Ragionando di ordinamento. Su alcuni aspetti della “buona fede
Giacomo Cipriani*
Ragionando di ordinamento.
Su alcuni aspetti della “buona fede”**
English title:Thoughts around the concept of “legal system” starting from the “Buona fede” general clause
DOI: 10.26350/18277942_000184
Sommario: 1. Sistema ed ordinamento: il problema delle lacune e la logica applicata al diritto; 2. L’ordinamento pandettistico e la riscoperta della buona fede: la disputa delle rivalutazioni nella Germania degli anni ’20; 3.Profili interpretativi della buona fede: l’attualità dell’insegnamento romanistico; 4. La buona fede nella prospettiva ordinamentale; 5. La prospettiva topica ed il concetto di ordinamento; 6. Conclusioni ed alcuni aspetti problematici del concetto di buona fede.
“Ma nemmeno Kant si rende conto che, proprio perché la buona volontà è fede (buona fede), proprio per questo, essa, come ogni fede, è dubbio; e che pertanto chi agisce con buona volontà e in buona fede non può essere convinto che ciò che egli compie sia ciò che universalmente e necessariamente deve essere compiuto”[1]
- Sistema ed ordinamento: il problema delle lacune e la logica applicata al diritto
Lo studio della clausola di buona fede è una potente lente mediante la quale il giurista può ragionare, a partire da un dato positivo, sul significato del concetto di ordinamento. Per svolgere tale riflessione sarà necessario, però, capire come mai si utilizzi come lente di studio proprio la buona fede. L’analisi qui proposta cercherà di mettere in luce alcuni aspetti, i quali serviranno a far emergere la peculiarità per cui ha senso svolgere una riflessione teorico generale sul significato dell’ordinamento a partire da un dato positivo (la buona fede). Con ciò, si intende sottolineare come la clausola di buona fede rappresenti una conferma testuale di tutte quelle teorie ordinamentali che in maniera più o meno estrema si oppongono alle concezioni legal-logicistiche[2].
Quest’ultima concezione dell’ordinamento giuridico tende a creare una sostanziale sovrapposizione tra ordinamento giuridico e sistema giuridico. Quest’ultimo termine, depositario di una lunga tradizione filosofica, trova una compiuta concettualizzazione nella scuola della pandettistica[3]. L’idea sottesa è che il giurista, se vuole concepire il diritto al pari di una scienza, non possa basarsi sulla mera manifestazione normativa, la quale, essendo atto di volontà politica, è in sé instabile. Al contrario, invece, dovrà ricavare, mediante un procedimento logico-astrattivo, dalle norme dei concetti (rectius dei dogmi) che siano stabili e riassuntivi di una serie di norme.
Nonostante una differenza di vedute rispetto a quest’ultima concezione[4], l’idea che il diritto possa essere configurato come un “sistema” viene continuata da H. Kelsen il quale, nella sua celebre La dottrina pura del diritto, arriva ad affermare che: “se la dottrina pura del diritto non considera lo scopo che viene perseguito e raggiunto, per mezzo dell’ordinamento giuridico, ma considera soltanto l’ordinamento giuridico stesso; e lo considera non con riferimento a questo scopo (..) ma nell’autonomia propria della sua struttura logica”[5] è chiaro quindi come una tale costruzione teorica sia funzionale a considerare il sistema giuridico come capace di esprimere l’ordinamento. Si compie, quindi, la totale equiparazione tra ordinamento giuridico e sistema giuridico, segnando un punto di rottura con il passato e finendo, inoltre, con il considerare il diritto, sempre utilizzando le parole del teorico praghese, al pari di un “sistema di norme giuridiche”.[6] Il sistema-ordinamento di matrice kelseniana consiste, come acutamente osservato da Franco Modugno, “nel complesso delle decisioni-norme prese ai vari livelli in quanto complesso di norme ordinate nella loro concatenazione formale-produttiva indipendentemente dai loro contenuti”[7].
Sempre a riguardo del rapporto tra diritto e logica, in un’edizione de La dottrina pura del diritto del 1960, Kelsen ammette la possibilità di applicare al diritto (rectius, alle proposizioni giuridiche) i principi logici (come il principio di non contraddizione e le regole d’inferenza[8]), fornendo così una teorizzazione del logicismo giuridico, il quale si pone, mutuando le parole di un altro celebre autore[9], come l’evoluzione del giuspositivismo ottocentesco. Seppur lo stesso Kelsen, in una fase successiva della sua produzione scientifica, ritrattò la possibilità di applicare i principi logici al diritto[10], il binomio diritto - logica suscita da sempre un certo fascino per alcuni correnti giusfilosofiche. In particolare, è il filone analitico[11] ad avvalorare, in diversi modi, l’idea secondo cui l’ordinamento giuridico si articolerebbe in una serie di enunciati normativi a cui si possono applicare i principi della logica.
A tal proposito, uno dei campi nel quale si misurano le visioni analitico-linguistiche[12] e quelle opposte, che si potrebbero invece definire ermeneutiche[13], è quello delle lacune giuridiche. Rispetto a questo problema, le visioni logicistiche optano, come già riferito, per l’utilizzo degli strumenti della logica giuridica. Quest’ultima viene intesa come una serie di operazioni logico-sintattiche che l’interprete esegue sul testo al fine di trarre, a partire dalla legge, nuovo diritto[14]. Conviene ora chiedersi come mai alcune delle correnti di stampo analitico hanno dovuto ricorrere alla logica giuridica per risolvere il problema delle lacune. Per rispondere a ciò, bisogna prima fissare il significato di lacuna; questa consiste nell’impossibilità di qualificare in termini deontici un certo comportamento che rimane, quindi, sia permesso che non permesso.
Un tale situazione fa sì che l’ordinamento giuridico non possa dirsi completo, ovvero capace di ricomprendere al suo interno tutti i comportamenti possibili. Al problema dell’incompletezza, la dottrina legalista, ovvero quella che ritiene che il diritto si riassuma nella legge, ha prospettato varie soluzioni, la quali si propongono di risolvere tale questione senza chiamare in causa la soggettività del giudice. Il primo gruppo di soluzioni, consistono nella negazione logica del concetto stesso di lacuna. Partendo dal presupposto che l’ordinamento sia chiuso[15], tali filoni di pensiero immaginano l’esistenza di una norma generale di chiusura dell’ordinamento che assegnerebbe a tutti i comportamenti non qualificati il medesimo status deontico[16]. Tale norma può leggersi in due direzioni. La prima è la cd. norma generale di irrilevanza, secondo cui l’ordinamento è completo poiché i fatti che non sono sussumibili rimangono privi di alcun tipo di rilievo per il diritto[17]. Senza entrare nel merito di tale idea, ci si limita a segnalare come essa, seppur muova dall’intento di negare logicamente le lacune, finisca, invece, con il farle sopravvivere, lasciando addirittura il giudice privo di direttive in merito[18]. La seconda direzione è, invece, quella della cd. norma generale di libertà, secondo cui ogni comportamento non disciplinato da una norma, è lecito e permesso. A riguardo di ciò, si segnala subito come una tale concezione attribuisca uno status deontico (ovvero: la qualificazione dell’azione come lecita) ad una condotta che sarebbe invece priva di qualificazione. Tale attribuzione manca di un qualsiasi base che la giustifichi: sulla base di quale principio l’interprete può affermare che il legislatore consideri permesso tutto ciò che non è espresso da una norma[19]? Infatti, considerare lecito ciò che ricade in una lacuna, corrisponde, sul piano degli effetti, ad una scelta (politica e riservata al legislatore[20]) e non tanto ad una necessità logica dell’ordinamento. Pur ammettendo che i teorici della norma generale di libertà non siano mossi da valutazioni politiche, la scelta di considerare permesso ogni comportamento non qualificato, finisce, per conseguenza pratica e necessaria, con l’essere una scelta politica. D’altronde, una tal impostazione avrebbe come conseguenza la previsione di una norma da parte del legislatore strutturata nel modo: “il comportamento X è permesso fino all’impedimento del suo impedimento”[21] dal momento che vengono vietati tutti i comportamenti impeditivi di quello permesso.[22]
Esclusa la configurabilità di una qualsiasi norma di chiusura, nasce quindi la necessità di ammettere, anche per i legalisti, che le lacune esistono e che i tentativi di negarle logicamente sono vani. A partire da tale ammissione, il legalista chiama in causa il logicismo poiché è mediante quest’ultimo che egli crede di far fronte al problema delle lacune senza dover far intervenire valutazioni politiche del giudice e preservando, quindi, la purezza del sapere giuridico. Chiaramente, se si ammette che l’operatore giuridico è obbligato a svolgere valutazioni politiche quando si trova di fronte ad una lacuna, allora si accetta che altri saperi rifluiscano nella scienza giuridica. La buona fede, in tale ottica, viene utilizzata come un concetto-valvola[23] che rappresenta la rinuncia da parte del legislatore ad offrire un modello preciso di condotta; tale rinuncia, di conseguenza, testimonia l’esistenza di una lacuna che non può essere colmata mediante operazioni logiche, tant’è che il legislatore sceglie di far riferimento a valutazioni sociali che fuoriescono dal meccanismo dello ius strictum e dall’applicazione logicistica dei suoi contenuti.
L’idea, quindi, è che il rimando alla clausola di buona fede testimoni una lacuna (di conseguenza, più propriamente, una fallacia nella visione legal-logicistica) che non è colmabile mediante la creazione deduttiva di nuovo diritto a partire da quello già esistente. L’impossibilità deriverebbe dal fatto che tali lacune si collocano non tanto al livello della legge intesa come testo ma ad un livello superiore, ovvero di legge considerata come spirito[24]. L’impossibilità di far riferimento allo spirito della legge implica che l’interprete non possa colmare la lacuna a partire da uno sviluppo assiologico del comando[25], ovvero mediante lo sviluppo di un punto di vista interno alla legge stessa. Senza entrare nel merito di una compiuta critica del legal-logicisimo[26] circa la reale ed effettiva logicità dei suoi processi, lo scopo del presente elaborato sarà dimostrare come 1) la buona fede comporti il riferimento a ideologie, standards sociali e valori e per tale punto ci si avvarrà dell’insegnamento romanistico 2) la giuridicizzazione di tali valori, per effetto del rimando alla buona fede, testimoni l’esistenza di una lacuna e l’impossibilità di colmarla tramite operazioni logiche.
La necessità di un approccio multidisciplinare deriva dal fatto che il rimando ad un tale concetto, come si vedrà, obbliga il giudice a dover concorrere col legislatore nella definizione del modello di azione da applicare alla fattispecie concreta. Pertanto, dall’applicazione della clausola di buona fede ad una fattispecie concreta emergerà una norma “giudiziale”[27] ottenuta mediante la ricerca nel contesto sociale di standards comportamentali, i quali possano operare da significanti[28] del sintagma “buona fede”. Quest’ultimo concetto sottolinea, quindi, la radice antropologica e vitalistica[29] del diritto che non si fa legare nelle strette maglie dell’idea di ordinamento tipica del positivismo codicistico di matrice ottocentesca.
- L’ordinamento pandettistico e la riscoperta della buona fede: la disputa delle rivalutazioni nella Germania degli anni ‘20.
Prima di cimentarsi in tale onere dimostrativo, può essere utile riportare un caso, che verrà successivamente ripreso a titolo di esempio, che fu sottoposto all’attenzione dei giudici tedeschi degli Anni Venti, ovvero la “disputa delle rivalutazioni”. Proprio dall’analisi di questo caso e dalle reazioni che suscitò in dottrina, si nota la preoccupazione per i giuristi dell’epoca nel vedere “sgretolarsi” quell’idea di ordinamento come struttura logicamente ordinata e portatrice di una propria razionalità intrinseca. Sono le vicende come quella in esame, infatti, ad aver mutuato il rapporto tra i giuristi europei e questo particolare istituto, di cui tutto si può dire, tranne, come invece spesso si è tentato, che sia il frutto problematico della modernità[30]. D’altra parte, sempre a partire dagli anni Venti, anche l’utilizzo della clausola di buona fede da parte dei giudici aumentava a dismisura; al punto che alcuni autori[31] avevano provocatoriamente ipotizzato che in certi settori, come quello riguardante la concorrenza tra imprese, si sarebbe arrivati ad avere una sola norma, predicante la buona fede, in grado di disciplinare l’intera materia.
L’evento forse più significativo fu, appunto, l’iperinflazione che colpì la Germania degli anni Venti. Durante la guerra, l’impero germanico aveva deciso di abbandonare, almeno momentaneamente, il classico sistema del goldmark secondo il quale il valore del marco era garantito dalla quantità di oro presente nelle casse dello Stato, per parametrarlo, invece, ad un concetto piuttosto vago, ovvero “i beni dello Stato”. Ciò, al fine di poter stampare più moneta per sovvenzionare le spese belliche[32]. Tale sconsiderata politica economica portò a disastrose conseguenze. Se si considera infatti che il maxidebito della sconfitta Germania doveva essere interamente pagato in valuta estera, si comprende agevolmente come, nell’arco di un periodo di tempo relativamente breve, il marco crollò, pregiudicando la posizione dei consumatori i quali, nel decidere il valore economico dei contratti stipulati, avevano incolpevolmente fatto affidamento su un precedente status quo.
In ragione di ciò, si riversò sugli organi giudiziali un’incessante domanda di giustizia contrattuale di tipo “sostanziale”, che permettesse, quindi, una deroga alla pattuizione scritta per consentire l’adeguamento del valore delle prestazioni alla galoppante iperinflazione. Come derogare quindi al dettame contrattuale ed alla stessa legge monetaria che prevede il principio nominalistico in forza del quale “un marco vale un marco”? A questa richiesta i giudici tedeschi diedero risposta applicando un paragrafo del BGB che fino ad allora aveva avuto un utilizzo marginale: il 242, la cui norma dispone che «il debitore è obbligato a fornire la prestazione così come lo richiede la buona fede con riguardo all'uso dei traffici». Da quel momento la giurisprudenza tedesca si rese conto del potenziale applicativo della clausola di buona fede che, per la prima volta, fu spinta fino al punto di derogare ad una precisa disposizione legislativa ed allo stesso dato contrattuale.
Ci si trovava di fronte ad un monumentale caso di diritto giudiziale, dove una clausola generale vestiva i panni di fondamento per un istituto giuridico. Il Reichsgericht, interpretando la sensibilità popolare che tendeva maggiormente verso la tutela del creditore, si erse a protettore di beni superiori di tipo metagiuridico, segnando un punto di rottura nei confronti dei principi liberali che avevano ispirato la redazione del BGB, figlio di un'impostazione conservatrice[33] che rispecchiava gli assetti sociali dell’era bismarckiana. Infatti, la vita economica della Germania dell’epoca era caratterizzata per una forte matrice liberale nella quale il ruolo di maggior importanza era svolto dalla grande borghesia. Tra politici ed intellettuali era in voga la convinzione che il bene comune si sarebbe potuto realizzare con il solo incontrarsi delle forze economiche secondo le leggi del mercato[34]. Vi era quindi una certa riluttanza, nell’ambito del diritto privato, all’eterointegrazione[35] del contratto con clausole come la buona fede. D’altronde, basti pensare che il codice non era incentrato sulla figura del piccolo artigiano, quanto piuttosto su quella del ricco imprenditore capace di domare tutti i rischi e di muoversi razionalmente. Appare chiaro, come tale prototipo di contraente, sulla base del quale era modellizzato il Codice civile dell’epoca, non necessitasse della mediazione dello Stato nella regolamentazione degli assetti contrattuali: al contrario, tale mediazione sarebbe stata vista come un’indebita intrusione negli affari privati.
D’altronde, la buona fede rappresenta la volontà del legislatore di pianificare i rapporti tra privati in un’ottica di solidarietà reciproca[36], estrapolandoli dal mero individualismo. I rapporti privatistici vengono, quindi, integrati mediante un atto esterno del legislatore -un’eterointegrazione, appunto - ma senza che egli introduca alcun tipo di norma, bensì limitandosi a filtrare standards di condotta che si sono costituiti nella società[37]. Si parla in proposito di “eteronomia non autoritaria”. D’altra parte, se non fosse il diritto ad imporlo, perché il debitore dovrebbe eseguire l’obbligazione secondo buona fede, cosa che potrebbe rendere l’adempimento ancora più gravoso?
La conclusione alla quale giunsero i tribunali tedeschi, vista la netta rottura che segnava con la tradizione giuridica, destò parecchio scalpore nella dottrina germanica, erede della lunga tradizione pandettistica[38] e che aveva contribuito, mediante la “positivizzazione” del diritto romano, a porre le basi teoriche del giuspositivismo. È proprio il positivismo a mostrare, notoriamente, una forte avversione verso ogni tentativo di integrare il diritto con istanze metagiuridiche[39], alle quali anche la buona fede fa riferimento. Si pensi che, sulla scorta di tale ostilità[40], la dottrina francese si era spinta a considerare tale nozione come un elemento per rafforzare il vincolo del testo contrattuale; eseguire il contratto in buona fede, significherebbe sostanzialmente adempiere “alla lettera” agli obblighi assunti. Da ciò si deduce chiaramente come l’intento fosse quello di spogliare il termine del suo significato “metagiuridico”. Difatti, la buona fede si pone come un grosso intralcio al tentativo, precedentemente menzionato, di rendere l’ordinamento giuridico al pari di un sistema poiché, per la sua apertura ad una dimensione valoriale,[41] è capace di sganciare il diritto dalle sue radici formali-positivistiche facendo venir meno quell’impalcatura logica, necessaria per concepire in termini puramente sistematici l’ordinamento. Proprio le sconfinate possibilità[42] che la buona fede portava con sé fecero sì che i giuristi dell’area borghese conservatrice si schierassero contro il suo uso[43].
Un esempio paradigmatico della riluttanza mostrata dalla concezione pandettistica verso le clausole generali, sono le parole dello stesso Hedemann quando afferma che il giudice deve avere ben chiara la distinzione tra le questioni davvero cruciali per lo Stato (ed in tali casi riservarsi di applicare una clausola generale) e il resto dell’ordinamento giuridico.[44] Tali parole lasciano intendere come, nella visione dell’epoca, le clausole generali fossero altro rispetto al concetto di ordinamento: come se il giudice fosse legittimato ad indossare le vesti del legislatore solo ed esclusivamente per garantire la sopravvivenza dello Stato e con la conseguenza che nel caso in cui decida di applicare una clausola generale ci si muove fuori da ciò che è l’ordinamento giuridico.
- Profili interpretativi della buona fede: l’attualità dell’insegnamento romanistico
Si è detto, nel corso delle prime pagine, che la buona fede richiami valori e standards sociali e quindi extranormativi, ma da dove deriva tale richiamo?
Per rispondere a ciò, è necessario, in primis, rispolverare i progressi raggiunti dalla dottrina classica in merito all’interpretazione. Ammesso che il testo giuridico non sia “una verità da svelare” e che la norma non sia l’oggetto quanto, invece, il prodotto dell’interpretazione,[45] si può tentare una sistematizzazione dei vincoli a cui è sottoposto il giudice nell’ attività interpretativa. A tal proposito, sono individuabili tre vincoli[46]. Il primo consiste nel vincolo imposto dalla forza del testo[47] il quale obbliga l’interprete a scartare le soluzioni ad esso contrarie. Il secondo vincolo è la dogmatica, intesa come il patrimonio concettuale che si può ricavare dall’insieme delle norme ed il terzo è la ratio legis[48]. È necessario sondare se questi criteri valgano (ed in quale maniera) quando si tratta di concetti come la buona fede.
Dall’affermazione secondo cui il testo di legge è il primo vincolo per l’interprete si deduce che le parole del testo (sia prese singolarmente che in connessione) ed il loro significato letterale, siano il primo dato che l’interprete deve prendere in considerazione. Ciò è confermato dallo stesso Codice civile all’art. 12 delle preleggi dove si afferma che “Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”.
Il concetto di “significato letterale” merita però alcune precisazioni che aiutino a capire come esso si atteggi quando ad essere interpretati sono sintagmi come la buona fede: d’altronde, può sembrare assurdo parlare di interpretazione letterale di concetti così carichi di valenza simbolica. Infatti, prima facie, si potrebbe ipotizzare, sul solco di una supposta polarità lettera-spirito, un contrasto tra interpretazione letterale e senso storico di una parola, motivando ciò sulla base del fatto che l’interpretazione letterale sia volta a far emergere un significato proprio ed immutabile della lettera e svincolato, quindi, da qualsiasi retaggio storico-culturale. Perciò, secondo tale prospettiva, nell’interpretare il sintagma “buona fede”, le sue origini giusromanistiche potrebbero essere tralasciate. I termini della questione sono però più complicati di così. Innanzitutto, l’idea che si possano scovare significati “veri” postula, a sua volta, l’idea - ampiamente sconfessata, soprattutto in ambito giuridico - che il linguaggio sia una costruzione astratta e non invece una realtà viva[49]. L’atto di indagare il significato della lettera è sempre condotto tenendo conto del codice linguistico condiviso da una certa comunità di fruitori, all’interno della quale viene svolta l’attività interpretativa.[50] Pertanto, la stessa lettera avrà un determinato significato piuttosto che un altro a seconda del codice adottato da quella specifica comunità. Preso atto che nessuna attività interpretativa può essere svolta prescindendo da una certa comunità parlante; ci si deve chiedere, pertanto, se la comunità di riferimento, nel caso dell’interpretazione giuridica, debba essere quella generale ed indefinita degli uomini comuni che sono destinatari delle norme giuridiche (con la conseguenza che in questo caso, per l’interpretazione letterale verrà scelto il senso ordinario) od invece la più ristretta comunità di giuristi (con la conseguenza che verrà utilizzato il senso tecnico).
Perciò, se si adotterà il primo modello (senso ordinario) sarà difficilmente argomentabile il rimando al diritto romano per spiegare il significato della buona fede; viceversa, presupponendo il livello di conoscenza di cui è mediamente dotato un giurista, tale rimando sembra possibile nel secondo modello (senso tecnico). Invero, dei due modelli, il primo sembra da scartare poiché la scelta di adottare il punto di vista dell’uomo comune può diventare l’occasione per legittimare i fraintendimenti in cui cade colui che non ha studiato il diritto [51], il quale, invece, si serve di un linguaggio tecnico ad alta formalizzazione.
Si tratterà, quindi, della “comunità” dei giuristi ed il sottocodice di riferimento sarà il linguaggio tecnico del diritto[52], il quale serve a garantire comunicabilità degli stessi concetti giuridici, stabilizzandone (per quanto possibile) il significato. Alla luce di ciò, sembra potersi concludere che il significato che tale linguaggio tecnico attribuisce al sintagma “buona fede” vada ricercato nel diritto romano, esattamente come, ad esempio, si dovrà guardare alla pandettistica tedesca per capire cosa si intenda per “negozio giuridico” o come si guarderà alla dottrina anglosassone per cogliere il significato dell’istituto del trust.
Affermato, quindi, che interpretazione letterale e senso storico non siano concetti antitetici, si dovrà condurre l’indagine sulla buona fede tenendo fortemente in considerazione il diritto romano[53]. Ciò, anche perché è altamente improbabile nonché illogico che il legislatore abbia utilizzato un concetto così ricco di storia, senza voler richiamare la tradizione alla quale esso fa riferimento. In altre parole, il sintagma non può fare a meno della sua origine, che rimanda al diritto romano appunto, poiché se si stacca il concetto di buona fede dalle sue radici [54] si ottiene qualcosa che è altro.
Queste parole sembrano essere confermate dal fatto che lo stesso legislatore del 1942 nella relazione al libro IV del Codice, dove si collocano sistematicamente le disposizioni contenenti rimandi alla buona fede, si premura di richiamare esplicitamente l’obbligazione romana[55] alla quale si ispira quella moderna.La buona fede è erede di una tradizione millenaria e la scelta di utilizzare questo termine piuttosto che altri con significati affini è sintomatico della volontà di collocarsi sulla scia di tale tradizione. Meritano menzione i lavori di chi, come Amedeo Giovanni Conte[56] e Luigi Lombardi Vallauri, ha operato un poderoso lavoro di ricostruzione etimologica del termine per giungere alla conclusione che la buona fede è caratterizzata storicamente dal rimando ad una dimensione etico-religiosa, quindi metagiuridica. Essa è una qualità soggettiva che esprime un principio etico indispensabile per il funzionamento di una società formata da uomini liberi[57], i quali, nelle relazioni sociali ed economiche[58], devono necessariamente affidarsi agli altri. Di conseguenza, dai soggetti ai quali ci si rimette, è richiesto un atteggiamento che sia conforme all’affidamento che in essi si ripone, ancor prima che alle norme[59]. In questo sta la buona fede, ovvero nell’essere degni di essere creduti e, di conseguenza, nell’agire in maniera tale da rendersi affidabile in conformità con le norme sociali (i mores)[60].Qualità, quest’ultima, che, nel mondo romano, è propria del Dio e degli uomini migliori[61]. Paradossalmente, quindi, se si vuole capire che cosa significhi buona fede nel linguaggio giuridico si deve uscire dal linguaggio giuridico stesso. Detto ciò, il lettore potrebbe chiedersi quale utilità abbia per il giurista contemporaneo il riferimento alla religione romana. Infatti, ad un primo sguardo, sembrerebbe che il rimando a tale sfera religiosa possa avere una semplice valenza storica e che non aiuti in alcun modo l’interprete contemporaneo che si appropinqua ad interpretare il concetto buona fede.
In realtà, per poter comprendere l’utilizzabilità del riferimento religioso (seppur con qualche accorgimento di cui a beve si dirà), bisogna comprendere la dimensione entro la quale si svolgeva la vita religiosa nell’antica Roma. Tale dimensione è, appunto, squisitamente pubblica, tant’è che lo ius sacrum costituisce un capitolo dello ius publicum (“diritto pubblico”). Ciò testimonia come per gli antichi romani la religione (e di conseguenza anche il concetto di buona fede) corrisponda ad un principio politico di organizzazione della società in base al quale i soggetti sono legati da un certo vincolo associativo (la religio) in forza del quale devono collaborare e comportarsi conformemente ai mores, ancor prima che alle leggi umane[62]. La valenza pubblico-politica della religione è ulteriormente confermata dal concetto di pax deorum, condizione indispensabile per assicurare la prosperità allo stato romano e la serenità dei cittadini[63]. Pertanto, questo riferimento, se declinato in tale ottica, può venir certamente salvato nonostante la secolarizzazione degli ordinamenti. Necessariamente, però, se nella società romana questo dovere di cooperazione ex fide bona trovava il proprio fondamento nel precetto religioso, in una società secolarizzata come quella attuale, la buona fede come principio di leale collaborazione tra consociati si fonderà, invece, sui vari principi costituzionali che estrapolano l’uomo dal mero individualismo proiettandolo in un tessuto sociale entro il quale egli è tenuto a collaborare con gli altri partecipanti [64].
All’esito di questa breve riflessione si può affermare che, quando il giudice deve valutare se una determinata azione è stata svolta secondo buona fede, egli elabora tale giudizio basandosi su criteri morali ed extra normativi che non potranno che essere quelli vigenti in un determinato momento storico [65]. È chiaro, quindi, che la buona fede faccia riferimento a criteri extra legem, i quali, per effetto del venir richiamati all’interno di una disposizione legislativa, si muovono intra ius[66]. Pertanto, occorre rivedere i limiti interpretativi di cui si è detto sopra: nel caso della buona fede, lo stesso testo di legge obbliga l’interprete ad uscire dalle categorie giuridiche proprie di qualsiasi ordinamento per immergersi nella società e poi raffrontare il risultato della sua interpretazione coi principi giuridici, cosicché la decisione sia sistematicamente coerente[67]. Si recupera quindi il primo (l’interpretazione letterale) ed il secondo vincolo (la dogmatica, con la funzione, però, di verifica ex post) ma non invece il terzo: la ratio legis diviene infatti una sorta di ratio societatis dal momento che lo stesso legislatore si astiene dall’offrire un modello da seguire, lasciando all’interprete l’onere di ricercarlo all’interno della società[68].
A tal proposito, suonano come un monito le parole di Aulio Gellio nelle sue Noctes Atticae dove l’autore racconta di aver chiesto consiglio ad un filosofo, poiché incerto su come risolvere una causa affidatagli dal pretore, per poi ottenere una risposta degna, sì, di un filosofo ma tale da imbarazzare l’interpellante. In alte parole, quando il giurista ha di fronte la buona fede deve, da un lato, aver chiare le coordinate storico-filosofiche dalle quali muove tale concetto ma dall’altro lato non deve confondere il proprio ruolo con quello del filosofo moralista, tentando di imitarlo. Ciò significa che al giudice non è richiesta la preparazione del filosofo in punto di argomentazione ma, più semplicemente, di rendersi conto dell’esistenza di una serie di valori e mores metagiuridici[69]. In ultimis, quello che il giudice considera essere buona fede non si può certamente valutare in termini logici, con un giudizio di verità o falsità; si può, al contrario, valutare, solo in termini di verosimiglianza, categoria che sta alla base dei giudizi di valore, i quali sono verità provvisorie.[70]
- La buona fede nella prospettiva ordinamentale
Volendo, quindi, traslare tali considerazioni sul piano ordinamentale, occorre fare una breve premessa. Se si parte da quanto detto inizialmente circa la critica agli ordinamenti legali che risolvono il diritto nella legge, il lettore potrebbe ritenere che il rimando alla clausola di buona fede non cambi nulla poiché, dal momento che tale clausola è contenuta all’interno di una disposizione di legge, si è sempre dentro al legalismo. D’altronde, il giudice applica la clausola di buona fede solo ed esclusivamente in quanto è la legge stessa che la prescrive.
Allora, alla luce di ciò, il punto problematico è il seguente: se è vero che la buona fede obbliga il giudice di dotarsi di strumenti extranormativi, i quali, di conseguenza, vengono posti alla base delle decisioni che quest’ultimo deve assumere, tali valutazioni (extra normative, per l’appunto), emerse dall’interpretazione del concetto di buona fede, fanno parte del concetto di ordinamento giuridico? Rispetto a questa domanda, si possono assumere due posizioni.
La prima posizione attribuisce rilievo all’elemento linguistico del diritto e, quindi, parte dal presupposto che l’ordinamento si componga di proposizioni giuridiche[71]; pertanto, se si ragiona così, la clausola di buona fede, essendo contenuta in un testo di legge, non pone alcun problema rispetto alla concezione legalista dell’ordinamento giuridico. Di conseguenza, considerando “kelsenianamente” solo l’elemento formale (la proposizione normativa), le valutazioni extra normative fatte dal giudice in sede d’interpretazione non avranno nulla a che fare col concetto di ordinamento[72].
Si noti, però, che una tale impostazione non dice nulla circa il contenuto dell’ordinamento giuridico. Ciò, poiché si prendono in considerazione solo gli enunciati (disposizioni) e non i significati (norme) e quindi, ripercorrendo le parole di Riccardo Guastini, “non si ha alcuna idea di quale sia il contenuto normativo dell’ordinamento in questione”[73]. Si tratterebbe quindi, secondo questa prima visione, di considerare l’ordinamento come insieme di testi, il cui significato resta tuttavia ignoto. Ne risulta che l’idea di ordinamento come insieme di disposizioni non abbia alcuna valenza esplicativa poiché nulla dice sul contenuto di tale ordinamento[74].
Viceversa, se si considera l’ordinamento come insieme di norme (significati delle disposizioni) si finisce con il distinguere, da una parte, le fonti di testi (disposizioni) che sarebbero quelle che vengono classicamente considerate come fonti del diritto (Costituzione e le altre fonti primarie e secondarie) e, dall’altra, le fonti di norme, ovvero l’interpretazione, dal momento che è proprio mediante l’interpretazione che si ottengono le norme a partire dai testi. Circa tale approccio, in forza del quale risulta più difficile separare la teoria dell’ordinamento dalla teoria dell’interpretazione, si possono fare due considerazioni. In primis, se si afferma che l’ordinamento si regge su norme (e non, invece, disposizioni) si ammette che le valutazioni extranormative svolte dal giudice nell’interpretazione della buona fede sono parte del concetto di ordinamento.
In secundis, ponendo l’attenzione sulla dimensione interpretativa nell’analisi dell’ordinamento, si evita di cadere nel problema dell’autoreferenzialità della forma. Con autoreferenzialità, nel caso di specie, s’intende il problema per cui la clausola di buona fede[75], dice di sé stessa di essere una disposizione normativa, nonostante non ne abbia la struttura ma solo il nomen ed il fatto di essere contenuta in un testo di legge, a sua volta inserito in un sistema di disposizioni. Al contrario, tale clausola non contiene propriamente una norma perché, come appena riferito, manca della classica struttura fattispecie-effetto. Si potrebbe parlare, al più, di una metanorma: ovvero di una norma che ha per oggetto, non tanto la disciplina di una certa classe di condotte, quanto piuttosto il rinvio ad altre norme (sociali, in questo caso)[76].
Il problema dell’autoreferenzialità può essere meglio colto facendo riferimento al pensiero di Niklas Luhmann. Secondo il celebre studioso di sistemi sociali, l’autoreferenzialità sarebbe una caratteristica propria di ogni sistema (di conseguenza, anche di quello normativo) il quale, per poter sopravvivere, necessita, appunto, dell’autoreferenza. Questa consiste nella definizione di un elemento del sistema solo mediante il riferimento ad altri elementi interni al sistema stesso. D’altronde, è proprio mediante l’autoreferenza che “il sistema genera i propri confini e mantiene la propria autonomia”[77]. Tale teoria va letta a luce di quanto detto in apertura circa il rapporto tra concetto di ordinamento giuridico e sistema giuridico. L’idea che la dimensione ermeneutico-interpretativa, mediante la quale si accede alle norme, sia estranea al concetto di ordinamento è, in realtà, funzionale a garantire la chiusura del sistema nel senso propriamente luhmanniano[78] e, di conseguenza, al mantenimento della autonomizzazione del diritto.
Ora, tenendo presente che ad essere rilevanti, nella definizione del concetto di ordinamento giuridico, sono le norme intese come frutto dell’interpretazione, si può riprendere il tema delle lacune. Il punto sta ora nel cercare di capire che cosa significhi il sintagma ordinamento giuridico e perché la buona fede[79] spinga lo studioso ad abbandonare qualsiasi visione ordinamentale di matrice logico-legalista[80]. Infatti, se è vero che il diritto non si può esimere dal dare una risposta, positiva o negativa che sia, ad ogni domanda di giustizia che gli viene posta[81], esso dovrà quindi ricomprendere tutti i casi che si possono ipoteticamente presentare, e, se è altrettanto vero che il diritto è soltanto la legge (presupposto necessario della concezione legalista), allora la legge dovrebbe riuscire a regolare ogni caso della vita.
Il problema nasce, quindi, dall’idea secondo cui non ci sia diritto al di fuori della legge. Tale idea obbliga i sostenitori della concezione legalista a fare i conti con una situazione tipica del diritto: la (già citata) lacuna[82], ovvero la mancanza di una norma che consenta di capire se una determinata condotta sia permessa o non permessa.[83] Non si riesce, nel caso della lacuna, ad attribuire uno status deontico a tale comportamento. Concepire la lacuna in tal senso potrebbe portare, però, a sovrapporre questa con un’altra situazione analoga: l’antinomia. Vi è una differenza tra le due situazioni. Nell’antinomia, la contraddizione è dovuta dalla presenza nell’ordinamento di due norme che disciplinano in maniera antitetica la stessa condotta. A differenza di ciò, quando si tratta di lacune, non vi è alcuna norma che disciplina la fattispecie. L’interprete può, quindi, porre rimedio ad un’antinomia facendo riferimento ai normali criteri interpretativi, come ad esempio, verificare quale delle due sia la norma cronologicamente precedente o, piuttosto, verificare quale norma sia contraria ad un’altra gerarchicamente superiore. In altre parole, le antinomie sono solo apparenti e possono essere risolte mediante il ricorso alla logica giuridica; ma se la logica giuridica riesce a risolvere il problema nel caso delle antinomie, ciò vale anche per le lacune? Certamente, vi sono lacune che potremmo definire improprie, ovvero lacune in cui la norma manca solo apparentemente, ma in realtà, al pari di un’antinomia, la logica giuridica fornisce la soluzione, ad esempio mediante l’analogia o l’interpretazione estensiva. La questione, però, sembra essere più complicata.
Seguendo il filone, già anticipato in apertura, di chi insiste sul binomio sistema-ordinamento e ritiene, quindi, che il diritto riesca ad auto completarsi tramite la logica, la risposta sarebbe mediante operazioni puramente logiche con le quali è possibile, quindi, trarre nuovo diritto dalla legge[84]. Si può, così, risolvere ogni lacuna mediante la logica e, di conseguenza, il diritto non sarà altro se non una serie enunciati legati tra loro da nessi logici. Il legal-logicismo corrisponde, quindi, ad uno degli espedienti delle teorie legaliste per colmare le lacune[85]. Mediante la logica giuridica si riesce a creare altro diritto dalla legge, senza che debbano intervenire valutazioni metagiuridiche e, quindi, preservando il diritto dalla contaminazione con le altre scienze, nel tentativo di renderlo un sapere a-storico. Ciò detto, si proverà a segnalare come, partendo dalla buona fede, una tale idea possa essere problematizzata.
Difatti, l’impossibilità di colmare tutte le lacune mediante l’uso della logica giuridica pare essere chiara allo stesso legislatore dal momento che, in alcune circostanze, egli ritiene necessario utilizzare termini, come la buona fede, i quali fanno riferimento a standards sociali, valori ed ideologie che sono estranei alla logica giuridica. Il legislatore ricorre alla buona fede poiché è conscio che in quel determinato caso, il diritto – nella sua accezione weberiana di diritto formale – è inadatto a fornire un modello di condotta. Di conseguenza, l’incapacità del diritto formale di dare una risposta a tali situazioni si traduce in una lacuna[86] che non può essere colmata mediante operazioni logicistiche che traggono nuove norme dalla legge ma soltanto mediante il rinvio a concetti extranormativi.
La lacuna che spinge il legislatore ad utilizzare la buona fede nasce da un’incompletezza della legge dal punto di vista dello spirito[87]: manca un principio ricavabile dall’ordinamento legale che sia adatto a disciplinare il caso concreto: per questo, è necessario richiamare valori che stanno “fuori”[88]. Una lacuna nello spirito della legge potrebbe essere risolta, quindi, in due modi: o mediante un intervento del legislatore, il quale sulla base di una sua valutazione politica, crea una nuova legge[89], o mediante un intervento del giudice, il quale riceve da una norma il compito di svolgere la medesima valutazione politica: nel caso di cui si tratta, è il rimando alla buona fede che obbliga l’interprete a tale operazione.
In entrambi i casi, il problema della lacuna viene risolto da una valutazione politica: nulla quaestio nel caso in cui a svolgerla sia il legislatore; viceversa, però, nel caso in cui invece intervenga una valutazione politica del giudice, è chiaro come ciò obblighi a ripensare il confine tra interpretazione del diritto e valutazione politica. D’altronde, la dogmatica (che è una delle più alte espressioni della logica giuridica) fornisce solo deduzioni formali che non vanno oltre rispetto alle premesse iniziali: il limite del ragionamento logico-dogmatico è quello di non riuscire a sviluppare nuove possibilità di soluzioni. Da ciò nasce l’esigenza di utilizzare nel diritto dei veri e propri “concetti-valvola”[90] rispetto ai quali la dogmatica interverrà, al massimo, ex post come strumento di verifica delle soluzioni interpretative ottenute a partire dall’interpretazione della clausola di buona fede.
In conclusione, quando si tratta di buona fede, il piano della politica del diritto e quello dell’interpretazione giuridica si fondono al punto da non essere più separabili, facendo venir meno uno dei capisaldi del positivismo ottocentesco secondo cui la politica del diritto è affare esclusivo del legislatore[91]. Il diritto è fatto di valutazioni soggettive, delle quali, concetti come la buona fede, rappresentano un punto di emersione. La scienza giuridica, dice Mengoni, diviene quindi analisi dei valori sottostanti al diritto, ed in quest’ottica, anche la decisione giurisdizionale rappresenta l’esito della valutazione degli interessi in gioco. Tale valutazione, nel caso in cui si basi sulla buona fede, viene sviluppata in maniera autonoma dal giudice “allorchè quella valutazione (che il legislatore demanda al giudice, n.d.r.) riveli una lacuna della legge”[92]. Sempre ripercorrendo il pensiero di Mengoni, si scopre che i tentativi del giurista di garantire al diritto una qualche neutralità assiologica sono, oltre che vani, anche pericolosi poiché gli impediscono di avere piena consapevolezza del suo metodo, esponendolo ad un’involontaria strumentalizzazione dagli interessi politici. Al contrario, il giurista deve aver piena consapevolezza delle valutazioni politiche che si insinuano nel diritto, così da poterle assoggettare al controllo razionale[93]. Quel che ne consegue è che il concetto di completezza dell’ordinamento non sia tanto una necessità logica dell’ordinamento quanto, piuttosto, un obiettivo da raggiungere attraverso un continuo lavorodi eterointegrazione delle norme mediante valutazioni extralegislative[94]. Considerare tali valutazioni come estranee alla sfera ordinamentale, significa adottare un concetto di ordinamento giuridico che non sappia spiegare in toto il fenomeno giuridico, il quale, appunto, non può prescindere dal piano valoriale, poiché, d’altra parte, non può prescindere da prendere in considerazione la dimensione interpretativa. Di conseguenza, ciò che si deduce è che il sistema giuridico sia un sottoinsieme del concetto di ordinamento giuridico e che non tutto il diritto in senso oggettivo (ovvero l’ordinamento giuridico) è “sistema giuridico”[95].
- La prospettiva topica ed il concetto di ordinamento
Giunti a tale punto è lecito chiedersi se immettere all’interno del concetto di ordinamento anche le valutazioni extranormative svolte dal giudice in sede interpretativa comporti una necessaria rinuncia all’idea stessa di ordinamento. Sembra, infatti, che il concetto di ordinamento. da un lato, implichi “un minor rigore” rispetto al concetto di sistema; quest’ultimo viene, infatti, caratterizzato dalla necessaria esistenza di relazioni logiche tra i suoi elementi, e dall’altro lato, richieda comunque un quid pluris rispetto ad un mero insieme.
Tale quid pluris può essere individuato nell’esistenza di un criterio di appartenenza negativo che consiste nella coerenza[96], ovvero l’assenza di contraddizioni interne. Sembra, infatti, che il sistema, oltre che coerente, sia anche coeso, intendendo la coesione come un qualcosa in più che viene individuato nel comune fondamento di validità di tutti gli elementi in una o più norme determinate [97]. L’ordine, invece, è garantito dalla mera mancanza di contraddizioni interne, senza che sia necessario il comune fondamento.
Si dovrà, quindi, trovare uno strumento metodologico che consenta di ridurre il rischio che l’interprete faccia emergere dall’interpretazione del sintagma buona fede dei significati capaci di far crollare l’impalcatura ordinamentale. D’altronde, ragionando à la Hedemann, la buona fede può filtrare all’interno dell’ordinamento una serie di norme sociali plurime e contradditorie che possono determinare decisioni giurisdizionali completamente assurde e capaci di far saltare la coerenza interna dell’ordinamento.
Una prima soluzione per (quantomeno) ridurre questo problema è certamente quella offerta da Luigi Mengoni e già illustrata nel corso dell’elaborato: l’interprete, dopo aver interpretato il concetto di buona fede, deve confrontare l’esito di tale lavoro interpretativo con la dogmatica giuridica, ovvero con il patrimonio di concetti giuridici che vengono estrapolati dalla prassi dottrinale a partire dalle norme[98]. Ciò, seppur aiuti a diminuire il rischio che le soluzioni fatte emergere per via interpretativa siano assurde e contradditorie, potrebbe non bastare. Si pensi, ad esempio, alla questione della disputa delle rivalutazioni dove la buona fede poteva giustificare una modifica del contratto come anche rafforzarne la vincolatività, senza che il raffronto con il pensiero dogmatico offrisse una soluzione definitiva. Sul punto, sono certamente significative le parole di Lombardi Vallauri: “Supponendo che una norma possa significare dieci cose, lo scienziato “puro” del diritto è colui che non sceglie nessuna delle dieci soluzioni, ma le addita (a chi?) come tutte possibili.”[99]
Proprio a tal proposito, possono essere d’aiuto le affermazioni svolte poc’anzi in merito alla ragionevolezza. Una certa interpretazione del sintagma “buona fede”, come è stato detto, non può essere giudicata in termini di verità o falsità (categorie di riferimento della logica formale derivante dalla modernità), sarà, al massimo, ragionevole o irragionevole, tenendo a mente quanto si è detto circa il fatto che il giudizio di ragionevolezza dipende e si lega col contesto sociale nel quale si colloca. Tale contesto rappresenta una dimensione pre-giuridica che può essere individuata nelle premesse comuni a partire dalle quali viene a crearsi una certa società[100]. Necessariamente, sarà quindi ragionevole ciò che rispecchia o quantomeno non contraddice tali premesse e, di conseguenza, l’interprete che vuole essere ragionevole, nel senso sopra delineato, dovrà far i conti con i diversi principi e ideologie che si intrecciano a vario modo nella società, in modo che il prodotto della sua interpretazione sacrifichi il meno possibile i valori di segno opposto (rispetto a quelli che si intendono affermare) che meritano, però, altrettanta considerazione, in quanto, senza di questi, viene meno il fatto che tali premesse siano comuni a tutti[101]. Proprio in questo consiste il bilanciamento, strumento pensato per l’applicazione dei principi ma che può benissimo funzionare anche per la buona fede, dal momento che questa, esattamente come i principi, non può essere applicata mediante la (classica) sussunzione del fatto concreto nella fattispecie astratta.[102] Si può concludere che la ragionevolezza pone la luce sulla storicità come modo di essere della conoscenza dei valori[103] e proprio la storicità dei valori filtrati tramite la buona fede mostra l’esigenza dell’ordinamento giuridico di imporsi anche di fatto.[104]
I principi a partire dai quali si esplica il giudizio di ragionevolezza sono definiti i topoi ovvero starting points valoriali che, mediante l’argomentazione ragionevole, sono resi controllabili[105]. D’altronde, nell’argomentazione giuridica, la dimensione valoriale rappresenta, non tanto una soluzione per il caso, quanto, piuttosto, un’ipotesi argomentativa iniziale[106]ed è proprio ciò che spaventava Hedemann quando denunciava il fatto che i giudici stavano diventando degli araldi dell’etica. Nonostante ciò, come già detto, prescindere dalla dimensione storico-valoriale sembra impossibile nel diritto e, in particolare, nel caso della buona fede. Ciò che si può fare è, invece, esplicitare le proprie premesse metagiuridiche per poi sottoporle al controllo della ragionevolezza.
Quindi, accettare la dimensione topica come momento inziale e necessario dell’interpretazione implica, necessariamente, l’allontanamento dalle teorie scettiche dell’interpretazione, di cui sono impregnate, ad esempio, le correnti del realismo giuridico[107]. Infatti, proprio la topica consente di far sì che l’ordinamento regga e che l’accesso alla dimensione metanormativa a cui fa riferimento (anche) la buona fede non corrisponda, per dirla con Guastini, a rendere totalmente inafferrabile l’identità dell’ordinamento stesso.[108]
Pertanto, può concludersi che:
1) La ragionevolezza è il criterio su cui si regge l’ordinamento visto che, se si decidesse di considerare il diritto secondo la categoria della razionalità[109], non si riuscirebbe a spiegare il modo di funzionare della buona fede, che invece si caratterizza per una forte radice antropologica. In realtà, tale problema non è un proprium della buona fede, quanto piuttosto del linguaggio e dell’esperienza giuridica in sé presa: l’idea secondo cui il diritto è una struttura razionale (nonché il conseguente tentativo di applicare la logica al diritto) fa venir meno il legame – necessario – che intercorre tra questo e la società. Lo stesso sistema giuridico che, come abbiamo detto, è interno all’ordinamento e che utilizza un metodo assimilabile a quello delle scienze dure[110], ha una natura valutativa e si regge su un presupposto valoriale[111].
2) Le premesse valoriali, seppur “depotenziate” dal raffronto col pensiero dogmatico e dal filtro della ragionevolezza[112], sono parte (iniziale) del concetto di ordinamento giuridico[113] poiché, se è vero che tali premesse sono il momento iniziale del processo interpretativo e che l’ordinamento non è altro che il frutto dell’interpretazione (in quanto insieme di norme e non di disposizioni), allora sarà necessario che la definizione di ordinamento, non solo inglobi, ma che addirittura si fondi sulla dimensione topica poiché è a partire da quest’ultima che ha inizio l’interpretazione e, a sua volta, è l’interpretazione che consente di concepire il diritto come ordinamento.
L’accettazione della dimensione topica non significa, quindi, rinunciare alla possibilità di configurare il diritto come ordinamento ma significa, al contrario, estendere la portata di tale nozione, applicandola anche alle premesse valutative sottointese al diritto. L’aderenza ai valori storici è quindi una necessità pratica del diritto, poiché attribuisce a questo quella forza reale di cui necessita per non rimanere una mera opinione personale. Però, affinché questa attività di storicizzazione del diritto positivo non divenga arbitrio del giurista nel decidere i contenuti, è necessario darvi delle regole, cosicché anche le valutazioni politico-valoriali vengano ordinate. La possibilità di ordinare l’argomentazione topica si attua, quindi, mediante l’applicazione delle regole della retorica (d’altronde, la ragionevolezza è uno dei canoni con cui si valutano le argomentazioni) in forza delle quali il diritto viene a configurarsi come un discorso le cui premesse devono essere accettate dalla comunità di riferimento. Sarà, quindi, ragionevole ciò che una determinata comunità è disposta ad accettare[114].
In conclusione, la buona fede, visto il rimando che fa alle pratiche sociali, è un ottimo esempio di come il diritto segua le logiche del discorso e di come, per funzionare, debba coinvolgere una pluralità di partecipanti[115], i quali non sono passivamente destinatari delle norme ma che, al contrario, sono capaci di esprimere un proprio sentire sociale di cui si deve necessariamente tenere conto. Questo sentire sociale, che riempie di significato il sintagma “buona fede”, si plasma in via consuetudinaria[116] e forma l’humus credenziale-ideologico a partire dal quale si può costruire una certa idea di diritto.
Il ragionamento topico, per come è stato presentato, consente di salvaguardare la dimensione ordinamentale del diritto[117] e ci pone dinnanzi a due (ulteriori) conclusioni:
1) nel momento in cui la sola logica giuridica ammette come possibili due soluzioni interpretative contrastanti, le possibilità sono due: a) si considerano possibili entrambe le soluzioni: ciò, però, implica una rinuncia all’idea di ordinamento giuridico, poiché verrebbe meno la coerenza interna; b) si accetta un punto di vista valoriale a partire dal quale condurre la propria argomentazione per poi scegliere, anche mediante il raffronto con la dogmatica e con la ragionevolezza, una delle soluzioni interpretative. Tale punto di vista valoriale va, quindi, esplicitato e sottoposto a controllo critico. Questa seconda soluzione sembra essere l’unica utile per salvaguardare il concetto di ordinamento.
2) la teoria dell’argomentazione giuridica non è più una mera disciplina specifica bensì corrisponde tout court con la teoria dell’ordinamento, poiché il diritto, per dirla con Habermas, ha una profonda struttura argomentativa[118].
La scelta di tutelare i creditori nella disputa delle rivalutazioni tedesca dimostra come i giudici tedeschi cercassero di dare, attraverso la buona fede, una legittimazione metalegislativa dell’ordinamento giuridico[119] la quale non si poteva più trovare nello spirito del sistema pandettistico ma che doveva giungere necessariamente da fuori. Ciò significa, come già detto, che l’ordinamento, in sé preso, non sia mai completo ma che tenda a completarsi adottando, volta per volta, i vari punti di vista valoriali che si instillano nella società e, quindi, anche nello stesso giudice; a tal proposito, sembra che si possa parlare di una “lotta per l’ordinamento” che il giurista conduce mediante il suo lavoro interpretativo ed argomentativo quotidiano.
Il problema della completezza non si risolve, però, in questo modo ma, al contrario, si espande anche alla completezza degli stessi criteri d’integrazione extralegislativi a disposizione dell’interprete[120]. Tale incompletezza può essere letta sia sul piano diacronico ,si pensi al continuo cambiamento dei sistemi valoriali a cui segue un mutamento delle norme da questi prodotte, che sul piano sincronico, nel senso che il tessuto sociale a cui fa riferimento proprio la buona fede non si presenta mai come in sé completo ma va ricostruito volta per volta dall’interprete, il quale, alla luce delle varie voci e ideologie che animano tale tessuto, inverosimilmente riuscirà a ricostruirlo in maniera completa. Questo problema può essere letto efficacemente con le parole di Lombardi Vallauri, quando afferma: “Come non regge il logicismo legalistico, così non può reggere un preteso completismo e logicismo giusnatualistico!”[121].
In conclusione, le norme sociali che sorgono fuori dall’ordinamento giuridico ma che vengono richiamate dalla buona fede intra ius non rispondono ai criteri che disciplinano la validità (metaregole axiotiche) delle norme giuridiche e che garantiscono la chiusura dell’ordinamento [122]. Certamente, come a breve si dirà, il confronto col pensiero dogmatico e il filtro della ragionevolezza consente di diminuire lo scarto con la logica giuridica (la dogmatica) ma ciò non elimina il fatto che tali norme non vengono validate da alcun criterio ordinamentale rispetto al quale possono, al massimo, essere non contraddittorie[123]. Proprio a tale proposito sono d’aiuto le parole di Paolo Di Lucia, il quale afferma esistere “anche forme di validità fattuale, ossia forme di validità di status deontici che siano irrelate a qualsiasi precondizione normativa e che emergono direttamente dai fatti della vita umana.”[124] Tali norme sociali, difatti, esistono in una mera fatticità[125] e si fondano non tanto sulla validità convenzionalmente attribuita dal rapporto con le metanorme ma, piuttosto, sulla giustezza etica di stati di cose.[126]
- Conclusioni ed alcuni aspetti problematici del concetto di buona fede
Pertanto, se, da un lato, l’adozione della prospettiva topica non risolve certamente il problema dell’arbitrio del giudice, dall’altro lato, si deve anche ricordare che ad essere problematica per il giurista non sia solo la buona fede o la topica, quanto, invece, la contemporaneità[127]. Proprio la contemporaneità, infatti, si caratterizza per essere sfuggevole a farsi “incardinare” in fattispecie astratte poste dal legislatore. D’altronde, è ormai assodato nella letteratura come alcuni fenomeni quali, ad esempio, la globalizzazione, l’affannoso sviluppo tecnologico ed un pluralismo caratterizzato da dottrine omnicomprensive[128] che pare talvolta tragicamente risolversi nell’assoluto relativismo, riescano a mettere a dura prova l’idea, tipicamente moderna, della norma come strumento di pianificazione ed organizzazione sociale. Tutto ciò mette a dura prova la dimensione ordinamentale del diritto ed allontana il legislatore dall’utilizzo dello strumento normativo classicamente inteso (fattispecie astratta-effetto) a favore di clausole generali che obbligano il giudice a ricostruire egli stesso la fattispecie, mediante l’osservazione delle norme sociali[129]. Tale prassi non risolve certamente il problema ma lo sposta soltanto dal legislatore al giudice, il quale si troverà a dover capire cosa significhi buona fede in una società caratterizzata da diverse espressioni culturali talora estremamente contrastanti. L’uso, sempre più crescente, di clausole generali sembra quindi essere la conseguenza necessaria della difficoltà (se non addirittura dell’impossibilità) del legislatore di tradurre gli eventi dell’oggi in fattispecie legali[130]. L’insofferenza verso l’apriorismo della fattispecie astratta fa sì che il piano della tutela venga spostato dal diritto legislativo ad un diritto giudiziario di tipo mite[131].
A tal proposito, se si allargano le maglie del discorso alle clausole generali, occorrono alcuni chiarimenti circa il rapporto tra queste e il diritto penale.[132] D’altronde, agli occhi del penalista, può sembrare assurdo quanto detto a proposito della politicità intrinseca al metodo giuridico, dal momento che la dottrina e la giurisprudenza considerano esistente, in questo particolare settore, il cd. principio di tassatività. Tale principio, nonostante non sia codificato, viene tradizionalmente desunto mediante l’interpretazione dell’art. 25 Cost. e concepito a completamento dei principi di riserva di legge, di irretroattività della legge sfavorevole nonché del divieto di analogia in malam partem. La tassatività della legge penale è da riferirsi ovviamente alle disposizioni incriminatrici e, di conseguenza, sia alla fattispecie che all’effetto, in modo che il giudice non possa né creare nuove fattispecie penalmente rilevanti né collegare alle fattispecie esistenti, effetti non previsti. Il problema, nel caso della buona fede, sorge nel momento in cui le norme che vi rimandano (cd. clausole generali) non sono costruite mediante il classico metodo casistico (fattispecie-effetto). Al contrario, la clausola generale non possiede questa struttura poiché il compito di costruire la fattispecie viene delegato dal legislatore al giudice, mediante il riferimento a valori e norme sociali. L’ingresso di tali norme sociali che, come già si è detto, non vengono validate dall’ordinamento, comporta che la fattispecie risultante dall’applicazione di una clausola generale non potrà dirsi prevista in maniera tassativa dal legislatore; al contrario, nel caso di cui si tratta, il legislatore rinuncia in toto a porre una fattispecie. Cosa rimane, alla luce di ciò, del principio di tassatività? Si possono fare due annotazioni in proposito.
La prima è che un certo margine di valutatività, derivante dal fatto che la buona fede è un sintagma valutativo (come ad esempio danno ingiusto, buon padre di famiglia, etc..) che è la proprietà caratteristica delle clausole generali nonché ciò che le rende “problematiche”, è presente, seppur in diversa misura, anche nelle disposizioni costruite con la tecnica casistica. In tali ultimi casi, però, il margine di valutatività viene limitato dall’esistenza di un nucleo certo di significato della parola[133]. La presenza di un nucleo certo differenzia i termini valutativi dai termini descrittivi. Solo quest’ultimi, avendo un significato che viene identificato sulla base di criteri fattuali, possiedono tale nucleo di significato intorno al quale non si discute. [134] Pertanto, l’integrazione valutativa operata mediante elementi esterni (valori e standards) avverrà (seppur in maniera meno intensa) anche nel caso in cui ad essere interpretata sia una disposizione tassativamente costruita[135]. La conseguenza è che non sono completamente tassative neanche le disposizioni le cui fattispecie sono costruite mediante il metodo casistico e quindi la predefinizione del fatto o della classe di fatti di riferimento da parte del legislatore[136] non potrà mai essere tale da eliminare in toto ogni margine di valutatività. Sembra allora più convincente parlare di principio di determinatezza.
Le clausole generali possono essere determinate? Una chiara risposta, utile anche per fissare il concetto di determinatezza, è quella fornita dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 5 del 2004: “l’inclusione (…) di clausole generali o concetti “elastici”, non comporta un vulnus del parametro costituzionale (principio di determinatezza, n.d.r.) evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo”[137].
In tale sentenza, la Corte offre alcuni spunti teorici importanti e che riprendono alcune considerazioni metodologiche già affrontate nella trattazione. In primis, quando si tratta di clausole generali, il giudice deve sempre raffrontare l’esito della propria interpretazione con le categorie dogmatiche (il più ampio contesto ordinamentale), dopodiché, la richiesta controllabilità del fondamento ermeneutico di partenza e la non esorbitanza dell’operazione interpretativa possono considerarsi un’implicita ammissione della dimensione topica come parte dello stesso concetto di ordinamento. D’altronde, come si è già ampiamente detto, la premesse valutative del ragionamento del giudice vanno esplicitate e raffrontate con il pensiero dogmatico e con il canone della ragionevolezza, così da essere controllabili.
In virtù di quanto detto, è rispettoso del requisito della determinatezza ciò che può essere spiegato e che è, quindi, accessibile intersoggettivamente. Pertanto, sarà determinato (e, se visto dalla prospettiva degli altri partecipanti al discorso giuridico, determinabile) un enunciato nella misura in cui il giudice dovrà fornire degli argomenti che lo giustifichino e che rendano accettabile il modus interpretandi[138]. Si può, quindi, proporre l’idea che il principio di tassatività vada intesto come precetto di ottimizzazione[139] e che sia riferibile esclusivamente al legislatore, il quale è chiamato ad utilizzare le clausole generali nella misura dello stretto necessario ed a formulare disposizioni nelle quali il margine valutativo è ridotto al minimo, mentre il principio di determinatezza vada, invece, riferito, perlopiù, al giudice, il quale nel decidere deve sempre esplicitare criticamente le premesse politico-valutative di partenza.[140]
L’immagine che ci riconsegna l’analisi condotta in queste pagine non è quella di un ordinamento fluido ma quella di un ordinamento che viene fluidificato e integrato, sempre in un’ottica di coerenza sistematica[141], dalla realtà sociale.[142] Il giudice, quando incontra una disposizione rimandante alla buona fede, deve rilevare sulla base degli standards sociali se il soggetto si sia comportato in maniera tale da rispettare l’affidamento suscitato verso coloro con i quali è entrato in contatto. Tale pratica interpretativa andrà svolta facendo riferimento ad usi di settore ove disponibili o ad altri criteri che si pongono in aiuto all’interprete come, appunto, il canone della ragionevolezza[143]. Il modello di condotta così ottenuto sarà poi raffrontato con le categorie giuridiche esistenti che, insieme ai principi generali dell’ordinamento, compongono quel patrimonio di concetti che si usa definire dogmatica giuridica. Quest’ultimo passaggio può venir letto anche mediante la griglia concettuale mengoniana del problema - sistema[144]: difatti, il modello di condotta ricavato dal giudice mediante l’applicazione della clausola di buona fede si pone come problema (da intendersi come novum sociale[145]) rispetto al sistema (inteso come l’impianto concettuale ricavabile dalla legge). L’interprete, alla luce di ciò, deve tentare il più possibile di riportare il problema all’interno delle logiche del sistema, così da garantirne la tenuta interna.
Abstract: The underlying idea concerns the possibility of problematizing the various theories concerning the legal system completeness. In fact, it seems that, from the analysis of the general buona fede clause, it can be argued that law is not in itself complete but, instead, needs to be supplemented with various value views that, over time, are instilled in society that are invoked by the concept of buona fede. What follows is that the legislature's use of buona fede represents an explicit admission of the existence of a gap in the spirit of the law, which cannot be filled by logical-deductive operations that derive new juridical concepts from the positivized law. The buona fede clause represents, therefore, the need for interpreters to break out of the narrow confines of nineteenth-century methodological positivism and to look inside society to grasp ideologies and value norms that can fill the syntagma buona fede with meaning.
Key Words:Buona fede, general clause, completeness of the legal system, legal topic, evaluative syntagmas, value norms.
* Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro, (giacomo.cipriani@studenti.unicz.it).
** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1]E. Severino, La buona fede, Rizzoli, Milano, 1999, p. 126.
[2]Tali concezioni ritengono che l’ordinamento giuridico possa risolversi nell’insieme di norme poste dal legislatore (da qui il suffisso legal-) e nei collegamenti logici tra le norme (da qui, invece, l’attributo logicistiche). Il rapporto tra logicismo e legalismo viene esplicato, tra i vari autori, anche da Luigi Lombardi Vallauri, il quale, in Corso di filosofia del diritto, CEDAM, Padova, 1985, a p. 51 afferma che la relazione che intercorre tra logicismo e legalismo sia necessaria al punto che il legalismo sta e cade con il logicismo. Circa il carattere necessario di tale relazione si dirà a breve in merito alla questione delle lacune.” A tal proposito merita certamente menzione Norberto Bobbio, uno degli autori a cui si deve imputare la coniugazione, in maniera compiuta, tra metodo logico e positivismo giuridico. L’autore infatti rivede la teoria kelseniana secondo cui il giudice deve in un primo momento scovare i possibili significati che stanno dentro alla cornice dell’enunciato, mediante operazioni logiche, e, successivamente scegliere quale dei vari significati utilizzare sulla base di una scelta valoriale (non scientifica) Cfr. H. Kelsen, Sulla teoria dell’interpretazione, in L’analisi del ragionamento giuridico. Materiali ad uso degli studenti, II, a cura di P. Comanducci - R. Guastini Giappichelli, Torino, 1989, pp. 107-120. Tale cambio di passo da Kelsen a Bobbio in merito alla teoria dell’interpretazione è correttamente rilevato da A. Merlino, Montesquieu e la scienza giuridica italiana in Max Planck Institute Research Paper, n. 13/2017, p. 8 nota 26.
[3] Si tratta del tentativo di concepire il diritto al pari di un insieme di concetti legati tra loro da nessi logico-concettuali. Circa il modo di intendere il sistema giuridico per la pandettistica si veda a A. Mazzacane, Pandettistica, in Enciclopedia del diritto, XXXI, Giuffrè, Milano, 1981, p. 607. Per un ulteriore (seppur certamente non esaustivo) approfondimento sul tema, si rimanda alla nota 27.
[4] Se per la pandettistica la scienza giuridica è elaborazione del diritto per Kelsen si tratta invece di conoscenza; l’attività elaborativa corrisponderebbe, invece, alla politica legislativa (Rechtspolitik) che è affare del legislatore. Cfr. H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, (trad. it. a cura di M. G. Losano), Einaudi, Torino, 1964 (1960), a nota di pagina 90.
[5] H. Kelsen, Reine Rechtslehere, Franz Deuticke, Leipzig und Wien, 1934 p. 33. La traduzione di tale passaggio è riportata da F. Modugno in Sistema giuridico in Sistema e problema. Saggi di teoria dei sistemi giuridici, Giappichelli, Torino, 2017, p. 16
[6] H. Kelsen, op. ult. cit., p. 93.
[7] F. Modugno, op. ult. cit., p. 17.
[8] H, Kelsen, op. ult. cit., p. 91 dove l’autore afferma “(…) si pone allora allora il problema di come si posano applicare i principi logici – in particolare il principio di non contraddizione e le regole della deduzione logica – al rapporto tra norme giuridiche, così come la dottrina pura del diritto ha fato sin dall’inizio; se, cioè, secondo l’opinione tradizionale questi principi siano applicabili soltanto ad enunciati suscettibili di essere veri o falsi. A questo problema si risponde: i principi logici possono essere applicati a norme giuridiche, se non direttamente, almeno indirettamente, nella misura in cui essi sono applicabili alle proposizioni giuridiche che descrivono queste norme giuridiche.”
[9] M. Losano, Diritto e Logica in Hans Kelsen, Il Politico, 1966, Vol. 31, No. 4, pp. 812.
[10]H. Kelsen, Derogation, «Essays in Jurisprudence in Honor of Roscoe Pound». Prepared by the American Society for Legal History. A cura di R. A. Newiman. The Bobbs-Merrill Go., Inc., Indianapolis-New York 1962, pp. 339-61 ed anche Id., Recht und Logik, in Forum, n. 142/1965, pp. 421-425. In Derogation l’autore afferma che lo strumento della deroga, utilizzato per risolvere il conflitto tra norme, non sia uno strumento logico. Ciò, poiché le due norme in conflitto sono entrambe valide senza che quindi la deroga sia espressione del principio di non contraddizione. Afferma Kelsen in Derogation a p. 351: “un conflitto di norme non è una contraddizione logica e non può neppure essere paragonato ad una contraddizione logica”.
[11]La filosofia giuridica di matrice analitica veicolò, nel mondo del diritto, le intuizioni della scuola di Oxford sull’importanza del linguaggio per spiegare la realtà. Tra i primi e più influenti filosofi italiani del diritto di vocazione analitica, si ricordano U. Scarpelli, in particolare con il saggio Filosofia analitica del diritto, (a cura di A. Pintore), Edizioni ETS, Milano, 1953 e certamente N. Bobbio, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, n. 2/1950.
[12]Il riferimento è a quelle correnti di pensiero che hanno tentato di operare una formalizzazione logica interna del diritto mediante una formalizzazione semantica e sintattica. Uno dei maggiori interpreti di tale sforzo è sicuramente A. G. Conte nel suo Saggio sulla completezza degli ordinamenti giuridici, Giappichelli, Torino, 1962, dove l’autore afferma, a p. 13, che le modalità deontiche in cui si esprime il diritto siano sei e che fra queste sei, ve ne sia una fondamentale che è il concetto di “permesso”. A partire da tale concetto si possono definire le altre modalità (obbligatorio, imperativo, facoltativo, indifferente, vietato); tutte queste modalità si rapportano tra di loro in termini logici di contraddizione o di coerenza. Si noti come l’aspetto linguistico di tale visione consiste nell’individuare dei termini primi, tra cui appunto il concetto di permesso, i quali vengono definiti semanticamente e che servono da base per definire gli altri. Per Conte, quindi, la completezza dell’ordinamento giuridico risiederebbe nella chiusura dell’ordinamento normativo poiché le norme sulla giurisdizione (cd. norme di secondo grado) sono insiemi di norme imperative che qualificano i comportamenti secondo uno dei due modi deontici ‘obbligatorio’ o ‘vietato’. In tutti gli ordinamenti normativi, se il giudice non è obbligato a condannare il convenuto (perché quest’ultimo non ha né commesso un atto vietato, né omesso un atto obbligatorio), è tenuto, di conseguenza, a rigettare la domanda; si riportano, sul punto, le parole dello stesso autore, il quale, a p. 203 dell’ultima opera citata, afferma “le norme sulla giurisdizione sono complete, poiché obblighi e divieti su essa son complementari. La giurisdizione è pertanto possibile nell'ipotesi stessa che il comportamento dedotto in giudizio sia inqualificato. In questo senso il diritto può dirsi (sia pure solo per metonimia) completo, a differenza da altri ordinamenti normativi.”. Si veda, a tal proposito, la critica proposta daC.E. Alchourrón, E. Bulygin, Sistemi normativi. Introduzione alla metodologia della scienza giuridica, trad. it. a cura di P. Chiassoni - G.B. Ratti, Torino, Giappichelli, 2005 e P. Chiassoni, Lacune nel diritto. Progetto di voce per un vademecum giuridico in Materiali per una storia della cultura giuridica, XXVII, n.2/1997, pp. 321-363.Inoltre, come fa notare L. Lombardi Vallauri in Corso di filosofia del diritto, CEDAM, Padova, 1981, p. 45, la conseguenza dell’impostazione di A.G. Conte è di prevedere una norma generale di libertà applicando la tecnica dell’argomento a contrario in forza della quale, se il giudice verifica che un certo comportamento non è qualificato deonticamente da nessuna norma, allora dovrà rigettare la domanda dell’attore. Il tema verrà meglio approfondito nelle pagine successive.
[13]Le visioni ermeneutiche del diritto muovono tutte dall’idea per cui il diritto sia una pratica sociale e che, in quanto tale, può essere compresa mediante la partecipazione ad essa. Viceversa, le correnti analitiche, influenzate da un approccio fortemente influenzato dal neopositivismo logico viennese, ritengono che il diritto sia un oggetto isolabile e descrivibile. Questa differenza strutturale tra le due scuole può essere letta mediante il pensiero di Ronald Dworkin, il quale separa le teorie semantiche dalle teorie interpretative. Cfr. R. Dworking, Justice in robes, Harvard University press, Cambridge, 2008.
[14]Tale concezione di logica giuridica è fatta propria da L. Lombardi Vallauri, op. ult. cit., p. 94.
[15]Si veda a tal proposito la nota 12.
[16]Cfr. A. G. Conte, Saggio sulla completezza degli ordinamenti giuridici, cit.
[17]Una simile teorizzazione è quella dello spazio giuridico vuoto proposta da S. Romano, L’Ordinamento giuridico, Quodlibet, Macerata, 2018 ed anche K. Bergbohm, Jurisprudenz und Rechtsphilosophie; kritische Abhandlungen, Duncker & Humblot, Leipzig, 1892, dove si parla di Rechtslleerer raum.
[18]L. Lombardi Vallauri, op. ult. cit., p. 45.
[19]Ibid., p. 47.
[20]Tale idea sarà oggetto di un parziale ripensamento nel corso dell’elaborato e, proprio a partire da ciò, si cercherà di offrire una rilettura della questione relativa alla chiusura dell’ordinamento.
[21] L’intuizione è di G. Gény, La notion du droit positif à la veille du XX siècle, in «Revue international de l’enseignement», 1901, pp. 15-33. La politicità di tale scelta è ancora di più visibile nel caso in cui quel determinato comportamento che si considera permesso entri in conflitto o leda altri beni giuridici; in tal caso, adottando la prospettiva della norma generale di permissione, si finirebbe per selezionare alcuni beni giuridici come meritevoli di tutela al posto di altri. Anche R. Guastini afferma che tale norma non sia una verità necessaria di ogni possibile ordinamento ma che, al contrario, sia propria solo degli ordinamenti politici liberali. Si segnala anche un ulteriore corollario derivante dall’adozione di una tale prospettiva, relativo alla teoria delle fonti, se si ammette vera l’idea della norma generale esclusiva si deve, conseguentemente, ammettere che tutte le condotte che una certa fonte non considera espressamente vietate sono implicitamente considerate come permesse con la conseguenza che una norma appartenente ad una fonte di grado inferiore non possa legittimamente qualificarle come invalide. Cfr. D. Donati, Il problema delle lacune dell’ordinamento giuridico, Milano, S.E.L., 1910.
[22]Si segnalano anche J. Ruiz Manero, Algunas concepciones del derecho y sus lagunas, in F. Atria, E. Bulygin, J.J. Moreso, P.E. Navarro, J.L. Rodríguez, J.R. Manero, Lagunas en el derecho. Una controversia sobre el derecho y la función judicial, Madrid, Barcelona, Marcial Pons, 2005, pp. 103-126 e J.C. Bayón, Sobre el principio de prohibición y las condiciones de verdad de las proposiciones normativas, in E. Bulygin, M. Atienza, J.C. Bayón, Problemas lógicos en la teoría y práctica del derecho, Madrid, Fundación Coloquio Jurídico Europeo, 2009, pp. 27-74. Manero e Bayon ritengono che l’ordinamento sia completo in quanto dotato di una norma di secondo grado che obbliga i giudici a rigettare qualunque domanda con la quale l’attore chieda che il convenuto compia (oppure ometta) una condotta non qualificata dal sistema. Si veda come, seppur con qualche differenza nell’impostazione, l’esito sia comunque quello di prevedere una norma generale permissiva, la cui esistenza, a detta degli autori, deriva da motivi culturali (e quindi contingenti) comuni a tutti gli ordinamenti.
[23]L’espressione è di L. Lombardi Vallauri, op. ult. cit., p. 39.
[24] Che la buona fede rappresenti una lacuna nello spirito della legge è un’idea sostenuta da L. Lombardi Vallauri, ult. op. cit., p. 35. Lo spirito della legge è un concetto che rimanda alla teoria ermeneutica oggettiva, secondo cui vi è un ordine immanente di principi intesi come massime valutative che rivelano l’essenza profonda del diritto. Per ulteriori approfondimenti circa questo punto, che verrà meglio approfondito successivamente, si rimanda a F. Modugno, Sistema giuridico, in Sistema e problema, cit., p. 12.
[25]L’espressione è di P. Heck, Begriffsbildung und Interessenjurisprudenz, J. C. B. Mohr, Paul Siebeck, Tubinga, 1932, p.1.
[26]Il concetto di legal-logicismo deve essere inteso nel senso adottato da L. Lombardi Vallauri, op. ult. cit., p. 51 dove l’autore, in un passaggio già citato in precedenza, afferma: “Qual è la tesi del logicismo giuridico? Esso non contesta che la legge abbia delle lacune (perché è incontestabile), però sostiene che è possibile trarre dalla legge nuovo diritto – in pratica tutto il diritto necessario – mediante operazioni puramente logiche paragonabili alle trasformazioni della matematica. Come è chiaro, il logicismo non è un lusso che il legalismo possa offrirsi: il legalismo sta e cade con il logicismo. Se non esistono delle operazioni logiche che permettono di trasformare la legge pur mantenendo l’identità sostanziale dei suoi contenuti, la legge è così evidentemente incompleta da essere praticamente inapplicabile. Quindi il metodo classico è un legal-logicismo, inscindibilmente.”
[27]Ciò consente di osservare la differenza tra clausole generali e norme (e principi generali). La norma generale si costruisce con il riferimento ad una generalità di casi (una classe, appunto) che vengono espressi mediante una categoria riassuntiva. Pertanto, le norme generali, differentemente dalle clausole generali, hanno una propria fattispecie ma, a causa della riassuntività con cui è formulata quest’ultima, attribuiscono al giudice un margine interpretativo che è maggiore rispetto a quello di cui egli dispone quando è chiamato ad interpretare una norma non generale. Cfr. L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Scritti, I, cit., p. 169 e L. Lombardi Vallauri, Norme vaghe e teoria generale del diritto in JUS n. 1/1999., p. 26 e V. Velluzzi, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Giuffrè, Milano, 2010.
[28] Il concetto di significante è da intendersi nell’accezione offerta da M. Orlandi, Introduzione alla logica giuridica, Il Mulino, Bologna, 2020, p. 55, secondo cui il significante corrisponde alla fonte materiale “ossia dei modi percettivi da cui ricavare significati giuridicamente rilevanti”. L’idea che si avrà modo di specificare nel corso dell’elaborato è che l’interprete utilizzi gli standards comportamentali che vengono a costituirsi nella società come dati percettivi (utilizzando sempre il lessico di M. Orlandi, op. ult. cit., p. 55, nota 115) che riempiano di significato il sintagma buona fede.
[29]Quest’ultimo concetto va inteso in riferimento all’antagonismo che intercorre tra la dimensione formalistica del diritto, che ne garantisce la sistematicità ma che, al contempo, lo rilega alla staticità, e la dimensione vitalistica-sostanziale (l’emergere di nuovi bisogni materiali, nuove istanze sociali, etc). Tale polarità viene ben esplicata, relativamente alle dinamiche della Germania degli anni Venti e Trenta, da G. Bombelli in Vita, forma de-formata e diritto. A partire da Grosz, in La vita nelle forme. Il diritto e le altre arti, Atti del VI Convegno Nazionale ISLL, Urbino 3-4 luglio 2014, a cura di L. Alfieri, M. P. Mittica, pp. 227-238, reperibile online.
[30]Tale suggestione è di L. Nivarra, Introduzione a J. W. Hedemann, La fuga nelle clausole generali. Una minaccia per il diritto e per lo Stato Pacini Giuridica, Pisa, 2022.
[31]Cfr. J.W. Hedemann, op. ult. cit., p. 81 ss., per una disamina analitica dei settori dell’ordinamento nel quale le clausole generali si insediarono.
[32] Questa linea politica differisce da quella che intrapresero altri Stati europei come la Francia che, per finanziare le spese belliche, decise di aumentare la tassazione.
[33] Per una più completa trattazione sui principi che ispirarono il BGB si veda K. Zweigert, H. Kotz, Introduzione al diritto comparato, Giuffrè Editore, Milano, 2011, p. 170 ss.
[34]Ibid.,p. 177.
[35] Cfr. C. Castronovo, L’avventura delle clausole generali, in Rivista critica di Diritto Privato, Milano 1986, p. 29.
[36]Con ciò non si vuole risolvere il significato della buona fede nella solidarietà, bensì, invece, preme affermare come l’utilizzo della buona fede nel diritto sia ispirato da esigenze di solidarietà. Per uno studio su tale concetto si rimanda a F. Di Giorgi, Solidarietà. Una parola essenziale del nostro tempo, in Historia Magistra. Rivista di storia critica, 2015, n. 19, p. 35 ss., nonché a La solidarietà, (a cura di M. Napoli), Vita & Pensiero, Milano, 2009.
[37]Come riferito poc’anzi, tale punto sarà oggetto di dimostrazione nel corso dell’elaborato.
[38] La pandettistica si pose l’obiettivo di garantire un sistema giuridico logicamente impeccabile e privo di antinomie, mediante una deduzione (suppostamente) logica delle regole giuridiche dai principi generali del diritto romano. E’ chiaro come la buona fede, vista la sua ritrosia nei confronti di qualsiasi tentativo di sistematizzarla, mal si ponga nei confronti di un tale obbiettivo. Ciò non toglie, che una delle principali critiche che fu mossa alla Pandettistica fu quella di prediligere la perfezione teorica all’aderenza alla realtà, per usare le parole di Francesco Viola, tale scuola di pensiero si caratterizzava per una vera e propria “tendenza dogmatizzante”. Si ricordino, a proposito, le parole di P. Koschaker: “Questa è l’epoca in cui il professore tedesco teorico e un poco lontano dalla realtà, con una forte dose di dottrinarismo e con tutte le sue caratteristiche negative e positive è entrato a far parte delle facoltà di diritto tedesche”. Cfr. K. Zweigert, op. ult. cit., p. 169. In proposito, si dirà come figure giuridiche come la buona fede garantiscano invece questa aderenza con la realtà.
[39]Si rivolge al lettore l’invito ad accettare, almeno in queste prime pagine, il tono assertivo col quale si afferma che la buona fede faccia riferimento ad istanze metagiuridiche. Il tentativo di dimostrare tale punto sarà oggetto delle pagine successive.
[40] F. Gorphe, Le principe de la bonne foi, Libraire Dalloz, Parigi, 1928. Il clima culturale nel quale scrisse Gorphe era ancora condizionato dagli insegnamenti della Scuola dell’Esegesi, formatasi sotto l’egida dell’idea della completezza e della perfezione del codice napoleonico. Tale scuola, che si opponeva fortemente alla contemporanea scuola storica tedesca, si limitò ad effettuare un’esegesi logica e grammaticale del testo legislativo, senza considerare la giurisprudenza. Nonostante un successivo ammorbidimento della tradizione esegetica, tuttora la dottrina francese non ha ancora sviluppato quella creatività dogmatica che caratterizza invece la tradizione tedesca ed italiana; si pensi, ad esempio, alla scarsa sistematizzazione degli obblighi di protezione (obbligation de sécurité). Se la questione del loro fondamento in Italia è stata pacificamente risolta mediante il principio di buona fede e quello di correttezza nei rapporti giuridici, i quali vengono richiamati da precise norme, in Francia ci si è limitati invece a giustificarne l’esistenza sulla base di ragioni di ordine equitativo. Sul punto si veda la critica di F. Benatti in Osservazioni in tema di <
[41]Come si dirà, la buona fede si caratterizza per un rimando alla dimensione extra normativa e valoriale costituita da standards comportamentali formatisi all’interno della società.
[42]Le parole sono di J.W.Hedemann, op. ult. cit., p. 68.
[43]Si veda L. Mengoni, Diritto e politica nella dottrina giuridica in Scritti, I, Metodo e teoria giuridica, a cura di C. Castronovo - A. Nicolussi - A. Albanese, Giuffrè, Milano, 1995, p. 151 dove l’autore fa notare come il rifiuto per l’argomentazione valoriale dei giuristi dell’epoca fosse dovuto al clima politico-economico fortemente liberista, in forza del quale il diritto doveva occuparsi solo di garantire ai partecipanti al tessuto sociale un’eguale misura di libertà formale.
[44]J. W.Hedemann, op. ult. cit, p. 168.
[45] Sul punto si segnala un’amplissima letteratura, della quale meritano sicuramente menzione i lavori di R. Guastini in La sintassi del diritto, Giappichelli, Torino, 2014, p. 442. La matrice teorica di tale riduzionismo legalista è sicuramente illuminista. Un’importante sistemazione del concetto di “bouche de la loi” è offerta da Montesquieu nell’opera De l’Esprit des lois (trad. a cura di S. Cotta), UTET Giuridica, Torino, 2005, p. 404 dove si arriva a definire i giudici come essere “inanimati”. Uno dei principali critici verso questa impostazione è sicuramente V. Frosini, La lettera e lo spirito della legge, Milano, Giuffrè, 1998, p. 174. il quale critica le suddette impostazioni per aver privato la legge della sua scintilla umana. Sempre Frosini, op. ult. cit., p. 11 afferma che la legge è anche uno strumento di conoscenza della realtà fattuale, la quale viene interpretata mediante gli strumenti giuridici. La critica è rivolta alle filosofie di matrice analitiche che ripudiavano lo spiritualismo, tipico dell’idealismo tedesco, in filosofia. Si veda sul punto R. Ryle, Lo spirito come comportamento, Einaudi, Torino, 1955. P. 10 ss. il quale provocatoriamente parlava di un “fantasma”, più che di uno spirito, nella filosofia.
[46] Questi tre vincoli sono in parte mutuati da L. Mengoni in Scritti, cit., p. 192, l’autore offre una prospettiva parzialmente differente poiché colloca al fianco del vincolo testuale e di quello dogmatico i precedenti giudiziari, ma elevare allo status di vincolo per l’interprete i precedenti sembra essere eccessivo a chi scrive, quanto in una prospettiva teorico-generale.
[47]L’importanza del testo come vincolo per l’interprete deriva sicuramente dall’illuminismo giuridico, sul punto M.A. Cattaneo, Illuminismo e legislazione, Edizioni di Comunità, Milano, 1966, p. 16. Sul legame tra positivismo e illuminismo si rimanda U. Scarpelli, Cos’è il positivismo giuridico, Edizioni di Comunità, Milano, 1965, p. 139.
[48]Anche G. Capograssi, Il problema della scienza del diritto, Giuffrè, Milano 1963, p. 113 ritiene che la dogmatica sia un vincolo per l’interprete quando afferma: “il suo lavoro (dell’interprete n.d.r.) è riportare la norma nella totalità delle norme”.
[49]C. Luzzati, La vaghezza delle norme. Un'analisi del linguaggio giuridico, Giuffrè, Milano, 1990, p. 221.
[50]N. Irti, Testo e contesto. Una lettura dell’art. 1362 Codice civile, CEDAM, Padova, 1996, p. 4.
[51]C. Luzzati, op. ult. cit., p. 212.
[52]Tale accezione di interpretazione letterale è accolta sempre da C. Luzzati, op. ult. cit., p. 227 ss. L’autore differenzia sette tipi di interpretazione letterale.
[53] Ciò non significa che il giurista debba agire come un filologo, bensì, che egli non possa non curarsi della scelta del legislatore di utilizzare una parola piuttosto che un’altra: se non ci si cura della scelta delle parole ed al contrario si agisce come se “una parola vale come un’altra” si rischia di superare il primo limite posto all’interprete: il testo di legge. Si pensi alla, seppur sottile, differenza di significato che intercorre tra la buona fede e la correttezza; quest’ultima viene infatti inserita per la prima volta nel Codice civile del 1942 all’art. 1175, senza che abbia un antecedente storico nel codice del 1865. La scelta di utilizzare il termine correttezza piuttosto che buona fede non è casuale ma è il risultato di una precisa scelta del legislatore: egli necessitava di un termine autentico per filtrare all’interno del rapporto obbligatorio i principi corporativi fascisti e tale obbiettivo, non era certamente raggiungibile con il riferimento alla buona fede, la quale preesiste all’ordinamento corporativo e rimanda ad un diverso orizzonte di significato. Circa la relazione tra correttezza e principi corporativi, essa è espressamente prevista al punto 558 della Relazione al Codice civile disponibile su Consiglionazionaleforense.it. D’altronde, anche dalla norma stessa, nella prima versione poi abrogata, legava la correttezza ai principi corporativi. Ciò testimonia il fatto che il legislatore ben sapeva che la buona fede fosse erede di una tradizione troppo ingombrante per essere utilizzata a tal fine. Sul punto si veda F. Ferri, Diritto degli utili e diritto al dividendo, in Rivista di diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, I, Piccin Nuova Libraria, Padova 1963, p. 412 ed in senso contrario a quanto detto S. Rodotà, Le fonti d’Integrazione del contratto, Giuffrè Editore, Milano 2004., p. 126. Certamente, con l’abrogazione dell’ordinamento corporativo la norma ha perso la sua matrice originaria e tuttora la dottrina considera la correttezza come espressione del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. Si veda invece a conferma di quanto detto sopra, i Principi di Diritto Europeo in materia di contratti (PDEC) stilati dalla Commissione Lando dove all’art. 1.201 si dice espressamente “Le parti devono agire nel rispetto della buona fede e della correttezza” utilizzando i due vocaboli uno a fianco dell’altro come a testimoniare il fatto che essi non siano interscambiabili.
[54] Anche R. Fiori, Modelli teorici e metodologici nello studio del diritto privato, 3, Jovene Editore, Napoli, 2008, p. 238 afferma che nello studio degli istituti di diritto classico come la bona fides non si possa prescindere dall’analisi di quelle che sono le sue origini.
[55] L. Barassi, La teoria generale dell’obbligazione, I, La struttura, Giuffrè Editore, Milano 1948, p. 25
[56] Cfr. A. G. Conte, Radici della fede: fides wiara truth, in Filosofia del linguaggio normativo, Giuffrè, Milano, p. 847 ss. dove l’autore giunge alla radice indoeuropea “*bheidh” del termine “fede” dalla quale deriva il verbo greco “pisteuo” che significa credere. Tale verbo si ritrova in una delle prime manifestazioni di fede della storia, come riportato anche da Henrich Denzinger nel suo Enchiriodon symbolorum, la stessa radice ha dato vita, nelle lingue germaniche, ad altri termini sempre relativi al fenomeno religioso come “bitte” che significa preghiera, orazione. R. Fiori, invece, in Modelli storici e metodologici nella storia del diritto privato, cit., p. 240, accosta a bheidh anche kred-dhe. A detta dell’autore, fides sarebbe il sostantivo equivalente del verbo credo. La forte accezione etico-religiosa del termine pare confermarsi anche nel mondo romano dove la bona fides è da intendersi come l’habitus del bonus vir caratterizzato dalla correttezza e dalla onorabilità secondo la morale di un certo ambiente ed in un certo periodo storico, cfr. A. Nicolussi, Le Obbligazioni, CEDAM, Padova 2021, p 1. Sempre A. Nicolussi, op. ult. cit., offre un ulteriore rilievo che conferma la prassi dell’epoca di integrare il diritto civile con istanze etico-morali: in diritto romano si usava dire fidem praestare per riferirsi all’obbligo di eseguire la prestazione.Una prospettiva parzialmente diversa è quella sempre di L. Lombardi Vallauri in Dalla fides alla bona fides, p. 179 ss., dove l’autore distingue il termine fides, a cui ricollega il senso religioso, dal termine bona fides, affermando che i due concetti hanno una diversa origine. Lombardi Vallauri parte, infatti, dal presupposto che la bona fides a differenza della fides non esiste nella letteratura, al contrario, “essa nasce subito come un concetto giuridico” essendo nient’altro che una creazione processuale. L’autore afferma inoltre che la scelta di non utilizzare il concetto di fides quanto invece di b.f. sia da imputare al fatto che i romani preferirono un concetto nuovo e che non fosse ereditario delle dispute linguistiche e filosofiche che invece aleggiavano sulla fides; un concetto, per dirlo con le parole dell’autore, che fosse “superindividuale”. Tuttavia, lo stesso autore, a pag. 180, si rende conto che anche la b.f. sia un concetto “morale pur esso nell’essenza”.Si veda anche J. Paricio, Genesi e natura dei “bonae fidei iudicia”, in Collana della Rivista di diritto romano – Atti del convegno “Processo civile e processo penale nell’esperienza giuridica del mondo antico”, p. 210 dove si afferma che la bona fides si basi sulla fides.
[57] A. Nicolussi, op. ult. cit., p. 44.
[58]Il ruolo della fiducia negli scambi economici è oggigiorno pacifico nonché oggetto di molti filoni di studi, tra cui l’Istitutional economy e l’economia comportamentale.
[59] L’importanza della fides è confermata da Cicerone nel De officis, Libro III, capoverso 104 dove l’autore la ricollega al giuramento. Il mancato rispetto di quanto giurato è grave, a detta dell’autore, non tanto perché con ciò si rischia di provocare la rabbia degli Dei, d’altronde il giuramento è un affirmatio religiosa, quanto piuttosto perché “chi viola il giuramento, viola la fides”. Queste parole sottolineano quanto la fides fosse un perno delle relazioni sociali tanto addirittura da essere posta un gradino sopra al Timor Dei. Successivamente, nel capoverso 106 Cicerone afferma che la fides è dovuta anche nei confronti dei nemici. Ciò testimonia, ulteriormente, l’universalità di tale concetto. Si noti che sarebbe scorretto affermare che per Cicerone la fides corrisponda all’idea della vincolatività del giuramento che si presta. L’autore, infatti, se da un lato accosta la fides al giuramento, d’altra parte vi attribuisce natura religiosa; pertanto, a venir sottolineato non è tanto l’aspetto di vincolatività ma quello relativo all’affidabilità.
[60] Si può concludere che nel mondo romano la religione faccia un forte richiamo alle norme sociali in quante considerate depositarie un profondo sapere.
[61] Illuminante, sul punto, la riflessione di R. Fiori,op. ult. cit., p. 250. L’autore fa notare come vi sia stato, a partire dal cristianesimo, un’inversione nell’uso del termine fides. Nell’Antica Roma, la fides era una prerogativa del divino, in quanto si intendeva questo come “degno di essere creduto”; con il cristianesimo, invece, non è al Dio che viene accostata la fides bensì all’uomo poiché è costui a compiere l’atto di fede. Da ciò si spiega poiché nel diritto romano la buona fede non sia richiesta a colui che subisce l’azione (ovvero avere buona fede circa il modus operandi della controparte, come il senso cristiano della fides suggerirebbe) bensì l’ordinamento richiede al soggetto agente che questo agisca in buona fede. Si noti come una tale ricostruzione abbia anche il pregio di separare concettualmente il concetto di buona fede da altri concetti come la solidarietà.
[62] Si veda F. Sini, Dai documenti dei sacerdoti romani: dinamiche dell’universalismo nella religione e nel diritto pubblico di Roma antica in Diritto @ Storia. Rivista Internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, n. 2/2003; D. Felice, Montesquieu, Dissertazione sulla politica dei Romani nella religione in Biblioteca elettronica su Montesquieu e dintorni, N. 2/2010, pp. 1-13; M. Mortarino - M. Reali - G. Turazza, Meta viarum, Loescher Editore, Torino, 2015.
[63] F. Sini, Diritto e pax deorum in Roma antica, in Diritto @ Storia. Rivista Internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, n.52006, dove l’autore parla dell’ispirazione religiosa del concetto di pace; I. Lana, La concezione della pace a Roma, Giappichelli, Torino, 1987.
[64]Quindi, si nota una differenza tra significato attuale della buona fede (il quale rimanda, sempre, alla sfera religiosa romana) ed il fondamento attuale della buona fede (che, invece, non può più risiedere nella religione romana). Ciò detto, si può proporre un parallelismo tra l’uomo in buona fede e l’uomo ragionevole, nell’accezione intesa da John Rawls. L’autore americano, difatti, utilizza come categoria organizzativa della vita politica il concetto di public reason; questo concetto, per usare le parole di Silvia Zorzetto, richiama le ragioni che giustificano lo stare in società (le norme sociali, nel caso della buona fede) ed inoltre richiede che i soggetti si impegnino in un’equa cooperazione, in quanto membri uguali di una società. Cfr. S. Zorzetto, La ragionevolezza dei privati. Saggio di metagiurisprudenza esplicativa. FrancoAngeli, Milano, 2008, p. 169; J. Rawls, Liberalismo politico (trad. it. di Gianni Rigamonti), Comunità, Milano, 1999; F. Viola, Ragionevolezza, cooperazione e regola d’oro, reperibile al link: https://sites.unipa.it/viola/Ragionevolezza_e_cooperazione.pdf.
[65] In senso contrario si veda S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, cit.,p. 131 il quale, relativamente alla correttezza ritiene che per non cadere in particolari soggettivismi sia necessario che la ricerca del significato di tale formula si debba svolgere “nell’ambito segnato dalle norme positive”. Si può concludere che tali affermazioni in merito alla correttezza siano da estendere, nel pensiero dell’autore, anche alla buona fede dal momento che egli a pag. 141 op. ult. cit. afferma che correttezza e buona fede hanno lo stesso significato.
[66]Si veda sul punto anche F. Ramacci, Introduzione all'analisi del linguaggio legislativo penale, Giuffrè, Milano, 1970, p. 171 dove si afferma: “Il riferimento al mondo extragiuridico è ciò che in ogni caso rende significativo e comprensibile il messaggio”
[67] S. Rodotà, op. ult. cit., p. 190, ritiene invece che il tentativo di piegare la buona fede alle logiche del sistema rischi di farle perdere la sua reale caratura, negandola. In proposito, invece, si veda C. Castronovo, Problema e sistema nel danno da prodotti, cit., p. 97 nota 43 il quale critica una tale veduta poiché finirebbe col condannare le clausole generali “a vuoti suoni senza senso nel firmamento delle norme.”
[68] Si vedano, a proposito di ciò, gli studi sulla modalità di conoscenza condotti da Dilthey il quale distingue tra scienze naturali che utilizzano strumenti come l’analisi empirica e le scienze dello spirito, come la legge ed il diritto, dove lo studioso non deve capire ma intendere (Verstehem) ovvero aprirsi e cogliere le strutture sociali ed i valori storico-culturali che vi sottostanno. Tale considerazione è particolarmente valida quando si deve interpretare la buona fede. Cfr. W. Dilthey, Il pensiero, le sue leggi e le sue forme. Il loro rapporto con la realtà effettuale, in Scritti inediti (1880-1893), a cura di G. Ciriello, Federico II University press, Napoli, 2017, p. 373 ss.
[69] A. Nicolussi, Limiti del ‘’Pacta servanda sunt’’, buona fede <
[70] Sul punto, L. Mengoni, Scritti, I, cit., p. 175.
[71]Per un approfondimento circa questo modo di concepire l’ordinamento giuridico si rimanda a R. Guastini, Filosofia del diritto positivo, cit., p. 95
[72]La conseguenza di questa prospettiva fortemente legalista, è quella di negare logicamente le lacune, poiché l’ordinamento giuridico è necessariamente completo. Cfr. L. Lombardi Vallauri, op. ult. cit., p. 44.
[73]Cfr. R. Guastini, Filosofia del diritto positivo. Lezioni, cit., p. 95.
[74] Sulla funzione esplicativa dei concetti giuridici e, quindi, anche relativamente al concetto di ordinamento, si segnala una lunga tradizione che va da Leibniz, come riportato anche da C. M. De Iuliis, Leibniz e la scienza giuridica tra topica e dogmatica, in Europa e diritto privato, n. 3/2010, p. 723, proseguendo fino a L. Mengoni, Dogmatica giuridica, in Sistema e problema cit., p. 102 dove l’autore parla di funzione espositiva-didattica; P. Laband, Das Staatsrecht des Deutschen Reiches, Freiburg i.B., Leipzig, Mohr, 1985, Prefazione, p. IX, C. Stark, Empirie in der Rechtsdogmatik in Juristenzeitung, n. XXVII/1972, pp. 609-614; anche N. Luhmann, Sistema giuridico e dogmatica giuridica, il Mulino, Bologna, 1978, p. 43 ammette che le varie concettualizzazioni utilizzate in ambito giuridico siano funzionali all’applicazione del diritto.
[75]Il problema della autoreferenzialità della forma è non è esclusivo della clausola di buona fede ovviamente ma estendibile al tema delle clausole generali, si veda sul punto M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale, Giappichelli, Torino, 2006, cap. I,
[76]Ilriferimento al concetto di metanorme è tratto da R. Guastini, op. ult. cit., p. 45.
[77]C. Punzi,La ribellione come atto creativo. il potere del diritto e delle strutture nella teoria dei sistemi di Niklas Luhmann in Nómadas. Critical Journal of Social and Juridical Sciences, vol. 32, n. 4/2011, p. 11; N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Il Mulino, Bologna 1990, p. 632; A. Maceratini, Il rischio di affidarsi. Rischio, fiducia e sistema giuridico nella società complessa di Niklas Luhmann, in TIGOR, rivista di scienze della comunicazione e di argomentazione giuridica - A. XII (2020) n. 1.
[78]E’ doveroso specificare che vi sono necessariamente delle differenze sostanziali tra il concetto di sistema proprio della riflessione di Luhmann e quello derivante dalla scuola delle Pandette e poi continuato dal filone positivista. Nella prima accezione, difatti, “sistema” viene inteso in un senso spiccatamente sociologico. Ciò non toglie che in entrambe le accezioni l’idea di sistema si riferisce all’opera di elaborazione concettuale del diritto, funzionale all’autonomizzazione del diritto come sapere autonomo. Cfr.N. Luhmann, Sistema giuridico e dogmatica giuridica, il Mulino, Bologna, 1978, p. 57.
[79]Il discorso non è da riferire alla sola buona fede ma va allargato a tutte le norme e principi che siano formulati mediante sintagmi valutativi.
[80]Da intendersi nel senso esplicitato, ad esempio, nella nota 2.
[81] Il riferimento è al principio di non liquet. Si veda a proposito L. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, cit., p. 40.
[82]Come già riferito alla nota 99, una parte del filone legalista riteneva che le lacune addirittura non fossero pensabili, poiché la legge è, per motivi logici, necessariamente completa. In proposito vale quanto detto circa la mancanza di valore esplicativo di tale concezione.
[83]A. G. Conte, Saggio sulla completezza degli ordinamenti giuridici, cit., p. 53. Si noti come differentemente dalla lacuna, nel caso di un’antinomia (in senso tecnico), il fatto che una determinata condotta sia, allo stesso tempo, permessa e non permessa, è dovuto al fatto che vi sono due norme incompatibili tra loro che hanno ad oggetto la medesima condotta. Viceversa, L. Lombardi Vallauri, op. ult. cit., considera le antinomie al pari delle lacune.
[84]D’altronde, il sistema, mediante l’organizzazione dei divieti di negazione (ovvero i dogmi giuridici, concetti che costituiscono i punti di partenza sui quali il sistema stesso si basa), consente di definire le condizioni di ciò che è giuridicamente possibile ed è chiaro come, rispetto a tale funzione, ammettere l’esistenza delle lacune rappresenta un vero e proprio problema; poiché il giurista, nel caso della lacune, non riesce ad utilizzare la dogmatica giuridica (e quindi la logica giuridica) per definire l’ambito della possibili soluzioni giuridiche. Cfr.N. Luhmann, Sistema giuridico e dogmatica giuridica, cit., p. 57. Per la questione relativa all’uso della logica per colmare le lacune si rimanda a L. Lombardi Vallauri, op ult. cit., p. 51 ss.
[85]Gli altri espedienti, accumunati sotto al nome “norme di chiusura” sono stati descritte nelle prime pagine.
[86] L. Lombardi Vallauri, op. ult. cit., p. 32 parla di lacune “statiche”.
[87]L’idea che la buona fede riveli una lacuna nella legge come spirito è sempre di L. Lombardi Vallauri. Oltre che quanto già riferito in proposito al concetto di spirito della legge, per meglio comprenderne il significato, si può utilizzare il concetto di Morality of law di Lon Fuller. Quest’ultimo teorizzò una moralità prettamente giuridica di tipo procedurale sintetizzabile in 8 principles. A detta dell’autore americano, senza il rispetto di questi otto principles si negherebbe alla radice la possibilità di considerare un certo diritto come tale. L’idea di Lon Fuller si colloca nel più ampio dibattito sul Rule of law ovvero la ricerca di caratteristiche intragiuridiche imprescindibili affinché un certo diritto sia funzionante. La rule of law, utilizzando le parole di I. Trujillo in Linguaggio in Dimensioni del diritto, cit., p. 281 nota 17, rappresenterebbe, appunto, una morale interna del diritto; L. Fuller, La moralità del diritto, Giuffrè, Milano, 1986.
[88] Ibid., p. 39 l’autore coglie con una frase molto efficiente l’impossibilità del legalismo di ricomprendere e risolvere la totalità dei casi: “Il legalismo sarebbe altrettanto assurdo quanto l’impresa di fare una carta geografica grande come il territorio da descrivere”.
[89]Riprendendo il caso della disputa delle valutazioni, il legislatore tedesco avrebbe potuto, mediante una legge, disporre che il valore delle prestazioni contrattuali andasse rivalutato secondo un certo calcolo.
[90]L’espressione è di L. Lombardi Vallauri, ult. op. cit., p. 39.
[91] L. Mengoni, Scritti, cit., p. 149
[92] Ibid., p. 153.
[93] Ibid., p. 159.
[94] Sempre L. Mengoni, op. ult. cit., p. 158 il quale nega la possibilità che esista un codice capace di auto integrarsi mediante puri processi logici. L’autore inoltre afferma che al legislatore spetta solo la prerogativa a produrre il diritto (la legge) ma che pure il giudice concorra nella produzione: di questa linea di pensiero la buona fede ne è un ottimo esempio. Inoltre, l’idea della completezza come obiettivo pone il concetto di ordinamento in una dimensione diacronica che può leggersi mediante la raffigurazione del diritto come esperienza da fare. Si consideri quanto detto da Viola: “L’abbandono di una concezione statica dell’ordinamento giuridico a favore di una concezione dinamica, per cui l’ordinamento è inteso (..) come l’ordinarsi di volta in volta del diritto in riferimento ai casi concreti, richiederà d’individuare tutto il materiale giuridico che serve per regolare una situazione o un rapporto e ritrovare il suo principio di unità, che non potrà sempre essere fondato sulla sovranità dello Stato (e di conseguenza sul diritto statuito) (…). Questa configurazione dell’ordinamento sarà, dunque, un’opera congiunta, o una cooperazione diacronica, dei legislatori, dei giudici e dei giuristi, mentre quella del passato era dominata dal ruolo prioritario del legislatore.” F. Viola, Prospettive della teoria del diritto, in Teoria e prassi dell’esperienza giuridica. In ricordo di Francesco Gentile, a cura di A. Scerbo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2021, p. 32, corsivo aggiunto.
[95]Anche F. Modugno, Sistema giuridico, cit., p. 25, arriva ad affermare che tali valutazioni extralegislative fanno sì che il sistema non esaurisca l’ordinamento. Il concetto di sistema giuridico è da intendersi nell’accezione proposta nel corso dell’elaborato: ovvero come insieme di concetti ricavati dalle norme e legati logicamente tra di loro. Si veda per una ricostruzione storico-concettuale, oltre che le varie letture già segnalate nel corso della trattazione, anche G. Bombelli, Diritto, linguaggio e "sistema": a proposito di Hobbes e Leibniz in Diritto e linguaggio. Il prestito semantico tra le lingue naturali e i diritti vigenti in una prospettiva filosofico e informatico-giuridica, a cura di P. Perri e S. Zorzetto, Edizioni ETS, Pisa, 2016, pp. 47-68.
[96] La distinzione della coerenza dalla coesione è di R. Guastini, Filosofia del diritto positivo, cit., p. 102.
[97] A tal proposito, occorre specificare che, quando ci si riferisce a contraddizioni interne, non si intende applicare al diritto il principio di non contraddizione per cui “la norma x e la norma y non possono dirsi appartenenti al medesimo ordinamento poiché l’esistenza di x nega logicamente la possibilità che esista y”. Ciò, come già detto, non può essere applicato al diritto perché, soprattutto quando si parla di buona fede, la categoria di riferimento non è quella del vero o falso o quanto piuttosto del verosimile.
[98]Per la bibliografia riguardante tale concezione, si rimanda ai vari riferimenti presenti nell’elaborato.
[99]L. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, cit., p. 50.
[100]J. Rawls, Liberalismo politico, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2007, p. 146. Il tema della ragionevolezza ha trovato un maggior riscontro nel dibattito giuridico-politico contemporaneo, nel quale tale categoria viene considerata l’unica capace di dominare il pluralismo valoriale imperante. Sul punto si segnala una vastissima letteratura, di cui, ex multis, merita menzione l’opera di F. Viola, Ragionevolezza, cooperazione e regola d’oro, in "Ars Interpretandi", n. 7/2002, pp.109-129. Si consideri tale opera anche per ulteriori riferimenti bibliografici.
[101]L’idea che il bilanciamento sia una tecnica idonea per ottenere un enunciato ragionevole deriva dal fatto che se è vero che la ragionevolezza ha fondamento nei principi, anche contrastanti, che formano il substrato sociale, allora necessariamente nel momento in cui si decide di affermare un certo principio bisognerà cercare di sacrificare il principio di segno opposto nella minore misure possibile, poiché diversamente si rischia di tradire l’idea, posta a fondamento del concetto di ragionevolezza, secondo cui questa riesca a dare voce (il più possibile) anche a principi di segno diverso, in quanto costitutivi di un certo nucleo sociale. Cfr. J. Rawls, The idea of public reason revisited, in Collected papers, Harvard UP, Cambridge, 1999, pp. 373-615.
[102]Certamente, il bilanciamento opera in maniera diversa tra principi e clausole generali poiché queste due categorie si caratterizzano per una differenza strutturale di cui si è già detto nel corso dell’elaborato. Per quanto concerne i principi, la ragionevolezza aiuta a definire la casista esplicata in maniera del tutto riassuntiva dalla disposizione, per quanto riguarda le clausole generali, invece, la ragionevolezza aiuta l’interprete nell’operare l’integrazione valutativa del dettato normativo. Su tale argomento, si segnala S. Patti, Ragionevolezza e clausole generali, Giuffrè, Milano, 2016.
[103]Sul punto L. Mengoni, Diritto e tempo, JUS, n. 3/1988, pp. 634-645; E. Opocher, Diritto e tempo, in Riv. int. fil. dir., n. 1/1981, p. 130.
[104]Sul rapporto tra contingenza storico-fattuale e diritto merita di essere menzionato un passo di A. Incampo, Politica e processo, in Luoghi della filosofia del diritto, a cura di B. Montanari, Giappichelli, Torino, 2012, p. 102 dove l’autore afferma “C’è il divenire perché c’è il mondo di tutto ciò che accade. L’ordinamento non può fare a meno del mondo; serve al mondo, così come il mondo serve al diritto. Se non vi fosse il mondo, non vi sarebbe neppure un ordinamento. L’ordinamento non fa che aderire al continuo mutamento del mondo. D’altronde, ha la funzione di rispondere ai sogni della realtà sociale. I mezzi sono naturalmente le regole. Con un problema pressante: le regole non sono mia abbastanza.”; L. Lombardi Vallauri, op. ult. cit., p. 163, il quale parla di effettività dinamica.
[105] La topica consiste nel rinvenimento ed esplicitazione delle premesse metanormative su cui si fonda il ragionamento giuridico.
[106]N. Luhmann, Sistema giuridico e dogmatica giuridica, Il Mulino, Bologna, 1978, pp. 43 ss. Sulla questione della topica è certamente fondamentale l’insegnamento di Th. Viehweg, Topica e giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 1962
[107]Il riferimento è principalmente alle correnti americane del giusrealismo di cui merita certamente menzione Jerome Frank. In Italia è invece significativa la corrente del realismo di stampo analitico di cui uno dei principali interpreti è Riccardo Guastini, ed il suo lavoro Interpretare e argomentare, Giuffrè, Milano, 2011; per quanto riguarda il giusrealismo americano si veda di V. Marzocco Nella mente del giudice. Il contributo di Jerome Frank al realismo giuridico americano, Giappichelli, Torino, 2018.
[108]R. Guastini, Filosofia del diritto positivo, cit., p. 95.
[109]La differenza tra razionalità e ragionevolezza va indagata a partire dalle matrici storico-filosofiche dei due concetti. La razionalità si lega certamente ai paradigmi classici della modernità ed in particolare al pensiero di Cartesio e Leibniz, precursore della matematizzazione della logica, continuando, in età contemporanea, con le opere di Gottlob Frege, il quale inaugurò la stagione della logica formale. La ragionevolezza si lega, invece, ad un contesto tipicamente post-moderno, come emerge anche dalla lettura di G. Bombelli, Diritto, decisione e paradigmi di “razionalità” in Ragionare per decidere, cit., p. 323 ss.
[110]Con metodo delle scienze dure (tipicamente la matematica e la logica) ci si riferisce all’applicazione del metodo logico.
[111] Si veda sul punto E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, I-II, Giuffrè, Milano, 1955, pp. 812 ss. e L. Mengoni, Diritto e valori, Il Mulino, Bologna, 1985, secondo cu il formalismo, che è alla base del concetto di sistema giuridico, è caratterizzato dal fatto di disinteressarsi degli esiti delle sue procedure. Tale disinteresse, sempre nel pensiero di Mengoni, postula necessariamente l’adozione di un modello sociale di matrice liberista.
[112]Come già riferito alla nota 128, quella che si propone è l’idea secondo cui la conoscenza dei valori, quantomeno nel diritto, avvenga sempre in maniera mediata sia dalla storia (dimensione diacronica) che dalle circostanze del caso in questione (dimensione sincronica) poiché, nell’ambito giuridico, i valori vengono in considerazione nella forma di valutazioni di situazioni concrete. Si veda, per quest’ultimo punto, l’insegnamento di V. P. Schneider, Naturrechtliche strömungen in deutscher rechtsprechung, in Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie, Vol. 42, No. 1 (1956), pp. 79, 91.
[113] L’idea secondo cui la possibilità di configurare il diritto come ordinamento dipenda dalla condivisione di certe premesse valoriali all’interno di una comunità di giuristi può essere letta anche mediante il riferimento al concetto di senso comune. Quest’ultimo, che attiene alla sfera propriamente cognitiva, rappresenta un insieme di convinzioni, persuasioni e prassi legati a contesti sentiti di “doverosità”. Inoltre, il configurarsi di un certo senso comune all’interno di un determinato ambiente sociale conferisce a quest’ultimo una determinata declinazione politico-istituzionale e, di conseguenza, anche la possibilità di configuare il materiale normativo come apparato unitario. Circa il legame tra senso comune e dimensione ordinamentale si riportano le parole di Giovanni Bombelli: “Il senso comune veicola una ben precisa nozione di diritto (verrebbe da chiedersi: del diritto come “ordinamento”?) e, al contempo, in qualche modo lo integra”.Cfr. G. Bombelli, Diritto, comportamenti e forme di credenza, Giappichelli, Torino, 2017, p. 55.
[114]Con ciò, non si vuole risolvere il significato della ragionevolezza con ciò che un certo uditorio è disposto ad accettare, ciò che preme è, invece, affermare che l’accettazione da parte dell’uditorio è la prima condizione necessaria affinché un enunciato possa essere considerato ragionevole. Il riferimento è al filone di studio relativo all’argomentazione giuridica. Per un inquadramento sulla nozione di uditorio si rimanda a C. Perelman e L. Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, Torino, 2001; M. Manzin, Argomentazione giuridica e retorica forense, Giappichelli, Torino, 2014, cap. I; S. Zorzetto, Ragionevolezza, razionalità e argomentazione giuridica, in Ragionare per decidere, Giappichelli, Torino, 20215, p. 237-173 e M. La Torre, Sullo spirito mite delle leggi. Ragione, razionalità, ragionevolezza, in Materiali per una storia della cultura giuridica, n. 2/2011, p. 495-515.
[115]Sulla scia di quanto detto, si colloca la teoria sull’interpretazione di H. Hart, il quale nella sua celebre Il concetto di diritto, Einaudi, Torino, 1991, teorizza il diritto come una pratica sociale e le norme come veicoli di significati che costituiscono ragioni per agire in un determinato modo. Cfr. I. Trujillo, Linguaggio in Dimensioni, cit., p. 277.
[116]Sull’origine lato sensu consuetudinaria della buona fede, si rimanda al saggio di G. Siniscalchi, La normatività del normale in I volti molteplici della consuetudine, volume 1- Origini, a cura di G. Bombelli - P. Heritier, Mimesis Edizioni, Torino, 2023, p. 269. Nel saggio, l’autore afferma che i concetti come la buona fede rimandano ad una serie di caratteristiche che la normalità, intesa come regolarità sociale nella ripetizione di certi comportamenti, fa traslare dal piano dell’essere a quello del dover essere.
[117]Adottare tale prospettiva ordinamentale implica, a sua volta, l’adozione di una posizione filosofica cognitivista rispetto ai valori ovvero che ammetta la possibilità che i valori siano oggetto di conoscenza e di giudicabilità (certamente, non in termini di vero o falso). Viceversa, le correnti appartenenti al non-cognitivismo si caratterizzano per uno scetticismo circa il problema della giudicabilità dei valori poiché ritengono che tali giudizi siano il mero frutto di preferenze istintive o sentimentali, volizioni o esperienze affettive. Per una disamina del non-cognitivismo si rimanda a G. Carcaterra, Il problema della fallacia naturalistica, Giuffrè, Milano, 1969e Id., Le ambiguità e le implicazioni nichilistiche dell’opposizione valutare-conoscere in AA.VV., La società criticata, Morano, Napoli, 1974, pp. 194-225.
[118]J. Habermas, Fatti e norme.Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Editori Laterza, Milano, 2013.
[119]Le parole sono di L. Mengoni, Scritti, cit., p. 55.
[120]Il problema dei criteri d’integrazione extralegislativi può essere approcciata anche mediante gli strumenti dell’analisi del linguaggio. Si è detto che l’ordinamento giuridico venga di volta in volta integrato da criteri altri rispetto alla logica giuridica e che la buona fede sia una conferma testuale della necessità di integrare il dettato normativo con elementi esterni. Sul piano linguistico, difatti, la buona fede, che è un sintagma valutativo, risulta essere problematica poiché il legislatore non ha esplicitato i criteri che ne guidano l’applicazione. L’esplicitazione di tali criteri (che dovrà essere fatta dal giudice) fa sì che il modo in cui viene interpretata la buona fede risulti accessibile intersoggettivamente. D’altronde,se di un’asserzione valutativa non si conoscono i criteri secondo i quali essa viene formulata, si priva tale asserzione di qualsiasi coefficiente di spiegabilità. Sul punto si segnala una vasta letteratura di cui merita certamente menzione l’opera di V. Velluzzi, Le clausole generali, cit., passim, a cui si rimanda anche per ulteriori e preziosi consigli bibliografici e R. Hare, Il linguaggio della morale, Ubaldini, Roma, 1968.
[121]L. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, cit., p. 210.
[122]Il rimando è alla teoria della completezza dell’ordinamento normativo di A. G. Conte. Si veda A.G. Conte, Deontico vs. dianoetico (1986), inId., Filosofia del linguaggio normativo. II. Studi 1982-1994, Giappichelli, Torino, 1995, pp. 347-354.
[123]D’altronde, come si è detto precedentemente, il criterio di appartenenza che definisce un ordinamento come tale è da leggersi, non come un criterio in positivo e, quindi, come comune fondamento di validità delle norme (sul punto, si rimanda alla nota 93) ma come semplice mancanza di contraddizioni interne.
[124] P. Di Lucia - L. P. Glazel, La norma come status deontico. Una svolta ontologica nella semiotica del normativo, in L’Ircocervo, n. 2/2021. L’idea è che esistano degli status deontici la cui validità non è determinata da norme (metaregole axiotiche) che caratterizzano un certo ordinamento. La validità è ad intendere nell’accezione di validità sintattica (riferita alla proposizione) e soprattutto sistemica, ovvero come validità in relazione alle altre norme.
[125] L’espressione è sempre di P. Di Lucia, ult. op. cit., p. 108.
[126] Il riferimento è al concetto di Sitlliche Rechtheit introdotto da A. Reinach in I fondamenti a priori del diritto civile, Giuffrè, Milano, 1990.
[127] Il rimando è ad un aforisma di L. Nivarra nell’Introduzione all’opera di J.W.Hedemann, La fuga nelle clausole generali, cit., p. 30 dove il giurista palermitano cristallizza il problema con le seguenti parole: “se le cose stanno così, se ne potrebbe desumere che il vero problema non sono le clausole generali (del cui genus, la buona fede ne rappresenta una species, come già si è detto, n.d.r.) sebbene, piuttosto, il mondo.’’ in Italia, una prospettiva simile a quella di Hedemann è stata offerta da Calamandrei, il quale, preoccupato dalla giustizia popolare che prendeva piede in Germania e nell’URSS arrivò ad affermare che si sarebbe arrivati ad un punto in cui al giudice non sarebbe stato più richiesto di conoscere la legge, poiché egli avrebbe risolto ogni questione semplicemente “interrogando la storia”. Queste parole possono essere lette come una critica all’accezione che si è data alla buona fede nell’elaborato dal momento che si è argomentato come essa consista nella morale storica di un certo popolo. Si veda, però, come riportato da P. Grossi, Lungo l’itinerario di Piero Calamandrei, in Riv. Trim. dir. e proc. civ., n. 3/2009, p. 865 ss. che tale concezione di matrice illuminista fu oggetto di rivalutazione da parte dello stesso autore al termine del secondo conflitto mondiale e con l’instaurazione del processo di Norimberga, dove il Calamandrei criticò la formulazione del diritto legicentrica.
[128]Con ciò s’intendono dottrine secolari o religiose che si offrono di spiegare il fenomeno della vita umana. Cfr. M. Atienza, On the Reasonable in Law, in Ratio Juris, n. 3/1990, pp. 148-161.
[129]Sulla questione relativa al rapporto tra contemporaneità (come elemento di difficile comprensione e regolazione) si segnala un’enormità di contributi. Su tutti, meritano menzione, G. Bombelli, Sfera giuridica e scenari contemporanei: intorno al diritto come “rete”, in L’Ircocervo, reperibile al link: https://lircocervo.it/pdf/2011_02/dottrina/2011_02_03.pdf. I prolegomeni della contemporaneità vengono già individuati da G. Capograssi, L’ambiguità del diritto moderno, in La crisi del diritto, CEDAM, Padova, 1953, pp. 13-47.
[130] Se si pensa al garbuglio di norme nei più svariati settori dell’ordinamento si capisce che l’ambiguità che denunciava Hedemann rispetto alle clausole generali può ugualmente essere causata da un uso spropositato della tecnica casistica. Pertanto, la crisi della certezza del diritto non deriva solo dall’uso delle clausole generali (e quindi della buona fede) ma anche dall’abuso dello strumento normativo strettamente inteso. Si rimanda, sul punto, ad un’inchiesta condotta dal Sole 24ore dalla quale emerge che in Italia sono tuttora vigenti 111.000 mila provvedimenti. Cfr. https://www.ilsole24ore.com/art/l-italia-rete-111000-leggi-ancora-validi-decreti-mussolini-AE5LgK6E. In merito al problema dell’ipertrofia legislativa, inoltre, si veda G. Legnini - D. Piccione, I poteri pubblici nell’età del disincanto, I Capitelli, Roma, 2019, mentre riguardo l’eccesso di normazione in campo penale G. Forti, La cura delle norme, oltre la corruzione delle regole e dei saperi, Vita & Pensiero, Milano, 2018 ed anche il preziosissimo contributo di F. Carnelutti in La Certezza del diritto, in Riv. Dir. proc. civ., XX, 1943, p. 81-82, dove l’autore afferma: “la certezza di cui parlate non si raggiunge poiché il soggetto non riesce né a sapere quello che deve volere, tanta è la massa informe delle leggi, né a prevedere la qualifica futura del suo comportamento, tanto è il mutare delle leggi”.
[131] Il riferimento al diritto mite rimanda all’opera di G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino, 1992. Si pensi anche al celebre discorso tenuto nel dicembre del 1966 da Stefano Rodotà all’Università di Macerata sul “Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile”. In tale discorso, il civilista teorizzava una legislazione per clausole generali dove il giudice sarebbe stato protagonista nonché principale interprete del dinamismo sociale. Anche il diritto civile mostrava, per la prima volta in maniera compiuta, la sua essenza di scienza sociale e ciò era reso possibile, oltre che dai principi costituzionali, anche dalla rivalutazione di concetti come, appunto, la buona fede. Cfr. S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, il Mulino, Bologna, 1981, p. 219: “quando si parla di una funzione sociale del diritto privato si afferma, in realtà, che la scienza giuridica è scienza sociale, nelle varie inflessioni che tale espressione può assumere; si ritrova nel diritto un fenomeno sociale”.
[132]Circa il rapporto tra clausole generali e diritto penale si rimanda, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, a D. Castronuovo, Tranelli del linguaggio e “nullum crimen”. Il problema delle clausole generali nel diritto penale, in La legislazione penale. Approfondimenti, 5.6.2017, reperibile online.
[133]La distinzione tra “nucleo certo di significato” e “zona di incertezza” è offerta da G. Pino, L’interpretazione del diritto, Giappichelli, Torino, 2021, p. 115. Si riporta l’esempio fornito dall’autore circa la parola “sigaretta”. Questa parola ha un nucleo certo poiché nessuno dubiterebbe che l’oggetto di forma tubolare in carta e contenente tabacco che viene estratto da un pacchetto lo sia, viceversa, invece, si potrebbe discutere se i vaporizzatori contenenti nicotina siano “sigarette”.
[134]Ibid., p. 140.
[135]Sul punto meritano menzione le parole di M. Taruffo: “ogni interpretazione di norme consiste anche nella individuazione di regole, standards o criteri mediante i quali si perviene alla riconduzione del fatto entro la norma; in talune ipotesi – come nel caso delle clausole generali – questa attività dell’interprete è più visibile che in altre.” M. Taruffo, Prefazione, in La giustificazione delle decisioni basate su standards, in R. Guastini - P. Comanducci, L’analisi del ragionamento giuridico, vol. II, Torino, Giappichelli, 1989, XX.
[136]K. Engisch,Introduzione al pensiero giuridico, Giuffrè, Milano, 1970, p. 193 ss.
[137]In tal senso si vedano anche la sentenza della Corte Costituzionale n. 327 del 2008; n. 5 del 2004; n. 282 del 2010 e le sentenze n. 302 e n. 5 del 2004 dove, relativamente ai limiti imposti del principio di determinatezza, la Corte non ha escluso l’ammissibilità di formule elastiche, alle quali non infrequentemente il legislatore deve ricorrere stante la “impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a “giustificare” l’inosservanza del precetto e la cui valenza riceve adeguata luce dalla finalità dell’incriminazione e dal quadro normativo su cui essa si innesta”.
[138] R. Guastini, Interpretare e argomentare, Giuffrè, Milano, 2011.
[139] Sulla distinzione tra “regole” e “principi”, con assegnazione a questi ultimi della qualifica di “precetti di ottimizzazione”, si veda R. Alexy, Theorie der Grundrechte, Nomos Verlagsgesellschaft, Frankfurt a.M., 1986, trad. it. L. Di Carlo, Teoria dei diritti fondamentali, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 106 ss.
[140] Per una lettura parzialmente diversa del binomio determinatezza-tassatività si rimanda a A. Nisco, Principio di determinatezza e interpretazione in diritto penale: considerazioni teoriche e spunti comparatistici in Archivio penale 2017, n. 3, pp. 1-32.
[141] La buona fede serve per evitare che si verifichi “una frattura sempre più drastica tra norma e realtà”. Cfr. C. Schmitt, I tre tipi del pensiero giuridico, in Le categorie del “politico”, Il Mulino, Bologna 1972, p 256. Per quanto riguarda il rapporto tra sistema giuridico e valori extragiuridici, si ricordi, ancora, L. Mengoni, Scritti, cit., p. 202 secondo cui i valori extragiuridici entrano nel mondo del diritto e si trasformano in concetti che devono essere coerenti con la “razionalità complessiva del sistema”.
[142]Del problema che intercorre tra la legge ed il mutare della realtà socioeconomica ci dà un’idea anche Tucidide, il quale notò che per gli Ateniesi, in quanto navigatori e commercianti, fosse necessaria “molta innovazione” nelle leggi. Cfr. G. Fasso, Il giudice e l’adeguamento del diritto alla realtà storico-sociale, in Riv. Trim. dir. e proc. civ., 1972, p. 879 ss. Inoltre, l’idea di una buona fede in continuo mutamento si pone come problematica nei confronti delle proposte di affidare l’amministrazione della giustizia a sistemi di Intelligenza Artificiale; se è vero che il significato delle buona fede debba essere tenuto “aggiornato” sulla base del mutare dei costumi sociali allora si deve concludere che esso non si possa rinvenire solo nei precedi giudiziari, come invece è prassi giurisprudenziale. Ciò risulta essere problematico per il giudice-robot, se si considera che esso decise sola sulla base di input inseriti (tipicamente le norme e, appunto, i precedenti). Sul punto sono significative le parole di R. Bichi in Intelligenza digitale, giurmetria, giustizia predittiva e algoritmo decisorio. Machina sapiens e il controllo sulla giurisdizione in Intelligenza artificiale, il diritto, i diritti, l’etica, Giuffrè, Milano, 2020, p. 434. Si segnala anche il contributo di N. Irti, Sulla relazione logica di con-formità (precedente e susseguente), in Il vincolo giudiziale del passato, I precedenti, Il Mulino, Bologna, 2018, p. 17. Critico verso l’utilizzo della buona fede nell’ambito contrattuale è R. Pardolesi, Un nuovo super-potere giudiziario, la buona fede adeguatrice e demolitoria, in For.it., 2014, I, p. 2042 ss. dove l’autore afferma che il rischio è di avere una giurisprudenza ispirata ad un “paternalismo benevolente”.
[143]La ragionevolezza si pone come un’utilissima stampella interpretativa quando ci si interfaccia con concetti, come principi o termini valutativi, difficilmente inquadrabili. Analoga riflessione, ma in riferimento alla trasformazione dei principi in regole, viene svolta da F. Viola in Costituzione e ragione pubblica: l principio di ragionevolezza tra diritto e politica, p. 50 disponibile al link https://dadun.unav.edu/bitstream/10171/14214/1/PD_46_02.pdf. La ragionevolezza, intesa come canone ermeneutico, fa riferimento alla necessità che la decisione (e quindi il prodotto dell’interpretazione) trovi una qualche conferma nel contesto storico-sociale nel quale si trova. Tale criterio interpretativo, se accostato alla buona fede, consente di escludere le soluzioni interpretative inaccettabili per il contesto ove si collocano. Sul punto, si segnala un’ampissima letteratura. Tra tutti, si vedano S. Zorzetto, Ragionevolezza, razionalità e argomentazione giuridica, in Ragionare per decidere, Giappichelli, Torino, 20215, p. 237-173, M. La Torre, Sullo spirito mite delle leggi. Ragione, razionalità, ragionevolezza, in Materiali per una storia della cultura giuridica, n. 2/2011, p. 495-515 e G. Bombelli, Diritto, decisione e paradigmi di razionalità, in Ragionare per decidere, cit., p. 343
[144]L’idea di sistema proposta da L. Mengoni è parzialmente diversa dal concetto proposto nelle pagine precedenti, il teorico trentino propone una nozione di sistema da intendersi lato sensu come insieme dei concetti giuridici. Cfr. L. Mengoni, Dogmatica giuridica, cit., p. 110.
[145]Le parole sono di G. Bombelli, Consuetudine. Su alcuni profili cognitivi, in I volti molteplici della consuetudine, Volume 1- Origini, a cura di G. Bombelli - P. Heritier, Mimesis, Milano-Udine, 2023, p. 100. L’autore utilizza la medesima griglia concettuale per affrontare il problema della consuetudine.
Cipriani Giacomo
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