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Plaut. Rud. 975 «Mare quidem commune certost omnibus»

28.06.2017

Rosanna Ortu

Professore associato di Diritto romano, Università di Sassari

Plaut. Rud.  975

«Mare quidem commune certost omnibus»

 

Sommario: 1. Premessa. - 2. Il mare nelle fonti letterarie. - 3. Linee di interpretazione giurisprudenziale: a) il mare nel ius civile. - 4. b) il mare nel ius gentium. - 5. c) il mare nel ius naturale. - 6. Considerazioni conclusive. Dall’usus omnium al dominium omnium: il mare come patrimonio comune dell’umanità.

 

1. Premessa.

Il presente contributo prende le mosse dal contenuto di alcuni significativi versi del Rudens di Plauto[1], il quale a proposito del mare scrive:

Plaut., Rud. 975: Mare quidem commune certost omnibus,

attestando con certezza che il mare è bene comune per tutti.

I versi del Sarsinate rappresentano la testimonianza più risalente in merito al sentire comune del mare nel III sec. a.C., e costituiscono il punto di partenza per avviare una rilettura delle fonti giuridiche e letterarie, con l’intento di proporre una nuova e rinnovata riflessione, a proposito della qualificazione giuridica del mare.

Pertanto, il precorso che in maniera sintetica[2] tenterò di sviluppare in questo contesto avrà le seguenti linee di esposizione: tratterò della concezione del mare negli autori antichi, considerando alcune fonti letterarie, a volte trascurate dalla dottrina o solamente citate, per poi dedicarmi alla ricostruzione delle linee di interpretazione giurisprudenziale a proposito del mare mediante l’esame delle testimonianze dei giuristi a partire da Labeone e Aristone per arrivare fino a Ulpiano e a Marciano, seguendo un iter di tipo cronologico, che porterà ad inquadrare le attestazioni dei giuristi, per i contenuti dei testi considerati, nell’ambito del ius civile, del ius gentium e del ius naturale.

2. Il mare nelle fonti letterarie

Non è mia intenzione occuparmi in questa sede delle problematiche inerenti al valore e all’opportunità di utilizzazione delle fonti letterarie ai fini della ricostruzione degli istituti giuridici romani sia nel campo del diritto privato, sia in quello del diritto pubblico. Vale solo la pena osservare che negli studi più recenti l’uso delle fonti letterarie e della tradizione annalistica costituisce ormai un riferimento costante e imprescindibile, in particolar modo se l’analisi dei testi degli autori antichi è condotta «con quello spirito e quel metodo che Santo Mazzarino ha insegnato alle scienze romanistiche del nostro tempo»[3]. Mi soffermerò solamente sulla questione inerente al valore della testimonianza di Plauto, che, come è noto, ha suscitato sempre molteplici riflessioni critiche da parte della dottrina.

A)           Plauto

La testimonianza letteraria più antica a proposito della concezione del mare, come ho già anticipato nella premessa, è rappresentata dai versi del Rudens di Plauto.

Nel ricercare un criterio metodologico attraverso cui leggere Plauto, la dottrina romanistica, non è concorde sul valore da attribuire alle testimonianze del sarsinate.

Alcuni studiosi ritengono che l’opera di Plauto non possa costituire testimonianza attendibile per gli istituti giuridici romani di quel periodo storico[4]. Così L. Labruna, respingendo l’attendibilità delle notizie fornite dal commediografo, pensa che non si possano utilizzare neppure come «fonte di cognizione indiretta del diritto (greco o romano che sia) al pari di altre opere letterarie che, pur nella loro atecnicità, erano destinate non alla rappresentazione [...] ma alla lettura»[5].

Altri studiosi, invece, riconoscono ai testi di Plauto il valore di fonte indiretta di cognizione del diritto romano. Per costoro, nelle fabulae di Plauto è possibile scorgere elementi tipici del diritto romano, nonostante vi siano forti contaminazioni del diritto greco. Quindi dall’esame dei versi delle commedie plautine si trarrebbero notizie utili per la conoscenza del diritto romano[6].

La dottrina ha elaborato diversi criteri per individuare gli elementi giuridici tipicamente romani all’interno delle commedie di Plauto. Il metodo usato dal Costa si fonda sulla semplice analisi dell’utilizzazione dei termini, metodo che porterebbe all’identificazione degli istituti greci con quelli indicati da parole greche, e romani quelli contrassegnati dall’uso di lemmi latini. L’analisi del Costa non è stata immune da critiche[7], anche da parte di chi riconosce valore di fonte di conoscenza del diritto romano alle fabulae plautine[8].

A questo proposito sono significativi gli studi del Rotelli, il quale esprime perplessità sul metodo adoperato dal Costa (e da altri autori) e cerca di dimostrarne l’inconsistenza. Il Rotelli ritiene che i testi delle commedie devono essere studiati attraverso una analisi filologica, l’unica capace di consentire l’individuazione «delle aggiunte plautine e trarre dal loro esame uno schema tipico di ampliamento giuridico»[9].

Il Paoli invece, mediante la combinazione dell’analisi filologica e giuridica, procede ad una divisione dei dati giuridici contenuti nei luoghi plautini in tre categorie: attici, romani, e attici romanizzati[10].

Le metodologie elaborate dal Paoli e dal Rotelli, caratterizzate da molti elementi comuni, hanno il pregio di aver consentito l’individuazione di numerosi passi in cui è certo l’intervento plautino in materia giuridica.

Il commediografo, nato a Sarsina intorno al 259-251 a.C., e vissuto a Roma fino al 184 a.C., anno della sua morte, compose le sue fabulae tra il 204 e il 184 a.C.[11]: a ben vedere, le sue commedie possono essere considerate fonte utile per la ricostruzione di alcuni istituti giuridici romani risalenti al III sec. a.C.

Il Sarsinate fa riferimento alla concezione del mare nella commedia Rudens, scritta tra la fine del III e gli inizi del II sec. a.C. La commedia, che si sviluppa in cinque atti, si svolge significativamente nella spiaggia (litus) di Cirene e nel quarto atto si legge:

Plaut., Rud. 975 (4.3.5): Mare quidem commune certost omnibus.

in mari inventust communi (4.3.38)

dicant in mari communi captos (4.3.42).

Il dato interessante, ribadito in più versi, è che il mare è considerato con certezza (certost) bene comune per tutti. Commune è il termine utilizzato dal commediografo per caratterizzare in maniera costante il mare o ciò che è collegato al mare.

Nei versi della commedia la valenza di commune rientra sicuramente nella nozione classica del termine, per cui commune anche in questo contesto si contrappone al significato di proprium[12]. Inoltre, a mio avviso la testimonianza di Plauto deve essere intesa anche come uno di quei luoghi in cui il commediografo fa riferimento ad elementi ‘attici romanizzati’[13], attestando «un’opinione corrente nel mondo romano già dal III sec. a.C. e generalmente ammessa con continuità in tutto il Mediterraneo»[14]. Plauto, pertanto, risulta essere testimone di una concezione del mare che era comune nel mondo antico, diffusa e ricorrente non solo tra i Romani ma anche tra i Greci e gli Egizi e i popoli dell’Oriente Mediterraneo[15].

B)            Cicerone

Anche nel pensiero di Cicerone, espresso nella Pro Roscio[16], è possibile scorgere una nozione del mare strettamente agganciata ai concetti di commune e di uso comune, ed assimilata all’aria, alla terra e al litus:

Cic., Pro Roscio 26.72: Etenim quid tam est commune quam spiritus vivis, terra mortuis, mare fluctuantibus, litus eiectis?

Una concezione che ben si inquadra nella visione ciceroniana di stampo universalistico[17], fortemente condizionata dalla filosofia stoica[18], che porterà il grande oratore a teorizzare nel De officiis[19], la concessione a tutti dell’uso dei beni generati dalla natura per il comune vantaggio di tutti gli uomini e goduti dagli uomini “come patrimonio di tutti e di ciascuno”:

Cic., De off. 1. 51-52: Ac latissime quidem patens hominibus inter ipsos, omnibus inter omnes societas haec est; in qua omnium rerum, quas ad communem hominum usum natura genuit, est servanda communitas… [52] Una ex re satis praecipit, ut, quicquid sine detrimento commodari possit, id tribuatur vel ignoto. Ex quo sunt illa communia: non prohibere aqua profluente, pati ab igne ignem capere, si qui velit, consilium fidele deliberanti dare, quae sunt iis utilia, qui accipiunt, danti non molesta. Quare et his utendum est et semper aliquid ad communem utilitatem afferendum.

Dal passo di Cicerone emerge in maniera evidente come tale concezione universalistica fosse «radicata nella mentalità giuridica e nella coscienza civile dei Romani: l’utilitas communis sarebbe “naturalmente” anche del singolo, il quale vedrebbe in tal modo tutelati i propri diritti attraverso la tutela di quelli collettivi, in quanto appunto anche suoi, per la parte di propria pertinenza: eadem sit utilitas uniuscuiusque et universorum»[20], visione che si armonizza con la nota definizione di res publica ciceroniana, in cui viene menzionata la utilitatis communio fra gli elementi costitutivi del populus[21]:

Cic., De re publ. 1.39: ‘Est igitur,’ inquit Africanus, ‘res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus’.

Appare evidente che nel pensiero ciceroniano il mare sia inquadrato in una visione ben precisa, e di più ampio respiro, da cui deriva una utilità giuridica comune degli uomini considerati singolarmente come cittadini e collettivamente come Populus.

C)            Ovidio

La dottrina romanistica[22], fin dai tempi più risalenti, cita un passo delle Metamorfosi[23] di Ovidio[24] come esempio di attestazione dell’uso comune del mare:

Ovid., Met. 6.349-355: Quid prohibetis aquis? Usus communis aquarum est

Nec solem proprium natura nec aera fecit

Nec tenues undas, ad publica munera venit.

Nel testo in realtà non si menziona letteralmente il mare, ma si fa genericamente riferimento all’uso comune dell’acqua: nel contesto specifico, le parole pronunciate dalla figlia di Titano alludono all’uso dell’acqua lacustre che come altri beni naturali generati dalla natura (si fa l’esempio anche del sole e dell’aria) non sono di proprietà dei singoli ma di uso comune.

Il pensiero di Ovidio è comunque interessante, poiché l’autore latino, vissuto a cavallo tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C., annovera l’acqua limpida utile per abbeverarsi come un bene di uso comune, confermando in pieno la visione ciceroniana.

D)           Virgilio

La visione del mare da parte di Virgilio[25] si riscontra in alcuni versi dell’Eneide:

Verg., Aen. 7.228-230: Diluvio ex illo tot vasta per aequora vecti / dis sedem exiguam patriis litusque rogamus / innocuum et cunctis undamque auramque patentem,

in cui il grande poeta parla di distese marine, del litus, e auspica acqua e aria libere per tutti.

E)           Seneca

Infine, il pensiero di Seneca[26] in tema di mare, fortemente intriso di principi della filosofia stoica[27]: nel De beneficiis, opera abitualmente collocata dagli studiosi negli anni 54-64 d.C.[28], il filosofo scrive che:

Sen., De ben. 4.28: Deus quoque quaedam munera in universum humano generi dedit, a quibus excluditur nemo; nec enim poterat fieri ut ventus bonis viris secundus esset, contrarius malis: commune autem bonum erat, patere commercium maris, et regnum humani generis relaxari.

Nell’ottica filosofica dell’opera, in cui si analizza il senso del dare e del ricevere, Seneca osserva che anche Dio ha dato in dono a tutto il genere umano alcune cose dalle quali nessuno è escluso e cita direttamente il mare, attestandone la sua comune utilità.

Dall’analisi delle fonti letterarie esaminate in questo paragrafo, riferite specificamente al mare e in generale all’acqua, appare evidente come il mare, al pari di altre entità naturali, a partire dal III sec. a.C. fino al I sec. d.C., fosse considerato dagli autori antichi bene comune, da cui consegue la comune utilità dell’ambiente marino per gli esseri umani.

3. Linee di interpretazione giurisprudenziale: a) il mare nello ius civile.

Dalle testimonianze più risalenti dei giuristi romani è possibile delineare una configurazione del mare che lo inquadra dal punto di vista giuridico nell’ambito del ius civile[29] (nella sua accezione strictu sensu di ius proprium civitatis, applicabile ai soli cives romani) fra le res publicae[30].

In tale ottica è possibile collocare la visione giuridica del mare che emerge sia in un passo di Labeone[31] e sia in un testo di Aristone[32].

L’opinione di Labeone è tramandata in un frammento di Ulpiano[33]:

D. 43.12.1.17 (Ulp. 68 ad ed.): Si mari aliquid fiat, Labeo competere tale interdictum: ne quid in mari inve litore quo portus, statio interve navigio deterius fiat.

Ulpiano, nel testo a commento del libro 68 ad edictum, inserito dai compilatori giustinianei nel titolo XII del libro 43 del Digesto “De fluminibus. Ne quid in flumine publico ripave eius fiat, quo peius navigetur”, riporta il pensiero di Labeone, il quale attesta che alla fine del I sec. a.C. e agli albori del I sec. d.C. si concedeva in via utile[34] l’interdetto popolare per la navigabilità dei fiumi. Labeone in maniera molto chiara scrive che “qualora si faccia qualche cosa nel mare, compete l’interdictum che stabilisce il divieto di fare alcuna cosa nel mare, nel lido, che renda o possa rendere peggiore il porto o il passaggio delle navi”: interdictum, come già detto, che era previsto per i fiumi notoriamente considerati dai giuristi beni pubblici[35]. In questo caso l’applicazione in via utile dell’interdetto attesterebbe una equiparazione del mare e del lido ai fiumi, da cui ne consegue che nel pensiero di Labeone il mare aveva un carattere pubblico[36].

Inoltre, gli interdetti popolari, come osserva Andrea Di Porto, erano stati «introdotti in relazione a quelle res publicae, che, per il fatto di essere destinate all’uso comune (che coincide con l’uso pubblico), vengono dai giuristi classificate come res in usu publico. E di tali res gli interdetti popolari caratterizzano il regime, differenziandolo dalle altre res publicae»[37]. Alla luce di queste considerazioni, si potrebbe pertanto ipotizzare che già ai tempi di Labeone il carattere pubblico del mare sia rivolto piuttosto verso una concezione in cui prevale la caratteristica di bene comune di uso pubblico[38].

Tale visione è ulteriormente confermata dalle parole di Aristone:

D. 1.8.10 (Pomp. 6 ex Plaut.): Aristo ait, sicut id, quod in mare aedificatum sit, fieret privatum, ita quod mari occupatum sit, fieri publicum,

il quale afferma che così come diventa privato ciò che sia stato edificato nel mare, allo stesso modo diventa pubblico ciò che sia stato occupato dal mare[39].

Il pensiero di Aristone conferma il carattere pubblico del mare, che, per dirlo con le parole del Maddalena, «è pubblico e perciò appartiene al Populus»[40]. In aggiunta, dalla combinazione dei dati contenuti nei due testi di Labeone e di Aristone, ed in virtù di questa connotazione di bene pubblico conseguentemente di appartenenza del Populus, «ai singoli è concesso edificare nel mare (o sulla spiaggia) purché non si ostacolino gli usi comuni del mare. È in sostanza una forma di uso comune di un bene pubblico»[41]. Sembrerebbe pertanto, che alla fine dell’età repubblicana e alle origini del principato, inizi a farsi strada una concezione giuridica del mare che, ad opera dei giuristi, è collocato, nell’ambito del ius civile, fra i bene pubblici e più specificamente fra i beni pubblici di uso comune, sostanzialmente coincidente con la nozione di beni di uso pubblico[42].

Appare chiaro che in questo momento storico l’attenzione dei giuristi è rivolta ad affermare la possibilità di uso pubblico dei singoli nei confronti del mare, considerato di per sé bene pubblico, in una accezione che comprende anche gli spazi occupati dal mare, purché ciò non renda peggiore l’utilizzazione del bene pubblico mare da parte di altri soggetti della collettività.

La concezione di Labeone e di Aristone trova riscontro nel pensiero di Celso[43], il quale, come è noto, fu membro del Consilium di Adriano:

D. 43.8.3 pr.-1 (Cels. 39 dig.): Litora, in quae populus Romanus imperium habet, populi Romani esse arbitror. Maris communem usum omnibus hominibus, ut aeris, iactasque in id pilas eius esse qui iecerit: sed id concedendum non esse, si deterior litoris marisve usus eo modo futurus sit.

Il giurista adrianeo conferma l’appartenenza del lido al Populus Romanus, per i casi in cui si trovi nell’imperium del Populus Romanus. Oltre a ciò, Celso ribadisce l’uso comune del mare per tutti gli uomini, sottolineando la possibilità di realizzare costruzioni nel mare (nel passo si cita testualmente l’edificazione di moli) purché tali costruzioni non intralcino l’uso del mare o del lido.

Anche in questo testo emerge una concezione che prevede l’uso pubblico del bene, che si esplica anche nella possibilità di realizzare costruzioni come i moli, con l’unico limite di non intralciare l’uso comune del mare o del lido. In questo caso, vale la pena osservare che non trova applicazione il principio privatistico superficies solo cedit, in quanto l’appartenenza del bene a tutti e l’uso comune che tutti possono fare di quel bene includono anche la possibilità di costruire[44], e da questo principio inoltre deriva l’appartenenza al costruttore di ciò che è stato costruito, così come capitava per le costruzioni edificate sul litus maris citate da Nerazio in D. 41.1.14.pr.-1:

D. 41.1.14 pr.-1 (Nerat. 5 membr.): Quod in litore quis aedificaverit, eius erit: nam litora publica non ita sunt, ut ea, quae in patrimonio sunt populi, sed ut ea, quae primum a natura prodita sunt et in nullius adhuc dominium pervenerunt: nec dissimilis condicio eorum est atque piscium et ferarum, quae simul atque adprehensae sunt, sine dubio eius, in cuius potestatem pervenerunt, dominii fiunt. Illud videndum est, sublato aedificio, quod in litore positum erat, cuis condicionis is locus sit, hoc est utrum mancat eius cuius fuit aedificium, an rursus in pristinam causam reccidit perindeque publicus sit, ac si nunquam in eo aedificatum fuisset, quod proprius est, ut existimari debeat, si modo recipit pristinam litoris speciem.

Nel frammento del giurista adrianeo, oltre all’attestazione della natura di bene pubblico del litus maris, viene confermata la regola giurisprudenziale a proposito degli edifici costruiti nel lido: l’edificio appartiene a chi lo ha costruito e se l’edificio dovesse crollare e il litus riacquistasse il suo stato originario, ne conseguirebbe che il lido ritorni ad essere nella disponibilità dei cives, e pertanto chiunque potrebbe utilizzarlo per edificare una nuova costruzione. Una parte della dottrina ritiene che in questo frammento Nerazio qualifichi i litora publica come res nullius, ma a mio avviso appare convincente l’interpretazione proposta dal Dell’Oro, il quale giustamente, attenendosi al dato testuale, sostiene che per il giurista adrianeo la condizione dei litora publica non coincide con quella delle res nullius, anche se può essere per alcuni versi avvicinata a quella delle res nullius, «nel senso cioè che di esse può appropriarsi il primo occupante: ma, se viene meno la giustificazione della occupazione, che nella specie si trova solo nell’edificazione di una costruzione, il lido ritorna ad essere pubblico e proprio per questa conseguenza prevale il carattere pubblico rispetto al carattere di res nullius del lido stesso»[45].

Si può quindi concludere che nell’ambito del pensiero dei giuristi della fine dell’età repubblicana fino all’età adrianea il mare, inquadrato nel sistema di ius civile, era qualificato come bene pubblico e i prudentes sottolineano in più occasioni l’uso comune/uso pubblico che consegue da tale qualificazione, attestando anche la vigenza di una tutela interdittale che, come sostenuto da Labeone, si concretizzava con la concessione in via utile dell’interdetto popolare per la navigabilità dei fiumi, nell’ipotesi in cui ‘si facesse alcuna cosa nel mare, nel lido, che rendesse o potesse rendere peggiore il porto o il passaggio delle navi’.

4. b) Il mare nel ius gentium

A partire dal II sec. d.C. la concezione giuridica del mare, e del suo uso, nel pensiero dei giuristi trova una collocazione nell’ambito del ius gentium[46], sistema che viene delineato in maniera esemplare da Gaio, in contrapposizione a quello di ius civile, in un celebre brano delle Institutiones:

Gai 1.1.: Omnes populi, qui legibus et moribus reguntur, partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utuntur: Nam quod quisque populus ipse sibi ius constituit, id ipsius proprium est vocaturque ius civile, quasi ius proprium civitatis; quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes populos peraeque custoditur vocaturque ius gentium, quasi quo iure omnes gentes utuntur. Populus itaque Romanus partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utitur. Quae singula qualia sint, suis locis proponemus.

Per quanto attiene al mare, risulta interessante la visione di Gaio, il quale in un brano delle Res cottidiane[47], la cui lettura, viste le incongruenze presenti del testo[48], deve essere integrata da un passo delle Istituzioni di Giustiniano, il cui contenuto, a detta del Maddalena, «sembra più vicino all’originale del giurista classico di quanto non lo sia il passo del Digesto»[49]:

 

D. 1.8.5 pr.-1 (Gai. 2 r. cott. sive aur.): Riparum usus publicus est iure gentium sicut ipsius fluminis. itaque navem ad eas appellere, funes ex arboribus ibi natis religare, retia siccare et ex mare reducere, onus aliquid in his reponere cuilibet liberum est, sicuti per ipsum flumen navigare. sed proprietas[50] illorum est, quorum praediis haerent: qua de causa arbores quoque in his natae eorundem sunt. 1. In mare piscantibus[51] liberum est casam in litore ponere, in qua se recipiant,

 

I. 2.1.4-5: Riparum quoque usus publicus est iuris gentium, sicut ipsius fluminis: itaque navem ad eas appellere, funes ex arboribus ibi natis religare, onus aliquid in his reponere cuilibet liberum est, sicuti per ipsum flumen navigare. Sed proprietas earum illorum est, quorum praediis haerent: qua de causa arbores quoque in isdem natae eorundem sunt. Litorum quoque usus publicus iuris gentium est, sicut ipsius maris: et ob id quibuslibet liberum est causami ibi imponere, in qua se recipiant, sicuti retia siccare et ex mare deducere. Proprietas autem eorum potest intellegi nullius esse, sed eiusdem iuris esse, cuius et mare et quae subiacent mari, terra vel harena.

 

 

Le integrazioni al testo di Gaio, sulla base del passo delle Istituzioni di Giustiniano, contribuiscono a delineare meglio il contenuto del frammento del giurista antoniniano: si estende al mare e al litus maris la disciplina prevista per i fiumi e le loro rive in merito alla loro utilizzazione, attestandone un uso comune a tutti gli uomini secondo i principi del ius gentium.

In poche parole, nell’ottica del giurista antoniniano, il mare e il lido, pur mantenendo la connotazione di beni pubblici, e pertanto la loro appartenenza al Populus, possono essere comunque destinati all’uso comune di tutti gli esseri umani per diritto delle genti (ius gentium), che è comunque parte del sistema del diritto romano, ma considerato, a differenza del ius civile, stricto sensu, applicabile a tutti gli uomini, non soltanto ai cittadini romani[52], purché non se ne limiti l’uso pubblico, come sottolineato anche da Scevola in D. 43.8.4, a proposito del litus maris:

D. 43.8.4 (Scaev. 5 resp.): Respondit in litore iure gentium aedificare licere, nisi usus publicus impediretur[53].

Il giurista antoniano ribadisce la regola secondo cui si possa edificare nel litus, però rispetto alla valenza della stessa regola vigente in età precedente, muta la prospettiva che deriva dall’inquadramento della disciplina nel ius gentium[54], per cui tale possibilità non viene concessa ai soli cives ma a tutti gli esseri umani, con il solo limite di non intralciare l’uso pubblico del bene.

Appare evidente, già da questa prima ricognizione di fonti come in età antoniniana si fosse delineata la disciplina di una nuova e autonoma tipologia di res, aventi come caratteristica la loro destinazione all’uso da parte di tutti gli esseri umani: una categoria di beni come il mare, il lido del mare, i fiumi e il loro alveo che le fonti definiscono res publicae iuris gentium, a partire dal passo dei Gaio D. 1.8.5 pr.-1, tratto dalle Res cottidianae, esaminato poc’anzi[55].

Va rilevato inoltre, a conferma dell’emersione di tale categoria di res in questo momento storico, come lo stesso Gaio, sempre nelle Res cottidianae (il cui brano è stato riportato dai compilatori giustinianei in D. 41. 1. 1 pr.), mostrasse di delineare le caratteristiche specifiche di una categoria autonoma di res caratterizzate dalla loro destinazione all’uso di tutti gli uomini, attestandone quindi una titolarità collettiva sulla base dei principi di ius getium: «quarundam rerum dominium nanciscimur iure gentium, quod ratione naturali inter omnes homines peraeque servatur, quarundam iure civili […] et […] antiquius ius gentium cum ipso genere humano proditum est»[56].

5. c) Il mare nel ius naturale.

A partire dal III sec. d.C. prende l’avvio un percorso giurisprudenziale che darà vita ad una concezione del mare pienamente inserita nell’ambito del ius naturale[57].

Nel III sec. d.C. la riflessione dei giuristi a proposito della nozione di ius naturale assume una notevole rilevanza come dimostrato da Paolo[58]:

D. 1.1.11 (Paul. 14 ad sab.): Ius pluribus modis dicitur: uno modo, cum id quod semper aequum ac bonum est ius dicitur, ut est ius naturale,

il quale, a proposito dello ius naturale scrive che si tratta di uno ius semper aequum ac bonum[59], con un forte richiamo alla definizione celsina di ius[60] nella riproposizione dell’endiadi bonum et aequum, endiadi che per il giurista connoterebbe in maniera specifica il diritto naturale.

Le partizioni del ius, sapientemente formulate sempre nel III sec. d.C. da Ulpiano in D. 1.1.1, trovano, nei paragrafi 3-4 del frammento, l’enunciazione della distinzione tra ius naturale e ius gentium, a cui seguirà nel frammento D. 1.1.6 la definizione di ius civile che completa il discorso ulpianeo sviluppato nel primo libro delle sue Institutiones, e che riporto qui di seguito:

D. 1.1.1.3-4 (Ulp. 1 inst.): 3. Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri. 4. Ius gentium est, quo gentes humanae utuntur. Quod a naturali recedere facile intellegere licet, quia illud omnibus animalibus, hoc solis hominibus inter se commune sit.

D. 1.1.6 (Ulp. 1 inst.): Ius civile est, quod neque in totum a naturali vel gentium recedit nec per omnia ei servit: itaque cum aliquid addimus vel detrahimus iuri communi, ius proprium, id est civile efficimus.

Il ius naturale secondo Ulpiano è il diritto comune a tutti gli esseri viventi (omnia animalia docuit) e si distingue sia rispetto al ius gentium, comune a tutti gli uomini, e sia al ius civile che invece «è proprium ipsius civitatis e che quisque populis ipse sibi constituit»[61]. Come sostiene Lobrano «nella concezione giuridica romana, espressa nel Corpus Juris Civilis, il diritto si articola in tre grandi sfere concentriche, la più ampia e risalente delle quali è il ius naturale, … cui fanno seguito il ius gentium, … ed il ius civile»[62].

Il diritto naturale appare pertanto come una nuova cornice in cui inquadrare anche la concezione giuridica del mare, dell’ambiente marino e conseguentemente il suo uso.

Interessante, al riguardo, il pensiero di Ulpiano, il quale in D. 47.10.13.7 fa riferimento alla qualificazione giuridica del mare e del litus nel momento in cui il giurista valuta la possibile concessione dell’actio iniuriarum nell’ipotesi in cui qualcuno proibisca di pescare nel mare, o di gettarvi la rete da pesca:

D. 47.10.13.7 (Ulp. 57 ad ed.): Si quis me prohibeat in mari piscari vel everriculum (quod Graece σαγήνη dicitur) ducere, an iniuriarum iudicio possim eum convenire? Sunt qui putent iniuriarum me posse agere: et ita Pomponius et plerique esse huic similem eum, qui in publicum lavare vel in cavea publica sedere vel in quo alio loco agere sedere conversari non patiatur, aut si quis re mea uti me non permittat: nam et hic iniuriarum conveniri potest. Conductori autem veteres interdictum dederunt, si forte publice hoc conduxit: nam vis ei prohibenda est, quo minus conductione sua fruatur. Si quem tamen ante aedes meas vel ante praetorium meum piscari prohibeam, quid dicendum est? Me iniuriarum iudicio teneri an non? Et quidem mare commune omnium est et litora, sicuti aer, et est saepissime rescriptum non posse quem piscari prohiberi[63].

Al di là delle problematiche inerenti alla concessione dell’azione per iniuria per la fattispecie prospettata nel frammento[64], in cui si cita anche l’autorevole dottrina di Pomponio[65], il dato interessante è che Ulpiano afferma che il mare commune omnium est, come i lidi e l’aria, e in virtù di questa qualificazione, secondo il giurista, non è ammissibile proibire la pesca.

Pertanto, nella concezione del giurista severiano il mare appare qualificato come «una res di cui tutti possono fruire, e posto nella proprietà di tutti»[66]. Ulpiano pur non accennando ad un inquadramento del mare nel ius naturale, sembrerebbe avere comunque ben presente le caratteristiche di tale ius, già teorizzate in D. 1.1.1.3-4 (Ulp. 1 inst.), e che ben si adattano alla nozione di bene che commune omnium est, anche se nell’ottica del giurista permane ancora un riferimento allo ius gentium nel momento in cui si fa riferimento alla regola che governa l’edificazione nel mare e nel litus maris esposta nel seguente frammento:

D. 39. 1. 1. 18 (Ulp. 52 ad ed.): «…si quis in mare vel in litore aedificet, licet in suo non aedificet, iure tamen gentium suum facit»,

in cui si ribadisce l’attribuzione della proprietà della costruzione per ius gentium a chi costruisca nel mare (o nel litus maris). Ovviamente non si tratta di un dominium di ius civile, e tale possibilità è concessa purché la costruzione non abbia cagionato danno a terzi, come scrive lo stesso Ulpiano in:

D. 43.8.2.8 (Ulp. 68 ad ed.): … si autem nemo damno sentit, tuendus est is, qui in litore aedificat vel molem in mare iacit.

A completamento del quadro appena delineato per il III sec. d.C. si può citare anche un testo di Marciano[67], in cui si ribadiscono gli stessi principi già presenti in Ulpiano:

D. 1.8.4 pr. (Marcian. 3 inst.): Nemo igitur ad litus maris accedere prohibetur piscandi causa, dum tamen ullius et aedificiis et monumentis abstineatur, quia non sunt iuris gentium sicut et mare: idque et divus Pius piscatoribus Formianis et Capenatis rescripsit.

Il giurista Marciano ha però il merito di aver elaborato una nuova teoria che lo porterà a superare la visione delle res publicae iuris gentium e ad individuare una nuova categoria di res ad esse indipendenti[68], le res communes omnium[69], che vengono collocate dal giurista nell’ambito più generale dello ius naturale:

D. 1.8.2 pr.-1 (Marcian. 3 inst.): Quaedam naturali iure communia sunt omnium, quaedam universitatis, quaedam nullius, pleraque singulorum, quae variis ex causis cuique adquiruntur. 1. Et quidem naturali iure omnium communia sunt illa: aer, aqua profluens, et mare, et per hoc litora maris.

Si tratta di una categoria di res i cui elementi caratterizzanti furono già enunciati sia da autori latini[70] e sia da giuristi[71], ma il merito di Marciano, probabilmente mediato anche dal pensiero di Ulpiano[72], e fortemente intriso di principi filosofici[73], è stato quello di enucleare una categoria di beni comuni a tutti gli esseri viventi, e quindi a tutti gli animali, sia nella proprietà e sia nell’uso. In questa categoria di res, proprie dello ius naturale, il giurista, con una operazione logica ben precisa, introduce immediatamente tutti i beni che non hanno a che fare con la proprietà privata seguendo una rigida sistematica: l’aria, l’aqua profluens, il mare e la sua pertinenza rappresentata dal litus maris.

La classificazione delle res dalle Institutiones di Marciano venne poi inclusa nella Compilazione giustinianea, sia nel passo del Digesto sopra riportato[74], e sia nelle Istituzioni di Giustiniano, in cui si legge:

I. 2.1 pr.-1: Quaedam enim naturali iure communia sunt omnium, quaedam publica, quaedam universitatis, quaedam nullius, pleraque singulorum, quae variis ex causis cuique adquiruntur, sicut ex subiectis apparebit. Et quidem naturali iure communia sunt omnium haec: aer et aqua profluens et mare et per hoc litora maris. Nemo igitur ad litus maris accedere prohibetur, dum tamen villis et monumentis et aedificiis abstineat, quia non sunt iuris gentium, sicut et mare.

Appare chiaro che nell’ottica dell’imperatore Giustiniano vi sia un ordine ben preciso nella summa diviso rerum, che coincide sostanzialmente con quella enunciata da Marciano, che comprendeva anche le res publicae[75]. Vengono citate in primis le res comuni a tutti per diritto naturale; poi seguono le res pubbliche (res del popolo Romano); le res di una collettività (universitas); le res di nessuno (nullius), e da ultime le res dei singoli, che rappresentano significativamente la gran parte di tutte le res (pleraque).

L’imperatore Giustiniano ribadisce pertanto l’inclusione definitiva del mare e del litus maris nella categoria delle res communes omnium per diritto naturale, concludendo così un percorso di interpretazione giurisprudenziale iniziato con Labeone alla fine del I sec- a.C.

6. Considerazioni conclusive. Dall’usus omnium al dominium omnium: il mare come patrimonio comune dell’umanità.

A questo punto è possibile tirare le fila del percorso giurisprudenziale ricostruito in questo breve percorso, in cui sono emersi dati assai interessanti a proposito della configurazione giuridica del mare e dell’ambiente marino.

Dalle fonti letterarie emerge chiaramente un sentire comune nei confronti del mare, che, a partire dal III sec. a.C., con la testimonianza di Plauto, il quale per primo afferma “mare quidem commune certost omnibus”, si sostanzia in una concezione caratterizzata dalla qualità di bene comune da cui consegue anche una utilitas comune per tutti.

Cicerone avrà poi il merito di inquadrare tali qualità del mare in un contesto più ampio, in cui si evidenzia il collegamento tra il mare (considerato come bene comune poiché generato dalla natura, concesso a tutti nell’uso, per il vantaggio comune di tutti gli uomini, e pertanto goduto dagli uomini “come patrimonio di tutti e di ciascuno”) e l’organizzazione politica della civitas: una utilità giuridica comune degli uomini considerati singolarmente come cives e collettivamente come Populus.

In Seneca poi prevale una visione fortemente intrisa di valori tratti dalla filosofia stoica, in cui domina il principio di uguaglianza di tutti gli uomini nella disponibilità di alcuni beni donati al genere umano: ovviamente il filosofo allude ai beni comuni come il mare, che viene citato testualmente nel brano del De Beneficiis.

Nella visione degli autori antichi, pertanto, si evidenziano alcune caratteristiche che si riscontrano in maniera differente anche nel pensiero dei giuristi e che troveranno un pieno accoglimento nell’inquadramento del mare, a partire dall’età severiana, fra le res communes omnium di ius naturale.

Un percorso logico, sviluppatosi nell’arco di tre secoli, in cui i giuristi inizieranno a considerare il mare nell’ambito del ius civile, con l’intento di dare risposte immediate ai cives per le questioni inerenti non solo alla qualificazione giuridica del mare, ma anche al suo uso. Il mare è conseguentemente considerato res publica, bene del Populus Romanus, ovvero in appartenenza e in fruizione del Populus. In virtù di tale concezione è possibile realizzare opere nel mare purché non peggiorino l’uso comune del bene. Una regola giurisprudenziale che a partire da Labeone viene condivisa da altri giuristi, i quali nell’età degli Antonini, a seguito dell’affermazione del concetto di ius gentium, arriveranno a qualificare il mare come res publica iuris gentium, ovvero bene di appartenza del Populus Romanus, ma di uso comune di tutti gli uomini, in piena sintonia con i principi caratterizzanti del ius gentium evidenziati sapientemente da Gaio in quel momento storico.

Il percorso giurisprudenziale troverà un punto di arrivo con la compilazione giustinianea, che recepì in toto la teoria delle res communes omnium di Marciano, il quale ha avuto il merito di sintetizzare il sentire comune radicatosi nel III sec. d.C. con i precetti dello ius naturale ben teorizzati dai giuristi di età Severiana: il mare troverà, pertanto, una collocazione definitiva fra le res communes omnium di ius naturale e sarà perciò considerato come un bene di tutti gli esseri viventi per appartenenza ed uso.

Grazie ad questo lungo percorso di interpretatio prudentium, che ho cercato di ricostruire in maniera sommaria in questo contributo, iniziato con Labeone e conclusosi con la compilazione giustinianea, il mare e l’ambiente marino appariranno agli occhi degli interpreti successivi[76] come res che verranno sottratte alla iniziale disciplina generale delle res publicae, e che grazie all’inquadramento dell’ambito del ius naturale saranno considerati definitivamente come beni comuni di tutti gli esseri viventi, compresi gli animali: dall’usus omnium si arriverà pertanto a concepire un dominium omnium[77].

La classificazione giuridica del mare, ricompreso nella categoria delle res communes omnium, sopravviverà successivamente, e a partire dal medioevo assunse un grande rilievo, con riflessi importanti anche nell’ambito politico. I glossatori attestarono così l’esistenza del principio dell’acquisto della proprietà delle res communes da parte di chi avesse eretto costruzioni sul mare, ravvisando in ciò un caso eccezionale di accessione dell’immobile alla superficie, ed in virtù di tale principio Baldo[78] riferisce che nei secoli XIV e XV la Serenissima Repubblica di Venezia poté rivendicare la propria libertà nei confronti dell’Imperatore del “Sacro Romano Impero” e del Pontefice Romano «su una base giuridica solidissima»[79].

La categoria delle res communes omnium, come è noto, ha poi rappresentato il fondamento giuridico della teoria della libertà dei mari elaborata nel XVII secolo dal giurista olandese Huig van Groot (Ugo Grozio)[80]. Va però rilevato che il principio della libertà dei mari, «nato come naturale portato della classificazione del mare quale res communis omnium»[81], tenda al giorno d’oggi ad essere, per dirlo con le parole di Francesco Sini, «sempre più sfumato a causa dell’avanzare dell’opposto principio della sovranità degli Stati rivieraschi»[82].

La concezione romana del mare come res communis omnium, non appare comunque esaurita nella sua funzione e a ben vedere può rappresentare la base concettuale e culturale della nozione moderna di mare, che a livello internazionale, viene considerato patrimonio comune dell’umanità[83], da cui consegue, come risaputo, anche una garanzia di tutela ambientale del mare stesso e del suo sottosuolo[84].

Alla luce di queste ultime considerazioni, appare evidente come i versi del Rudens di Plauto (Plaut. Rud. 975: Mare quidem commune certost omnibus), che hanno rappresentato il punto di partenza delle mie riflessioni in tema di qualificazione giuridica del mare nel mondo antico, racchiudano una concezione di sorprendente modernità.


*Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review

[1] Per le poche notizie riguardanti la biografia di Plauto vedi M. Schanz, C. Hosius Geschichte der römischen Literatur bis zum Gesetzgebungswek des Kaisers Justinian4, VIII.1, München 1935 (rist. 1967), pp. 55 e ss.; F. DellaCorte, Da Sarsina a Roma (Ricerche plautine)2, Firenze 1967, pp. 47 e ss.;E. Flores, Letteratura latina e ideologia del III-II a.C., Napoli 1974, pp. 57 e ss.

[2] Una trattazione più ampia delle problematiche inerenti alla qualificazione giuridica del mare, dell’ambiente marino e della pesca nel sistema giuridico romano, sarà oggetto di un mio lavoro monografico attualmente in fase di ultima stesura.

[3] F. Sini, Persone e cose: res communes omnium. Prospettive sistematiche tra diritto romano e tradizione romanistica, in Diritto@Storia.Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, 7 (2008), pp. 2 e ss. [www.dirittoestoria.it], il quale rileva, a proposito dell’uso e dell’analisi delle fonti letterarie che «sovente queste analisi conducono a risultati sorprendenti per il moderno giurista: come ho avuto modo di mostrare, a proposito di Virgilio, nel mio libro Bellum nefandum». Per i rapporti tra annalistica e diritto, rinvio alla lettura delle pagine di S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, Roma-Bari 1966 [rist. 1988].

[4] Vedi, tra gli altri, P.F. Girard, Manuel, cit., pp. 552 n. 2; R. Dareste, Le droit romain et le droit grec dans Plaute, in Nouv. Études d’Hist. du droit, Paris 1902, pp. 149 e ss.; C. Ferrini, Sull’origine, cit., pp. 57 e ss; L. Labruna,Plauto, Manilio, Catone: premesse allo studio dell’“emptio” consensuale, in Labeo 14 (1968), pp. 24 e ss. (= Studi in onore di E. Volterra, V, Milano 1971, pp. 23 e ss.); Id., La “romanistica”, in Introduzione alla cultura classica, Milano 1970, pp. 170 e ss.; Id., Plauto, Manilio, Catone: fonti per lo studio dell’emptio consensuale?, in Adminicula, Napoli 1988, pp. 199 e ss. appare, invece, contraddittorio l’atteggiamento di Th. mommsen, Römische Geschichte, vol. II, Berlin 1861, trad. it. a cura di D. Baccini, G. Burgisser, G. Cacciapaglia, Firenze 1972, pp. 903 e ss., il quale afferma che Plauto può essere considerato come un semplice traduttore della commedia attica e ritiene che costui, in qualità di traduttore, abbia «conservato ciò che gli originali contenevano di buono invece di crearlo e quel tanto che in queste rielaborazioni si può con ogni probabilità considerare come creazione del traduttore non va oltre la mediocrità» (p. 1107). Lo stesso Autore, però, nonostante questo giudizio, ha utilizzato in più occasioni i testi plautini come fonte per la ricostruzione di istituti tipici del diritto romano. Si veda anche G. Impallomeni, L’editto degli edili curuli, Padova 1955, p. 90 e ss.: «il commediografo traduce dal greco, e le scene normalmente sono in Grecia; gli accenni giuridici pertanto si riferiscono ad istituti quasi sempre greci e raramente romani» (p. 90), salvo riconoscere elementi di romanità in alcuni versi in cui si fa riferimento a tematiche giuridiche (vedi p. 91, capt. v. 823; rud. v. 373).

[5] L. Labruna, Plauto, cit., p. 35.

[6] In questo senso si sono espressi A. DeSenarclens, La date de l’édit des édiles de mancipiis vendundis, in Tijd. 4 (1923), pp. 384 e ss.; R. Monier, La garantie contre les vices cachés dans la vente Romaine, Paris 1930, pp. 19 e ss.; E. Costa, Il diritto privato nelle commedie di Plauto, Roma 1890 (rist. an. 1968), 17 e ss.; C.St. Tomulescu, La “mancipatio” nelle commedie di Plauto, in Labeo 17 (1971), pp. 284 e ss.; G. Rotelli, Ricerca di un criterio metodologico per l’utilizzazione di Plauto, in BIDR 75 (1972), pp. 97 e ss.; L. Manna, “Actio redhibitoria” e responsabilità per vizi della cosa nell’editto de mancipiis vendundis, Milano 1995, p. 23; É. Jakab, Praedicere und cavere beim Marktkauf, München 1997, pp. 123 e ss.

[7] Sul punto vedi le osservazioni critiche di R. Dareste, Le droit romain et le droit grec dans Plaute, in Nouv. Études d’Hist. du droit, Paris 1902, pp. 149 e ss., il quale è contrario a considerare totalmente romani i riferimenti al diritto presenti nelle commedie di Plauto. L’A. ritiene che alla base della palliata plautina vi sia la rappresentazione della realtà greca e non romana, tanto è vero che i dialoghi generalmente corrispondono ad una traduzione fedele dei modelli attici. per tanto, il Dareste individua soprattutto elementi di diritto attico nelle allusioni giuridiche contenute nei versi delle fabulae plautine, anche se in alcune occasioni non può negare l’esistenza di riferimenti ad istituti tipici del diritto romano. Della stessa opinione C. Ferrini, Sull’origine del contratto di vendita in Roma, in Opere, vol. III, Milano 1929, pp. 60 e ss., il quale propende ad applicare la teoria del Dareste per i luoghi plautini in materia di compravendita. Più recenti le critiche sull’impostazione del Costa da parte di L. Labruna, Plauto…, cit., p. 26.

[8] Si veda soprattutto U.E. Paoli, Comici latini e diritto attico, Milano 1962, pp. 1 e ss.; G. Rotelli, Ricerca…, cit., pp. 97 e ss.

[9] G. Rotelli, Ricerca…, cit., p. 132, ritiene che le aggiunte plautine di matrice giuridica avvenissero mediante l’ampliamento dello schema tipico che già prevedeva allusioni al diritto, oppure attraverso l’inserimento di nuovi riferimenti giuridici in contesti che in origine non li contenevano. Di conseguenza, secondo il Rotelli, l’analisi filologica, in alcuni casi, dovrà essere combinata con l’esame «delle testimonianze di oratori attici», al fine di stabilire con certezza quali contenuti fossero tipicamente romani e quali invece appartenessero al diritto greco.

[10] U.E. Paoli, Comici…, cit., p. 46. Contra G. Rotelli, Ricerca…, cit., p. 100. Il metodo del Paoli viene condiviso e applicato da F. Treves Franchetti, v. Plauto…, in NNDI 13, Torino 1966, pp. 130 e ss.; M.V. giangrieco Pessi, “Agentarii” e trapeziti nel teatro di plauto, in AG 201, 1981, p. 45, la quale, inoltre, è dell’avviso che le aggiunte di Plauto ai canovacci della commedia attica siano giustificate dall’esigenza di «avvicinare il testo e la trama alla comprensione dei suoi spettatori; cosicché, l’intreccio delle commedie plautine, anche se tratto da un originale greco, riceve, comunque, apporti rilevanti ed originali del poeta latino» (p. 47) ed intravede nell’esame dello ‘stile’ delle aggiunte plautine un possibile nuovo criterio per la loro individuazione: «infatti, pur tenendo presente che lo stile non necessariamente si riconnette al contenuto, tale spirito innovativo potrebbe testimoniare l’esigenza sentita dai commediografi latini ad avvicinarsi agli spettatori» (p. 51). Per quanto attiene al pubblico delle commedie plautine e allo stretto rapporto esistente tra spettatori e rappresentazione della palliata, vedi i recenti studi di R.C. Beacham, The RomanTheatre and its Audience, London 1991, p. 33; L. Cicu, Spectator in fabula. Ut aeque mecum sitis gnarures (Poen. 47), in Sandalion, 18 (1995), pp. 67 e ss.; R. Raffaelli, Spectator in fabula, in Aufidus, 10 (1996), pp. 7 e ss.

[11] Sulla datazione dell’inizio dell’attività del commediografo di sarsina, fatta risalire al 204 a.C., v. M. Schanz, C. Hosius, Geschichte…, cit., p. 55. Vedi però Cic., de rep. 4.11 (fragmentum): patiamur, inquit, etsi eiusmodi cives a censore melius est quam a poeta notari; sed Periclen, cum iam suae civitati maxima auctoritate plurimos annos domi et belli praefuisset, violari versibus et eos agi in scaena non plus decuit, quam si Plautus, inquit, noster voluisset aut Naevius Publio et Gnaeo Scipioni aut Caecilius Marco Catoni maledicere, dove Plauto viene accomunato a Nevio per i serrati attacchi ai due Scipioni. Da ciò si potrebbe dedurre che la produzione di Plauto possa farsi risalire a qualche anno prima della morte di questi avvenuta in Ispagna nel 212 a.C.: sul punto vedi L. Ferrero, La letteratura latina, Firenze 1959, p. 40; E. Flores, Letteratura…, cit., p. 58 n. 16, il quale è propenso a individuare negli anni successivi al 215 a.C. l’inizio dell’attività letteraria di Plauto. Per quanto attiene alla cronologia delle commedie plautine, faccio riferimento a F. DellaCorte, Da Sarsina…, cit., pp. 47 e ss., il quale ritiene che l’Asinaria risalga al 207, il Miles gloriosus al 205, la Cistellaria e il mercator agli anni di poco precedenti al 200 mentre, con qualche riserva, lo Stichus viene considerato risalente al 200 e Pseudolus al 191. Invece, in merito alla restante produzione di commedie il Della Corte è dell’avviso che debbano essere datate a partire dagli anni posteriori al 200 fino all’anno della morte. Dello stesso avviso E. Flores, Letteratura…, cit., pp. 59 e ss. Sulla cronologia delle fabulae plautine si veda anche E. Costa, Il diritto…,cit., pp. 40 e ss.

[12] In questo senso A. Ernout, A Meillet, Dictionnaire étymologique de la Langue Latine, v. «munis», Paris 1932, p. 421. Al riguardo vedi anche E. Costa, Il diritto…,cit., pp. 40 e ss., il quale ritiene che il commune dei versi del Rudens debba essere inteso «come ciò che è di tutti i membri dell’umano consorzio, anche all’infuori degli appartenenti ad un determinato organismo politico». Sulla scia del Costa anche A. Dell’Oro, Le res communes omnium dell’elenco di Marciano e il problema del loro fondamento giuridico, in Studi Urbinati 31 (1962-1963), pp. 237-290 [ora in I. Fargnoli, C. Luzzatti, R. Dell’Oro, La cattedra e la toga. Scritti romanistici di Aldo Dell’Oro, Milano 2015, pp. 178 e ss.].

[13] Vedi U.E. Paoli, Comici…, cit., p. 46; S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, vol. I, Roma 1928, p. 598, rileva che la concezione del ‘mare come bene comune per tutti’ espressa da Plauto derivi da modelli greci.

[14] G. Purpura, Liberum mare”, acque territoriali e riserve di pesca nel mondo antico, in AUPA, 49 (2004), pp. 165 e ss.

[15] Cfr. G. Purpura, Liberum mare”…, cit., pp. 165 e ss.,il quale delinea in maniera molto ampia e precisa la concezione del mare dei popoli del Mediterraneo, soffermandosi in particolare sulla visione del mare, dell’ambiente marino e le concessioni di pesca nel mondo greco in cui si attesta «un’istintiva e naturale concezione di libertà in mare, riflessa in un brano delle Leggi di Platone o in un frammento superstite del commediografo Fenicide di Megara in cui, nel III sec. a.C., si dichiara ancora come cosa ben nota, l’appartenenza esplicita del mare alla comunità umana». L’A. inoltre sostiene che «la prassi greco orientale e quella egiziana, … sembrano in generale in sintonia con la concezione romana non patrimonialistica del mare e delle spiagge. In base alle testimonianze attualmente disponibili, appare infatti possibile riconoscere la persistenza in tutto il bacino del Mediterraneo antico - tanto in Oriente che in Grecia, sia a Roma che in Egitto - della concezione del mare come cosa comune a tutti gli uomini fin da un tempo assai remoto. Sembra poi possibile contestare l’esistenza nell’ambito greco, orientale ed egiziano di un concetto astratto di sovranità sul mare e dunque di acque territoriali e di riserve di pesca, se non limitato alle acque interne, come è stato correttamente indicato per il mondo romano» (pp. 168 e ss.).

[16] Sulla datazione dell’orazione, assai controversa, che viene genericamente collocata negli anni 83-66 a.C., v. M. Schanz, C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, cit., pp. 489 e ss.; C. Marchesi, Storia della letteratura latina8, vol. I, rist. Milano 1966, pp. 310 e ss.

[17] A proposito dello stretto collegamento tra la vocazione universalistica e humanitas rinvio a F. Sini, Persone…, cit., p. 4, il quale afferma che: «autorevolissimi studiosi hanno sottolineato la forte valenza della nozione romana di humanitas; in concreto essa si manifestava come autentica vocazione universalistica che trovò la sua piena ed originaria collocazione nello ius naturale». Sulla nozione romana dell’humanitas in questo periodo storico, rinvio a C. Giachi, Studi su Sesto Pedio. La tradizione, l’editto, Milano 2005, pp. 565 (ivi ampia bibliografia sul tema). Ma vedi anche L. Garofalo, L’humanitas nel pensiero della giurisprudenza classica, in Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, 4 (2005), , il quale nel sottolineare i collegamenti tra humanitas e filosofia storica scrive: «Con questo termine, nato nel circolo del giovane Scipione, console nel 147 a.C., nel quale la filosofia greca era coltivata accanto alla lingua e alla letteratura latina, si dava espressione, sotto l’impulso di talune correnti di pensiero riconducibili soprattutto a Panezio, a un sentimento forte: quello della dignità e sublimità che sono proprie della persona umana e la pongono al di sopra di tutte le altre creature del mondo. L’humanitas coglie dunque il singolare valore dell’uomo, che lo obbliga a costruire la propria personalità, a educarsi sul piano culturale e morale, ma anche a rispettare e favorire lo sviluppo della personalità altrui».

[18] A proposito dell’influenza filosofia stoica sul pensiero di Cicerone, rinvio a A. Steinwerter, Utilitas publica utilitas singulorum, in Festschrift P. Koschaker, I, Weimar 1939, pp. 84 e ss.

[19] Si ritiene comunemente che il De officiis risalga al 44 a.C. Sulla datazione dell’opera rinvio a M. Schanz, C. Hosius, Geschichte…, cit., pp. 489 e ss.; C. Marchesi, Storia della letteratura latina, 8a ed., vol. I, rist. Milano 1966, pp. 310 e ss. Si vedano anche, per gli aspetti giuridici: F. Hernández-Tejero, El pensamiento jurídico en Cicerón: de officiis (libro II), in Revista de la Facultad de Derecho de la Universidad de Madrid, 15 (1971), pp. 7 e ss.; P.A. Brunt, Cicero’s officium in the Civil War, in JRS 76 (1986), pp. 12 e ss.

[20] G. Sanna, Il mare patrimonio dell’umanità: l’esperienza giuridica romana, in IV settimana della cultura scientifica, Sassari 1996, p. 2. Visione del Sanna pienamente condivisa da F. Sini, Persone, cit., p. 4.

[21] Cfr. G. Sanna, Il mare…, cit., p. 2; F. Sini, Persone…, cit., p. 4.

[22] Vedi tra gli altri E. Costa, Le acque nel diritto romano, Bologna 1919, p. 95; B. Biondi, La condizione giuridica del mare e del «litus maris», in Studi in onore di Silvio Perozzi, vol. I, Palermo 1925, p. 4, n. 3; V. Scialoja, Teoria della proprietà nel diritto romano, vol. II, Roma 1928, p. 131; A. Dell’Oro, Le res…, cit., p. 179; G. Sanna, Il mare…, cit., p. 1; F. Sini, Persone…, cit., p. 15, n. 9.

[23] Sulle Metamorfosi si vedano M. Sc

Ortu Rosanna



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