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Profughi e prigionieri romani nell’età delle invasioni barbariche

31.08.2020

Valerio Neri

Ex Professore Ordinario di Storia Romana

Università di Bologna

 

Profughi e prigionieri romani

nell’età delle invasioni barbariche*

 

English title: Roman refugees and prisoners in the age of the barbarian invasions

DOI: 10.26350/004084_000084

 

Sommario: 1. I profughi romani nell’occidente tardo antico – 2. I prigionieri romani dei barbari e i loro spostamenti – 3. L’impiego dei prigionieri romani in territorio barbarico – 4. La vendita dei prigionieri romani come schiavi – 5. Il riscatto dei prigionieri – 6. L’intervento della chiesa nel riscatto dei prigionieri – 7. Il ritorno dei prigionieri in patria.

 

1.       I profughi romani nell’occidente tardo antico

 

Il movimento di grandi masse barbariche produce naturalmente ingenti fenomeni di fuga, dalle campagne alle città, quando queste siano fortificate, e dalle città, soprattutto quando non siano fortificate, nei luoghi più impervi ed inaccessibili del territorio[1]. In qualche caso questa fuga è autorizzata ed organizzata dalle autorità civili ma soprattutto dalle autorità religiose, dai vescovi. Di fronte all’invasione vandalica dell’Africa Agostino deve richiamare con fermezza il clero ai suoi obblighi nei confronti delle comunità cristiane: solo nel caso in cui sia possibile una generale evacuazione delle città è giustificato l’abbandono delle città stesse da parte di tutto il clero, altrimenti una parte del clero deve rimanere con coloro che non possono e non vogliono abbandonare la città ed è opportuno, per evitare che solo i più coraggiosi rimangano, che si ricorra al sorteggio per stabilire chi deve rimanere[2]. Dalla Vita Severini di Eugippio siamo ampiamente informati della evacuazione delle città del Norico promossa, tra forti resistenze, dal santo prima del definitivo abbandono della provincia organizzato da Odoacre poco dopo la sua morte. Gli abitanti dell’oppidum Quintanense (odierna Künzing) si rifugiano, di fronte ad un attacco di Alamanni, a Castra Batava (Passau) e di qui, assieme a molti abitanti della città a Lauriacum (Lorch), esortati da Severino[3]. Il santo ottiene poi dal re dei Rugi Feva, che aveva posto l’assedio alla città, che i suoi abitanti abbiano salva la vita e possano trasferirsi negli oppida vicini tributari del re[4]. Durante la guerra tra Goti e bizantini, secondo la narrazione di Procopio, Belisario autorizza il trasferimento a Napoli dalla città di Roma assediata dai Goti, di donne, bambini e insomma di tutti coloro che fossero inutili alla difesa della città, compresi famigliari e servi delle truppe bizantine. Tutte le navi disponibili vengono utilizzate allo scopo, ma molti si incamminano lungo la via Appia. Nell’Italia invasa dai Longobardi, secondo la testimonianza di Gregorio Magno, gli spostamenti vengono coordinati dal pontefice. Scrivendo al vescovo di Velletri, Gregorio Magno sostiene la necessità che dai luoghi più esposti, come appunto Velletri, il vescovo e la comunità si spostino in luoghi più sicuri, dando indicazioni precise circa questi spostamenti[5].

Ci sono casi, come quello di Milano, in cui lo spostamento di una parte della popolazione a Genova, mentre probabilmente la maggior parte della comunità è rimasta in città con il vescovo, produce una situazione singolare: l’elezione del nuovo vescovo di Milano deve essere sottoposta all’approvazione dei Milanesi trasferiti a Genova[6] . Una relativa ricchezza di informazioni abbiamo sulle direzioni della fuga da Roma saccheggiata da Alarico. Rutilio Namaziano ricorda come molti avessero trovato rifugio nell’isola del Giglio e, in generale, nelle isole dell’arcipelago toscano[7]. La direzione principale della fuga sembra però essere stata a sud, verso l’Italia meridionale, la Sicilia e di là l’Africa e addirittura la Palestina e l’Oriente.

Una parte di questi emigrati oltremare era composta da membri delle élites romane: in Africa giungono Demetriade, in compagnia della madre e della nonna Anicia Proba[8]. Coloro di cui Gerolamo compiange la sorte in Palestina e nella stessa Betlemme, sono in gran parte aristocratici che hanno perso i loro beni[9]. La situazione di molti di loro viene descritta da Agostino e Gerolamo come una condizione di reale povertà, che li rende dipendenti dall’accoglienza delle città in cui hanno cercato rifugio[10]. D’altra parte anche la situazione di chi non ha perso tutto può essere fragile in queste circostanze: Gerolamo lamenta, per esempio, che Anicia Proba non sia stata trattata amichevolmente dal comes Africae Eracliano. Talora le fonti ci informano genericamente del rifugio cercato in zone difficilmente accessibili come boschi, monti, paludi, dell’uso di grotte come abitazione. La durata di questa vita precaria, se tutto va bene, se i barbari non scoprono il nascondiglio e gli stenti non portano alla morte, può prolungarsi anche per anni: molti abitanti di Perugia, assediata da Totila per sette anni, erano fuggiti durante l’assedio e ritornano solo dopo che il re goto, entrato finalmente nella città, consente ai fuggiaschi di ritornare garantendo loro l’incolumità[11].

 

2.       I prigionieri romani dei barbari e i loro spostamenti

 

Dopo Adrianopoli la frequenza della cattura di prigionieri romani ed il loro numero si accresce drammaticamente nella parte occidentale dell’impero[12]. Le fonti, soprattutto quelle cristiane, dedicano quindi una crescente attenzione al fenomeno e ci forniscono interessanti informazioni su di esso, sia pure con uno squilibrio evidente circa i suoi vari aspetti. Siamo in genere informati in maniera generica circa la sorte dei prigionieri romani deportati in territorio barbarico, mentre per altri aspetti, come soprattutto l’impegno delle chiese nel riscatto, possiamo talora seguirne lo svolgimento con relativa ricchezza di dettagli.

L’imprigionamento, nella prospettiva o meno del riscatto, era una delle opzioni dei barbari vincitori nei confronti delle popolazioni esposte al loro assalto. L’uccisione, soprattutto dei maschi adulti, costituiva la scelta più drastica, ma nondimeno praticata con relativa frequenza, soprattutto nelle incursioni da parte di bande. Una situazione di questo genere viene vivacemente descritta nella Passio sancti Iuliani di Gregorio di Tours[13]. Una banda di Burgundi circonda il villaggio di Brioude, il vicus Brivatensis, dove si trovava il santuario di S. Giuliano, uccide gli uomini e si divide come preda donne e bambini. Questo genere di situazione viene presentato come comune nel de officiis di Ambrogio nell’invasione dell’Illirico da parte dei Goti. Esortando i cristiani al riscatto dei prigionieri, il vescovo afferma che, attraverso di esso, si libererebbero gli uomini dal pericolo della morte, le donne da quello della violazione sessuale, i bambini dal contagio degli idoli[14]. Nella narrazione di Zosimo, Alarico durante la campagna in Grecia del 396/397 compie sistematicamente la scelta di uccidere gli uomini e di portare con sé come bottino le donne ed i fanciulli[15]. Sinesio spiega le ragioni di questo genere di scelta a proposito delle scorrerie dei barbari Austoriani nella Pentapoli: i bambini crescendo e le donne, partorendo nuovi figli, avrebbero accresciuto il numero dei combattenti (in questo caso i bambini risparmiati sarebbero stati ovviamente maschi)[16]. Nella Milano presa e devastata dagli Ostrogoti di Uraias, secondo la narrazione di Procopio, ben 300.000 (ma il numero è evidentemente esagerato) uomini furono massacrati, mentre le donne furono donate come schiave ai Burgundi loro alleati[17]. La ferocia gotica in questa occasione costituisce tuttavia un episodio estremo. In seguito l’atteggiamento di Totila nei confronti della popolazione italica è generalmente descritto come moderato.

Le fonti attribuiscono ai barbari una totale indifferenza circa la conservazione dei legami famigliari nella popolazione fatta prigioniera: assistiamo dunque frequentemente alla divisione dei nuclei famigliari non solo all’interno della popolazione deportata, ma anche tra i deportati e coloro che restavano in patria. Gregorio Magno riporta il caso di un Faustinus che aveva contratto un debito di 130 solidi per riscattare le figlie prigioniere[18]. Fausto di Riez invita alla generosità nei confronti di una persona che aveva moglie e figli prigionieri[19]. I prigionieri che non erano messi subito in vendita potevano essere esposti a lunghi spostamenti che li rendevano difficilmente rintracciabili se non ad una ricerca sistematica. Vittore di Vita narra che, dopo il sacco di Roma nel 455, Genserico aveva imbarcato verso l’Africa numerosi prigionieri che in seguito il vescovo di Cartagine tentò di rintracciare e di riscattare vendendo anche oggetti preziosi di proprietà della chiesa[20]. Il vescovo di Pavia Epifanio, inviato in missione da re Teoderico, ottenne dal re burgundo Gundobado la liberazione di migliaia di prigionieri, che erano stati deportati in paese burgundo qualche anno prima dal re, intervenuto nella guerra fra Teoderico e Odoacre come alleato del primo. I prigionieri erano dispersi nel territorio delle città sotto il dominio burgundo: a Lione ne vennero liberati 400, ma altri ne vennero liberati a Ginevra ed in altre città della Sapaudia, che era retta dal fratello del re, Godigisel. Molti prigionieri romani vengono rintracciati nelle campagne dove lavoravano, presumibilmente come coloni. Ennodio scrive nella vita di Epifanio che in quella circostanza si sarebbe potuto credere che le campagne galliche si fossero d’improvviso spopolate (desolata crederes esse etiam incolis rura Gallorum)[21]. Un movimento in direzione opposta di prigionieri, dalla Gallia all’Italia, è richiamato nella Vita di Cesario di Arles. Il vescovo era stato portato sotto scorta a Ravenna da Teoderico e la ragione era presumibilmente il sospetto di aver avuto un atteggiamento favorevole ai Burgundi, sconfitti dagli Ostrogoti. A Ravenna però, secondo la narrazione della Vita, il re cambia atteggiamento, impressionato dalla figura del vescovo, e gli offre in dono un piatto d’argento del peso di sessanta libbre che Cesario vende e con il ricavato riscatta prigionieri. Teoderico approva il suo gesto ed invita i cortigiani ad ulteriori donazioni. Cesario ritrova e riscatta, dando loro la possibilità di tornare in Gallia, prigionieri provenienti dal territorio oltre il fiume Durance, soprattutto dalla città di Orange. Dell’asservimento da parte delle truppe di Teoderico di gran parte degli abitanti di Orange, di cui sappiamo dalla Vita, non conosciamo le circostanze[22]. Non sappiamo se fossero stati ridotti in cattività solo Burgundi residenti nella città, i cui abitanti si può presumere che fossero nella maggior parte gallo-romani. In questi casi non si andava per il sottile e comunque si può pensare che gli abitanti della città potessero essere accusati di aver sostenuto i Burgundi contro gli Ostrogoti e che questo potesse giustificare la deportazione anche degli abitanti gallo-romani. È forse la volontà da parte di Cesario di riscattare questo genere di prigionieri ad aver incontrato l’approvazione di Teoderico.

Ci sono deportazioni di raggio più limitato che però ugualmente comportano una ricerca dei prigionieri romani, come quelle narrate da Eugippio nella Vita Severini, di romani che vengono portati al di là del Danubio da bande di razziatori[23]. Alla deportazione da parte dei barbari si somma in molti casi l’intervento dei mercanti di schiavi che vendono i prigionieri acquistati spesso in territori assai lontani da quelli in cui erano stati trasportati dai barbari. Ambrogio parla di un’ampia disseminazione dei prigionieri romani fatti dai Goti in Mesia ed in Tracia. Come abbiamo accennato, sono molto più scarse le notizie sull’impiego dei prigionieri in territorio barbarico, se non in qualche caso di cristiani che conquistano il rispetto dei barbari e ottengono la loro conversione, come nel caso della nipote del vescovo di Sitifis che, nella narrazione di un’epistola di Agostino, cura i figli del barbaro che l’aveva presa prigioniera e per questa ragione viene restituita ai genitori cum honore magno[24].

 

3.       L’impiego dei prigionieri romani in territorio barbarico

 

È difficile pensare, se non in rari casi, ad un impiego militare dei civili presi prigionieri, come avvenne, secondo la narrazione di Zosimo, per i prigionieri impiegati come marinai dai Goti nel III secolo. Ha probabilmente ragione Peter Heather[25] quando afferma che la carriera dell’ex prigioniero che Prisco di Panion incontra nel campo degli Unni è una vicenda tutt’altro che comune. Lo storico apprende dalla sua viva voce che il personaggio era stato un mercante, che, assegnato come bottino ad un capo unno, Onegesius, si era distinto per valore militare e poi, accumulando il bottino fatto in guerra, si era riscattato ed era entrato nel suo seguito, si era maritato con una unna ed aveva raggiunto una posizione onorevole nella società unna[26]. L’eccezionalità del trattamento del personaggio da parte del capo unno pare confermata da un altro episodio narrato da Prisco, in cui un architetto romano, prigioniero dello stesso Onegesius, aveva costruito dei bagni per il suo padrone e si attendeva come ricompensa la liberazione. Viene invece ridotto a servo impiegato negli stessi bagni che aveva costruito.

Poteva accadere che l’integrazione avvenisse in tempi lunghi e addirittura nell’arco di generazioni. Il famoso Wulfila, discendente da prigionieri romani fatti dai Goti in Cappadocia nel III secolo, conosceva, oltre al gotico, il greco ed il latino ed era stato capace di tradurre la Bibbia in gotico, dunque apparteneva ad una élite gotica ed aveva avuto possibilità di acculturazione in paese gotico[27]. In un contesto differente, conosciamo da una fonte agiografica la carriera di un discendente da deportati in Persia sotto Shapur I, che era diventato sovrintendente delle officine reali e che poi subì il martirio sotto Shapur II[28]. D’altra parte in un contesto economico e sociale debolmente strutturato come quello barbarico non era certamente ampia la gamma di impieghi produttivi dei prigionieri. Si potrebbe pensare, anche se non ne abbiamo attestazioni, che giovani maschi di sana costituzione fossero impiegati come valletti al seguito dei combattenti. La narrazione, che abbiamo richiamato, della missione del vescovo Epifanio in territorio burgundo potrebbe far pensare che in un territorio romanizzato i prigionieri potessero essere impiegati come lavoratori agricoli o addirittura come coloni. Secondo una notizia di Vittore di Vita, prigionieri romani dei Mauri venivano impiegati come lavoratori nelle miniere[29]. La maggior parte comunque dei prigionieri erano presumibilmente impiegati nel lavoro domestico.

 

4.      La vendita dei prigionieri romani come schiavi

 

Gli schiavi che non venivano acquisiti come bottino distribuito tra i combattenti venivano venduti sui mercati, che non è detto dovessero essere sempre mercati specializzati nella vendita di schiavi. Si può pensare che, al di là della frequentazione da parte di persone interessate alla ricerca di specifici schiavi e di benefattori laici o ecclesiastici interessati al riscatto dei prigionieri come opera di beneficenza, in questi mercati si aggirassero mercanti di schiavi. La vendita avveniva in luoghi e circostanze diverse. Eugippio, nella Vita Severini, parla di un mercato di barbari, nundinae barbarorum, in cui i prigionieri venivano messi in vendita al di là del Danubio. Ad esso il santo manda un suo emissario a rintracciare e riscattare un prigioniero il cui aspetto fisico egli aveva appreso in sogno[30]. Una situazione analoga è presupposta in una descrizione della vita di Eligio di Noyon nei primi decenni del VII secolo[31], che accorre dove viene a sapere che sono in vendita prigionieri e ne riscatta in gran numero. Un’operazione sistematica di asservimento di popolazioni romane da porre in vendita è esercitata, secondo la testimonianza di Procopio, dalla pirateria vandalica con la collaborazione dei Mauri. Lo storico scrive che ogni anno venivano compiute scorrerie in Italia e in Sicilia che poi vennero estese all’Illirico ed alla Grecia[32]. Al di là della vendita in luoghi controllati dai barbari, l’attività dei mercanti di schiavi faceva spesso sì che i prigionieri messi in vendita fossero disseminati in un’area vasta e difficilmente controllabile. Ambrogio nel de officiis lamenta che i prigionieri in vendita fossero diffusi toto orbe. Una parte di questi prigionieri erano stati riscattati dalle chiese ma erano poi stati rivendicati in schiavitù da persone non identificate[33]. È nota la difficoltà, soprattutto degli humiliores, di far riconoscere la propria identità di liberi, quando si spostavano in territori in cui non erano conosciuti. Un parallelo interessante alla situazione evocata da Ambrogio potrebbe essere ritrovato in una costituzione di Onorio del 405, in cui si accenna allo spostamento in massa nell’Illirico per il timore delle incursioni barbariche. Ciò li aveva esposti alla adsidua petitorum libido da parte di persone che, approfittando dell’incertezza della loro identità, li aveva rivendicati come schiavi[34]. La vendita poteva anche avvenire da barbari a privati. Massimo di Torino mette in guardia i suoi fedeli contro incauti acquisti presso venditori barbari di oggetti e persone preda di razzie[35].

 

5.       Il riscatto dei prigionieri

 

La redemptio dei prigionieri è l’aspetto al quale viene dedicata la maggiore attenzione dalle nostre fonti, soprattutto da quelle cristiane. Lo stato sembra avere un ruolo limitato in questa operazione. Finché esso mantiene una superiorità militare, può intervenire in maniera forte per ottenere la restituzione dei prigionieri. In questo atteggiamento viene presentato come esemplare dalla storiografia pagana il comportamento di Giuliano che pretende da Vadomar la totale restituzione dei prigionieri romani e fa compiere con questo scopo un censimento nei territori gallici di confine di tutti i cittadini romani che presumibilmente sono stati fatti prigionieri[36]. Dopo la vittoria su Alarico a Pollenzo da parte di Stilicone, Claudiano celebra la liberazione di un gran numero di prigionieri romani[37]. L’indebolimento però della forza militare romana porta a trattative in cui i Romani si piegano ad accettare condizioni che in altri tempi avrebbero considerato umilianti. Secondo un frammento di Prisco gli Unni pretendono dai Romani che vengano loro restituiti tutti coloro che, provenendo da popolazioni gotiche al di là del Danubio, avevano trovato rifugio in territorio imperiale, insieme ai prigionieri romani catturati come bottino di guerra che erano fuggiti senza avere pagato il riscatto e che si trovavano ora in territorio romano, chiedendo in caso contrario il pagamento di otto solidi per ogni prigioniero che si ritenesse di non consegnare[38]. In periodi di successo militare, anche nel VI secolo, come nelle guerre bizantine contro Ostrogoti e Vandali, sono attestate da Procopio operazioni di liberazione di prigionieri attraverso operazioni militari, come nel caso della liberazione di prigionieri romani, tra i quali senatori romani, che Totila aveva fatto trasportare nelle città della Campania[39]. Episodi analoghi sono attestati in Africa, dove le truppe bizantine tendono agguati ai Mauri, carichi di bottino e di prigionieri e si impadroniscono anche dei prigionieri[40].

Imperatori e funzionari imperiali fanno donazioni alle chiese con lo scopo specifico del riscatto di prigionieri. Soprattutto però l’intervento dello stato in questo ambito si esercita nel riconoscimento e nella promozione del ruolo delle chiese. In una costituzione di Onorio del 408 vengono coinvolti nella protezione del ritorno in patria dei prigionieri e della applicazione nei loro confronti del diritto di postiliminium, oltre alle curie cittadine, le chiese delle località vicine, sacerdotes vicinorum et proximorum locorum ecclesias retinentes[41]. L’imperatore Leone affida ai vescovi la gestione di legati e fedecommessi destinati al riscatto di prigionieri senza che il testatore abbia specificato la persona alla quale è affidato il compito di eseguire questa sua volontà[42]. I vescovi sono sottoposti in questo caso ad un controllo amministrativo che appare rigido: debbono dichiarare immediatamente ai governatori provinciali l’ammontare della somma ricevuta ed entro un anno rendere noto il numero dei prigionieri riscattati ed i prezzi pagati. Giustiniano concede ai vescovi una rivendicazione fino a cento anni di legati, fedecommessi e donazioni fatte con lo scopo del riscatto di prigionieri e riconosce ai testatori la facoltà di istituire eredi di tutto il loro patrimonio i captivi, anche in deroga alla lex Falcidia[43].

 

6.      L’intervento della chiesa nel riscatto dei prigionieri

 

Le fonti che trattano del riscatto di prigionieri, che sono quasi tutte fonti cristiane, potrebbero far pensare ad una sopravvalutazione del ruolo diretto delle chiese nell’operazione. Nelle trattative per il riscatto si mobilitano spesso in primo luogo privati che, solo in un secondo momento, si impegnano per ottenere la mediazione o il contributo finanziario della chiesa. Intervengono dapprima, com’è da attendersi, parenti ed amici dei prigionieri. Nei testi che possediamo spesso questo intervento si colloca nel contesto di una situazione di indebitamento e di ricorso al sostegno finanziario delle chiese. Un caso interessante è richiamato in una lettera di Ruricio di Limoges al vescovo di Arles Aeonius: un presbitero dal nome, ironicamente, di Possessor aveva speso tutti i suoi averi nel riscatto del fratello ed oltre ciò aveva dovuto indebitarsi[44]. Gregorio Magno in una lettera al vescovo di Messina Dono gli espone il caso di un Faustinus che, per riscattare le figlie dalla prigionia, aveva contratto un debito di 130 solidi, di cui aveva potuto restituirne solo 30. Gregorio esorta il vescovo ad accollarsi il pagamento di ciò che resta del debito, vendendo anche i beni preziosi della chiesa[45]. Ambrogio nel de Tobia aveva presentato come un caso tipico di indebitamento quello contratto per il riscatto di prigionieri[46].

Il riscatto poteva avvenire per l’intervento di un benefattore privato. Ambrogio nel de officiis, con un esplicito richiamo a Cicerone, elogia come virtù civica e cristiana insieme la generosità privata nel riscatto dei prigionieri (praecipua est igitur liberalitas redimere captivos)[47]. Agostino presenta l’impegno diretto dei ricchi nel riscatto dei prigionieri come un’espressione di misericordia che dovrebbe essere “normale”: un uomo misericordioso considera che ha del denaro da spendere, si reca presso i barbari e riscatta dei prigionieri[48]. È questo un merito che viene esaltato anche negli elogi epigrafici dell’impegno caritatevole di chierici e di laici: è questo il caso, per esempio, della nobile marsigliese Eugenia che con le sue ricchezze liberò i prigionieri dalle inique catene (captivos…vinculis laxavit iniquis)[49]. L’esistenza di benefattori impegnati nel riscatto di prigionieri è richiamata nella Sirmondiana 16 del 408, in cui la loro azione viene descritta come compiuta propter utilitatem publicam. La costituzione riconosce il dovere da parte dei riscattati e delle loro famiglie di restituire il riscatto pagato per evitare che la considerazione del danno economico porti all’inaridimento di questa forma di beneficenza[50]. Questa considerazione viene approvata anche dalla chiesa. Gregorio Magno, richiamando circa il riscatto dei prigionieri le leggi dello stato accanto a quelle della chiesa, in una lettera al vescovo di Siponto Felice, afferma che è giusto ed opportuno restituire la somma impiegata nel riscatto da parte di privati per evitare che questi si pentano del loro impegno[51]. I personaggi richiamati in questi testi non sembrano essere propriamente evergeti, ma la lode che ricevono dall’imperatore Onorio e da Gregorio Magno fa escludere che possa trattarsi di commercianti di schiavi che, in qualche caso, potrebbero riscattare anche parenti di famigliari e di amici, ricevendo la restituzione del denaro impiegato. Si trattava però, almeno nella maggior parte dei casi, di persone che dovevano avere contatti frequenti con i barbari, per esempio commercianti. I limiti di questa generosità “civica” vengono chiaramente messi in evidenza nella citata Sirmondiana: i redemptores vorrebbero che fossero loro ripagate anche le spese per il mantenimento dei redempti, cosa che l’imperatore rifiuta affermando che questo dovrebbe essere un gesto gratuito di humanitas[52]. Inoltre essi ritengono inadeguato l’obbligo di prestazioni d’opera per cinque anni imposto ai riscattati che non fossero in grado di pagare il riscatto. C’erano dunque forme e gradazioni diversi nell’impegno dei privati nel riscatto dei prigionieri, che andavano dalla generosità gratuita ispirata a valori civici e cristiani, all’impegno con la prospettiva di una restituzione delle somme impiegate, che pure non era privo di rischi, fino alla posizione sordida di coloro che approfittavano della situazione per lucrare.

In ambito cristiano c’è anzitutto da segnalare l’importanza che il riscatto dei prigionieri assume tra le opere di carità, a partire dagli stessi chierici. Ci sono testimonianze di chiese e vescovi che organizzano collette per raccogliere denaro per il riscatto di prigionieri. Del vescovo Germano di Parigi si narra che tutte le volte che era invitato a pranzo egli promuoveva una colletta fra i commensali che rendesse possibile il riscatto anche di un solo prigioniero[53]. In ambito siriaco, Giovanni Malalas racconta che i prigionieri di un regolo saraceno ottennero il permesso di inviare una supplica al patriarca di Antiochia Ephrem, chiedendogli di intervenire per il loro riscatto. La lettera venne letta in tutte le chiese della città e tutti, a partire dal vescovo e dal clero, offrirono contributi per questo scopo[54].

In molti scrittori cristiani poveri e prigionieri sono associati come beneficiari dell’elemosina. Talora poveri e prigionieri sono associati nelle donazioni fatte alle chiese. Per esempio, la sorella dell’imperatore Maurizio, Theoctista, invia a Gregorio Magno nel 595 trenta libbre d’oro in redemptionem captivorum dandas atque pauperibus erogandas[55].

Oltre a ricevere contribuzioni specificamente destinate al riscatto dei prigionieri, le chiese impiegano a questo scopo i loro beni. Non vengono venduti in questo caso, se non raramente, beni immobili, ma soprattutto oggetti preziosi d’oro e soprattutto d’argento. Questo genere di vendite era talora oggetto di discussione all’interno della chiesa. Ambrogio nel de officiis ricorda come la decisione di vendere a peso, dopo averli spezzati, i vasi argentei appartenenti alla chiesa milanese aveva sollevato critiche da parte ariana per il fatto che oggetti di culto cristiano sarebbero potuti andare in mano a pagani. Ambrogio ribatte che i vasi, una volta fusi, sono semplice metallo che non può essere preferito alla vita di prigionieri[56]. Gregorio Magno deve ribadire, scrivendo a vescovi italici che la vendita di beni preziosi della chiesa per questa finalità è consentita dalle leggi della chiesa e in taluni casi sembra imporre questa come l’unica soluzione possibile, apparentemente vincendo resistenze inespresse. Il pontefice prescrive però misure di controllo per evitare abusi o critiche. Scrivendo al vescovo di Fano, Fortunato, Gregorio autorizza la vendita di beni preziosi per pagare un debito contratto dalla chiesa della città per il riscatto di prigionieri ma prescrive che questa debba avvenire alla presenza di un defensor ecclesiae che verifichi che la vendita avvenga solo nella misura richiesta per il pagamento del debito[57]. In qualche caso si tratta della vendita di una cospicua quantità di beni, per riscattare centinaia di prigionieri, come nel caso, attestato da Vittore di Vita, della vendita fatta dal vescovo di Cartagine, per riscattare i prigionieri romani di Genserico[58]. In altri casi si tratta di vendite più limitate, per il riscatto di singoli prigionieri, spesso ecclesiastici. Gregorio Magno richiama il caso della spesa di undici libbre d’argento da parte della chiesa di Fermo per il riscatto di un suo chierico, poi divenuto vescovo, e dei suoi due figli. Sembrano esserci state pressioni, di provenienza indefinita, per una restituzione del riscatto. Gregorio rassicura i due figli, ribadendo che il riscatto è stato un’opera di carità, dalla quale non possono provenire fastidi per i riscattati. Sono attestati però anche casi di abusi in questo ambito. Prisco riporta un episodio riguardante il vescovo di Sirmio, il quale, temendo di essere catturato o addirittura ucciso dagli Unni che assediavano la città, affida vasi d’oro della chiesa ad un Costanzo, con l’impegno di impiegarli nel suo riscatto, nel caso fosse stato preso prigioniero, o per la liberazione dei prigionieri della città, nel caso che fosse stato ucciso. Costanzo deposita questi beni preziosi presso un banchiere a Roma come pegno per il prestito di una somma di denaro. Attila rivendica addirittura questi beni come parte del bottino fatto a Sirmio che gli sarebbe stata sottratta.[59]

È naturale poi che nel generale collasso delle autorità statali e municipali, il vescovo diventi l’attore principale anche nelle trattative con i barbari per il riscatto dei prigionieri, anche se le fonti che possediamo, che sono in gran parte fonti ecclesiastiche, presumibilmente enfatizzano, al di là della realtà, il loro ruolo. Nelle fonti agiografiche la manifestazione più impressionante del carisma dei santi vescovi in questo ambito è la restituzione dei prigionieri senza il pagamento di alcun riscatto. Nella Vita scritta da Eugippio, il re degli Alamanni trema addirittura di fronte a Severino, impressionato dalla sua figura carismatica e restituisce gratuitamente una moltitudine di prigionieri[60]. In un altro passo dello stesso testo Severino convince la moglie del re dei Rugi Feva di essere oggetto di un punizione divina e di dovere placare l’ira divina con la restituzione dei prigionieri romani[61]. Nei Dialogi di Gregorio Magno, un presbitero di Norcia, Sanctulus, chiede ed ottiene da un capo longobardo, impressionato da un miracolo che egli aveva compiuto, che vengano liberati tutti i prigionieri che la banda portava con sè[62].

Il rispetto dei re barbarici per i vescovi si manifesta però anche in documenti ufficiali. Un’epistola di Clodoveo ai vescovi aquitanici concede la liberazione di prigionieri, chierici o laici fatti in pace nostra purché i vescovi intervengano per prigionieri definiti con lettere segnate dal loro sigillo che essi stessi possano riconoscere come autentiche. I vescovi potevano attivare, a favore dei prigionieri da riscattare o dei familiari da sostenere in questo impegno, una rete di solidarietà ecclesiastica. Per esempio, Fausto di Riez scrive a Ruricio vescovo di Limoges presentandogli il caso di un personaggio, latore della lettera, che era stato fatto prigioniero in territorio burgundo nella regione di Lione e che vorrebbe riscattare moglie e figli che sono ancora prigionieri. Il vescovo di Riez chiede che venga accolto e che gli vengano fornite lettere di raccomandazione presso altri personaggi non specificati[63]. Lo stesso Ruricio scrive al vescovo di Arles Aeonius caldeggiando il caso del presbitero Possessor che si era indebitato per il riscatto del fratello, del quale aveva avuto notizia dal vescovo Eumerio di Nantes.

Nell’Italia del V-VI secolo il pontefice romano non solo autorizza e sollecita interventi delle chiese locali a favore del riscatto di prigionieri, ma interviene talora direttamente in questa operazione. Il Liber pontificalis riporta che papa Simmaco aveva riscattato a Milano ed in Liguria prigionieri, che risalivano presumibilmente alla guerra tra Odoacre e Teoderico[64]. Gregorio Magno chiede al vescovo di Ravenna Iohannes, non potendo inviare direttamente denaro alla chiesa di Fano per timore che possa essere intercettato dai Longobardi, di inviare un abate Claudio con denaro sufficiente al riscatto di prigionieri[65]. Lo stesso papa invia una cospicua somma di denaro al subdiacono Anthemius a Napoli chiedendo di sostenere le chiese della Campania nel riscatto dei prigionieri nei casi in cui le loro risorse non fossero sufficienti[66]. L’impegno delle chiese nel riscatto dei prigionieri riguarda, almeno principalmente, prigionieri romani e cristiani. Abbiamo però testimonianze di vescovi a favore del riscatto di prigionieri non romani e non cristiani. All’inizio del V secolo il vescovo Acacio di Amida riscatta, vendendo i vasi sacri della chiesa ben 7.000 prigionieri persiani detenuti dai romani[67]. I prigionieri infedeles che Cesario riscatta ad Arles, secondo la testimonianza della sua Vita, sono barbari, Franchi o Burgundi. Nel VII secolo nella narrazione della sua Vita, Eligio di Noyon riscatta prigionieri provenienti da genti diverse, Romani, Galli, Britanni Sassoni e Mauri.

Nonostante l’impegno delle chiese e dei privati nel riscatto dei prigionieri, molti prigionieri non avevano possibilità di riscatto e dunque rimanevano in territorio barbarico se non riusciva loro, come accadeva non infrequentemente, di fuggire. Procopio scrive che una parte dei prigionieri romani fatti dai Gepidi in Illirico e in Dalmazia ed i barbari rivendicavano il diritto di dare la caccia ai fuggitivi anche in territorio romano[68]. Ennodio riporta che il vescovo di Pavia Epifanio apprende che molti prigionieri romani deportati in territorio burgundo erano fuggiti[69]. D’altra parte non si deve pensare che la permanenza presso i barbari apparisse a tutti, particolarmente agli appartenenti ai ceti inferiori della società romana, una sorte peggiore di quella che avevano in patria. Molti romani si aggregavano volontariamente ai barbari. Fausto di Riez insinua che l’abitudine a risiedere presso i barbari ed il buon trattamento ricevuto possa spingere alcuni addirittura a rifiutare il riscatto ed il ritorno in patria[70].

 

7.       Il ritorno in patria dei prigionieri

 

Il ritorno in patria di prigionieri che dovevano a volte percorrere lunghe distanze comportava certamente problemi logistici non semplici ai quali in genere le fonti non prestano attenzione. La Vita di Cesario di Arles racconta che il vescovo offrì carri e bestie da soma ai prigionieri della città di Orange che egli aveva riscattato in Italia. Ma i problemi del ritorno in patria non stanno solo nella lunghezza e nella difficoltà del viaggio. C’è anche la difficoltà di provare il proprio status di ingenui in un territorio in cui si è sconosciuti. È significativa a questo proposito una costituzione di Onorio del 408, che abbiamo già richiamato, in cui si parla dello spostamento in massa nell’Illirico di popolazioni che temevano le incursioni dei barbari: questo li esponeva alla libido di molti che, approfittando dell’incertezza dello status di questa gente, avrebbe voluto rivendicarli come schiavi. Un’altra costituzione di Onorio che pure abbiamo già richiamato, descrive situazioni in cui i prigionieri riscattati erano trattenuti contro la loro volontà, presumibilmente da quegli stessi che li avevano riscattati, e cerca un compromesso tra le aspettative dei redemptores e la legittima aspirazione al ritorno in patria con il diritto di postliminium dei prigionieri, stabilendo che chi non poteva ripagare la somma spesa per il riscatto doveva prestare servizio presso chi li aveva riscattati per un periodo di cinque anni. Una situazione del genere viene richiamata anche in una lettera di Gregorio Magno: i quattro fratelli di un presbitero gallico erano stati riscattati da Ebrei e trattenuti al loro servizio. Anche in questo caso non si può escludere che la situazione possa essere accettata. La costituzione di Onorio che abbiamo richiamato parla di invitos retinere, allude dunque implicitamente ad una situazione in cui si può accettare di restare presso i redemptores anche volontariamente.

 

Abstract: The work deals with population displacements, by necessity or compulsion, during the period of the great barbarian invasions in the West from the end of the 4th to the 7th century. It follows the vicissitudes of the Roman refugees especially in Italy during the war between the Goths and the Byzantines and the Lombard invasion and in the Noricum in the testimony of Eugippius’ Vita Severini, A consequence of the barbarian invasions is the capture of masses of Roman prisoners, who if not they are slaughtered, as sometimes happens especially for male prisoners, or rescued immediately, they are deported even at considerable distances and are employed as domestic servants, as warrior valets or as agricultural workers in barbaric territory or put up for sale on the markets. These prisoners are sometimes bought by slave traders and sold even in Roman territory, or they are redeemed by benefactors, sometimes ecclesiastics, or by and on behalf of relatives. Churches are strongly engaged in this which is considered an essential gesture of charity and which often receive donations with this specific purpose. The eventual return home of prisoners is not without risks since in addition to the difficulties of the journey there is the possibility that, due to ignorance of their status, they are claimed as slaves by local possessors.

 

Keywords: Refugees, prisoners of war, work in slavery, selling them as slaves, redemption as a work of charity


* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] Cfr. V. Neri, I marginali nell’Occidente tardo antico. Poveri, infames e criminali nella nascente società cristiana, Bari 1998, pp.190-194.

[2] Aug., Ep. 228.

[3] Eug., Vit. Sever. 27.

[4] Eug., Vit. Sever. 31.

[5] Greg. Magn., Ep. 2, 13.

[6] Greg. Magn., Ep. 3, 30.

[7] Rutil. Namat., de red. vv. 325-336.

[8] Hieron., Ep. 130, 5.

[9] Hieron., In Ezech. 3, prol.

[10] Hieron., loc. cit.; Aug., serm. 81, 9.

[11] Greg. Magn., Dial.3, 13, 1-3.

[12]Oltre a V. Neri, Prigionieri romani dei barbari, in M. Vallejo Girvés - J.A. Bueno Delgado - C. Sanchez-Moreno Ellart (ed.), Movilidad forzada entre la Antiguedad clasica y tardia, Alcalà2015, pp. 75-90, non abbiamo trattazioni sistematiche del tema se non la tesi di dottorato non pubblicata di H. Huntzinger, La captivité de guerre en occident dans l’antiquité tardive (378-507). Sono relativamente rari d’altronde anche gli studi su momenti specifici del tema, come quello di W. Klingshirn, Caesarius of Arles and the ransoming of captives in -Roman Gaulin Journal of Roman Studies, 75 (1985), pp. 183-203; D. De Giorgio, Cesario di Arles e la “redemptio” dei “captivi infideles:Vita Caesarii, I, 32-33, in Critica storica,26 (2005), pp. 671-682; P. Van Minnen, Prisoners of war and hostages in Graeco-Roman Egypt, in Journal of juristic papyrology, 30 (2000), pp. 155-163; K. Mosig-Walburg, Deportationen römischer Christen in das Sasanidenreich durch Shapur I und ihre Folgen: eine Neubewertung, in Klio, 92 (2010), pp. 117-156.

[13] Greg. Tur., Pass. S. Iul. 7.

[14] Ambr., de off. 2, 15, 70.

[15] Zos. 5, 5, 6.

[16] Syn., or. 2, 3.

[17] Proc., Bell. Goth. 2, 18, 19.

[18] Greg. Magn., Ep. 7, 35.

[19] Faust. Reiens., Ep. 11.

[20] Vict. Vit., Hist. Perse. Afr. Prov.1, 25.

[21] Ennod., Vita Epiph. 171.

[22] Vit. Caes. 1, 36.

[23] Eug., Vita Sever. 9, 1.

[24] Aug., Ep. 111, 7.

[25] P. Heather, Empire and barbarians. The fall of Rome and the birth of Europe, Oxford 2012.

[26] Prisc., frg. 11, 2.

[27]Cfr. E. A. Thompson, The Visigoths in the Time of Ulfila, Oxford 1966; N. McLynn, Little Wolf in the Big City: Ulfila and his Interpretes, inJ. Drinkwater - B. Salway (ed.), Wolf Liebeschütz Reflected. Essays Presented by Colleagues, Friends and Pupils, London 2007, pp. 125-136; A. Chauvot, Ulfila dans l’oeuvre de Philostorge, in D. Meyer en collaboration avec B. Bleckmann - A. Chauvot - J.M. Prieur (éd.), Philostorge et l’historiographie de l’Antiquité Tardive, Stuttgart 2011, pp. 289-306.

[28]Cfr. Mosig-Walburg, Deportationen, cit., pp. 151 ss.

[29]Vict. Vit., Hist. pers. Afr. prov. 3, 67.

[30] Eug., Vita Sever. 9, 1.

[31] Vit. Elig.Noviom. 1, 9.

[32] Proc., Bell. 3, 5, 22-23.

[33]Ambr., de off. II, 15, 70: “fuerunt tamen qui et quos ecclesiae redemerunt in servitutem revocare vellent, ipsa graviores capti vitate qui inviderent alienae misericordiae. Ipsi si in captivitatem venissent servirent liberi, si venditi fuissent servitutis ministerium non recusarent...”

[34] CTh 10, 10, 25.

[35]Max. Taur., Serm. 18, 3: “Bonum est emere, sed in pace quod propria uoluntate uenditur, non in depraedatione quod raptum est. [...] Unde enim barbaro auri gemmarumque monilia? Unde, rogo, Romana mancipia? Scimus ea conprouincialium nostrorum esse uel ciuium”.

[36] Zos. 3, 4, 4; Amm. ??

[37] Claud., Bell. Get., vv. 616-622.

[38] Prisc., frg. 1.

[39] Proc., Bell. 7, 26.

[40] Proc., Bell, 4, 10, 5; 4, 13.

[41]La costituzione è riportata per intero in CI 8, 50, ma il passo riguardante l’intervento dei cristiani è riportata anche in CI 1, 4, 11, accennando più specificamente al ruolo dei vescovi (ad reverentiam pontificalem).

[42]CI 1, 3, 28, 1: “in autem, persona non designata, testator absolute tantum modo summam legati vel fideicommissi taxaverit, quae debeat memoratae causae proficere, vir reverentissimus episcopus illius civitatis, ex qua testator oritur habeat facultatem exigendi, quod huius rei gratia fuerit derelictum, pium defuncti propositum sine ulla cunctatione, ut convenit, impleturus. Vict.Vit., Hist. Pers. Afr. Prov.3, 67.

[43] CJ 1, 3, 48 pr.

[44]Ruric. Lemov., Ep. II, 8. Cfr. l’edizione con commento di M. Neri, Pisa 2009. Cfr. anche C. Moussy, La correspondance de Rurice de Limoges, in L. Nadjo - E. Gavoille (éd.), Epistulae antiquae. Actes du I colloque Le genere epistolaire antique et ses prrolongements, Louvain-Paris 2000, pp. 85-99.

[45]Greg. Magn., Ep. VII, 35.

[46]Ambr., de Tob. 3, 9: simul ut aliqui necessitate constrictus aut pro suorum redemptione sollicitus,quos captiuos barbarus uendat, rogare coeperit, statim diues uultum auertit, naturam non recognoscit,humilitatem supplicis non miseratur, necessitatem non subleuat, fragilitatem communem non considerat, stat inflexibilis, resupinus, non precibus inclinatur, non lacrimis mouetur, non heiulatibus frangitur, iurans quod non habeat, immo et ipse faeneratorem requirat, ut necessitatibus subueniat suis.

[47]Ambr., de off. II, 15, 71.

[48]Aug., Serm. 134, 3.

[49]CIL XII, 481=ILCV, 179=CLE, 1147. Cfr. su questo impegno da parte di ecclesiastici, CIL XIII, 5251=ILCV, 1079=CLE, 1378=AE, 1997, 1197; ICERV, 278=RIT, 939=CLEHisp, 130=IHC, 413; ICUR II, 4155; RICG 15, 99.

[50]Sirm. 16: “exceptis his, quos quis barbaris vendenti bus emisse docebitur, a quibus status sui pretium propter utilitatem publicam emptoribus aequum est redhiberi, ne ingentis damni consideratio in tali necessitate positis negari faciat emptionem et inveniamur, quorum libertati consuli voluimus, saluti potiusobfuisse”.

[51]Greg. Magn., Ep. IV, 17: “sine aliqua mora sicut sumus praefati restitue, quatenus nec creditorem tempore necessitatis afflicto subvenisse paeniteat,et hic onere maeroris exutus, mente libera officii sui ministerium sollicite ac competenter exhibeat”.

[52]Sirm. 16; “Quibus si quicquam in usum recuperandarum virium vestium vel alimoniae dicatur impensum,humanitati sit praestitum, nec maculet boni facti gloriam avara victualis sumptus repetitio, cum forsitan alimoniae istius mercedes operarum reddiderit compensatio.

[53] Vit. Germ. Paris. 22.

[54] Ioh, Malal., Chron. 18, 59.

[55] Greg. Magn., Ep. 7, 23.

[56] Ambr. De off. 2, 28, 136.

[57] Greg. Magn, Ep. 7, 35: “et sacrorum canonum et legalia statuta permittunt ministeria ecclesiae pro captivorum esse redemptione vendenda…nam sicut omnino grave est frustra ecclesiastica ministeria venundare, sic iterum culpa est imminente huiuscemodi necessitate res maxime desolatae ecclesiae captivis suis praeponere et in eorum redemptione cessare.

[58] Vict. Vit., Hist. pers. Afric. prov., 3, 67.

[59] Prisc., frg. 11, 2.

[60] Eug., Vit. Sever. 19.

[61] Eug., Vit. Sever. 27.

[62] Greg. Magn., Dial, 3, 37.

[63] Faust. Rheg., Ep. 11.

[64] Lib. Pont, 1, 53, 11.

[65] Greg. Magn., Ep. 2, 38.

[66] Greg. Magn., Ep. 6, 32.

[67] Socr., H.E. 7, 21.

[68] Proc., Bell. 7, 33.

[69] Ennod., Vit. Epiph. 172.

[70]Faust. Rheg., de grat. 16: “…si forte illic aliquos de captivis vel oblectatio consuetudinis vel male blandus praedo sollicitet.

Neri Valerio



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