridiche’, proprio e solo in quanto, prese in considerazione. Neppure concettualmente potrebbero, però, divenire finzioni.
Ma, per Romano, non sono finzioni giuridiche altre ‘realtà’ non riconoscibili come ‘naturali’: così non lo sono la rappresentanza ereditaria, la c.d. ficta traditio – espressione che invero non si rinviene nelle fonti giuridiche romane e tanto meno vi è annoverata quale finzione[65] – e l’adozione, sebbene sia sottolineato avere «comuni con la filiazione effettiva non poche conseguenze».
Troveremmo concorde con questa mancata qualificazione Hans Kelsen. Concordi sul punto Normativismo e Istituzionalismo. E riscontriamo mai qualificata finzione l’adozione nelle fonti giuridiche romane.
A mio avviso, nessuna delle forme di adozione conosciute dal diritto romano realizza una ‘vera’ finzione: non la adoptio, ma neppure quella di matrice arcaica, la adrogatio, in cui sono pur evidenti e giustamente si rimarcano tracce di mίmhsiV con la naturale procreazione[66]. Ma la qualifica di finzione giuridica sarebbe scorretta in quanto e da quando essa diviene atto formale[67].
Ciò che vale per la adrogatio potrebbe esser ribadito per altri atti formali del diritto romano, come l’acceptilatio, a proposito della quale Pringsheim parlò di ‘finzione mascherante’, «verdeckende Fiktion», facendone un tertium genus di una partizione del fenomeno finzionistico accanto a quello delle «offenen Fiktionen» (le finzioni pragmatiche)[68] e a quello dei simboli[69].
Per alcuni di questi atti si dovrebbe, però, tener conto della caratteristica ‘effimera’ – quasi una ‘costante’ – insita nel fenomeno che fa sì che determinati schemi, originati in un certo periodo storico come finzioni, cessino successivamente, a volte a breve, di esser tali, divenendo atti giuridicamente formali. Da quel momento – che varia caso per caso e sul quale l’indagine storica si fa di estrema difficoltà – accade che le conseguenze giuridiche, dapprima ottenute fingendo esistente una realtà inesistente o l’inverso, vengano riconnesse direttamente al compimento dell’atto o del negozio, pur questi conservando nei loro schemi una traccia della loro origine.
Anche Vaihinger, trattando delle finzioni, intese quali strumenti di cognizione, sottolinea che il loro utilizzo è consentito in quanto ‘provvisorio’ – in senso non meramente di tempo[70] – e d’altronde, con riguardo alle finzioni dell’esperienza giuridica romana, Jhering – dette false le ‘dogmatiche’ – attribuisce alle ‘storiche’, una finalità provvisoria che si risolve con l’introduzione di nuove norme[71]: attraverso l’applicazione di effetti giuridici previsti per determinate fattispecie a casi differenti si produce una specifica – non più indiretta – norma[72] o, per meglio dire, si realizza una nuova ‘forma’, così che, se considerata ‘a posteriori’, la finzione originaria diviene forma cessando di essere finzione[73].
Da parte mia avevo anzi indicato che l’esistenza di una finzione giuridica può essere verificata solo se sussista una valenza ‘sincronica’ fra l’elemento sostituente, quello che, contro il vero, viene assunto per avvenuto (o, viceversa, per non avvenuto) e l’elemento sostituito, quello che è avvenuto (o, viceversa, non è avvenuto). Gli ‘elementi’ potranno essere costituiti da oggetti materiali, come nel caso delle arcaiche fictiones di diritto sacro, da fatti giuridicamente rilevanti, come nelle finzioni pretorie e in quelle legislative e da altro ancora. Ma, in mancanza di una valenza ‘sincronica’ tra gli elementi sostituente e sostituito, non può aversi finzione. Una mera valenza ‘diacronica’ attesta, evidentemente, solo il mutamento della forma. Talché si dovrebbe trarre l’inevitabile conclusione che qualsiasi finzione giuridica, già all’atto della sua creazione, è destinata a dissolversi e che, per la sua ‘provvisorietà’, il fenomeno può essere fotografato con tempi di esposizione, caso per caso, differenti.
Tale caratteristica ‘provvisoria’ mi pare venga colta da Santi Romano[74], ma per continuare con gli exempla esclusi dall’Autore dal novero delle finzioni, si pensi alle cd. ‘entificazioni’ e alla critica mossa tanto alla teoria ‘realistica’ quanto a quella ‘finzionistica’ della ‘persona giuridica’: «egualmente infondate, in quanto derivano entrambe dal disconoscimento della vera natura delle persone giuridiche, che sono realtà, ma realtà meramente giuridiche e, quindi, né finzioni né realtà metagiuridiche, neppure nel senso che prima esistano fuori il diritto e siano così da questo assunte nella propria sfera».[75]
Anche in questo caso troveremmo concordanza di Istituzionalismo e di Normativismo. Kelsen rifiuta, infatti, in opposizione a Vaihinger, di annoverare la persona giuridica tra le finzioni (negando addirittura il senso di una distinzione tra persona giuridica e persona fisica[76]). Tanto per Kelsen, quanto per Romano, la persona giuridica è realtà esclusivamente giuridica.
A chi frequenta le fonti giuridiche romane, basterà qui rammentare con Orestano che, in queste, il concetto di ‘persona giuridica’ non si rinviene affatto[77] e che proviene, invece, da elaborazioni dottrinali della Romanistica medievale e dalla Canonistica[78].
Le ‘autentiche’ finzioni giuridiche, delle quali – Romano dice – lecitamente un dato ordinamento positivo si avvale, individuate piuttosto per esclusione di quelle rifiutate dal novero, ricevono, comunque, una valutazione negativa. Romano ne rileva, infatti, la presenza specie negli ordinamenti primitivi[79].
Incidentalmente, qui si potrebbe osservare il giudizio di Romano è stato forse influenzato dalla valenza morale tendenzialmente negativa riconnessa alla parola ‘finzione’ per l’idea di inganno che vi si è ricondotta[80] o per quella di non autenticità che vi è presente[81].
Vorrei, allora, invitare Romano a un’immaginaria conversazione, a un colloquium fictum.
5. Colloquium fictum: il filosofo, il normativista, l’istituzionalista, il giurista romano.
Fingo, nel senso che immagino, un colloquio tra il filosofo Vaihinger e tre giuristi: i primi due, naturalmente, sono Hans Kelsen e Santi Romano, il terzo è un giurista romano. Fingiamo che sia il già nominato Gaio.
Costui accetta il termine ‘ordinamento giuridico’ che, gli viene detto, è moderno e spesso connesso alla parola ‘Stato’. Gli sono anche dati alcuni cenni sulla differenza che corre tra norme primarie e secondarie[82]. Li accetta, userà queste nozioni applicandole all’esperienza – la realtà – a lui nota[83]. Si discuterà di finzioni. Parola e concetto non gli sono nuovi.
Esordisce Kelsen, affermando che, all’onnipotenza di Dio nel mondo, corrisponde, nel diritto, quella dello Stato[84]: lo Stato pone, anzi è l’ordinamento. Da Santi Romano questa Weltanschauung monopolistica è rifiutata[85].
Ora si parla di finzioni. Vaihinger propone alcuni esempi. Quelli già menzionati sono rifiutati all’unisono dai tre giuristi quali finzioni giuridiche. Non si dubita, invece, che lo possano essere filosoficamente.
Ma Vaihinger non demorde e propone altri esempi tratti dal diritto romano; tra questi figura la fictio dell’actio Publiciana, finzione di diritto pretorio (la frazione del nostro fictum colloquium sulle finzioni pretorie è già stata in gran parte trascritta sugli Annalen der Philosophie del 1919) e la fictio legis Corneliae.
Kelsen nega che, benché chiamate fictiones nelle fonti romane, anche gli ultimi exempla offerti da Vaihinger costituiscano ‘autentiche’ finzioni giuridiche.
Per l’azione Publiciana – l’azione creata dal Pretore, magistrato giurisdizionale per eccellenza, per tutelare colui che abbia acquistato una res mancipi senza averne formalizzato l’acquisto con una mancipatio o con una in iure cessio, imponendo, in forza del proprio imperium, al giudice di fingere contro il vero che sia decorso il tempo occorrente per il compimento dell’usucapione[86] – Kelsen obietta l’abusività dell’intervento pretorio: il magistrato è, per lui, un legislatore privo di delega[87]. Nel sistema piramidale del ‘dover essere’ non vi è spazio per la realtà che il Pretore ha storicamente rappresentato sul piano dell’‘essere’. Né gioverebbe replicare che, sul piano del ‘dover essere’, egli è legittimamente il signore del processo.
Anche per la fictio legis Corneliae – con la quale il dittatore Lucio Cornelio Silla[88] ripara alla conseguenza di ius Civile che vuole invalido il testamento già redatto da un cittadino romano poi catturato dai nemici, in quanto capite deminutus[89], imponendo che, invece che captus, lo si finga morto[90]– Kelsen, fedelmente ai principi che ha enunciato, obietta in prima battuta che, in un’autentica finzione giuridica, si sarebbe dovuto piuttosto fingere la validità del testamento[91]. Poi, più radicalmente, osserva che una finzione del legislatore non può neppure esistere, perché si risolverebbe in un nonsenso[92]. Se una legge dispone con un ‘come se’, essa impiega soltanto una formulazione ellittica ed abbreviata[93]. Corollario: la lex Cornelia altro non può aver disposto se non la validità di un testamento, precedentemente invalido. È indifferente la formulazione utilizzata.
Gaio interviene a questo punto. Osserva che l’esperienza da lui vissuta è fatta di più realtà, anche di più realtà giuridiche. Rileva che l’ordinamento giuridico romano è plurisistematico. Concorda con ciò che da molti è stato rimarcato – ad esempio, per il diritto romano, da Arangio-Ruiz[94] e, in termini ancora più generali, da Pugliatti[95] – ribadendo che sono proprio gli ordinamenti plurisistematici a favorire che si ‘inventi’ una finzione giuridica e a giustificarne l’uso.
Condivide con Santi Romano che il diritto non è monopolio dello Stato, non, invece, la valutazione negativa della fictio. Si rivolge a Kelsen, osservando che, pur con il suo imperium, il Pretore non avrebbe potuto modificare la realtà del ius Civile e far divenire dominus chi non lo fosse e che neppure il dittatore Lucio Cornelio Silla – anche avendo espugnato due volte militarmente la città di Roma – avrebbe potuto sovvertire quella stessa realtà, dichiarando valido il testamento di un capite deminutus[96].
Pretori, dittatori, magistrati, senato potevano imporre, invece, a chi doveva giudicare che il tempo occorrente per l’usucapione fosse decorso – tempo elemento di relazioni fattuali[97] – così che l’acquirente avesse un’azione di rivendica modellata su quella che avrebbe avuto, iure Civili, se dominus; oppure potevano disporre che il cittadino romano, nell’attimo in cui fosse stato portato nelle retrovie nemiche[98], fosse morto – morte elemento fattuale – così che potesse aprirsi la successione testamentaria. Gaio vuole sottolineare che ogni autentica finzione si risolve nella falsasupposizione di una circostanza fattuale giuridicamente rilevante e che il ‘come se’ ha ad oggetto una cosa che potrebbe esistere[99] o un fatto che sarebbe possibile (nei due casi considerati: il decorso del tempo e la morte del cittadino) in una diversa ‘realtà giuridica’ ove assumerebbero rilievo.
In tal modo – continua il giurista romano – si ‘incideva’ sulla realtà naturale, fisica, empirica e la si ‘considerava’ diversa da quella effettiva, senza violare l’altra realtà, intoccabile, addirittura iperreale, fatta di stratificazioni di mores, di leggi arcaiche, di credenze e di superstizioni, di interventi magistratuali, cui si dà il nome ius, una realtà creata – per dirla con Ricoeur – dal ‘vivere assieme’, immagine che evoca, come di recente ha ben rilevato Giampaolo Azzoni, proprio il pensiero di Santi Romano[100].
Infine, Gaio domanda: ‘perché nelle leggi moderne si prescrive che l’atto notificato si ha per conosciuto con l’affissione nel tal luogo o con la consegna a talaltra persona? O perché si prescrive che la condizione si ha per adempiuta nel caso che chi ha interesse a che essa non si realizzi ne impedisca l’avveramento? Cose simili’ – aggiunge –‘ai tempi nostri non sono mai state dette per segnalare una finzione.’[101]E insiste: ‘quale realtà viene supposta contro il vero? Quale realtà impone queste formulazioni? E conclude:‘se, dietro le parole, non vi è una realtà, non può esistere neppure una finzione’.
In sostanza, Gaio non ritiene che le mere forme linguistiche siano ‘vere’ finzioni; non gli riesce di individuarle nel: ‘il faut faire comme si...’[102]. Reputa inganno – benché facile inganno – crederle semplici forme espressive[103]. A suo avviso, occorre che esistano realtà giuridiche differenti, perché, quando queste realtà vengono in contatto, possa esser creata una finzione.
Non so immaginare repliche opposte a Gaio dai tre interlocutori. Tra essi è, però, proprio l’istituzionalista colui che sembra meglio comprendere le ragioni enunciate. Lui è Santi Romano, il giurista che desume dalla società reale, storicamente attuata, il sistema giuridico che disegna e, anzi, tenta di ‘ricalcare’ dall’essere e non dal dover essere, non per ciò creando una realtà giuridica meramente imitativa. Per questo, di nuovo fingo, non avrebbe disprezzato la visione caleidoscopica, ma concreta del giurista romano.
*Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
(**) L’articolo mantiene il titolo della relazione tenuta il 22 giugno 2017 presso il Collegio Universitario Camillo Golgi di Pavia, in occasione della giornata di studi ‘La realtà della realtà giuridica’ – ‘Nomologics3’ – patrocinata dai Dipartimenti di Scienze Giuridiche dell’Università degli Studi di Pavia, dell’Università Statale di Milano e dell’Università Cattolica di Milano. Sono state apportate alcune modifiche per volgere la relazione dalla forma orale a quella scritta ed è stato rivisto e integrato l’apparato critico.
[1]Per la natura tipicamente ‘casistica’ del diritto romano, v., per tutti, M. Kaser, Zur Methode der römischen Rechtsfindung, in Nachrichten der Akademie der Wissenschaft in Göttingen I. Philologisch-Historische Klasse, Göttingen 1962, p. 54 ss.
[2] F.C. von Savigny, Juristische Methodenlehre, nach Ausarbeitung des Jakob Grimm, vol. 1, Stuttgart 1951, p. 2.
[3] Penso alla «autosufficienza istituzionale e politico-militare» ribadita, ancora di recente, da L. Capogrossi Colognesi, Pontefici e Curie, in V. Gasparini (a cura di), Vestigia. Miscellanea di studi storico-religiosi in onore di Filippo Coarelli, Stuttgart 2016, p. 316 ss.
[4] Santi Romano, Frammenti di un Dizionario Giuridico, Torino 1983, p. 205.
[5] Su ciò, di recente e magistralmente: A. Mangia, La rappresentanza politica e la sua crisi. Un secolo dopo la prolusione pisana di Santi Romano, in Diritto e Società, 2012, passim, ma praecipue, pp. 470-480. Lavoro fondamentale anche per cogliere la differenza tra la teoria formulata da Santi Romano e la sua ‘ideologia’.
[6] Penso, in particolare, a M. Weber, Die Wirtschaft und die Ordnungen; Die Entwicklungsbedingungen des Rechts, in Wirtschaft und Gesellschaft. Die Wirtschaft und die gesellschaftlichen Ordnungen und Mächte. Nachlass, I-22.3, Tübingen 2010, p. 192 ss., 274 ss. e passim.
[7] A prima vista, non approfondite: così per Clipperton (S. Romano, Frammenti…, cit., p. 37, ove il modo di acquisto delle res nullius è genericamente richiamato e ben sintetizzato, ma viene del tutto tralasciato il dibattito intercorso tra i giuristi romani sull’acquisto delle res derelictae e non è menzionato il caso – per qualche aspetto analogo – dell’isola Ferdinandea [insula in mari nata] verificatosi all’incirca un secolo prima e per il quale, da parte di alcuni degli Stati contendenti, vennero invocati proprio i principi classici di diritto romano dell’occupazione); così per la verifica dell’esistenza, nell’ordinamento italiano, del concetto di diritto singolare (S. Romano, Frammenti…, cit., p. 88, ove vi è unicamente il richiamo al passo di Paolo – D. 1.3.16, peraltro assunto nel suo tenore letterale e senza le, purtroppo abituali, forzature con le quali sovente viene citato).
[8] Come rileva A. Olivari, Santi Romano ontologo del diritto, Milano 2016, p. 11, la monografia di Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze 1916-17 (io farò riferimento alla seconda edizione: Santi Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze 1945) era stata, in grande prevalenza, dedicata alla prima indagine, laddove nei Frammenti l’interesse dello studioso si spostava ad una disamina analitica, pur se dichiaratamente e necessariamente ‘frammentaria’, di alcuni singoli elementi riscontrabili nel diritto.
[9] D. 50.17.202 (Iav. l. 11 epist.). V. R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, Milano 1966, pp. 3 ss. Sul passo v. anche A. Carcaterra, Le definizioni dei giuristi romani. Metodo, mezzi e fini, Napoli 1966, p. 183 ss.; B. Albanese, «Definitiopericulosa» un caso particolare di «duplex interpretatio», in Studi in onore di G. Scaduto, Palermo 1967, p. 78 ss.Secondo F. Reinoso Barbero, Definitio periculosa: Javoleno o Labéon, in BIDR, 1987, p. 285 ss., l’avversità dei giuristi romani non riguarderebbe le definizioni in senso generale, ma solo le definizioni ‘in iure civili’, ma l’uso della definitio non è appannaggio del solo ius Civile, basti pensare al largo impiego che ne viene fatto nel ius Sacrum. Un tema molto ampio e sempre dibattuto è quello delle definizioni ‘introdotte’ delle norme v., ad es., F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma 1951, seconda ed., p. 234 ss.; U. Scarpelli, La definizione nel diritto, in Jus, 1959, p. 496 ss.;N. Irti, Rilevanza giuridica, in Norme e fatti. Saggi di teoria generale del diritto, Milano 1984, p. 38 ss. (già in Jus, 1967, p. 55 ss.); ma in proposito e dal punto di vista del vero/falso, trovo ineccepibile il pensiero di Tarello riferito infra a nt. 12.
[10] K. Popper, in G. Reale-D. Antiseri-M. Laeng, Filosofia e Pedagogia dalle origini a oggi, vol. 3, Brescia 1986, p. 615: «L’inconfutabilità di una teoria non è (come spesso si crede) un pregio, bensì un difetto. Ogni controllo genuino di una teoria è un tentativo di falsificarla, o di confutarla. La controllabilità coincide con la falsificabilità; alcune teorie sono controllabili, o esposte alla confutazione, più di altre; esse, per così dire, corrono rischi maggiori.»
[11] Il ‘parum est’ sembra addirittura relativizzare la stessa affermazione circa la pericolosità insita in ogni ‘definitio’. La ratio dubitandi è, a mio avviso, il profilo più alto ravvisabile nel passo.
[12] H. Kantorowicz, La definizione del Diritto, trad. it., con introduzione di N. Bobbio, Torino 1962, p. 42. Del resto, osserva G. Tarello, L’interpretazione della legge, Milano 1980, p. 220, neppure «avrebbe sensoscreditare le definizioni normative (cioè le stipulative, le convenzionali e le esplicative o ridefinitorie) perché non vere».
[13] N. Bobbio, L’indirizzo Fenomenologico nella Filosofia sociale e giuridica, Torino 1934, p. 21 e nt. 1; 68; 71 nt. 1.
[14] S. Borutti, Finzione e costruzione dell’oggetto in antropologia, in F. Affergan-S. Borutti-C. Calame-U. Fabietti-M. Kilani-F. Remotti, Figure dell’umano. Le rappresentazioni dell’antropologia, Roma 2005, p. 91 ss. e passim.
[15] Serv. Ad Aen. 8, 634; cfr. Cic. De nat. deor.,frg. 2: Ut igitur faber cum quid aedificaturus est non ipse facit materiam, sed utitur ea quae sit parata, fictorque item cera... in Lact. Div. Inst. 2.8.10-11. Cfr. A.S. Pease, M. Tulli Ciceronis De natura deorum Libri secundus et tertius, Harward 1958, p. 1229. Sono ritenuti colleghi minori dei pontifices da J.Marquardt, Römische Staatsverwaltung, 3, Leipzig 18852, p. 249 e s.; cfr. M. Ihm, sv. ‘fictores’, in R.E., 6.2a, 1909, p. 2271 ss. Sulla base di Enn. fragm. 123: Mensas, constituit idemque ancilia ... Libaque, fictores, Argeos et tutulatos, si potrebbe far risalire la loro istituzione al periodo del leggendario regno di Numa, cui le fonti annalistiche riferiscono la stessa creazione del pontificato.
[16] Isid. Etymol. 20.4.2. Simile, nella sua prima parte, la definizione di Serv. Daniel. Ad Aen. 8.634: fingere tamen et formare aliquid et ad integram faciem arte producere significat; nella seconda si riporta il più moderno senso di riprodurre attestato anche da Varr. L.L. 6.78, v. infra nt. 18.
[17] P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue greque, Paris 1968, sv. plάssw, p. 910 e s.
[18] In linea generale, v. L. Lantella, Il lavoro sistematico del discorso giuridico romano (Repertorio di strumenti per una lettura ideologica), in Prospettive sistematiche nel diritto romano, Torino, 1976, p. 55 ss.; sulle parole fictio e fingere, v. E. Bianchi, Fictio Iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova 1997, p. 27 nt. 51. È, infatti, più recente il significato corrispondente a quello di ‘simulare’ o di ‘porre in via d’ipotesi’. Prestito linguistico antico è, invece, offerto nell’accezione di ‘procreare’, v. Æ. Forcellini, Lexicon totius latinitatis, Prati 1865-1879 (rist. Padova, 1940), sv. ‘fingo’, p. 443 ss.; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire Etymologique de la langue latine, Paris 1979, sv. ‘fingo’, p. 235 e s.; Thesaurus linguae Latinae, 2, 1a, Leipzig 1912-26, sv. ‘fingo’, p. 770 ss.; A. Walde-J.B. Hofmann, Lateinisches Etymologisches Wörterbuch, 1, Heidelberg 1938, sv. ‘fingo’, p. 501 ss.; G. Devoto, Storia della lingua di Roma, Bologna 1940, p. 7 ss., ascrive fingere a quel gruppo di verbi che indicano una tecnica ereditata dal patrimonio originario dello strato sociale superiore. In ambito retorico fingere sarà impiegato nel senso astratto di supporre, di ponere, v. F. Lanfranchi, Il Diritto nei retori romani, Milano 1938, p. 607 e 648.
[19] Evidentemente derivante da ‘e’ - ‘fingo’, v. Ernout-Meillet, Dictionnaire Etymologique de la langue latine..., cit., sv. ‘fingo’, p. 236. Cfr. Thesaurus Linguae Latinae..., cit., 5, 2a, sv. ‘effigies’, p. 180 ss.: ‘effigies ab effingere’; cfr. Forcellini, Lexicon..., cit.,2, sv. ‘effigies’, p.825: idem significatione quod effigia, sed frequentior... imago, simulacrum, signum, figuram ad vivam alterius similitudinem, vel ad veritatis imaginem efficta, tam in picturis, quam in sculpturis... e sv. ‘effingo’, p. 825: ... proprie est effigiem rei alcujus ad vivum exprimo, ad alterius formam fingo. Cfr. Oxford latin Dictionary,3, Oxford, 1971, sv. ‘effigies’, ‘effigio’ ed ‘effingo’, p. 591. Per ulteriori rilievi, v. Bianchi, Fictio Iuris..., cit., p. 66 ss.
[20] Un procedimento d’imitazione, di mίmhsiV, sarà seguito nelle prime fictiones, quelle di diritto sacro, v. Bianchi, Fictio Iuris…, cit., p. 73 ss. In questa sede mi limito ad esemplificare attraverso i casi offerti dalla porca aurea et argentea: Fest. 274.23 L., sv. ‘Porcam auream’: Porcam auream et argenteam dici ait Capito Ateius quae etsi numero hostiarum non sint, nomen tamen earum habere: alteram ex auro alteram ex argento factam adhiberi sacrificio Cereali. (il passo è tratto con ogni probabilità dai libri de iure sacrificiorum di Capitone, v. W. Strzelecki, C. Atei Capitonis fragmenta..., cit., Proleg. p. XIV e p. 13[fr. 18] che ritiene che la glossa festina risalga all’opera nominata del giurista. Cfr. F. Bona, Opusculum Festinum, Ticini 1982, p. 17, sub lettera ‘P’) e dalla Cervaria ovis: Paul. 49.57 L., sv. ‘Cervaria ovis’: Cervaria ovis, quae pro cerva immolabatur. Nell’un caso, con grande probabilità, effigi create al fine di sostituire durevolmente – ferma ogni altra ritualità prescritta – le hostiae per determinati sacrifici. Nel secondo, animali differenti da quelli prescritti dai sacra, ma ‘camuffati’ da questi ultimi per il caso che ne fosse difficoltoso il reperimento. La ritualità del sacrificio imponeva che ogni altro dettaglio fosse osservato con scrupolosità, con la stessa subtilitas veterum, che Gaio dirà nimia e che transiterà alle arcaiche formule procedurali (Gai. 4.30). Tuttavia, lamίmhsiV si andrà progressivamente astrattizzando anche in sacris: ne sono riprova alcune finzioni di diritto augurale (finto ager Romanus) e di diritto feziale (finto ager Hosticus) che presuppongono un procedimento mentale più sofisticato e necessitano anche di elementi tecnici tratti dal diritto privato.
[21]H. Kelsen, Zur Theorie der juristischen Fiktionen, mit besonder Berücksichtigung von Vaihingers Philosophie des als ob, in Annalen der Philosophie, 1919, p. 630 ss.
[22] N. Bobbio, Teoria e ideologia nella dottrina di Santi Romano, in P. Biscaretti (a cura di), Le dottrine giuridiche di oggi e l’insegnamento di Santi Romano, Milano 1977, p. 29 e s.
[23] Infra § 4.
[24] La parola ‘natura’, come quella ‘naturalis’, è – di per sé – largamente impiegata nelle fonti giuridiche, pur in accezioni assai differenti: in proposito, v. G. Grosso, Problemi generali del diritto attraverso il diritto romano2, Torino 1967, p. 99 ss.; cfr. W. Waldstein, Entscheidungsgrundlagen der klassischen römischen Juristen, in ANRW, 1976, p. 78 ss. Sulle valenze che il sintagma ‘rerum natura’ assume e che vanno da quelle generiche e generali di ‘realtà oggettiva’, di ‘mondo’, di ‘normalità’ sino a quella di ‘complesso di tutte le forze creatrici’, v. C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, Milano 1937, p. 70 ss.
[25] 3.97a:: Item si quis rem, quae in rerum natura esse non potest, uelut hippocentaurum, stipuletur, aeque inutilis est stipulatio.
[26] Stante la sterminata bibliografia, mi limito a rinviare per tutti a B. Albanese, La nozione del furtum fino a Nerazio, in AUPA, 1953, p. 8 ss.; 43 ss., per l’evoluzione della nozione in epoca repubblicana.
[27] Dapprima sinteticamente illustrata e, poi, così definita in Gai. 3.193-193a: Quid sit autem licium, quaesitum est; sed uerius est consuti genus esse, quo necessariae partes tegerentur. Quae [res] lex tota ridicula est; nam qui uestitum quaerere prohibet, is et nudum quaerere prohibiturus est, eo magis quod ita quaesita re et inuenta maiori poenae subiciatur. Deinde quod lancem siue ideo haberi iubeat, ut manibus occupatis nihil subiciat, siue ideo, ut quod inuenerit, ibi imponat, neutrum eorum procedit, si id, quod quaeratur, eius magnitudinis aut naturae sit, ut neque subici neque ibi inponi possit. Certe non dubitatur, cuiuscumque materiae sit ea lanx, satis legi fieri.
[28]La distinzione iure/natura sembra collocarsi in un periodo anteriore a quello in cui opera Gaio. In questo senso anche le migliori opere di taglio istituzionale: per tutte, v. M. Talamanca, Istituzioni di diritto Romano, Milano 1990, p. 621 e s.
[29] Gai. 3.192: Prohibiti actio quadrupli est ex edicto praetoris introducta. lex autem eo nomine nullam poenam constituit; hoc solum praecipit, ut qui quaerere uelit, nudus quaerat, licio cinctus, lancem habens; qui si quid inuenerit, iubet id lex furtum manifestum esse. Quando torna a parlare della disposizione decemvirale, il giurista usa le medesime espressioni: lex iubet… esse furtum manifestum: § 194: Propter hoc tamen, quod lex ex ea causa manifestum furtum esse iubet, sunt, qui scribunt furtum manifestum aut lege intellegi aut natura: lege id ipsum, de quo loquimur, natura illud, de quo superius exposuimus. Sed uerius est natura tantum manifestum furtum intellegi; neque enim lex facere potest, ut qui manifestus fur non sit, manifestus sit, non magis quam qui omnino fur non sit, fur sit, et qui adulter aut homicida non sit, adulter uel homicida sit; at illud sane lex facere potest, ut proinde aliquis poena teneatur, atque si furtum uel adulterium uel homicidium admisisset, quamuis nihil eorum admiserit. Su questi passi, G.G. Archi, «Lex» e «Natura» nelle Istituzioni di Gaio, in Festschrift für Werner Flume zum 70. Geburtstag, Köln 1978, p. 3 ss. (ora in Id., Scritti di diritto romano, vol. 1, Milano 1981, p. 139 ss.). Il riferimento all’adulterio potrebbe essere costituito dalle norme della lex Iulia de adulteriis, ove si punivano come adulterio ipotesi che, in precedenza, non erano ritenute tali; quello all’omicidio potrebbe trovare giustificazione in Coll. 1.6.2; su queste altre ipotesi contemplate nel passo gaiano e anche in relazione ai limiti descrittivi di un provvedimento autoritativo, mi permetto di rinviare a E. Bianchi, «Modernità» e riflessioni teoretiche sul carattere prescrittivo della lex in Gai. 3.194, in SDHI, 2013, p. 808-812.
[30] H. Wagner, Studien zu allgemeinen Rechtslehre des Gaius (ius gentium und ius naturale in ihren Verhältnis zum ius civile), in Studia Amstelodamensia ad epigraphicam, ius antiquum et papyrologicam pertinentia, Zutphen 1978, p. 115 ss. Non è mancato chi abbia, invece, intravisto nel riferimento alla ‘natura’ da parte di Gaio un profilo meramente culturale se non ornamentale: in questo senso: D. Nörr, Rechtskritik in der römischen Antike, in Bayerische Akademie der Wissenschaften – philosophish-historische Klasse, 1974, p. 92 ss.; v., però, in parziale dissenso: F. Casavola, Cultura e scienza giuridica nel secondo secolo d.C.: il senso del passato, in ANRW, II.15, Berlin-New York 1976, p. 166 ss.
[31] R. Orestano, Concetto di ordinamento giuridico e studio storico del diritto romano, in Jus, 1962, p. 8 e s., propone che non si studi l’ordinamento giuridico alla luce del diritto romano, ma l’esperienza giuridica romana alla luce del concetto – moderno – di ordinamento. L’operazione inversa porterebbe (e temo abbia in taluni casi già portato) a risultati antistorici e aberranti.
[32] Tratto in quest’occasione solo di quanto Gaio dice a proposito del furtum manifestum, rinviando per analoghe osservazioni svolte in relazione ad adulterio e a omicidio – pure menzionati nel passo – a Bianchi, «Modernità» e riflessioni teoretiche…, cit., p. 811 ss.
[33] Guastini, Dalle fonti alle norme, Torino 1992, seconda ed., p. 159 e s.
[34] Occorre che la ‘sostituzione’, oltre che giuridicamente rilevante, abbia anche valore ‘sincronico’. Su ciò, v. infra § 4.
[35] L’approssimazione insita nell’anche che scrivo nel testo deriva dalla necessità di verificare, valutare e qualificare i fatti sulla base di criteri giuridici: così si ha furto flagrante pure se il ladro di olive viene sorpreso quando non si è ancora allontanato dall’oliveto. Il mero fatto è considerato – né potrebbe esser diversamente – sulla base di criteri giuridici, evidentemente in continuo divenire. Sull’estensione di questi criteri – frutto dell’elaborazione giurisprudenziale già in età repubblicana e, poi, ulteriormente sviluppata – v. Albanese, La nozione del furtum..., cit., p. 43 ss.; ancora imprescindibile sulle estensioni operate in via interpretativa e in via analogica della nozione arcaica: P. Huvelin, Etudes sur le furtum dans le très ancien droit romain, 1, 2, Lyon-Paris 1915 (rist. anast.: Roma, 1968), p. 775.
[36] Bianchi, «Modernità» e riflessioni teoretiche…, cit., p. 814 ss.
[37] Santi Romano, Frammenti…, cit., p. 205.
Bianchi Ernesto
Download:
Bianchi.pdf