fbevnts Poverty and Work: New Challenges for the Law

Povertà e lavoro: le nuove sfide per il diritto

28.08.2021

Matteo Corti

Professore ordinario di Diritto del lavoro, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

 

Povertà e lavoro: le nuove sfide per il diritto*

 

English title: Poverty and Work: New Challenges for the Law

DOI: 10.26350/18277942_000043

 

Sommario: 1. Il contrasto alla povertà: alle radici del diritto del lavoro. 2. La laboriosità come antidoto alla povertà nel diritto del lavoro repubblicano. 3. I diritti di chi è senza lavoro: ammortizzatori sociali e servizi per l’impiego contro la povertà. 4. Dalla laboriosità alla cittadinanza: la lunga marcia dell’assistenza sociale contro la povertà. 5. Le sfide del nuovo millennio e l’impatto della pandemia: la povertà dentro e fuori il lavoro. 6. La lotta alla povertà oltre la pandemia: la centralità del lavoro.

 

 

  1. Il contrasto alla povertà: alle radici del diritto del lavoro

 

Il saggio si propone di esaminare gli strumenti attraverso i quali il diritto del lavoro, inteso in senso ampio e comprensivo di previdenza e assistenza, combatte la povertà, per verificare se essi siano tuttora adeguati alla luce delle sfide più recenti, provenienti dalla globalizzazione, dall’evoluzione tecnologica, dalla pandemia[1].

La nascita del diritto del lavoro è strettamente connessa ai drammi dell’industrialismo, cui intende porre rimedio: la funzione di lotta contro la povertà è, dunque, congenita nella disciplina[2]. Il problema del pauperismo era ovviamente ben presente anche nei secoli precedenti, tanto da richiedere specifici interventi dei pubblici poteri e un costante impegno caritatevole delle organizzazioni religiose. In particolare, nell’Europa del nord prevalsero le cd. poor laws, culminate con la sistemazione elisabettiana del 1601 nel Regno Unito[3], mentre nell’Europa mediterranea e nel nostro Paese rimase centrale il ruolo degli enti di beneficenza e assistenza gestiti dalla Chiesa e dagli ordini religiosi[4]. E’, tuttavia, con la Rivoluzione industriale, la cui scintilla scocca nel Regno Unito nella seconda metà del ‘700 e si diffonde rapidamente nel resto d’Europa e nel Nordamerica, che la povertà diventa questione sociale. Il massiccio trasferimento di lavoratori dalle campagne nelle città alimenta le nascenti fabbriche e la produzione, senza garantire, però, standard di vita dignitosi a chi trascorre negli opifici la maggior parte del giorno e, talora, anche della notte. Le regole di impiego della forza lavoro sono quelle del libero mercato, imposte dalla borghesia trionfante all’indomani della Rivoluzione francese: il panorama desolante del pauperismo industriale è ben documentato dai movimenti letterari del realismo e del naturalismo.

L’intervento dello Stato è inizialmente limitato al diritto pubblico, che pone prescrizioni e divieti con riferimento a specifiche questioni di particolare urgenza sociale: si tratta, in particolare, della tutela di donne e bambini, nonché della salute e sicurezza del lavoro[5]. Un ruolo pionieristico è svolto dai factory laws britannici, che risalgono alla prima metà dell’Ottocento, ma l’esempio si diffonde presto nella altre aree industrializzate d’Europa. Il dogma della libertà contrattuale non viene, però, scalfito per tutto il XIX secolo. Alla fine dell’Ottocento, invece, sono posti i tasselli fondamentali della previdenza sociale: in Germania i rischi protetti già coprono la vecchiaia, la malattia e gli infortuni, mentre in Italia, nel 1898, viene introdotta l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, le cui linee essenziali di disciplina sopravvivono ancora oggi. Entro il primo conflitto mondiale la maggioranza degli Stati dell’Europa occidentale avrà già introdotto schemi pubblici di assicurazione o di previdenza, obbligatori o volontari, con riferimento alla malattia, alla vecchiaia e agli infortuni[6].

Ma le origini del diritto del lavoro non affondano soltanto nell’intervento legislativo statale, vieppiù intenso un po’ ovunque nel mondo occidentale a partire dal XX secolo, bensì si rinvengono anche nell’autotutela collettiva dei lavoratori stessi. Per gran parte del XIX secolo essa è ostacolata dai dogmi del libero mercato, che la considerano un intralcio al corretto funzionamento dei meccanismi concorrenziali. I divieti di coalizione, seminati un po’ in tutta Europa sull’esempio della Loi Le Chapelier[7], sospingono il movimento sindacale ora in una pericolosa clandestinità, foriera di tentazioni insurrezionali, ora verso l’organizzazione di utili, benché insufficienti, forme mutualistiche di previdenza e assistenza. Quando, finalmente, i vincoli all’azione sindacale vengono rilassati, l’autonomia collettiva assurge pienamente a fondamentale pilastro di tutela dei lavoratori contro la povertà, in particolare per il suo ruolo determinante nella fissazione dei livelli salariali tramite i contratti collettivi. Va osservato che nella tradizione anglosassone e, ancora di più, in quella scandinava l’autonomia collettiva giungerà a rappresentare nel XX secolo lo strumento principale di regolazione delle condizioni di impiego dei lavoratori, relegando la legge in una posizione secondaria[8].

Con la fine del primo conflitto mondiale, il diritto del lavoro vive un momento di consacrazione cruciale, con l’istituzione, ad opera del Trattato di Versailles, dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL)[9]. Il ruolo della disciplina nella promozione di condizioni di vita e di lavoro dignitose travalica ormai i confini nazionali. Gli orrori della guerra, in seno alla quale matura la Rivoluzione d’Ottobre con le sue rivendicazioni sociali estreme, spingono le nazioni occidentali a riconoscere quanto importante sia, per il consolidamento di una pace duratura, la lotta alla povertà e allo sfruttamento del lavoro salariato. Il monito non rimarrà inascoltato: a livello internazionale, si moltiplicano tra le due guerre le convenzioni dell’OIL; a livello nazionale, il diritto del lavoro progredisce un po’ ovunque in Europa e si radica infine nel contratto di lavoro subordinato, chiamato a veicolarne le istanze di protezione[10]. La tragedia del secondo conflitto mondiale non interrompe questo processo, anche perché nel dopoguerra raggiunge la piena maturità la civiltà industriale, per la quale il diritto del lavoro, ormai ampiamente rodato nei decenni precedenti, rappresenta lo strumento ideale di lotta alla povertà e di equa ripartizione della ricchezza creata dal progresso tecnologico. Occorre, ora, abbandonare questa breve digressione storica sulle origini della nostra materia, per esaminare più da vicino come il diritto del lavoro repubblicano ha fronteggiato le insidie della povertà.

 

  1. La laboriosità come antidoto alla povertà nel diritto del lavoro repubblicano

 

Il lavoro si pone al centro del disegno costituzionale[11], come già si desume dalla sua collocazione nel primo comma dell’art. 1. La sua presenza in tale disposizione riveste un duplice significato. Per un verso, inteso come attività caratterizzante dell’essere umano, il lavoro costituisce una sineddoche e vuole affermare il fondamento personalistico dello Stato repubblicano[12]. Sotto questo profilo, l’apertura della nostra carta costituzionale non differisce di molto da quella tedesca, che impegna solennemente la Repubblica federale a rispettare la dignità dell’uomo[13]. Per altro verso, il riferimento al lavoro intende chiarire ab initio la cesura valoriale dello Stato repubblicano rispetto al proprio predecessore, ancora impregnato dei privilegi e delle rendite di posizione ereditate dall’ancien régime. Il lavoro, inteso nella più ampia accezione di qualsiasi «attività» o «funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società», costituisce, a un tempo, tratto distintivo dell’homo republicanus e dovere del cittadino (art. 4, co. 2, Cost.)[14].

Se, dunque, la “laboriosità” è al centro del disegno costituzionale, non stupisce che attorno ad essa l’ordinamento repubblicano abbia edificato robuste protezioni, onde permettere a chi lavora di affrancarsi dalla povertà[15]. Benché l’art. 35, co. 1, Cost. imponga alla Repubblica di tutelare il lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni», la legislazione protettiva si è tradizionalmente concentrata attorno al lavoro subordinato, nel quale la soggezione giuridica al potere direttivo datoriale, sancita dall’art. 2094, c.c., si accompagna assai frequentemente alla debolezza economica nel mercato del lavoro. Il lavoro autonomo, riconducibile senza particolari forzature alla direttrice di tutela dell’art. 35, co. 1, Cost.[16], ha, invece, ricevuto attenzioni assai minori. L’archetipo codicistico di cui agli artt. 2222 ss., c.c., e ancor di più quello delle professioni intellettuali (artt. 2229, ss., c.c.), sottintende un lavoratore autonomo forte e indipendente sul mercato, riservando, non a caso, attenzioni assai maggiori alla protezione dei suoi clienti.

Ma questa situazione, tipica dell’epoca in cui il codice fu varato, è andata progressivamente mutando nei decenni successivi. Per un verso, la prassi ha moltiplicato il ricorso a schemi di lavoro formalmente autonomo per eludere le tutele apprestate per quello subordinato; per altro verso, lo stesso lavoro autonomo si è frammentato e articolato, manifestando esigenze di protezione sconosciute in precedenza. Il legislatore ha contrastato il fenomeno della cd. “falsa autonomia” sia percorrendo la strada dell’avvicinamento dei costi contributivi del lavoro autonomo a quelli del lavoro subordinato[17], sia combattendo in vario modo l’utilizzo del lavoro autonomo come sostituto funzionale di quello subordinato.

Questa seconda strategia è stata, per vero, condotta in modo meno coerente rispetto alla prima. Originariamente, con il decreto “Biagi” (d.lgs. n. 276/2003), si è imposto alle parti stipulanti collaborazioni coordinate e continuative di individuare un progetto di lavoro, in modo da assicurare la natura genuinamente autonoma del rapporto (art. 61, co. 1)[18]; nel contempo, però, in modo piuttosto contraddittorio si è dotato il lavoro a progetto di un corredo di tutele ispirate al lavoro subordinato, compreso, in particolare, l’aggancio del corrispettivo alla retribuzione dei dipendenti occupati in mansioni analoghe ai compiti svolti dai co.co.pro. (art. 63)[19]. In un secondo momento, con il Jobs Act renziano, si è mutata totalmente strategia. Per un verso, si è vietata la stipulazione di contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro, poiché essi erano diventati un nuovo viatico di elusione delle tutele lavoristiche (art. 53, co. 1, d.lgs. n. 81/2015)[20]. Per altro verso, la conclusione di collaborazioni coordinate e continuative è ritornata totalmente libera, mentre si è disposta l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato alle collaborazioni di carattere continuativo organizzate dal committente (art. 2, co. 1, d.lgs. n. 81/2015). Con il d.l. n. 101/2019 l’ambito di applicazione della previsione è stato ulteriormente dilatato, poiché ora le collaborazioni coinvolte possono essere anche prevalentemente (e non più solo esclusivamente) personali, nonché organizzate tramite piattaforme (anche) digitali [art. 2, co. 1, d.lgs. n. 81/2015, come modificato dall’art. 1, co. 1, lett. a), nn. 1-2, d.l. n. 101/2019, conv. in l. n. 128/2019][21].

La diversificazione del lavoro autonomo, strettamente correlata alla terziarizzazione dell’economia, ha condotto sia al fiorire di nuove professioni, sia a una più serrata concorrenza tra i professionisti tradizionali. Il fenomeno dell’impoverimento del lavoro autonomo è stato fronteggiato dal legislatore predisponendo una disciplina specifica «a tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale», contenuta nei primi 17 articoli della l. n. 81/2017[22]. La regolazione proposta prende atto dell’irriducibilità ontologica tra lavoro genuinamente autonomo e lavoro subordinato[23], e opportunamente non replica, né estende le protezioni di quest’ultimo. La l. n. 81/2017 si muove, invece, su tre fronti: il rafforzamento dei lavoratori autonomi sul mercato dei beni e servizi, con il divieto di talune condotte e clausole contrattuali che manifestano la sproporzione di potere contrattuale in favore del committente (artt. 2-3)[24]; l’irrobustimento delle tutele previdenziali (art. 6), in particolare in favore delle collaborazioni coordinate e continuative (art. 7)[25]; incentivi fiscali alla formazione continua (art. 9, co. 1) e sostegno al placement (art. 10)[26]. Nello stesso solco si pone l’intervento di poco successivo, volto a garantire, in particolare, un equo compenso ai lavoratori autonomi: lungi dal rappresentare una sorta di salario minimo, la misura interviene per proteggere il lavoratore autonomo là dove il compenso appaia inadeguato in quanto frutto dell’imposizione di un committente forte (banche, assicurazioni, grandi imprese) (art. 13-bis, d.lgs. n. 247/2012, in connessione con l’art. 19-quaterdecies, co. 2, d.l. n. 148/2017, conv. in l. n. 172/2017).

La garanzia di un salario minimo dignitoso costituisce, invece, la principale tutela dei lavoratori subordinati contro la povertà. In effetti, mentre il lavoratore autonomo è un attore libero sul mercato e può incrementare il proprio reddito reperendo nuovi clienti o committenti, con la stipulazione del contratto di lavoro subordinato il lavoratore esce dal mercato, non soltanto mettendo a disposizione del datore una fetta normalmente consistente del proprio tempo, ma anche impegnandosi a non svolgere attività in concorrenza con il datore (art. 2105, c.c.)[27].

La Costituzione repubblicana, per la quale il lavoro costituisce il principale strumento di affrancamento dalla povertà, è particolarmente generosa sotto questo profilo. Ai sensi dell’art. 36, co. 1, Cost., il lavoratore ha diritto a una retribuzione non soltanto proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, ma anche sufficiente a garantire a lui e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa[28]. La norma, ispirata al giusto salario della dottrina sociale cattolica[29], va oltre il tradizionale strumento del salario minimo legale, per sua natura volto a garantire la sola sufficienza della retribuzione, e perciò intercategoriale e indifferenziato. Benché la previsione di un salario minimo legale non si ponga in contrasto con l’art. 36, co. 1, Cost., la disposizione costituzionale esige un quid pluris, ponendosi in collegamento dialettico con l’art. 39, Cost. Nel disegno del costituente il compito di garantire la sufficienza e la proporzionalità della retribuzione spetta, in primo luogo, all’autonomia collettiva, dotata di efficacia erga omnes ai sensi dei co. 2-4 dell’art. 39.

Non è qui possibile affrontare le ragioni storiche della mancata attuazione dei co. 2-4 dell’art. 39, Cost. e della peculiare realizzazione per via giudiziale di quanto prescritto dall’art. 36, co. 1, Cost. E’, invece, importante sottolineare che, sin dalla prima metà degli anni ’50 del secolo scorso[30], la giurisprudenza ha costantemente assicurato l’efficacia diretta nei rapporti interprivati del precetto costituzionale, facendo riferimento ai minimi tabellari previsti dai contratti di categoria[31]. La via giurisprudenziale al salario minimo ha garantito estrema flessibilità al modello italiano, poiché i giudici si sono sempre riservati la possibilità di discostarsi, in melius o in pejus, dai CCNL, quando li consideravano inadatti al caso concreto. Più di recente, la giurisprudenza sull’art. 36, co. 1, Cost. ha pure contribuito a contrastare la contrattazione pirata[32], selezionando come referenti i CCNL stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative: questa evoluzione ha incontrato l’autorevole conforto del supremo giudice delle leggi (C. Cost. n. 51/2015)[33].

In ultima analisi, questa pluridecennale giurisprudenza ha enormemente favorito la diffusione e il rispetto dei contratti collettivi. Tale obiettivo è stato perseguito attivamente anche dal legislatore ordinario, che ha costantemente potenziato gli strumenti volti ad ampliare in via indiretta l’ambito di efficacia soggettiva dei contratti collettivi: primeggiano quelli che subordinano alla loro applicazione benefici normativi ed economici (art. 1, co. 1175, l. n. 296/2006), nonché la partecipazione ad appalti pubblici (art. 36, l. n. 300/1970; art. 30, co. 3, d.lgs. n. 50/2016). Grazie a quest’azione sinergica, il tasso di copertura della contrattazione collettiva in Italia si colloca ai livelli più elevati d’Europa, insieme ai Paesi scandinavi[34]: e l’applicazione del contratto collettivo al rapporto di lavoro rappresenta sicuramente uno dei contributi più importanti alla tutela dei lavoratori italiani contro la povertà.

Vi è, però, una larga fetta di lavoratori che non gode delle più elementari tutele, né di legge, né di contratto collettivo: si tratta di coloro che sono intrappolati nelle maglie dell’economia informale[35]. Il fenomeno ha nel nostro Paese una storia risalente e solide radici, e negli anni più recenti ha anche cambiato sostanzialmente volto, intrecciandosi sempre più frequentemente con la criminalità organizzata che organizza il traffico di esseri umani. In questa materia l’approccio sistemico è importante, cosicché il legislatore alterna il sostegno all’emersione e alla qualità e regolarità del lavoro, specie agricolo, al potenziamento delle funzioni ispettive e della deterrenza penale (v., per es., la l. n. 199/2016).

Sotto quest’ultimo profilo è emblematico l’art. 603-bis, c.p., introdotto nel 2012, che punisce il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. La disposizione, che sanziona tanto il cd. “caporale” quanto chi direttamente sfrutta i lavoratori, individua altresì gli indici di tale sfruttamento. Sono elencati la reiterata corresponsione di retribuzioni inferiori ai minimi dei contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi, la reiterata violazione della normativa sull’orario e sui riposi, la violazione delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro e, più in generale, la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti. La disposizione, seppur dalla formulazione un po’ imprecisa agli occhi del giuslavorista, riveste un importante valore sistematico, individuando a contrariis i confini del lavoro dignitoso, in grado di affrancare chi lo esercita dai vincoli del bisogno. 

 

  1. I diritti di chi è senza lavoro: ammortizzatori sociali e servizi per l’impiego contro la povertà

 

La centralità del lavoro nella Carta costituzionale repubblicana si incarna altresì nell’art. 4, co. 1, che riconosce solennemente a tutti i cittadini il diritto al lavoro e impegna la Repubblica a renderlo effettivo, nonché nell’art. 38, co. 2, Cost.[36], che garantisce mezzi adeguati alle esigenze di vita in caso, tra l’altro, di disoccupazione involontaria.

Sotto quest’ultimo profilo, il sistema di previdenza sociale si è attivato precocemente. Già all’inizio del secondo conflitto mondiale (1941) nel settore industriale la contrattazione collettiva aveva posto le basi della cassa integrazione guadagni[37], un istituto previdenziale che assicura una prestazione integrativa della retribuzione persa nel caso di disoccupazione parziale[38] (ovvero di sospensione totale o parziale dell’obbligazione lavorativa da parte del datore per mancanza temporanea di lavoro)[39]. Negli anni successivi, a partire dal 1945, il legislatore si è appropriato dello strumento, perfezionandolo ed estendendone continuamente l’ambito di applicazione. Sono comparse le gestioni ordinaria e straordinaria. La prima fronteggia sospensioni temporanee di entità normalmente ridotta, in quanto riconducibili a situazioni di mercato e a eventi transitori non imputabili né al datore, né ai lavoratori (v. ora l’art. 11, d.lgs. n. 148/2015); la seconda, invece, è chiamata in causa quando l’impresa necessita di una riorganizzazione o si trova in una situazione di crisi, e quindi richiede un sostegno di più lunga durata (v. ora l’art. 21, d.lgs. n. 148/2015). Il sistema della cassa integrazione (di seguito: CIG) è stato, inoltre, esteso all’agricoltura e all’edilizia, e la gestione straordinaria, inizialmente limitata all’industria, ha progressivamente incluso nuovi settori che venivano via via investiti da crisi sistemiche, come la grande distribuzione commerciale o il trasporto aereo.

Sono stati diversi i tentativi di razionalizzare l’istituto, cresciuto in maniera caotica e disorganica: devono segnalarsi, almeno, gli interventi più recenti, ovvero le leggi n. 223/1991[40] e n. 92/2012[41], nonché il d.lgs. n. 148/2015[42]. Gli ultimi due interventi hanno, altresì, rafforzato la vocazione universalistica delle integrazioni salariali, peraltro affidando in primis alle parti sociali il compito di completare, a loro spese, la copertura di tutti i settori economici: sono nati così i fondi di solidarietà, che garantiscono prestazioni simili alla CIG là dove questa non operi (artt. 26-27, d.lgs. n. 148/2015)[43], mentre, ove l’autonomia collettiva non si sia attivata, funziona il fondo di integrazione salariale, radicato presso l’INPS (art. 29, d.lgs. n. 148/2015). Va, peraltro, osservato che le prestazioni della CIG sono di norma più generose di quelle dei fondi di solidarietà: infatti, gli importi garantiti da questi ultimi non possono essere inferiori all’integrazione salariale, mentre la durata può essere anche sensibilmente più breve (cfr. gli artt. 30-31, d.lgs. n. 148/2015).

Con riguardo alla disoccupazione involontaria[44], ovvero alla perdita incolpevole del posto di lavoro, il sistema previdenziale italiano si è mosso assai precocemente: già alla fine del primo conflitto mondiale erano state poste le basi dell’assicurazione statale contro la disoccupazione (con il r.d. n. 2114/1919). Tuttavia, nonostante la chiara consegna dell’art. 38, co. 2, Cost., l’indennità ordinaria contro la disoccupazione è stata per lungo tempo lasciata avvizzire: non aggiornata in periodi di elevata inflazione, è presto diventata di importo ridicolo, come denunciato dalla stessa Corte costituzionale con la storica sentenza n. 497/1988[45]. In realtà, negli anni ’70-’90 del secolo scorso, il legislatore ora vagheggiava un utopistico passaggio dei disoccupati da posto a posto, con il sostegno economico della CIG (l. n. 675/1977)[46], ora concentrava i benefici economici più robusti sui lavoratori maggiormente esposti alle ristrutturazioni aziendali, ovvero principalmente quelli appartenenti al settore industriale, riservandogli prima un trattamento speciale di disoccupazione (l. n. 1115/1968), poi, con la l. n. 223/1991, l’indennità di mobilità[47], istituto cui erano collegati particolari sostegni e incentivi alla ricollocazione lavorativa (lista di mobilità) [48].

Una tale situazione di sperequazione tra lavoratori, che riusciva sempre più difficile giustificare alla luce delle peculiarità settoriali, è sopravvissuta, seppur attenuata[49], fino al 2012, quando la legge Fornero ha riscritto e generalizzato la disciplina dell’indennità di disoccupazione, ribattezzata «Assicurazione sociale per l’impiego» (ASPI), prevedendo contestualmente il progressivo phasing out dell’indennità di mobilità (art. 2, co. 1 ss., l. n. 92/2012). L’impianto è stato, infine, ulteriormente affinato dal Jobs Act, con il d.lgs. n. 22/2015[50]. La «Nuova assicurazione sociale per l’impiego» è ormai di applicazione generalizzata, con la sola eccezione dei dipendenti della p.a. a tempo indeterminato e del settore agricolo (art. 2). Con un tasso di sostituzione del 75% (fino a 1227,55 euro di retribuzione; del 25% sugli importi ulteriori) e un tetto massimo di 1335,40 euro, costituisce un ammortizzatore sociale relativamente generoso, tenuto conto anche che la sua durata, pari alla metà dell’anzianità contributiva, può andare da un minimo di 6,5 settimane a un massimo di 24 mesi (artt. 3-5). Il d.lgs. n. 22/2015 ha altresì riprodotto in via sperimentale un sostegno economico per la disoccupazione dei collaboratori coordinati e continuativi (DIS-COLL) già rodato in precedenza, meno generoso, in quanto la durata massima non eccede i 6 mesi, ma comunque significativo (art. 15).

Sia la NASPI, sia la DIS-COLL decrescono in ragione del 3% a partire dal quarto mese di fruizione, per spingere il disoccupato a reperire rapidamente un nuovo posto di lavoro (artt. 4, co. 3, e 15, co. 5, d.lgs. n. 22/2015). Le previsioni che rafforzano la condizionalità, subordinando la fruizione degli strumenti di sostegno al reddito a un contegno attivo e partecipativo del disoccupato nella ricerca dell’impiego (per la NASPI v. l’art. 7, d.lgs. n. 22/2015), sono presenti da lungo tempo nel diritto del mercato del lavoro[51], ma il loro effettivo dispiegarsi è stato ostacolato dalle carenze del sistema di servizi per l’impiego. Per diversi decenni dopo il varo della Costituzione il legislatore ha interpretato l’art. 4, co. 1 come una sorta di mandato a ripartire secondo criteri di equità le occasioni di lavoro disponibili tra i disoccupati: si spiegano in questa luce sia il monopolio statale del collocamento, sia la cd. chiamata numerica, una peculiarità tutta italiana che impediva financo il libero incontro delle volontà del datore di lavoro e del disoccupato. Tale impostazione, presente già in nuce nel periodo corporativo, è stata persino rafforzata dalla legge “Fanfani” della fine degli anni ’40 (legge n. 264/1949) e, successivamente, dallo Statuto dei lavoratori (art. 33-34)[52].

Il passaggio a un moderno sistema di servizi per l’impiego si realizza così soltanto alla fine degli anni ’90 (d.lgs. n. 469/1997; d.lgs. n. 181/2000)[53], con estremo ritardo rispetto ai maggiori Paesi europei (Regno Unito, Francia, Germania)[54], benché non siano mancate nel decennio precedente esperienze regionali di avanguardia, specialmente tra le Regioni a Statuto speciale (Provincia Autonoma di Trento, Valle D’Aosta)[55]. La transizione si realizza, tra l’altro, in un periodo piuttosto infelice, caratterizzato dalla scarsità di risorse generata dai vincoli di Maastricht e dai processi di decentramento, amministrativo prima, legislativo poi. Le riforme del nuovo millennio insistono molto sul coinvolgimento dei privati nella mediazione tra domanda e offerta di lavoro (artt. 4-6, d.lgs. n. 276/2003), mentre il delicato compito di costruzione di un sistema efficiente di servizi per l’impiego viene affidato alle Regioni, anche in ragione dei vincoli costituzionali derivanti dalla riforma del 2001 (l. cost. n. 3). Si assiste così a un nuovo fenomeno, anche questo piuttosto eccentrico sul piano comparato: la regionalizzazione integrale dei servizi all’impiego, con (rare) punte di eccellenza e sconfortanti aree di inefficienza[56]. D’altro canto, l’apertura ai privati contribuisce marginalmente alla fluidificazione del mercato del lavoro, poiché essi sono poco interessati a un’attività scarsamente remunerativa come il placement dei lavoratori, specialmente di quelli con maggiori problematiche di inserimento occupazionale[57].

La faticosa ricostruzione di una governance centrale del sistema, seppur leggera, viene realizzata con il Jobs Act. Il d.lgs. n. 150/2015 istituisce l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (ANPAL), con compiti di coordinamento, assistenza e anche sostitutivi dell’azione delle Regioni (art. 9, co. 1, lett. l), conservando, però, in capo a queste ultime la gestione dei centri per l’impiego e l’erogazione delle misure di politica attiva (art. 11)[58]. Il decreto, in particolare, riordina anche l’apparato sanzionatorio, graduando le conseguenze in termini di decurtazione o decadenza da NASPI, DIS-COLL e integrazioni salariali a seconda della gravità dei comportamenti non cooperativi dei beneficiari, con l’obiettivo di rendere più effettivi i meccanismi di condizionalità (artt. 21-22). Inoltre, rafforza la collaborazione con i privati prevedendo il loro coinvolgimento nell’erogazione del servizio pubblico con lo strumento dell’assegno di ricollocazione. Modellato sull’esperienza lombarda della Dote lavoro[59], l’assegno di ricollocazione prevede la possibilità del disoccupato di scegliere il soggetto accreditato cui affidarsi nella ricerca di un nuovo impiego, mentre l’operatore prescelto viene remunerato per i suoi servizi con risorse pubbliche, che tengono conto anche del risultato occupazionale conseguito (art. 23).

Peraltro, le riforme dell’intelaiatura legislativa dei servizi per l’impiego che si sono susseguite nell’ultimo quarto di secolo non sono state mai supportate da adeguati investimenti in risorse materiali e umane. Nella dottrina più accorta è da tempo maturata la convinzione che la legge possa molto, ma non tutto, e che, specialmente quando venga in gioco l’erogazione di servizi al cittadino, la fase dell’implementazione sia non meno importante di quella della progettazione e della fissazione delle regole[60].

 

  1. Dalla laboriosità alla cittadinanza: la lunga marcia dell’assistenza sociale contro la povertà  

 

Il legislatore ordinario, svolgendo il mandato costituzionale che identifica il lavoro come cifra essenziale dell’impegno della persona nella società, ha circondato tale attività umana di robuste tutele per garantire al lavoratore subordinato, considerato giuridicamente e socialmente più bisognoso di protezione, un adeguato tenore di vita e il suo affrancamento dalla povertà. L’attenzione dell’ordinamento è rimasta elevata anche nei confronti dei lavoratori dipendenti che soffrivano per la discontinuità del lavoro o per la perdita incolpevole della propria occupazione. Per evitare che tali evenienze potessero provocare lo scivolamento delle persone nell’indigenza, è intervenuto il sistema previdenziale con la CIG e l’indennità di disoccupazione. Peraltro, il primato del lavoro ha fatto sì che per lungo tempo questo ramo del sistema previdenziale crescesse in modo disordinato e perfino irrazionale. 

La stessa impostazione “lavoristica” ha riservato protezioni ancora più fragili a coloro che si trovavano al di fuori del mercato del lavoro, non da ultimo per la difficoltà di ravvisare nell’art. 38, Cost. la base giuridica per strumenti volti a sostenere il reddito di chi, pur in grado di lavorare, fosse privo di occupazione e versasse in stato di bisogno[61]. Nel nostro Paese, dunque, il sistema del welfare si è tradizionalmente occupato di sostenere il reddito di coloro che avevano un rapporto di impiego, o lo avevano recentemente perso, abbandonando gli altri alla solidarietà familiare o alle iniziative della carità privata e pubblica[62]. Un sistema di collocamento inefficiente e il diffuso fenomeno di lavoro sommerso completavano il quadro, cementando la segmentazione della società e l’esclusione sociale.

Negli anni ’90 l’assenza di una rete di protezione di ultima istanza viene denunciata dalla Commissione “Onofri” sulla riforma del sistema previdenziale[63]. Con la legge finanziaria per il 1998 (l. n. 449/1997) si avvia la sperimentazione, circoscritta ad alcuni Comuni sparsi sul territorio nazionale, del «reddito di inserimento», erogazione economica legata esclusivamente allo stato di bisogno e finalizzata all’inclusione nel mercato del lavoro. La legge quadro sui servizi sociali (l. n. 328/2000)[64], pur facendo riferimento all’istituto, non ne prevede la stabilizzazione e generalizzazione, cosicché l’esperimento si chiude con un nulla di fatto.

Nel nuovo millennio i tentativi di riproporre strumenti dalle finalità analoghe si moltiplicano, tanto da parte del legislatore nazionale (reddito di ultima istanza, social card, sostegno all’inclusione attiva, assegno sociale di disoccupazione - ASDI), quanto da parte delle Regioni[65]. In effetti, l’art. 117, Cost. prevede la competenza legislativa regionale residuale in materia di assistenza sociale[66], anche se la necessità di un contesto unitario è imposta dalla competenza esclusiva statale sulla «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti […] sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» [art. 117, co. 2, lett. m), Cost.]. Si comprende che la svolta è ormai imminente, anche perché nell’Unione europea, all’inizio dello scorso decennio, soltanto Italia e Grecia non contemplavano alcuno strumento di reddito minimo per chi versasse in stato di bisogno[67]. Tuttavia, gli strascichi della crisi economico-finanziaria, che rendono estremamente difficoltoso reperire le necessarie risorse nelle pieghe del bilancio pubblico, complicano il compito del legislatore, che infine provvede con il d.lgs. n. 147/2017, istitutivo del «reddito di inclusione» (di seguito: REI)[68].

Si tratta finalmente di un istituto di carattere generale, che permette di erogare un sostegno economico ai nuclei familiari in stato di bisogno a condizione che i membri collaborino attivamente con i servizi competenti al superamento delle cause dell’esclusione sociale e lavorativa: dunque, un benefit means-tested e condizionato[69]. Il nuovo nato non ha però il tempo di consolidarsi: in politica, ma anche in dottrina, si comincia a discutere insistentemente di reddito di cittadinanza, ovvero di un emolumento di natura incondizionata e, nelle forme più “aggressive”, pure slegato da qualsiasi tipo di prova dei mezzi[70]. Emerge, insomma, non solo il tema della “liberazione dalla povertà”, ma anche quello della “liberazione dal lavoro”[71], prontamente raccolto dalla parte più populista dello spettro politico, che ne fa il proprio prestige project in vista delle elezioni politiche del 2018.

L’introduzione del «reddito di cittadinanza» (di seguito: RDC) con il d.l. n. 4/2019, conv. in l. n. 26/2019, è, dunque, uno dei primi frutti della partecipazione al governo della Repubblica del Movimento 5 stelle[72]. L’istituto, tuttavia, appare ben diverso dalle forme di reddito minimo incondizionato paventate in precedenza, palesando, invece, elementi di forte continuità con il reddito di inclusione, rispetto al quale si caratterizza per una maggiore generosità[73]. In effetti, il benefit è means-tested e condizionato: di più, lo strumento è congegnato non soltanto come un’erogazione di carattere monetario, ma anche come un pacchetto di servizi volti all’inclusione sociale e al reinserimento lavorativo[74]. La percezione del sussidio è subordinata alla collaborazione di tutti i componenti del nucleo familiare beneficiario. Quelli maggiorenni e job ready sono chiamati a stipulare il patto per il lavoro con il centro per l’impiego[75], mentre gli appartenenti a nuclei familiari con problemi più complessi e multidimensionali rispetto alla semplice assenza di lavoro sottoscrivono con i servizi sociali del Comune il patto per l’inclusione sociale, impegnandosi a cooperare al superamento degli ostacoli di carattere non economico che impediscono la loro piena partecipazione alla vita sociale e lavorativa (v. il lungo art. 4, l. n. 4/2019). Sotto il profilo meramente monetario, però, le discontinuità con il REI sono assai più marcate. Ipotizzando gli importi massimi ottenibili, nel caso di un nucleo familiare di un solo componente il REI mensile raggiungeva 187,50 euro, mentre, con l’inclusione del supplemento per l’affitto, il RDC arriva a 780 euro; nel caso, invece, di un nucleo familiare di quattro adulti, il REI era pari a 461,30 euro, mentre il RDC, sempre integrato con il contributo per l’affitto, raggiunge i 1330 euro[76].

Semmai, è proprio la relativa generosità del RDC a lasciare perplessi. Anzitutto, per l’ingente peso che il RDC esercita sulle finanze pubbliche del nostro Paese, che non godono certo di buona salute. In secondo luogo, per il disincentivo alla ricerca di un impiego che il RDC negli attuali importi può costituire, se si pone mente alla circostanza che il salario medio in Italia si attesta sui 1550 euro (dati Eurostat 2020) e in numerosi settori la retribuzione di primo ingresso contemplata dai CCNL si colloca poco al di sopra dei 1000 euro, con non poche punte al di sotto (non soltanto i lavoratori domestici, ma anche gli operai agricoli e quelli edili). Per smorzare quest’ultima obiezione i fautori del RDC nella sua attuale configurazione insistono sulla condizionalità e sui meccanismi di assistenza all’inclusione sociale e al reinserimento lavorativo di cui è corredato il sussidio[77], senza dimenticare l’obbligo in capo ai beneficiari di RDC di rendersi disponibili ai lavori di pubblica utilità attivati dai Comuni per un numero di ore settimanali comprese tra le otto e le sedici (art. 4, co. 15, l. n. 4/2019). E, tuttavia, si può controbattere che l’apparato sanzionatorio per la mancata cooperazione con i servizi competenti all’attivazione è per taluni aspetti meno severo rispetto a quello contemplato per i percettori di NASPI[78]. E, inoltre, l’assistenza offerta dai servizi per l’impiego e, più in generale, dagli altri soggetti pubblici coinvolti (Servizi sociali comunali, AST) sconta non pochi ritardi e inefficienze, tra l’altro assai più consistenti nelle zone del Paese nelle quali si concentra il maggior numero di percettori del RDC.

Tirando le somme sul RDC, non si può certo negarne il ruolo nel contrasto alla povertà nel nostro Paese[79]: tra il 2018 e il 2019 la povertà assoluta è diminuita in modo consistente (dall’8,4% al 7,7%)[80], e il successivo forte aumento del 2020 (al 9,4%) pare interamente addebitabile alla pandemia (Report Istat sulla povertà del 2020 e 2021). Nel contempo, non si può nemmeno seriamente contestare che, a fronte di un accesso quasi automatico al benefit al ricorrere dei requisiti reddituali previsti (art. 5, co. 3, d.l. n. 4/2019), vi sia un’interazione del tutto insufficiente con gli uffici competenti a prestare assistenza ai beneficiari[81]. Ne risulta un diffuso ricorso abusivo al benefit, testimoniato anche da eclatanti fatti di cronaca[82], e un esito occupazionale della misura del tutto insoddisfacente, pure tenendo conto della drammatica esplosione della pandemia all’inizio del 2020[83]. Insomma, se sotto il profilo formale della regolazione normativa il RDC è cosa ben diversa dal reddito minimo universale e incondizionato, nell’esito pratico l’istituto finisce, quanto meno per ora, per assomigliargli fortemente[84]

 

  1. Le sfide del nuovo millennio e l’impatto della pandemia: la povertà dentro e fuori il lavoro

 

Le sfide che il diritto del lavoro deve ancora affrontare nella lotta alla povertà sono imponenti, e ormai toccano direttamente il rapporto di lavoro. Qui la legge e le dinamiche delle relazioni industriali avevano tradizionalmente protetto in modo adeguato i lavoratori dalla povertà. Ma la globalizzazione dei mercati, le lunghe stagioni di flessibilizzazione e deregolazione del rapporto di lavoro, l’indebolimento dei sindacati e il diffondersi della contrattazione pirata hanno reso ormai consueto il cd. working poor, ovvero la percezione di retribuzioni inadeguate a garantire un tenore di vita dignitoso[85]. Questo fenomeno va oltre il lavoro subordinato e tocca ormai anche ampie frange di lavoro autonomo, perfino professionale, mentre i confini tra subordinazione e autonomia sfumano per l’utilizzo delle nuove tecnologie.

La pandemia ha aggravato il fenomeno del working poor, e i suoi effetti si protrarranno verosimilmente a lungo anche una volta che sarà stata superata. Per un verso, le strade del nostro Paese si sono popolate di riders, le cui condizioni di lavoro sfiorano talora il vero e proprio caporalato tecnologico[86]. Il legislatore, per vero, si era mosso tempestivamente, con il già menzionato d.l. n. 101/2019 (v. retro il par. 2). Il testo normativo, oltre a estendere ai ciclofattorini etero-organizzati la disciplina del lavoro subordinato, ha altresì inserito nel testo unico delle tipologie contrattuali (d.lgs. n. 81/2015) una sezione dedicata ai riders autonomi, con alcune significative tutele di base (capo V-bis). Oltre ai divieti di discriminazione, in particolare in caso di rifiuto di consegne, e all’assicurazione INAIL, spiccano le previsioni sul compenso. La sua determinazione è affidata in prima battuta alla contrattazione collettiva qualificata (organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale); in difetto, scatta l’impossibilità di retribuire i lavoratori secondo le consegne effettuate e la loro remunerazione viene agganciata a quella dei CCNL di settori affini, sempre stipulati dai predetti soggetti collettivi rappresentativi (art. 47-quater). Peraltro, l’articolato intervento normativo non ha impedito la firma di un CCNL da più parti considerato “pirata”[87], mentre il d.l. n. 101 non si applica alle altre tipologie di lavoro delle piattaforme, che con la pandemia e i lockdown è notevolmente cresciuto di importanza[88].

Sotto diverso profilo, l’impatto economico della pandemia e la scelta dell’Europa e della Comunità internazionale di riorientare il tessuto produttivo secondo i paradigmi della sostenibilità, dell’ecologia e della digitalizzazione si ripercuoteranno pesantemente sul mercato del lavoro, che fino ad ora è stato per certi versi anestetizzato dal lungo blocco dei licenziamenti collettivi e per giustificato motivo oggettivo[89]. E’ prevedibile un’impennata della disoccupazione e del lavoro precario, un mix che potrebbe rafforzare il trend di crescita del working poor, in atto già da tempo.

D’altro canto, la pandemia ha enfatizzato un’ulteriore tendenza in via di progressiva affermazione: l’esigenza di un sostegno al reddito in caso di sospensione, totale o parziale, dell’attività non è più limitata a determinate categorie di lavoratori subordinati, ma diventa sempre di più trasversale, fino a travalicare la distinzione tra subordinazione e autonomia. Il diritto del lavoro della pandemia si caratterizza per l’utilizzo di una batteria di ammortizzatori sociali davvero di portata universalistica[90]. La CIG per Covid-19, anche in deroga, e le integrazioni salariali erogate dai fondi di solidarietà hanno coperto la quasi totalità dei lavoratori subordinati, mentre con diversi interventi una tantum si è cercato di raggiungere il lavoro autonomo, anche professionale.

Da ultimo, la legge di bilancio per il 2021 ha lanciato in via sperimentale per gli anni 2021-2023 uno specifico ammortizzatore sociale per i lavoratori iscritti alla gestione separata dell’INPS, che esercitano per professione abituale attività di lavoro autonomo: l’«Indennità straordinaria di continuità reddituale e operativa» (il cui acronimo, un poco cacofonico, è ISCRO) (art. 1, co. 387 ss., l. n. 178/2020). Più precisamente, tale benefit spetta quando il reddito prodotto nell’anno precedente alla domanda non sia superiore a 8.145 euro e sia inferiore al 50% della media dei redditi da lavoro autonomo conseguiti nei tre anni precedenti a quello di presentazione della domanda. L’indennità è pari al 25% dell’ultimo reddito, ma non può mai essere inferiore a 250 euro, né superiore a 800 euro mensili; viene erogata per un massimo di 6 mesi e può essere richiesta una sola volta nel triennio.

Risale, invece, alla fase più drammatica della pandemia il reddito di emergenza (REM)[91], destinato, in estrema semplificazione, a chi si trova in stato di bisogno e non fruisce di alcuno strumento di sostegno al reddito, compreso il RDC[92]. Si tratta di una misura di carattere eccezionale e residuale, che, seppur reiterata anche durante le recenti impennate della pandemia, non ha ragione di sopravvivere una volta che questa sarà stata superata, dal momento che la sua funzione è svolta in via ordinaria proprio dal RDC.

 

  1. La lotta alla povertà oltre la pandemia: la centralità del lavoro  

 

L’analisi condotta nel presente contributo ha mostrato le linee di evoluzione degli strumenti con i quali il diritto del lavoro contrasta la povertà. E’ significativo che la pandemia abbia accelerato taluni processi, senza, tuttavia, modificare radicalmente i trend di lungo respiro, che costituiscono la reazione a mutamenti socio-economici ormai consolidati. Per rispondere sinteticamente alla domanda posta nel paragrafo di apertura, il diritto del lavoro si sta attrezzando per affrontare le sfide della nuova povertà, ma occorre portare rapidamente a compimento il percorso avviato, proprio perché la crisi pandemica e il piano varato dall’Europa per ricostruire il continente (Next Generation EU)[93] hanno intensificato i mutamenti già in atto.

Anzitutto, il diritto del lavoro è chiamato con urgenza a stabilire un quadro legale chiaro e coerente per la fissazione di salari minimi inderogabili, che garantiscano a tutti i lavoratori dipendenti una retribuzione rispettosa dei canoni dell’art. 36, co. 1, Cost.[94] Il momento è particolarmente propizio, in quanto il dibattito si è aperto anche a livello europeo, con la presentazione, nel novembre 2020, della proposta di direttiva quadro sui salari minimi adeguati nell’UE[95]. Il modello probabilmente più rispettoso del dialogo che la Carta costituzionale instaura tra gli artt. 36, co. 1, e 39, Cost. è quello che contempla l’attribuzione di efficacia generalizzata ai contratti collettivi. Sono ormai maturi i tempi per il varo di una ambiziosa legge sindacale, che offra stabilità al sistema italiano di relazioni industriali. L’ostilità verso il supporto legislativo sembra ormai scemare tanto tra le parti sociali, quanto in dottrina[96].

Lo strumento del salario minimo e della contrattazione collettiva non è, invece, utilizzabile per il lavoro autonomo, salvo che, ovviamente, non si tratti di cd. “falsa autonomia”, nel qual caso si applicheranno integralmente le tutele del lavoro subordinato. Per il lavoro autonomo genuino occorre sviluppare ulteriormente forme di protezione sul mercato, specialmente quando la sproporzione di potere contrattuale tra il professionista e il cliente conduca a remunerazioni inadeguate: in questa direzione vi è senz’altro spazio per perfezionare la disciplina dell’equo compenso[97].

Per quanto concerne, invece, la disoccupazione parziale o totale, è necessario concludere al più presto la revisione degli ammortizzatori sociali nell’ottica dell’universalizzazione. Si tratta di un processo avviato da molto tempo, ma che con la pandemia ha subito un processo di indubbia accelerazione: il Governo sembra voler procedere speditamente in questo ambito, avendo istituito un’apposita commissione che ha presentato le proprie conclusioni lo scorso 22 febbraio al Ministro Orlando[98]. Per i lavoratori dipendenti occorre soprattutto armonizzare le integrazioni salariali, pur mantenendo talune specificità di disciplina che si giustificano in ragione delle peculiarità dei vari settori produttivi. Per i lavoratori autonomi si tratta di perfezionare l’esperienza della DIS-COLL e di stabilizzare l’ISCRO. E’ ormai chiaro che nella società attuale l’attività di lavoro autonomo, anche professionale, non garantisce più dallo scivolamento nella povertà: il sistema di sicurezza sociale deve, dunque, adeguare le proprie strutture per proteggere anche questa fascia di lavoratori[99], secondo una lettura sinergica e aggiornata degli artt. 35, co. 1, e 38, co. 2, Cost.

Con riferimento all’inoccupazione e all’esclusione sociale, il RDC si è mostrato uno strumento efficace di sostegno al reddito della fascia più sfortunata della popolazione, ma va ripensato sia nell’importo, sia nelle modalità di erogazione e di integrazione sociale e lavorativa[100]. Sotto il primo profilo, una volta definito un sistema di garanzia del salario minimo, occorre adeguare gli importi del RDC affinché esso non provochi un effetto di disincentivo al lavoro[101], come in realtà già oggi avviene per le attività stagionali meno qualificate. In relazione al secondo aspetto, bisogna riflettere sul sistema a sportello che è stato istituito. Nella fase della richiesta l’avente diritto interagisce di norma soltanto con un CAF, che lo aiuta a istruire la pratica per riscuotere il beneficio monetario. Dopodiché, ricevuta la somma spettante dall’INPS, tocca ai servizi per l’impiego (qualora il percettore sia job ready) o ai servizi sociali comunali contattarlo e avviare il suo reinserimento sociale e/o lavorativo.

Sono evidenti i rischi di comportamenti opportunistici e di veri e propri abusi, che si annidano in questa procedura caratterizzata da una prima fase di scrutinio meramente formale. La situazione sarebbe ben diversa se l’interazione con i servizi competenti si collocasse già nella fase della richiesta del benefit e costituisse un elemento indispensabile per la presa in carico della stessa. Ciò permetterebbe di scremare sia coloro che intendono sfruttare illegittimamente il RDC, pur non avendone diritto (in quanto, ad es., impegnati nell’economia informale), sia coloro che, benché effettivamente bisognosi, non intendono cooperare al proprio reinserimento sociale e lavorativo (per i quali dovranno intervenire altre misure di assistenza sociale, a carattere non monetario). Infine, deve essere corretto l’apparato volto all’attivazione dei beneficiari: contrasta con il senso comune che un’indennità di carattere contributivo, come la NASPI, sia presidiata da un apparato sanzionatorio per taluni profili più rigoroso di quello riservato ai percettori del RDC, che, invece, fruiscono di un sussidio finanziato dalla collettività.

L’ultimo tassello, ma non certo per ordine di importanza, è costituito dal potenziamento delle politiche attive del lavoro e dei servizi per l’impiego[102]. Il tema è centrale per collocare le complesse riforme che l’Italia deve intraprendere nel solco del “patto repubblicano”, che affida al lavoro la funzione fondamentale di integrazione socio-economica dei cittadini, individuandolo al tempo stesso come il principale strumento di affrancamento dalla povertà (v. retro il par. 2). Anche in questo caso, il trend nella direzione del rafforzamento è in atto da tempo, ma i risultati sono al di sotto delle aspettative e la ricostruzione post-pandemica rende ancora più urgente il salto di qualità. Vi sono pochi dubbi, infatti, che l’edificazione di una nuova economia sostenibile, ecologica e digitale comporterà un consistente trasferimento di lavoratori dai settori senza futuro verso quelli emergenti. Tale processo assommerà nuovi disoccupati a quelli già causati dalle conseguenze dirette della pandemia: non è pensabile gestire una tale emergenza occupazionale senza politiche del lavoro e servizi per l’impiego adeguati alla sfida.

Il Governo pare aver compreso la delicatezza dell’impresa e intende stanziare risorse cospicue in questo ambito, anche grazie alla robusta iniezione di liquidità proveniente dal Next Generation EU. Infatti, nel «Piano nazionale di ripresa e resilienza», che ha ottenuto il via libera della Commissione europea il 22 giugno 2021, all’interno della missione 5 sull’inclusione sociale, la prima sezione è dedicata alle «politiche per il lavoro»[103]. L’accento è posto sulle politiche attive, sulla formazione di occupati, disoccupati e inoccupati, sugli interventi a favore dei giovani e delle donne, le due categorie di persone che più hanno sofferto a causa della pandemia sotto il profilo occupazionale. Tra le misure prefigurate spiccano: l’attuazione del programma nazionale «Garanzia di occupabilità dei lavoratori» (GOL) e il rafforzamento dei centri per l’impiego; l’adozione di un «Piano nazionale nuove competenze», volto a rafforzare la formazione professionale e continua; il rafforzamento del sistema duale e dell’apprendistato, onde migliorare il matching tra istruzione/formazione e attività lavorativa; l’istituzione di un «Sistema di certificazione della parità di genere», per incentivare le imprese ad adottare misure finalizzate alla riduzione delle differenze di genere in tutti gli aspetti del rapporto di lavoro.   

Il lavoro non è fatica priva di senso, bensì il mezzo attraverso il quale la persona esprime la propria umanità e socialità. Attraverso il lavoro l’uomo diventa più uomo e, per il credente, partecipa all’opera creatrice di Dio[104]. La felice intuizione dei padri costituenti di porre il lavoro al centro dell’impianto costituzionale è ancora di straordinaria attualità in questo XXI secolo[105]: è compito del legislatore ordinario creare le condizioni perché tutti possano esercitare effettivamente il proprio diritto a un’attività lavorativa che li liberi dal bisogno e permetta loro di partecipare a pieno titolo alla vita della società.

 

Abstract: The article, by leveraging the constitutional interpretation, identifies Labour Law, understood in the broad meaning which comprises Social Security Law, as the main tool of the legal order aimed at overcoming poverty and upholding human dignity. After having briefly outlined the historical evolution of the discipline and pointed out the aspects which mainly contribute to fight poverty, in the labour market and in the labour relationship, the author focuses upon the most recent challenges, which bring about new forms of poverty: deregulation, digital transformation of the economy, and now, pandemic. In the last paragraph the author conducts a critical assessment of the legislative initiatives in progress, comprising those laid down in the National Recovery and Resilience Plan, and presents his own suggestions for a revision of Labour Law which is able to strengthen its effectivenes in contrasting old and new forms of poverty, by keeping the centrality of work, understood as a right and a duty of every citizen, placed at the core of the republican pact.

 

Key words: Labour Law; poverty; human dignity; minimum wage; collective bargaining; social safety net; unemployment benefit; income support; public employment service; active labour market policies.

 


* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] I giuslavoristi affrontano di rado il tema della povertà in generale, forse perché ritenuto quasi ovvio per la disciplina, o forse perché troppo vasto e di difficile inquadramento. Per un contributo ormai piuttosto risalente, ma di straordinaria attualità, v. però M. Napoli, Povertà vecchie e nuove e diritto del lavoro, in Id., Il diritto del lavoro tra conferme e sviluppi (2001-2005), Torino, Giappichelli, 2006, p. 401 ss. Il saggio riprende la relazione al 54° Convegno nazionale di studio dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani sul tema «La povertà. Problema di giustizia», tenutosi a Roma nel dicembre 2004.   

[2] Cfr. B. Hepple, Introduction, in B. Hepple (ed.), The Making of Labour Law in Europe. A Comparative Study of Nine Countries up to 1945, London and New York, Mansell Publishing Limited, 1986, p. 6 ss.

[3] Per una accurata disamina dell’evoluzione della legislazione inglese sull’assistenza ai poveri, alla luce delle correnti di pensiero che la influenzarono, v. C. E. Orsi, Alle origini del reddito di cittadinanza. Teorie economiche e welfare state dal XVI secolo a oggi, Firenze, Edizioni Nerbini, 2018, p. 27 ss.

[4] Cfr. I. Madama, La politica socio-assistenziale, in M. Ferrera (a cura di), Le politiche sociali, Bologna, Il Mulino, 2019, p. 271.  

[5] Sull’evoluzione della primissima legislazione sociale in Europa v. T. Ramm, Laissez-faire and State Protection of Workers, in B. Hepple (ed.), The Making of Labour Law in Europe, cit., p. 73 ss.

[6] V. G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Bari, Laterza, 2003, p. 85 ss., spec. la tabella a p. 87.

[7] Per una rilettura dello storico testo normativo v. S. Simitis, La legge Le Chapelier tra storia e attualità, in «Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali», 48 (1990), p. 743 ss.

[8] Sul collective laissez-faire britannico vale sempre la pena di rileggere il classico di O. Kahn-Freund, Labour and the Law, London, Stevens & Sons Ltd, 1972. Sulla tradizione volontaristica di relazioni industriali scandinave v., invece, R. Fahlbeck, Industrial Relations and Collective Labour Law: Characteristics, Principles and Basic Features, in «Scandinavian Studies in Law», 43 (2002), p. 87 ss. Nello stesso volume v. anche O. Hasselbalch, The Roots - the History of Nordic Labour Law, p. 11 ss.

[9] Per una valutazione del contributo offerto dall’organizzazione alla tutela dei lavoratori a livello globale, a cento anni dalla sua fondazione, v. V. Ferrante (a cura di), A tutela della prosperità di tutti. L’Italia e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro a un secolo dalla sua istituzione, Milano, Giuffré Francis Lefebvre, 2020. Sulla prima fase della vita dell’organizzazione, tra le due guerre, v. il classico di G. Scelle, L’organisation internazionale du travail e le BIT, Paris, Dalloz, 1930, ora ripubblicato con una pregevole introduzione di A. Seifert (Paris, Dalloz, 2020). Sul diritto internazionale del lavoro, del quale la costituzione e le convezioni dell’OIL costituiscono la parte più rilevante, v., dalla prospettiva giuslavoristica, A. Perulli, V. Brino, Manuale di diritto internazionale del lavoro, Torino, Giappichelli, 2015; da quella internazionalistica, A. Zanobetti, Diritto internazionale del lavoro, Milano, Giuffré, 2021.  

[10] B. Veneziani, The Evolution of the Contract of Employment, in B. Hepple (ed.), The Making of Labour Law in Europe, cit., spec. p. 66 ss. Nell’ordinamento italiano la sistemazione giuridica del contratto di lavoro, che consentirà successivamente di imperniare la legislazione di tutela su quello di natura subordinata, è riconducibile a L. Barassi, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, 1901, ora ristampato con un’ampia introduzione di M. Napoli dal titolo Ritornare a Barassi? (Milano, Vita e Pensiero, 2004).

[11] Sul diritto del lavoro nella Costituzione v., tra i tanti, almeno i classici contributi di C. Mortati, Il lavoro nella Costituzione, in «Diritto del lavoro», 1954, I, p. 149 [sul quale v. anche la rilettura a più voci in L. Gaeta (a cura di), Costantino Mortati e «Il lavoro nella Costituzione»: una rilettura, Milano, Giuffré, 2005], e C. Smuraglia, La Costituzione e il sistema del Diritto del lavoro. Lineamenti di una teoria generale, Milano, Feltrinelli, 1958. Sull’attuazione del dettato costituzionale in materia di lavoro nella fase matura della nostra disciplina v. M. Napoli, Le norme costituzionali sul lavoro alla luce dell’evoluzione del Diritto del lavoro, in «Jus-Rivista di Scienze giuridiche», 2008, p. 749 ss. [ora in M. Napoli, Lavoro diritto valori, Torino, Giappichelli, 2010, p. 3 ss.], nonché l’ampio lavoro monografico di R. Pessi, Il Diritto del lavoro e la Costituzione: identità e criticità, Bari, Cacucci, 2019.    

[12] Così L. Mengoni, Fondata sul lavoro: la Repubblica tra diritti inviolabili dell’uomo e doveri inderogabili di solidarietà, in M. Napoli (a cura di), Costituzione, lavoro, pluralismo sociale, Milano, Vita e Pensiero, 1998, p. 7.

[13] V. il § 1 dell’art. 1, Grundgesetz: „Die Würde des Menschen ist unantastbar. Sie zu achten und zu schützen ist Verpflichtung aller staatlichen Gewalt“ («la dignità dell’uomo è inviolabile. È dovere dello Stato rispettarla e tutelarla»). 

[14] Sul diritto al lavoro v., dalla prospettiva del costituzionalista, A. Apostoli, L’ambivalenza costituzionale del lavoro tra libertà individuale e diritto sociale, Milano, Giuffré, 2005; per la prospettiva del giuslavorista v., per limitarsi ai contributi monografici, C. La Macchia, La pretesa al lavoro, Torino, Giappichelli, 2000; A. Alaimo, Il diritto sociale al lavoro nei mercati integrati. I servizi per l'impiego tra regolazione comunitaria e nazionale, Torino, Giappichelli, 2009.  

[15] Cfr., da ultimi, A. D’Aloia, G. Agolino, Il reddito di cittadinanza nel sistema costituzionale di protezione sociale, in «Rivista giuridica del lavoro», 2021, I, p. 335, secondo i quali «l’idea costituzionale era quella di sconfiggere la povertà e realizzare l’eguaglianza attraverso il lavoro, l’impegno di tutti attraverso le proprie scelte e possibilità».

[16] La questione è dibattuta: propendono per l’opinione espressa nel testo, ad es., P. Ichino, Il contratto di lavoro, in A. Cicu, F. Messineo (già diretto da), L. Mengoni (continuato da), Trattato di diritto civile e commerciale, vol. I, Milano, Giuffré, 2000, spec. 3 ss., e M. Napoli, Le norme costituzionali sul lavoro alla luce dell’evoluzione del Diritto del lavoro, cit., p. 15. 

[17] L’aliquota contributiva dei collaboratori coordinati e continuativi iscritti alla Gestione separata dell’INPS è pari nel 2021 al 34,23%, a fronte di una contribuzione per i lavoratori dipendenti che si aggira intorno al 40% della retribuzione [con differenze marginali a seconda delle dimensioni del datore di lavoro: cfr. la tabella A in V. Ferrante, T. Tranquillo (a cura di), Nozioni di diritto della previdenza sociale, Milano, Wolters Kluwer Cedam, 2019, p. 367]. Va ricordato che, ai sensi dell’art. 2, co. 57, l. n. 92/2012 (cd. legge “Fornero”), l’aliquota contributiva per i soggetti iscritti in via esclusiva alla Gestione separata è fissata, a partire dall’anno 2018, al 33,00%. A tale percentuale vanno sommati altresì i contributi per la maternità e malattia e per l’assegno per il nucleo familiare (0,72%), nonché quelli per la DIS-COLL (0,51%).

[18] Cfr. M. Napoli, Autonomia individuale e autonomia collettiva alla luce delle più recenti riforme, in AIDLaSS, Autonomia individuale e autonomia collettiva alla luce delle più recenti riforme. Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro. Abano Terme-Padova, 21-22 maggio 2004, Milano, Giuffré, 2005, p. 38 ss., secondo il quale «il legislatore ripone nella doverosità del progetto il crinale della scelta, non da parte del lavoratore, ma dell’impresa, del ricorso al lavoro autonomo piuttosto che a quello subordinato» (p. 40).

[19] Sulle collaborazioni coordinate e continuative v. la fondamentale messa a punto di G. Santoro Passarelli, Il lavoro parasubordinato, Milano, Angeli, 1979. Sul lavoro a progetto v. almeno i contributi monografici di M. Borzaga, Lavorare per progetti. Uno studio su contratti di lavoro e nuove forme organizzative d’impresa, Padova, Cedam, 2012, spec. pp. 51-154; F. Martelloni, Lavoro coordinato e subordinazione. L’interferenza delle collaborazioni a progetto, Bologna, Bononia University Press, 2012.

[20] Il nuovo co. 2 dell’art. 2549, c.c. precisa ora che, «nel caso in cui l’associato sia un persona fisica», il suo apporto all’impresa dell’associante «non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro».

[21] L’art. 2, d.lgs. n. 81/2015 ha creato non pochi grattacapi interpretativi alla dottrina, già nella versione originaria. Secondo alcuni era possibile ricomprendere le collaborazioni etero-organizzate all’interno della subordinazione già ai sensi dell’art. 2094, c.c., mentre per altri la norma operava un vero e proprio ampliamento dell’area della subordinazione. Erano, peraltro, assai numerose anche le voci che ritenevano le collaborazioni etero-organizzate di natura autonoma, cosicché l’art. 2, co. 1 avrebbe operato l’estensione della disciplina del lavoro subordinato a fette del lavoro indipendente: tutt’al più, rimaneva da capire se la suddetta applicazione dovesse essere integrale, o, invece, soltanto parziale, previo filtro di compatibilità. La Cassazione, per vero in una decisione non cristallina, pare aver optato per l’applicazione selettiva, peraltro rifiutandosi di prendere partito per la natura subordinata o autonoma di tali rapporti: cfr. Cass. 24 gennaio 2020, n. 1663, in «Rivista italiana di diritto del lavoro», 2020, II, p. 76, nt. P. Ichino. L’articolato dibattito dottrinale è ricostruito in M. Corti, Flessibilità e sicurezza dopo il Jobs Act. La flexicurity italiana nell’ordinamento multilivello, Torino, Giappichelli, 2018, p. 117 ss. Sul testo innovato dal d.l. n. 101/2019 la discussione in dottrina è stata altrettanto fiorente: v., da ultimo, il contributo monografico di A. Perulli, Oltre la subordinazione. La nuova tendenza espansiva del diritto del lavoro, Torino, Giappichelli, 2021, spec. p. 165 ss.

[22] Sulla quale v. la terza parte del commentario di G. Zilio Grandi, M. Biasi (a cura di), Commentario breve allo statuto del lavoro autonomo e del lavoro agile, Milano, Wolters Kluwer Cedam, 2018, p. 229 ss.

[23] Non si possono che condividere le sagge parole pronunciate da Luigi Mengoni alla vigilia del nuovo millennio, nella sua relazione alle giornate di studio AIDLaSS di Ferrara: «la distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo è in rerum natura e concettualmente radicale: non può essere messa tra parentesi nemmeno per un tratto iniziale della riflessione sul “diritto del lavoro che cambia”» [L. Mengoni, Il contratto individuale di lavoro, in Id., Il contratto di lavoro, a cura di M. Napoli, Milano, Vita e Pensiero, 2004, p. 115, già in AIDLaSS, Il diritto del lavoro alla svolta del secolo. Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro, Ferrara, 11-13 maggio 2000, Milano, Giuffré, 2002, pp. 3-22].

[24] Gli artt. 2 e 3, co. 4 estendono in favore dei lavoratori autonomi l’applicazione del d.lgs. n. 231/2002 e, rispettivamente, dell’art. 9, l. n. 192/1998. In questo modo, i lavoratori autonomi sono protetti contro i ritardi nei pagamenti da parte delle imprese, di altri lavoratori autonomi e delle p.a., nonché contro l’abuso di dipendenza economica nei rapporti contrattuali con il committente. L’art. 3, co. 1 prevede, invece, il divieto di talune clausole contrattuali, considerate abusive e dichiarate «prive di effetto». Si tratta di quelle che attribuiscono al committente la facoltà di «modificare unilateralmente le condizioni del contratto» o che contengono «termini di pagamento superiori a sessanta giorni dalla data del ricevimento da parte del committente della fattura o della richiesta di pagamento». Nelle ipotesi appena viste, come anche quando il committente si rifiuti di stipulare il contratto in forma scritta (condotta abusiva ai sensi dell’art. 3, co. 2), il lavoratore autonomo ha diritto al risarcimento dei danni (art. 3, co. 3).

[25] Per le quali viene stabilizzata la specifica indennità di disoccupazione di cui all’art. 15, d.lgs. n. 22/2015, denominata DIS-COLL.

[26] Con l’apertura, presso i centri per l’impiego, di sportelli dedicati al lavoro autonomo, che hanno il compito di raccogliere le domande e le offerte e di renderle disponibili a professionisti e imprese, nonché di offrire informazioni riguardo l’avvio e la trasformazione di attività autonome, l’accesso agli appalti pubblici, le opportunità di credito e le agevolazioni pubbliche nazionali e locali.

[27] Per questa impostazione v. già M. Napoli, La stabilità reale del rapporto di lavoro, Milano, Angeli, 1979, spec. pp. 211-212. 

[28] Su questa disposizione v. il classico studio di T. Treu, Sub art. 36, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, vol. I, Bologna-Roma, Zanichelli-Foro Italiano, 1979, p. 72 ss.

[29] Cfr. M. Napoli, Diritto del lavoro e dottrina sociale della Chiesa, in Id., Diritto del lavoro in trasformazione (2010-2014), Torino, Giappichelli, 2014, pp. 8-11. 

[30] E, più precisamente, fin dal leading case Cass. 21 febbraio 1952, n. 461, in «Rivista giuridica del lavoro», 1952, II, p. 95.

[31] Su questa giurisprudenza v. per tutti S. Bellomo, Retribuzione sufficiente e autonomia collettiva, Torino, Giappichelli, 2002; T. Treu, Contratto di lavoro e corrispettività, in M. Marazza (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione, nel “Trattato di diritto del lavoro” diretto da M. Persiani e F. Carinci, vol. IV, t. II, Padova, Cedam. 2012, p. 1329 ss.; nonché, da ultimo, P. Pascucci, La giusta retribuzione nei contratti di lavoro, oggi, in AIDLaSS, La retribuzione. Atti del XIX Congresso di Diritto del lavoro – Palermo, 17-19 maggio 2018, Milano, Giuffré, 2019, p. 95 ss.  

[32] V. da ultimo P. Passalacqua, Contratti di categoria e contratti “pirata”, in «Variazioni su temi di diritto del lavoro», 2021, p. 271 ss.

[33] C. Cost. 26 marzo 2015, n. 51, in «Il diritto delle relazioni industriali», 2015, p. 823, nt. D. Schiuma. Per una recente pronuncia di merito che ha ritenuto non conforme al parametro dell’art. 36, co. 1, Cost. perfino un clausola di CCNL stipulato da sindacati e associazioni datoriali comparativamente più rappresentative v. T. Torino, 9 agosto 2019, n. 1128, in «Il diritto delle relazioni industriali», 2020, p. 848, che ha rilevato come detto CCNL individuasse una retribuzione sensibilmente inferiore al tasso-soglia di povertà assoluta individuato dall’ISTAT e ai livelli retributivi previsti per posizioni professionali analoghe da altri CCNL.

[34] Secondo i dati dell’OIL, nel 2015 il tasso di copertura della contrattazione collettiva nel nostro Paese era pari all’80%, mentre era del 90% in Svezia, dell’89% in Finlandia e dell’84% in Danimarca. Al primo posto di questa classifica si colloca la Francia (98,5% nel 2014), Paese nel quale, tuttavia, i contratti collettivi sono sistematicamente estesi erga omnes mediante decretazione ministeriale. I dati dell’OIL sono stati consultati su https://ilostat.ilo.org/topics/collective-bargaining il 10 luglio 2021.

[35] Il fenomeno ha suscitato l’attenzione della dottrina, sia di recente che in tempi più risalenti: v., per es., A. Garilli, Il lavoro e la mafia. Un’analisi giuridica del mercato del lavoro in Sicilia, Torino, Giappichelli, 1994; A. Bellavista, Il lavoro sommerso, Torino, Giappichelli, 2000; V. Pinto, Le politiche pubbliche di contrasto al lavoro irregolare, Bari, Cacucci, 2007; M. Faioli, Il lavoro prestato irregolarmente, Milano, Giuffré, 2008; V. Ferrante (a cura di), Economia “informale” e politiche di trasparenza. Una sfida per il mercato del lavoro, Milano, Vita e Pensiero, 2017. V., da ultimo, anche il fascicolo n. 2/2021 di «Lavoro e diritto», a cura di S. Borelli, L. Calafà, M. D’Onghia, S. Laforgia, M. Ranieri, sul tema L’altro art. 18. Riflessioni giuslavoristiche sullo sfruttamento del lavoro.

[36] Per la lettura di questa disposizione in funzione della edificazione di un sistema di sicurezza sociale, che garantisca la soddisfazione dei bisogni primari con portata universalistica, v. M. Persiani, Il sistema giuridico della previdenza sociale, Padova, Cedam, 1960.

[37] M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, Torino, Giappichelli, 2020, p. 329.

[38] Si riprende qui la distinzione tra disoccupazione parziale e disoccupazione involontaria, adottata in un fortunato manuale: v. M. Persiani, Diritto della previdenza sociale, Padova, Cedam, 2005, p. 318, nonché, da ultimo, M. Persiani, M. D’Onghia, Diritto della sicurezza sociale, Torino, Giappichelli, 2020, p. 258.

[39] In tema v. i classici contributi monografici di M. Miscione, Cassa integrazione e tutela della disoccupazione, Napoli, Jovene, 1978; M. V. Ballestrero, Cassa integrazione e contratto di lavoro, Milano, Angeli, 1985.

[40] V. per tutti M. Persiani (a cura di), Commentario alla legge n. 223 del 1991, in «Le Nuove leggi civili commentate», 1994, p. 884 ss.

[41] Sugli interventi della legge “Fornero” in tema di ammortizzatori sociali, alla luce dei precedenti progetti abortiti di razionalizzazione della materia, v. F. Liso, Appunti per una lettura degli articoli 2 e 3 della riforma Fornero, in L. Fiorillo, A. Perulli (a cura di), La riforma del mercato del lavoro, Torino, Giappichelli, 2014, spec. p. 296 ss. 

[42] Per un ampio commento di questa fondamentale riforma v. almeno E. Balletti, D. Garofalo (a cura di), La riforma della Cassa Integrazione Guadagni nel Jobs Act 2, Bari, Cacucci, 2016; nonché la prima parte del volume di R. Pessi, G. Sigillò Massara (a cura di), Ammortizzatori sociali e politiche attive per il lavoro, Collana “Il nuovo diritto del lavoro” diretta da L. Fiorillo, A. Perulli, Torino, Giappichelli, 2017.   

[43] Come nei settori bancario, assicurativo e in genere nel terziario, o nel piccolo commercio al dettaglio e nell’artigianato.

[44] Sul tema degli interventi statali in favore dei disoccupati v. i contributi monografici di M. Cinelli, La tutela del lavoratore contro la disoccupazione, Milano, Angeli, 1982; G. G. Balandi, Tutela del reddito e mercato del lavoro nell’ordinamento italiano, Milano, Giuffré, 1984; S. Renga, Mercato del lavoro e diritto, Milano, Angeli, 1996; Ead., La tutela contro la disoccupazione, Torino, UTET, 1997; E. Balletti, Disoccupazione e lavoro. Profili giuridici della tutela del reddito, Torino, Giappichelli, 2000; L. Valente, I diritti dei disoccupati. Le politiche per il lavoro e il welfare dal Jobs Act al reddito di cittadinanza, Milano, Wolters Kluwer Cedam, 2019. 

[45] V. C. Cost. 27 aprile 1988, n. 497, in «Il Diritto del lavoro», 1989, II, p. 175, secondo la quale non poteva ritenersi rispondente al precetto costituzionale ex art. 38, co.2, in connessione con l’art. 2, «una norma che, come quella impugnata, mentre fa consistere nella corresponsione di una somma di danaro (indennità) quell’apprestamento di mezzi adeguati alle esigenze di vita che è il contenuto della protezione costituzionale in argomento, non stabilisca, di fronte al fenomeno in atto della notevole diminuzione del potere di acquisto della moneta, un meccanismo diretto ad assicurare anche in prospettiva temporale l’adeguatezza nei sensi suindicati dell’indennità e quindi del trattamento di disoccupazione involontaria». Al momento della dichiarazione di incostituzionalità l’importo giornaliero dell’indennità di disoccupazione era fissato dal d.l. n. 30/1974 in 800 lire. V. anche successivamente, con riferimento ad alcune specificità dell’indennità di disoccupazione agricola, C. Cost. 13 luglio 1994, n. 288, in «Il diritto del lavoro», 1994, II, p. 554, nt. E. Ales.

[46] Cfr. M. Magnani, La mobilità interaziendale del lavoro. Profili giuridici, Milano, Angeli, 1985.

[47] Che, come il trattamento speciale di disoccupazione, spettava soltanto nel caso di licenziamenti collettivi. Sull’indennità di mobilità v. per tutti M. Miscione, L’indennità di mobilità. Leggi 223/1991 e 236/1993, Napoli, Jovene, 1993.

[48] Per un accurato esame delle misure di politica attiva offerte dalle liste di mobilità v. M. Corti, I lavoratori in mobilità, in M. Napoli, A. Occhino, M. Corti, I servizi per l’impiego. Art. 2098, c.c., Commentario “Il Codice Civile” fondato da P. Schlesinger, diretto da F. D. Busnelli, Milano, Giuffré, p. 209 ss.

[49] Il legislatore, infatti, specialmente a partire dal 1996, aveva avviato una lenta, ma costante, opera di incremento sia del tasso di sostituzione, sia della durata dell’indennità di disoccupazione, in modo da avvicinarne le tutele a quelle offerte dall’indennità di mobilità: cfr., per le varie tappe, M. Persiani, Diritto della previdenza sociale, Padova, Cedam, 2009, pp. 322-323. 

[50] Sul quale si diffondono tutti i commentari del Jobs Act: v., per limitarsi alle opere che vi dedicano uno spazio maggiore, la seconda sezione del volume di E. Ghera, D. Garofalo (a cura di), Le tutele per i licenziamenti e per la disoccupazione involontaria nel Job Act 2, Bari, Cacucci, 2015, p. 263 ss.; la seconda parte del volume di R. Pessi, G. Sigillò Massara (a cura di), Ammortizzatori sociali e politiche attive per il lavoro, cit., p. 87 ss.

[51] V. A. Olivieri, Le tutele dei lavoratori dal rapporto al mercato del lavoro. Dalla postmodernità giuridica verso la modernità economica?, Torino, Giappichelli, 2017, p. 158 ss.; L. Taschini, I diritti sociali al tempo della condizionalità, Torino, Giappichelli, 2019, p. 120 ss.

[52] Su queste vicende v. ora, anche per ulteriori riferimenti dottrinali, A. Sartori, La legge Fanfani e lo Statuto dei lavoratori: i tre pilastri del monopolio pubblico, della gestione statale e della chiamata numerica, in P. Ichino, A. Sartori, I servizi per l’impiego. Il sistema di avviamento, M. Brollo (a cura di), Il mercato del lavoro, nel “Trattato di diritto del lavoro” diretto da M. Persiani e F. Carinci, vol. VI, Padova, Cedam. 2012, p. 66 ss.; M. Corti, Mercato del lavoro, intermediazione e collocamenti speciali, in L. Fiorillo, A. Perulli (a cura di), Rapporto individuale e processo del lavoro, Torino, Giappichelli, 2014, p. 3 ss.   

[53] Cfr. M. Napoli, Il trasferimento delle funzioni di collocamento alle Regioni: il d.lgs. n. 469 del 1997, in M. Napoli, A. Occhino, M. Corti, I servizi per l’impiego. Art. 2098, c.c., cit., spec. p. 42.

[54] Per un’accurata analisi di tre esperienze europee di avanguardia in questo campo (Regno Unito, Germania e Svezia) v. A. Sartori, Servizi per l’impiego e politiche dell’occupazione in Europa. Idee e modelli per l’Italia, Rimini, Maggioli, 2013.

[55] V. P. A. Varesi, Regioni e mercato del lavoro. Il quadro istituzionale e normativo, Milano, Angeli, 1986, nonché, per una valutazione retrospettiva, M. Corti, Le politiche attive del lavoro regionali, in M. Napoli, A. Occhino, M. Corti, I servizi per l’impiego. Art. 2098, c.c., cit., p. 88 ss.

[56] Cfr. L. Mariucci, E’ proprio un very bad text? Note critiche sulla riforma Monti-Fornero, in «Lavoro e diritto», 2012, p. 426.  

[57] M. Corti, Mercato del lavoro, intermediazione e collocamenti speciali, cit., p. 45.

[58] Sul Jobs Act dei servizi all’impiego v. il contributo monografico di L. Valente, La riforma dei servizi per il mercato del lavoro, Milano, Giuffré, 2016; nonché, fra i commentari al Jobs Act che vi dedicano maggiore spazio, la seconda sezione del volume di E. Ghera, D. Garofalo (a cura di), Le tutele per i licenziamenti e per la disoccupazione involontaria nel Job Act 2, cit., p. 263 ss.; la parte terza del volume di R. Pessi, G. Sigillò Massara (a cura di), Ammortizzatori sociali e politiche attive per il lavoro, cit., p. 127 ss.

[59] Su questa esperienza di coinvolgimento di attori pubblici e privati nell’erogazione dei servizi per l’impiego, ispirata ad alcune interessanti esperienze internazionali di quasi-mercato, v. da ultimo A. Sartori, Pubblico e privato nei servizi per il lavoro: la Dote unica lavoro nel panorama internazionale, in «Rivista di diritto della sicurezza sociale», 2018, p. 757 ss.

[60] Cfr., per es., M. Corti, Mercato del lavoro, intermediazione e collocamenti speciali, cit., pp. 44-45; P.G. Bresciani, Progettaree costruire un nuovo sistema di servizi per il lavoro. Alcune indicazioni per il viaggio, in P.G. Bresciani, A. Sartori, Innovare i servizi per il lavoro: tra il dire e il mare… Apprendere dalle migliori pratiche internazionali, Milano, Angeli, 2015, pp. 11-13; A. Sartori, L’Italia e le migliori prassi internazionali: dopo una lunga navigazione, finalmente in porto?, ivi, pp. 183-184; L. Valente, I diritti dei disoccupati. Le politiche per il lavoro e il welfare dal Jobs Act al reddito di cittadinanza, cit., pp. 46-47.

[61] Infatti, l’art. 38, co. 1, Cost. riserva il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale esclusivamente agli inabili al lavoro sprovvisti dei mezzi necessari per vivere. La questione è tuttora oggetto di dibattito, anche alla luce del diritto europeo: in effetti, l’art. 34, co. 3, Carta di Nizza «riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti». Peraltro, il diritto sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea è privo di efficacia diretta negli ordinamenti nazionali, essendone l’esercizio condizionato a quanto previsto dal diritto dell’Unione (sul punto ancora inesistente) e dalle legislazioni e prassi nazionali. In argomento v., tra i contributi più recenti, O. Genovesi, Sulle misure di contrasto alla povertà nell’ordinamento italiano, in «Diritti lavori mercati», 2020, pp. 345-346 e 356-357; M. Ravelli, Natura e inquadramento costituzionale del reddito di cittadinanza, in S. Giubboni (a cura di), Reddito di cittadinanza e pensioni: il riordino del welfare italiano, Torino, Giappichelli, 2020, p. 15 ss., spec. p. 20 ss. A quest’ultimo si rimanda anche per ulteriori riferimenti bibliografici. Per il quadro delle iniziative dell’UE, attualmente ancora confinate alle raccomandazioni e al metodo di coordinamento aperto, v. A. Alaimo, Povertà e Reddito Minimo in Europa. Coordinamento e armonizzazione tra utopia e possibilità, in «Rivista giuridica del lavoro», 2021, I, p. 315 ss. Per la dottrina costituzionalistica v., infine, A. D’Aloia, G. Agolino, Il reddito di cittadinanza nel sistema costituzionale di protezione sociale, cit.   

[62] Si tratta, peraltro, di un fenomeno comune ai Paesi mediterranei (Spagna, Portogallo, Grecia e Italia), che annovera tra le proprie cause il forte ruolo di ammortizzatore sociale svolto dalle famiglie, la diffusa presenza dell’economia sommersa e la fragilità degli apparati istituzionali: cfr. I. Madama, La politica socio-assistenziale, cit., pp. 275-277. 

[63] Cfr. F. Ravelli, Il reddito minimo. Tra universalismo e selettività delle tutele, Torino, Giappichelli, 2018, p. 28.

[64] Sulla quale v. l’ampio commentario a cura di E. Balboni, B. Baroni, A. Mattioni, G. Pastori, Il sistema integrato dei servizi sociali. Commento alla legge n. 328 del 2000 e ai provvedimenti attuativi dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, Milano, Giuffré, 2007.

[65] Per una ricostruzione a rapidi tratti del quadro delle sperimentazioni in questo ambito v. M. Corti, Social Security Law, in M. Corti, M. Delfino, C. Spinelli, The impact of the global economic crisis on the evolution of labour law in Italy, M. Štefko (ed.), Labour law and social security law at the crossroads, Prague, Charles University, 2016, pp. 172-173. In maggior dettaglio v. M. Vincieri, Verso la tutela della povertà: l’ipotesi del reddito di inclusione, in «Lavoro e diritto», 2017, p. 301 ss.; F. Ravelli, Il reddito minimo. Tra universalismo e selettività delle tutele, cit., p. 147 ss.; G. Sigillò Massara, Dall’assistenza al Reddito di Cittadinanza (e ritorno). Prime riflessioni sul Reddito di Cittadinanza, Torino, Giappichelli, 2019, p. 18 ss. 

[66] Cfr. Corte cost. 29 dicembre 2004, n. 423.

[67] O. Genovesi, Sulle misure di contrasto alla povertà nell’ordinamento italiano, cit., p. 347.

[68] V., anche per ulteriori riferimenti bibliografici, M. Corti, Flessibilità e sicurezza dopo il Jobs Act. La flexicurity italiana nell’ordinamento multilivello, cit., pp. 95-97; nonché, amplius, F. Gadaleta, La via italiana al reddito minimo: il tortuoso sentiero del reddito di inclusione nel d.lgs. n. 147/2017, in M. Ferraresi (a cura di), Reddito di inclusione e reddito di cittadinanza. Il contrasto alla povertà tra diritto e politica, Torino, Giappichelli, 2018, p. 25 ss.; F. Ravelli, Il reddito minimo. Tra universalismo e selettività delle tutele, cit., p. 155 ss.

[69] Ciò è chiaro sin dall’incipit del provvedimento: ai sensi dell’art. 2, co. 2, d.lgs. n. 147/2017, «il REI è una misura a carattere universale, condizionata alla prova dei mezzi e all’adesione a un progetto di attivazione e inclusione sociale e lavorativa finalizzato all’affrancamento dalla condizione di povertà».

[70] Per la ricostruzione del dibattito politico alla vigilia della XVIII legislatura v. M. Altimari, Tra assistenza e solidarietà: la liberazione dal bisogno nel recente dibattito politico-parlamentare, in M. Ferraresi (a cura di), Reddito di inclusione e reddito di cittadinanza. Il contrasto alla povertà tra diritto e politica, cit., p. 101 ss.

[71] Sulle radici ideologiche del reddito minimo universale e incondizionato, in verità assai risalenti (le prime teorizzazioni si rinvengono all’inizio del secolo scorso), v.  diffusamente C. E. Orsi, Alle origini del reddito di cittadinanza. Teorie economiche e welfare state dal XVI secolo a oggi, cit., spec. p. 197 ss. Tra i giuristi favorevoli a tale strumento v., in particolare, G. Bronzini, in Il reddito di cittadinanza. Una proposta per l’Italia e per l’Europa, Torino, EGA, 2011 e, ancora di più, in Il diritto a un reddito di base. Il welfare nell’era dell’innovazione, Torino, EGA, 2017. 

[72] Sul reddito di cittadinanza introdotto dal d.l. n. 4/2019 la produzione dottrinale è ormai già piuttosto cospicua: sulle colonne di questa rivista v. D. Chapellu, Il reddito di cittadinanza tra contrasto alla povertà e mercato del lavoro: un primo bilancio e le prospettive future, in «Jus-online», 2020, n. 4, p. 57 ss. Per limitarsi, poi, ad alcuni contributi di più ampio respiro, ove è possibile reperire anche ulteriori riferimenti bibliografici, v.: G. Sigillò Massara, Dall’assistenza al Reddito di Cittadinanza (e ritorno). Prime riflessioni sul Reddito di Cittadinanza, cit.; L. Valente, I diritti dei disoccupati. Le politiche per il lavoro e il welfare dal Jobs Act al reddito di cittadinanza, cit., p. 153 ss.; S. Giubboni (a cura di), Reddito di cittadinanza e pensioni: il riordino del welfare italiano, cit. (la parte prima); nonché, da ultimo, la parte monografica del n. 3/2021 della «Rivista giuridica del lavoro», a cura di R. Casillo, F. Ravelli, A. Sartori, p. 311 ss.    

[73] Il rilievo è piuttosto diffuso in dottrina: cfr., per es., O. Genovesi, Sulle misure di contrasto alla povertà nell’ordinamento italiano, cit., spec. p. 352 ss. Contra G. Bronzini, Introduzione, in S. Giubboni (a cura di), Reddito di cittadinanza e pensioni: il riordino del welfare italiano, cit., p. 10, che, peraltro, fonda il proprio giudizio esclusivamente sulla discontinuità economica esistente tra i due istituti.

[74] V. l’art. 1, co. 1, l. n. 4/2019, il quale, forse con una briciola di ottimismo eccessivo, proclama l’istituzione del reddito di cittadinanza «quale misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro» (corsivo di chi scrive).

[75] Va ricordato che in sede di prima applicazione e fino al 31 dicembre 2021, l’art. 9, d.l. n. 4/2019 ha riservato lo strumento dell’assegno di ricollocazione di cui all’art. 23, d.lgs. n. 150/2015 (v. retro il par. 3) ai fruitori del reddito di cittadinanza. L’esperimento è totalmente fallito (cfr. P. Bozzao, Reddito di cittadinanza e ammortizzatori sociali: dialogo virtuoso o interferenze?, in «Rivista giuridica del lavoro» 2021, I, pp. 404-405), tanto che la legge di bilancio per il 2021 ha riaperto la fruizione della misura anche ai titolari di NASPI da più di 4 mesi (oltre che ai beneficiari della CIGS finalizzata alla ricollocazione di cui all’art. 24-bis, d.lgs. n. 148/2015 e ai fruitori della CIGS per cessata attività di cui all’art. 44, d.l. n. 109/2018: v. l’art. 1, co. 325, l. n. 178/2020).

[76] Cfr. E. Monticelli, Il nuovo Reddito di cittadinanza ed il REI: analogie e differenze, in «Menabò di Etica ed Economia», 31 gennaio 2019, https://www.eticaeconomia.it/il-nuovo-reddito-di-cittadinanza-ed-il-rei-analogie-e-differenze/

[77] L’apparato sanzionatorio è contenuto negli artt. 7-7-ter, d. l. n. 4/2019. In particolare, i primi due commi dell’art. 7 prevedono sanzioni penali in caso di dichiarazioni false, incomplete o non aggiornate, volte a conseguire indebitamente il benefit, mentre il terzo nega il sussidio a coloro che hanno riportato condanne per una serie di reati nei dieci anni precedenti, e il quarto obbliga la p.a. ad attivarsi per recuperare le somme percepite illecitamente. I commi dal quinto al nono, invece, illustrano dettagliatamente i comportamenti non collaborativi che comportano, rispettivamente, l’immediata decadenza (commi 5 e 6), oppure la decurtazione e, in caso di recidiva, la decadenza dal RDC (commi 7, 8 e 9).     

[78] Il profilo più emblematico è senza dubbio quello relativo all’offerta congrua di lavoro che il percipiente deve accettare. Mentre il fruitore del RDC ne può rifiutare fino a tre prima che si verifichi la decadenza dal benefit [art. 4, co. 8, lett. b), n. 5, e art. 7, co. 5, lett. e), d.l. n. 4/2019], il beneficiario di NASPI perde, invece, il diritto all’indennità al primo rifiuto. Una parte della dottrina sottolinea correttamente come la mobilità geografica richiesta al percettore di RDC sia maggiore e crescente ad ogni diniego, mentre, d’altro canto, il beneficiario della NASPI può declinare un’offerta che non superi almeno del 20% l’indennità da lui percepita il mese precedente [art. 25, co. 1, lett. d), d.lgs. n. 150/2015]: cfr. A. Alaimo, Il reddito di cittadinanza: il beneficio economico, il patto per il lavoro e il patto per l’inclusione sociale, in S. Giubboni (a cura di), Reddito di cittadinanza e pensioni: il riordino del welfare italiano, cit., pp. 63-64. Anche tenendo conto di questi aspetti, tuttavia, pare a chi scrive che la bilancia penda a favore dei fruitori di RDC, soprattutto se si considera che il loro sussidio, a carico della solidarietà generale, dovrebbe logicamente implicare obblighi più stringenti rispetto alla NASPI, di carattere contributivo e, comunque, di durata limitata. Va, infatti, ricordato che il RDC, della durata massima di 18 mesi, può essere rinnovato, con pause di 1 mese, sostanzialmente senza limiti finché perdura lo stato di bisogno (art. 3, co. 6, d.l. n. 4/2019), e il fruitore può sempre rifiutare un’offerta di lavoro che non superi l’importo massimo del benefit fruibile da un solo individuo, comprensivo della componente per l’affitto, di almeno il 10% [art. 25, co. 1, lett. d), d.lgs. n. 150/2015, come modificato dall’art. 4, co. 9-bis, d.l. n. 4/2019].

[79] Nello stesso senso L. Pesenti, Il reddito di cittadinanza come risposta alla povertà: prime valutazioni, in «Rivista giuridica del lavoro», 2021, I, p. 360 ss.

[80] Nell’UE la soglia della povertà assoluta è fissata al 40% del reddito mediano del Paese, mentre quella della povertà relativa al 60%; l’ISTAT, peraltro, ha elaborato un indicatore di povertà assoluta che fa riferimento alla spesa per consumi. Cfr. I. Madama, La politica socio-assistenziale, cit., p. 265.

[81] Cfr. L. Valente, I diritti dei disoccupati. Le politiche per il lavoro e il welfare dal Jobs Act al reddito di cittadinanza, cit., pp. 250-251, che identifica il tallone di Achille del RDC nella pluralità dei livelli di governance, con un accesso semiautomatico alla componente economica e la fase successiva di attivazione, verifica e controllo dei beneficiari affidata a una pluralità di soggetti di complesso coordinamento. L’autrice conclude osservando che, stante l’ineffettività degli apparati amministrativi deputati a gestire la fase del reinserimento socio-occupazionale del beneficiario, ne risultano moltiplicate «le possibilità di percepire il reddito senza nessuna condizionalità» (p. 251).    

[82] In realtà, anche le fredde statistiche sembrano indicare l’esistenza di estese frodi. L’incrocio dei dati sulla povertà con quelli sulla fruizione del RDC mostra che, mentre nel Nord del Paese la misura non è in grado di intercettare l’intera area del bisogno, nel Mezzogiorno la copertura è addirittura eccedente: cfr. L. Pesenti, Il reddito di cittadinanza come risposta alla povertà: prime valutazioni, cit., pp. 366-367.

[83] V. i dati riportati da L. Pesenti, op. ult. cit., pp. 367-369, che indicano un intervento dei servizi per l’impiego del tutto carente tanto in termini di placement, quanto di erogazione di misure di politica attiva.

[84] Con forti sospetti di illegittimità costituzionale della disciplina per irragionevolezza: cfr. le condivisibili argomentazioni di A. D’Aloia, G. Agolino, Il reddito di cittadinanza nel sistema costituzionale di protezione sociale, cit., pp. 349-350.

[85] L’indicatore di In-work at risk of poverty rate del Social scoreboard UE rivela che in Italia nel 2019 quasi il 12% degli occupati si trovava a rischio di povertà. Si tratta di uno dei dati peggiori a livello UE, tra l’altro in drammatica crescita rispetto all’inizio del secolo, quando raggiungeva l’8,7% (2005).

[86] Emblematico il caso dei riders di Uber Eats a Milano, con la decisione del Tribunale di sottoporre ad amministrazione giudiziaria la società che gestiva la piattaforma proprio per le condizioni di sfruttamento dei ciclofattorini, peraltro formalmente ingaggiati da committenti diversi dalla stessa Uber Eats (v. il decreto di T. Milano, 27 maggio 2020, n. 9). Sulla vicenda v. S. M. Corso, I riders e il c.d. caporalato (a margine della vicenda Uber Italia), in «Variazioni su temi di diritto del lavoro», 2021, p. 411 ss.; A. Galluccio, Misure di prevenzione e “caporalato digitale”: una prima lettura del caso Uber Eats, in «Giornale di diritto del lavoro e relazioni industriali», 2021, p. 105 ss.; C. Inversi, Caporalato digitale: il caso Uber Italy Srl, in «Lavoro e diritto», 2021, p. 335 ss. 

[87] Si tratta del CCNL stipulato da UGL e Assodelivery il 15 settembre 2020: v. le severe considerazioni di F. Martelloni, CCNL Assodelivery – UGL: una buca sulla strada dei diritti dei rider, in «Questione Giustizia», 22 ottobre 2020 (https://www.questionegiustizia.it/articolo/ccnl-assodelivery-ugl-una-buca-sulla-strada-dei-diritti-dei-rider). Per una prima decisione che, nell’ambito di un’azione per la repressione della condotta antisindacale, ha negato la maggiore rappresentatività comparata a UGL, escludendo che sulla base del CCNL da essa sottoscritto i riders possano essere remunerati con tariffe legate alle consegne, ai sensi dell’art. 47-quater, d.lgs. n. 81/2015, v. T. Bologna, 30 giugno 2021 (consultata in www.ilgiuslavorista.it). 

[88] Il tema delle nuove tecnologie applicate ai processi lavorativi, comprese, in particolare, le piattaforme digitali, ha occupato intensamente i giuslavoristi negli ultimi anni: v., senza pretesa di completezza e con riferimento ai lavori di maggior respiro, P. Tullini (a cura di), Web e lavoro. Profili evolutivi e di tutela, Torino, Giappichelli, 2017; M. Faioli, Mansioni e macchina intelligente, Torino, Giappichelli, 2018; E. Signorini, Il diritto del lavoro nell’economia digitale, Torino, Giappichelli, 2018; E. Dagnino, Dalla fisica all’algoritmo: una prospettiva di analisi giuslavoristica, Adapt University Press, 2019; A. Donini, Il lavoro attraverso le piattaforme digitali, Bologna, Bononia University Press, 2019; A. Aloisi, V. De Stefano, Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano, Laterza, Bari, 2020. Tra le riviste della materia si distingue per l’attenzione a queste tematiche «Labour & Law Issues», che è anche telematica e open access.

[89]  Inaugurato all’inizio della pandemia (23 febbraio 2020) con l’art. 46 del d.l. n. 18/2020 (cd. “Decreto Cura Italia”), il blocco è stato continuamente prorogato, seppur con qualche leggera attenuazione, fino al d.l. n. 41/2021 (cd. “Decreto Sostegni”), il cui art. 8, co. 9-10, ha posto termine al divieto di licenziamenti per ragioni economico-organizzative a partire dal 1° luglio 2021 nei settori coperti dalla CIG e dal 1° novembre 2021 in quelli rientranti nel campo di applicazione dell’assegno ordinario erogato dai Fondi di solidarietà, della CIGS in deroga e della CIG del settore agricolo. Con il d.l. n. 99/2021 il legislatore è, poi, tornato un poco sui suoi passi, prorogando nuovamente il blocco dei licenziamenti fino al 1° novembre 2021 anche nei settori della moda e del tessile allargato (art. 4, co. 4). Questo divieto di licenziamento, che nella sua radicalità non trova eguali nelle esperienze europee di contrasto alle conseguenze della pandemia, ha sollevato non pochi dubbi di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 41, co. 1, Cost. V. il dibattito a più voci in G. Proia (a cura di), Divieto di licenziamenti e libertà d’impresa nell’emergenza Covid. Principi costituzionali, Torino, Giappichelli, 2020.  

[90] Il diritto del lavoro della pandemia costituisce un corpus normativo davvero interessante, per certi versi anticipatore di soluzioni suscettibili di stabilizzarsi anche dopo l’emergenza sanitaria. Correttamente la dottrina giuslavoristica vi ha prestato vigile attenzione: cfr., tra i contributi di maggior respiro, S. Bellomo, A. Maresca, G. Santoro Passarelli (a cura di), Lavoro e tutele al tempo del Covid-19, Torino, Giappichelli, 2020; O. Bonardi, U. Carabelli, M. D’Onghia, L. Zoppoli (a cura di), Covid-19 e diritti dei lavoratori, Roma, Ediesse, 2020; A. Pileggi (a cura di), Il diritto del lavoro dell’emergenza epidemiologica, Edizioni LPO, Suppl. al n. 3-4/2020; A. Garilli (a cura di), Dall’emergenza al rilancio. Lavoro e diritti sociali alla prova della pandemia, Torino, Giappichelli, 2020; D. Garofalo, M. Tiraboschi, V. Filì, F. Seghezzi (a cura di), Welfare e lavoro nella emergenza epidemiologica. Contributo sulla nuova questione sociale, Adapt University Press, voll. nn. 89-93, 2020; O. Mazzotta (a cura di), Diritto del lavoro ed emergenza pandemica, Pisa, Pacini Giuridica, 2021. 

[91] Compare per la prima volta nell’art. 82, d.l. n. 34/2020.

[92] Rispetto al quale presenta condizioni di accesso agevolate: cfr. P. Bozzao, Reddito di cittadinanza e ammortizzatori sociali: dialogo virtuoso o interferenze?, cit., p. 406. 

[93] Per un’attenta lettura di questo strumento e della sua articolazione v. L. Monti, I fondi europei. Guida al NextGenerationEU e al QFP – Quadro finanziario pluriennale 2021-2027, Roma, Luiss University Press, 2021, spec. p. 187 ss.

[94] Negli ultimi anni il tema è stato affrontato dalla dottrina con intensità crescente, anche a livello monografico, non da ultimo per la delega aperta dall’art. 1, co. 7, lett. g), l. n. 183/2014 (cd. Jobs Act), peraltro mai attuata, che prefigurava l’«introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato […], nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale». Cfr. E. Menegatti, Il salario minimo legale. Aspettative e prospettive, Torino, Giappichelli, 2017; M. Delfino, Salario legale, contrattazione collettiva e concorrenza, Napoli, Editoriale Scientifica, 2019. Nella corrente legislatura il Parlamento ha cominciato a lavorare su di un paio di d.d.l. relativi al salario minimo legale, ma al momento la discussione sembra in stallo. 

[95] Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea del 20 ottobre 2020, COM 2020 682 final. L’importanza di questa iniziativa spiega perché il dibattito tra i giuslavoristi si sia avviato quasi immediatamente. La rivista «Il diritto delle relazioni industriali» vi ha dedicato le sezioni tematiche dei primi due numeri del 2021, con contributi di T. Treu, La proposta sul salario minimo e la nuova politica della Commissione europea, p. 1 ss.; G. Proia, La proposta di direttiva sull’adeguatezza dei salari minimi, p. 26 ss.; E. Menegatti, Il salario minimo nel quadro europeo e comparato. A proposito della proposta di direttiva relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea, p. 41 ss.; L. Ratti, La proposta di direttiva sui salari minimi adeguati nella prospettiva di contrasto all’in-work poverty, p. 59 ss.; Z. Adams, La proposta di direttiva UE relativa ai salari minimi adeguati: ripensare la funzione sociale dei salari minimi, p. 283 ss.; M. Weiss, Il salario minimo legale in Germania, p. 308 ss.; A. Bugada, Considerazioni globali sul salario minimo (in Francia e altrove), p. 325 ss.; E. Rojo Torrecilla, L’applicazione della (futura?) direttiva europea sui salari minimi in Spagna. Riflessioni generali, p. 346 ss.; S. Schwertner, La proposta di direttiva sui salari minimi adeguati. Prime valutazioni e implicazioni per l’Austria, p. 371 ss.; M. Barbieri, La proposta di direttiva sul salario minimo legale: opportunità e limiti, p. 387 ss.; A. Bellavista, La proposta di direttiva sui salari minimi adeguati. L’Europa sociale ad una svolta, p. 411 ss.; M. Delfino, Proposta di direttiva, tutela giuridica dei salari e nodi della contrattazione collettiva in Italia, p. 432 ss. Anche la rivista «Lavoro Diritti Europa» ha dedicato una sezione del secondo numero del 2021 al tema: vi hanno scritto O Razzolini, Salario minimo, dumping contrattuale e parità di trattamento: brevi riflessioni a margine della proposta di direttiva europea; ed E. Menegatti, La proposta di direttiva europea in tema di salari minimi adeguati. Sulla «Rivista giuridica del lavoro» n. 1/2021 v. V. Bavaro, S. Borelli, G. Orlandini, La proposta di direttiva Ue sul salario minimo adeguato, I, p. 111 ss.

[96] Come si è potuto constatare anche all’ultimo Convegno annuale dell’Associazione italiana dei giuslavoristi (AIDLaSS) di Lucca (5-6 maggio 2021), dedicato al tema «Libertà e attività sindacale dopo i cinquant’anni dello Statuto dei lavoratori». Tutt’al più, ormai le differenze più consistenti si ravvisano tra chi propone un intervento leggero di sostegno all’autonomia collettiva (v. la relazione di P.A. Varesi al suddetto convegno) e chi, invece, ritiene ormai maturi i tempi per attuare, seppur in forme diverse, il disegno costituzionale. La questione più complessa, in quest’ultima direzione, rimane quella della compatibilità con il dettato costituzionale di strumenti di estensione dell’efficacia soggettiva dei CCNL non esattamente coincidenti con quelli immaginati dai padri costituenti, stante la forza ostativa ancora esercitata, per vero sempre più flebilmente, dalla pronuncia della Corte costituzionale del 1962 (n. 106). Per un’ambiziosa proposta di legge sindacale, che contempla anche meccanismi di estensione erga omnes dei contratti collettivi a tutti i livelli, v. L. Zoppoli, A. Zoppoli, M. Delfino (a cura di), Una nuova Costituzione per il sistema di relazioni sindacali?, Napoli, Editoriale Scientifica, 2014, p. 539 ss.; la prima parte del volume raccoglie gli atti di un fortunato convegno napoletano in cui si sono discusse le sorti del sistema sindacale, anche alla luce della proposta formulata da un gruppo di giuristi raccolti intorno alla rivista «Diritti lavori mercati». Per gli atti di un altro convegno in cui si sono discussi, insieme a quello ora visto, altri due progetti di riforma del diritto delle relazioni industriali (quello della CGIL e quello del gruppo “Freccia Rossa”), v. Aa.Vv., L’attuazione degli articoli 39 e 46 della Costituzione. Tre proposte a confronto, a cura della Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, Roma, Ediesse, 2016.  

[97] Su questa strada sembra saldamente incardinata la p.d.l. n. 3179, attualmente in discussione alla Camera. 

[98] Cfr. M. Magnani, La riforma degli ammortizzatori sociali: il quadro attuale, in «Lavoro Diritti Europa», n. 2/2021.

[99] In questo senso anche le riflessioni di P. Bozzao, Reddito di cittadinanza e ammortizzatori sociali: dialogo virtuoso o interferenze?, cit., pp. 409-410.

[100] La dottrina ha prontamente evidenziato le criticità del RDC, suggerendo, tuttavia, soluzioni divergenti. Per es., A. Alaimo, Povertà e Reddito Minimo in Europa. Coordinamento e armonizzazione tra utopia e possibilità, cit., ritiene opportuno un intervento europeo hard, nella forma della direttiva, per allineare tutti i Paesi dell’Unione, compreso il nostro, alle esperienze nazionali più virtuose; P. Bozzao, Reddito di cittadinanza e ammortizzatori sociali: dialogo virtuoso o interferenze?, cit., propone di rafforzare il collegamento con le politiche attive del lavoro; V. Ferrante, Reddito di cittadinanza, retribuzione e salario minimo legale, in «Rivista giuridica del lavoro» 2021, I, p. 416 ss., ritiene necessario rafforzare l’attivazione dei disoccupati e inasprire i controlli, senza escludere un ridimensionamento dell’importo del benefit qualora il suo livello risulti eccessivamente competitivo in relazione ai salari d’ingresso; A. D’Aloia, G. Agolino, Il reddito di cittadinanza nel sistema costituzionale di protezione sociale, cit., indicano la via di un maggiore coinvolgimento dei fruitori in «attività a vantaggio della collettività», che contribuiscono pur sempre «al progresso materiale o spirituale della società», ai sensi dell’art. 4, co. 2, Cost.; L. Valente, Reddito di cittadinanza e politiche attive per il lavoro, oggi, in «Rivista giuridica del lavoro» 2021, I, p. 373 ss., suggerisce di potenziare le misure di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale mediante un più tempestivo intervento dei servizi sociali; L. Pesenti, Il reddito di cittadinanza come risposta alla povertà: prime valutazioni, cit., propende per una messa a punto dei meccanismi di condizionalità e delle politiche attive del lavoro.  

[101] Su questo rischio, cui è sempre stata tradizionalmente attenta l’esperienza di welfare to work britannica, v. V. Ferrante, Reddito di cittadinanza, retribuzione e salario minimo legale, cit., spec. pp. 421-424.

[102] Correttamente in dottrina si è ravvisato il punto più debole di tutto l’impianto del RDC nella circostanza che «la macchina organizzativa non è ancora pronta a erogare i servizi ipotizzati dal legislatore»: così L. Valente, I diritti dei disoccupati. Le politiche per il lavoro e il welfare dal Jobs Act al reddito di cittadinanza, cit., p. 250. Riflessioni analoghe anche in V. Ferrante, Reddito di cittadinanza, retribuzione e salario minimo legale, cit., spec. pp. 423-424.  

[103] V. il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Italia domani, pp. 200 ss. Per un primissimo commento v. M. Corti, A. Sartori, I primi passi del governo Draghi: PNRR e decreti “Sostegni”. La riforma del lavoro sportivo, in «Rivista italiana di diritto del lavoro», n. 3/2021, in corso di pubblicazione.

[104] Per la visione del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa v., anche per gli opportuni riferimenti alle encicliche sociali, M. Corti, Welfare (voce), in Centro di Ateneo per la Dottrina sociale della Chiesa (a cura di), Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Le cose nuove del XXI secolo, Fascicolo 2021, 1, Gennaio-Marzo 2021, Prima pubblicazione online: Febbraio 2021, spec. 146-147.

[105] Per incidens, tale impianto costituzionale fa sì che le varie proposte di reddito universale incondizionato non siano semplicemente praeter Constitutionem, ma proprio contra Constitutionem: si condividono le osservazioni di E. Gragnoli, Gli strumenti di tutela del reddito di fronte alla crisi finanziaria, in Aa.Vv., Il diritto del lavoro al tempo della crisi. Atti del XVII Congresso nazionale di diritto del lavoro. Pisa 7-9 giugno 2012, Milano, Giuffré, spec. p. 330 ss.; nonché quelle di M. Ferraresi, Reddito da lavoro, reddito di inclusione o reddito di cittadinanza? Il contrasto alla povertà nella prospettiva del diritto del lavoro, in M. Ferraresi (a cura di), Reddito di inclusione e reddito di cittadinanza. Il contrasto alla povertà tra diritto e politica, cit., p. 10 ss., con il quale ci lega, in particolare, l’idea che sia possibile rinvenire nell’art. 38, co. 2, Cost. (diritto a mezzi adeguati alle esigenza di vita in caso di disoccupazione involontaria) il fondamento di un reddito minimo soggetto alla prova dei mezzi e rigorosamente condizionato all’attivazione del beneficiario. Al contributo di Ferraresi si rinvia anche per un’esauriente rassegna delle posizioni della dottrina costituzionalistica e giuslavoristica in punto di radicamento costituzionale del RDC.

Corti Matteo



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