fbevnts For harmony in canonical legislation

Per un’armonia nella legislazione canonica

24.08.2020

Mons. Giuseppe Sciacca

 

Per un’armonia nella legislazione canonica*

 

English title: For harmony in canonical legislation

DOI: 10.26350/004084_000077

 

Sommario: Introduzione. 1. Il valore delle disposizioni conciliari. 2. Una guida per il futuro. 3. Il ruolo dell’aequitas. 4. Il ministero episcopale. 5. Come una madre amorevole. 6. Vos estis lux mundi. Conclusioni

 

 

Introduzione

 

L’argomento che ci si propone di affrontare con queste note, peraltro consapevolmente non conclusive, è duplice, o meglio si compone d’una premessa, necessaria per affrontare poi il cuore dell’argomento.

La premessa tutta si riduce alla questione, parimenti imponente e sottile, circa il valore, la gerarchizzazione, la qualificazione, l’obbligatorietà delle leggi, la loro coerenza con l’organico sistema in cui esse sorgono, vivono, da cui traggono vigore ed efficacia, il problema eventuale della c. d. gerarchia delle fonti e/o delle norme, il rapporto tra il diritto divino e quello umano, e così via.

Il cuore, nel quale con trepidazione sincerissima e massima cautela ci si addentra ­– prudentemente condotti dalle quasi conclusioni raggiunte nella prima parte – è costituito dall’ineludibile confronto, sostanziale e d’insieme, non già sinottico, tra la Costituzione dogmatica conciliare Lumen gentium, dopo averne ribadito la qualificazione giuridica che, come si vedrà, è quella di una norma di diritto divino, enunciata dal Papa e dai Vescovi in Concilio, e i due motu proprio, anch’essi derivanti dal Romano Pontefice, Come una madre amorevole e Vos estis lux mundi, per ravvisare tra queste fonti (Lumen gentium e i due citati motu proprio) la necessaria coerenza e, ove questa apparisse meno evidente e chiara, avvertire circa le criticità e i rischi, che una qualche aporia potrebbe provocare con le conseguenti possibili ricadute non solo sull’ecclesiologia (e non solo quella conciliare) ma sulla vita medesima della Chiesa.

Attesa e condivisa la delicatezza e l’urgenza del contesto doloroso (pur se mediaticamente esaltato fino al parossismo) che portò alla promulgazione dei due motu proprio, intendo ancora una volta ribadire decisamente – come già feci nel mio saggio sulla dimissione del Vescovo dallo stato clericale[1]  – che non si vuol qui minimizzare i fatti e le colpe (sempre moralmente troppi, anche se numericamente limitati) che mossero a quella determinazione legislativa, bensì riaffermare la necessità di una giustizia giusta e mai sommaria, dalla quale ultima si possono partire delle schegge capaci di scalfire (non nella loro essenza intangibile, bensì nella prassi e nella rappresentazione quotidiana), finanche le strutture ecclesiali di sempre, che nella grande assise conciliare del XX secolo trovarono configurazione definitiva.

Inutile dire che siffatta mole di questioni e la conseguente bibliografia sarebbero capaci di sopraffare chiunque. Ecco perché si propongono solo alcune riflessioni o note, peraltro, come si diceva prima, non conclusive.

 

1. Il valore delle disposizioni conciliari

 

La legge obbliga – secondo San Tommaso – in forza della sua rationabilitas e non già in forza del comando, siccome più tardi Kelsen, proseguendo sul cammino tracciato dall’imperativo categorico kantiano, avrebbe sostenuto. È lo ius rationis che prevale sullo ius imperii. Ne consegue che i comandi del principe devono essere muniti di una intrinseca razionalità.

Invero il noto canonista transalpino Dominique-Marie Bouix pone tra i requisiti di tale rationabilitas la conformitas al nerbo della disciplina ecclesiastica[2]. Dal canto suo P. Felice Cappello afferma, discorrendo delle condizioni essenziali della legge, che essa deve essere «honesta»: «quatenus nihil contineat contra ordinem sive naturae sive legis divinae positivae»[3].

Il nucleo della questione è appunto questo: l’inammissibilità di una norma umana contrastante col diritto divino, in quanto appunto irrimediabilmente irrationabilis.

Con estrema incisività il Gismondi, scrivendo nella fervida temperie culturale che seguì immediatamente la conclusione del Vaticano II, asseriva: «Il diritto canonico distingue nettamente le norme di diritto divino naturale o positivo dalle norme di diritto umano, per cui le prime – seppure per essere obbligatoriamente imposte debbono essere proclamate formalmente dal Pontefice nell’esercizio del suo straordinario magistero – rendono irrationabiles, e quindi radicalmente nulle, le norme di diritto umano contrastanti con i princìpi di diritto divino»[4].

Ora – sostiene ancora l’Autore – «la caratteristica delle dichiarazioni conciliari è che sono state approvate e promulgate come veri e propri atti legislativi, per cui non possono non presentare una specifica efficacia giuridica: efficacia che è propria dell’attività delle cui forme si riveste»[5].

«Pur non esistendo – prosegue il giurista – alcun vincolo gerarchico tra norme emanate dal Concilio con l’approvazione del Papa, e norme emanate solo dal Papa, non si può negare che le disposizioni conciliari si presentino come norme sopraordinate, se non formalmente, certo materialmente, rispetto alle altre norme poste dagli ordinari organi legislativi della Chiesa»[6].  

Annota Gaetano Lo Castro che «a rigor di logica le prescrizioni normative particolari, contrastanti in tutto o in parte con i princìpi fondamentali (e nel caso con quelli costituzionali), dovrebbero ritenersi invalide. Ciò non di meno sarà necessario nella prassi che la discordanza vada rilevata – cosa, questa, che può essere fatta da chiunque – e soprattutto ammessa ad opera degli organi che devono applicare le norme o hanno il potere di modificarle»[7].

Va posta attenzione al fatto che la sovraordinazione del dettato conciliare, col suo peso e valore normativo, non deriva dalla gerarchia delle fonti, bensì delle norme, nella misura in cui, appunto, quelle conciliari manifestino ed esplicitino lo ius divinum.

In proposito osservava il Caputo: «Non c’è contrapposizione possibile, nei decreti del Vaticano II, fra Concilio e Papa: perché il Papa convoca il Concilio a suo piacimento, ne approva e ne promulga (con un potere di sindacato sostanziale) le decisioni, può modificarne, derogarne o abrogarne, in un tempo successivo, le norme, col solo limite che esse non siano di diritto divino»[8].

Se infatti è vero come è vero che il Legislatore Supremo potrebbe discostarsi da quella che è una «norma programmatica» o «direttiva» del Concilio – per far nostra la nota distinzione, ripresa anche dal Caputo, tra norme propriamente precettive e norme programmatiche o direttive, la cui attuazione viene rimessa al futuro Legislatore –, non va dimenticato che per il principio della sovraordinazione o prevalenza, le norme di diritto divino devono prevalere su tutte quelle di diritto umano, benché anche queste provenienti dal medesimo Supremo Legislatore.

 

2. Una guida per il futuro

 

La scienza canonistica, nel fermento susseguito alla promulgazione dei testi conciliari, affrontò soprattutto il problema del valore e dell’incidenza di essi sull’ordinamento all’epoca vigente, essendo ancora di là da venire la redazione del nuovo Codice, ma senza trascurare la questione dell’applicazione dei principi conciliari nella futura legislazione universale, evidenziando il possibile rischio di una traduzione normativa «minimalista» che ne sminuisse la portata innovativa. I ragionamenti allora sviluppati ben valgono, però, anche in relazione alla possibile discrasia, rispetto ai principi conciliari, di una legge emanata in tempi successivi, quando il dettato conciliare dovrebbe essere riconosciuto come acquisizione comune o, per scomodare Tucidide, κτῆμα ἐς αἰεί, un insegnamento per sempre.

Invero, come avverte Orio Giacchi, quella dell’ordinamento canonico è «una costruzione completa e armonica» di cui la scienza giuridica ha il compito di rendere manifesto «il sistema, mostrandone i comandi particolari in organica connessione tra loro e con i principi generali ai quali l’intero sistema si informa e che appunto da questa opera scientifica devono essere individuati»[9].

«Anche il diritto umano della Chiesa ha bisogno, come ogni altro diritto positivo, di sostenere le sue enunciazioni normative – come dice il Betti – con una “impalcatura dogmatica destinata ad orientare la vita sociale nella direttiva delle sue valutazioni”»[10].

Una disamina particolarmente profonda della questione che ci occupa fu svolta da Gaetano Lo Castro. Secondo questo Autore, stante la pari ordinazione delle fonti di produzione normativa, rimane insufficiente applicare i principi della successione delle leggi nel tempo «guardando solo all’autorità che esercita il potere […] giacché nell’ordinamento canonico è parimente decisivo, per stabilire il valore dell’atto normativo, non solo l’autorità dalla quale proviene […], ma altresì il contenuto dell’atto stesso. Detto con parole più semplici, si può dare un atto normativo che per il suo contenuto non può essere abrogato o modificato da un successivo atto normativo proveniente da un’autorità che si trova, tra le fonti di produzione del diritto, nella medesima posizione dell’autorità che ha emanato il primo atto»[11].

Secondo il citato Autore taluni precetti del Concilio non sono riducibili al rango di mere enunciazioni dottrinali, ma «è da mettere invece nel dovuto rilievo la loro natura di princìpi giuridici»[12], con chiara incidenza sul sistema canonico.

E se taluni di tali principi «incidono illico et immediate nella legislazione vigente, innovando, abrogando, derogando e rendendo inesigibile un certo comportamento, per l’innanzi ritenuto doveroso, o inoperante una certa facoltà», altri sono disposizioni di massima, «programmatiche o direttive, di cui non si può misconoscere il valore giuridico per il loro peculiare contenuto: qualificano, infatti, l’ordinamento giuridico e devono essere tenute in considerazione nell’opera di interpretazione e di costruzione del sistema; rileveranno in maniera ancor più immediata per la comprensione e la spiegazione delle norme d’esecuzione; infine, una eventuale successiva normazione da esse difforme (la quale non può essere esclusa nell’ordinamento canonico o ritenuta invalida, giacché non sono formalmente sovraordinate nella gerarchia delle fonti, a meno che […] non si tratti di principi di diritto divino) dovrà reputarsi una vera e propria deroga, innovativa dell’ordinamento giuridico»[13].

Fra i principi conciliari occupano un luogo di tutto rilievo «la sacramentalità dell’episcopato (Lumen Gentium, n. 21), [che] oltre ad essere un insegnamento dottrinale, di cui persin si sostiene […] il carattere dommatico, rappresenta un principio giuridico che pone i rapporti papa-vescovi in una ben definita prospettiva, alla quale devono conformarsi i vari istituti giuridici circa il conferimento dei tria munera, sanctificandi, docendi, regendi»[14].

E ancora «la collegialità episcopale», la quale «chiarisce l’assetto giuridico al vertice del potere della Chiesa e contemporaneamente definisce le linee di sviluppo e i limiti ai quali deve ispirarsi ed attenersi la formazione sui rapporti dei vescovi fra di loro, dei vescovi con le conferenze episcopali e di queste con la S. Sede (Lumen Gentium, nn. 22-23)»[15].

Il rilievo e l’efficacia esplicati da tali principi scaturiscono dal costituire essi una dichiarazione della verità rivelata: «Ci sembra […] – argomenta lo studioso – che taluni princìpi affermati dal Concilio, per quanto non siano stati proposti come definizioni in senso tecnico, sono stati però presentati come uno sviluppo o una migliore comprensione della rivelazione positiva (è il caso delle strutture del vertice del potere supremo della Chiesa) o naturale (si pensi alla libertà religiosa e al suo fondamento).

Essi, come tali, sono certamente sovraordinati alle altre norme, che debbono reputarsi, secondo i casi, abrogate, derogate, rinforzate, ecc., e fin quando non sia dichiarato diversamente dal magistero solenne della Chiesa (cosa possibile perché […] non è stata impegnata l’infallibilità e la conseguente assoluta irreformabilità) obbligano chiunque ad osservarle ed a seguirne le linee di sviluppo»[16].

 

3. Il ruolo dell’aequitas

 

Alla luce delle suesposte riflessioni, e delle sfumature interpretative che appaiono necessarie nei singoli casi, non sembra possibile né conveniente aderire alla radicale conclusione del Gismondi, per quanto autorevolissimo, sopra ricordata, piuttosto, anziché individuare una nullità dei disposti non coerenti con quella che è una norma precettiva conciliare, et quidem di diritto divino positivo – ravvisata una qualche aporia tra norma conciliare sovraordinata e norme successive di prevalente carattere disciplinare - va fatto doveroso ricorso, quale necessario canone ermeneutico e prudente prassi applicativa, all’aequitas, la sola che consenta di “flessibilizzare” e modulare la norma subordinata sugli irrinunciabili principi della norma sovraordinata, che, in questo caso, è offerta da Lumen gentium.

In senso non dissimile osservava il Caputo che  «anche laddove le norme-principio del Concilio non hanno la forza di caducare norme preesistenti, esse, in quanto qualificatrici dell’intero ordinamento, assurgono, quanto meno, a criteri generali d’interpretazione del diritto positivo»[17].

Il citato Autore, ragionando con riguardo al sistema canonico previgente, argomentava che «il giudice canonico (salvo il ricorso, eccezionale, a clausole particolari come l’aequitas canonica) deve applicare la normativa preconciliare, almeno fino a quando non intervenga un atto legislativo del Pontefice che la rimuova: ma ben può, nel frattempo, ricorrere all’interpretazione “correttiva”, dando una lettura del diritto canonico vigente che si sforzi per quanto possibile di metterlo in armonia con le direttive conciliari»[18].

Un tale modo di procedere, che nell’ambito secolare italiano, dopo la promulgazione della Carta fondamentale della Repubblica, divenne noto come «interpretazione conforme a Costituzione» dell’ordinamento vigente, vale congrua congruis referendo anche in relazione alla produzione normativa canonica postconciliare, nel caso – certo non auspicabile – di possibile discordanza fra la legge di nuovo conio e la matrice conciliare.

L’interpretazione «correttiva» – non osiamo nemmeno sfiorare l’ipotesi della «disapplicazione», che presupporrebbe una palese discordanza della norma dal diritto divino conciliarmente dichiarato – appare come lo strumento più idoneo per «far respirare» la norma, in piena armonia con l’«ambiente» (teologico-canonico) nel quale essa è destinata ad esplicare i suoi effetti, e che è connotato in modo essenziale dalla ecclesiologia del Vaticano II.

 

4. Il ministero episcopale

 

Poste queste premesse, veniamo dunque a valutare l’esistenza di una qualche possibile discrasia fra il dettato conciliare e le norme di recente emanazione a cui abbiamo fatto dianzi riferimento.

È a tutti noto che uno dei principali frutti del Concilio Vaticano II è la sua visione ecclesiologica, che supera, o almeno integra in maniera sostanziale, quella del Vaticano I. Questo, concentrato com’era sulle prerogative della funzione petrina, si muoveva in un’ottica di tipo gerarchico-piramidale, che rischiava di ridurre – almeno nell’immaginario ecclesiale collettivo e forse anche in una certa prassi - i vescovi a funzionari del papa e le diocesi a circoscrizioni territoriali a carattere amministrativo della Chiesa universale, di cui il papa era, in ultima analisi, il solo vescovo[19].

È vero che non erano mancati, sotto lo stesso Pio IX, interventi volti a temperare in qualche modo tale impostazione di fondo, anche in risposta ad esigenze di politica ecclesiastica contingenti[20], ancor più chiari nel magistero di Leone XIII[21]; rilevantissime e profetiche le anticipazioni nell’illuminato e articolato magistero di Pio XII[22] e le rassicuranti, sapide affermazioni di Giovanni XXIII[23]; tuttavia è solo con i documenti del Vaticano II che l’autorità del vescovo riceve un pieno e nitido riconoscimento nella sua origine e nella sua portata.

Interessa qui soprattutto mettere in evidenza, oltre ai nn. già sopra richiamati di Lumen gentium  relativi all’origine e alla natura della potestà episcopale, il n. 27 della costituzione dogmatica, vertente sull’ufficio di governare dei Vescovi, in cui fra l’altro si enuncia a chiare lettere: «Ad essi è pienamente affidato l’ufficio pastorale ossia l’abituale e quotidiana cura del loro gregge; né devono essere considerati vicari dei Romani Pontefici, perché sono rivestiti di autorità propria e con tutta verità sono detti “sovrintendenti delle popolazioni” che governano».

Secondo un acuto esegeta del testo conciliare, il Padre Legrand, l’importanza della dottrina ivi autoritativamente enunciata sta nel fatto che essa situa l’origine del potere di ordine e di giurisdizione dei vescovi nella loro ordinazione. Da qui derivano, fra le altre, alcune rilevanti conseguenze: innanzitutto è superata ogni scissione tra ordine e giurisdizione e nei vescovi si devono intravedere i vicari e ambasciatori di Gesù Cristo e non i vicari del Romano Pontefice; mentre sul piano dei principi canonici deriva una nuova organizzazione dei poteri tra il Papa e i vescovi: il primo non concede più loro i poteri, ma si riserva, per la sua supremazia, e per il bene comune della Chiesa, alcune prerogative che i vescovi potrebbero, per diritto, esercitare[24].

In breve, l’intero impianto canonico ha subito una radicale revisione proprio in forza dell’approfondimento dottrinale dell’ultimo Concilio. Si è passati da un c. d. «sistema di facoltà» concesse dalla Sede Apostolica al Vescovo diocesano, all’attuale «sistema di [rare] riserve» alla stessa Sede Apostolica rispetto al munus proprio del Vescovo diocesano, che informa l’intera disciplina attuale (peraltro suddetto basilare aspetto – solo per citare la più stretta attualità – presiede a talune significative modifiche legislative, squisitamente pastorali, volute da papa Francesco, come ad es. il processus brevior nelle cause matrimoniali); questo a dire, appunto, che il Vescovo possiede la piena potestà derivante da Cristo e non concessagli graziosamente dalla Suprema Autorità, che, solo salvo casi eccezionali e ben motivati, assume, per converso, l’atteggiamento contrario di riservare a Sé qualche circostanziato ambito, conformemente appunto all’assunto teologico in precedenza enunciato: la sacramentalità ed apostolicità dell’episcopato, a cui sono connessi da un lato la collegialità episcopale, dall’altro il contenuto intrinseco ed ineliminabile della potestas vescovile.

 

5. Come una madre amorevole

 

Il m. p. Come una madre amorevole ha inteso tipizzare, fra le «cause gravi» per cui il diritto canonico già prevede la possibilità della rimozione dall’ufficio ecclesiastico (cf. can. 193, § 1 CIC e can. 975, § 1 CCEO)[25] «la negligenza dei Vescovi nell’esercizio del loro ufficio, in particolare relativamente ai casi di abusi sessuali compiuti su minori ed adulti vulnerabili».

La norma segna una svolta piuttosto rilevante, perché nella prassi finora seguita per deporre i Vescovi resisi responsabili di gravi violazioni si è fatto ricorso al can. 401, § 2, che prevede la presentazione volontaria al Papa delle dimissioni (per quanto, evidentemente, enixe sollecitate) da parte del Vescovo sotto accusa[26].

La procedura disegnata nel m. p. in discorso, giova ribadirlo, è di indole strettamente amministrativa e non penale. Infatti, i Vescovi potrebbero anche essere accusati del delitto di «abuso d’ufficio» ex can. 1389[27], ma in tal caso la procedura processuale è già dettagliatamente disciplinata dal Codice e la competenza esclusiva a giudicarli è del Papa ai sensi del can. 1405, § 1.

L’art. 1 del m. p. prescrive che il Vescovo (e i soggetti a lui equiparati, di cui in questa sede non ci occupiamo) «può essere legittimamente rimosso dal suo incarico, se abbia, per negligenza, posto od omesso atti che abbiano provocato un danno grave ad altri, sia che si tratti di persone fisiche, sia che si tratti di una comunità nel suo insieme» (§ 1). Tale danno «può essere fisico, morale, spirituale o patrimoniale».

Il paragrafo 2 puntualizza che il Vescovo «può essere rimosso solamente se egli abbia oggettivamente mancato in maniera molto grave alla diligenza che gli è richiesta dal suo ufficio pastorale, anche senza grave colpa morale da parte sua». Il grado di negligenza scende da «molto grave» a «grave» «nel caso si tratti di abusi su minori o su adulti vulnerabili» (§ 3).

Gli articoli seguenti tratteggiano la procedura da seguire. Viene riconosciuta (art. 2) alla competente Congregazione della Curia Romana[28], in presenza di seri indizi, la facoltà (non l’obbligo) di iniziare un’indagine in merito, dandone notizia all’interessato e dandogli la possibilità di produrre documenti e testimonianze (§ 1).

La Congregazione dovrà prendere in considerazione «tutti i casi» seriamente fondati che in qualsiasi modo le pervengono e valutare l’opportunità di iniziare o meno un’indagine. Diversamente dall’investigazione previa di cui al can. 1717, al Vescovo sottoposto a indagine sono riconosciuti maggiori diritti di informazione e di difesa in questa fase (§ 2).

Completata l’indagine e prima di assumere le proprie decisioni, la Congregazione, oltre a decidere lo svolgimento di un supplemento di indagine eventualmente necessario in cui ve ne fosse la necessità «in seguito agli argomenti presentati dal Vescovo» (art. 2, § 3), può valutare l’opportunità di incontrare anche altri Vescovi appartenenti alla Conferenza Episcopale della quale fa parte il Vescovo indagato (o al Sinodo dei Vescovi della Chiesa sui iuris della quale appartiene l’Eparca) e discutere con loro del caso (art. 3, § 1).

La Congregazione addiviene alla decisione finale in sessione ordinaria, sempre che non proceda prima ad archiviare l’indagine (p. es. per morte o intervenuta rinuncia del Vescovo). Ovviamente può statuire non doversi procedere qualora non ravvisi gli estremi della negligenza. Se invece ritenga che il Vescovo sia stato negligente ha due opzioni: 1) emettere direttamente il decreto di rimozione; 2) esortare fraternamente il Vescovo a presentare la sua rinuncia in un termine di quindici giorni, passati i quali emetterà il decreto di rimozione (art. 4).

Il decreto di rimozione, tuttavia, diviene efficace solo con l’approvazione in forma specifica del Romano Pontefice. Il Papa prima di decidere se approvare o non approvare il decreto della Congregazione, «si farà assistere da un apposito Collegio di giuristi, all’uopo designati» (art. 5).

Si configura così una sorta di secondo grado ex iure, che se da una parte offre all’indagato la garanzia di una ulteriore ponderazione del provvedimento, dall’altra non esplicita chiaramente la possibilità del Vescovo di conoscere il decreto emesso dalla Congregazione (in quanto alla parte motiva, ovviamente) e di presentare al Pontefice e al «collegio giuridico» che lo assiste le sue ulteriori deduzioni e difese, con eventuali elementi aggiuntivi di giudizio, prima che venga emessa la decisione ultima e inappellabile.

La normativa lascia aperti diversi interrogativi, a partire dalla stessa qualificazione della condotta che costituisce il presupposto di fatto per l’attivazione della procedura di rimozione, ovvero la «negligenza dei Vescovi nell’esercizio del loro ufficio, in particolare relativamente ai casi di abusi sessuali compiuti su minori ed adulti vulnerabili». La vaghezza della fattispecie, se formalmente è conciliabile con la natura amministrativa e non penale del procedimento e dell’atto che lo conclude, stride, d’altra parte, con il suo carattere intrinsecamente sanzionatorio e, soprattutto, rischia di sfociare in una compressione, di portata difficilmente controllabile, della discrezionalità tipica del potere amministrativo. Sono note, peraltro, anche in ambito secolare le controversie legate all’indeterminatezza della fattispecie incriminatoria dell’abuso d’ufficio e alla sua riforma che da più parti s’invoca.

Di fatto l’annunciato (nel 2015) delitto di abuso d’ufficio episcopale, il cui campo d’applicazione avrebbe dovuto essere appunto quello della mancata vigilanza e/o repressione nella materia dei delitti contra sextum cum minore, non è stato ancora formalizzato e ciò autorizza il sospetto che col m. p. del 2016 si sia pensato di tradurre in norma quell’annuncio, rimanendo però nel campo di una procedura amministrativa che è caratterizzata da minori garanzie sia di determinatezza sostanziale che di difesa processuale.

Una procedura così sommaria e interna alla gerarchia della Chiesa può rassomigliarsi a quella di una commissione di disciplina interna a quella di una qualsiasi organizzazione. Nella maggioranza degli ordinamenti l’accertamento della responsabilità per danni a terzi, data la complessità, è legata all’esercizio della funzione giudiziaria. Statuire la competenza delle Congregazioni invece che quella di un Tribunale (che comunque dovrebbe giudicare ex commissione pontificia, attesa la competenza esclusiva del Romano Pontefice sui Vescovi in poenalibus) significa evidentemente lasciare alla discrezionalità del Dicastero sia la valutazione dei «seri indizi» di negligenza, sia la stessa scelta di aprire il procedimento e i relativi tempi di svolgimento.

Non si deve trascurare – prudenzialmente – la pericolosità insita nella possibilità di adoperare lo strumento in parola per usi distorti motivati da dissensi gravi nei confronti di un Vescovo o, addirittura, all’interno dell’episcopato di una regione. A nessuno sfugge, poi, come anche la mancata previsione di scansioni procedimentali vincolate a limiti temporali prefissati sia potenzialmente foriera di situazioni di incertezza che potrebbero giocare, di volta in volta, a sfavore o a favore dell’indagato. Sarebbe pertanto da auspicare che ogni procedimento indicasse dei tempi, anche in ordine all’esperimento dei ricorsi se previsti, richiamando e garantendo il principio imprescindibile del quam primum, salva iustitia, ribadendo come bene primario da conseguire l’accertamento della verità e solo in dipendenza da questo l’opportuna celerità della procedura.

A parte questi elencati ed altri interrogativi[29] destati dalla preferenza per la via amministrativa a discapito di quella giudiziaria, rimane la questione di fondo, se cioè sia rationabilis, e in particolare se sia conforme al dettato conciliare, l’assimilazione tout court dell’ufficio vescovile, ovvero di un ufficio capitale e di rilevanza costituzionale nella Chiesa, ad un qualunque ufficio ecclesiastico inferiore, a cui sembrerebbe debba essere piuttosto riferita la normativa di cui è parte il can. 193 sopra richiamato.

Quello episcopale è infatti un ufficio primario (pienezza dell’Ordine e sommo sacerdozio, cf. LG 21) e che, pertanto, non può e non deve avere la medesima considerazione e lo stesso trattamento degli uffici secondari; fermo restando che comunque, sia questo come quelli, mai dovrebbero essere esposti al pericolo di essere intesi come meramente funzionali e ad tempus.

È sempre imprescindibile ricordare che l’Episcopato è di diritto divino, in genere e quoad substantiam, e perciò nemmeno il Papa potrebbe abolirne l’ufficio o limitarlo sensibilmente: gli Apostoli, in questa società gerarchicamente organizzata per volontà fondazionale e costitutiva dello stesso Cristo Signore, ebbero cura di costituirsi dei successori (cf. LG 21 e can. 331) che continuassero la loro missione sino alla fine dei tempi.

 

6. Vos estis lux mundi

 

Considerato come uno dei frutti del summit svoltosi in Vaticano nel febbraio 2019 sul tema degli abusi, il motu proprio Vos estis lux mundi, promulgato il 9 maggio 2019 con vigenza, ad experimentum, per un triennio, reca una serie di norme procedimentali da seguire per la denuncia e l’investigazione dei casi di abuso non solo sessuale ma anche d’autorità (certamente l’accostamento non è dei più felici, giacché in virtù dell’identità terminologica sembra adombrare una sorta di concorso morale del Superiore nel delictum gravius: ma tant’è!).

Il motu proprio, come è stato immediatamente illustrato, ha carattere procedimentale e non vuole innovare la normativa sostanziale in materia penale. «Si tratta – spiegava infatti Mons. J.I. Arrieta, Segretario del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi – di una legge pontificia di ambito universale, valida per la Chiesa latina e per le Chiese orientali sui iuris, che impone obblighi a determinati soggetti e ad altri conferisce facoltà giurisdizionali in ordine alla raccolta, trasmissione e prima valutazione di notizie potenzialmente criminose. È un testo di natura procedurale, che non tipifica nuovi reati, e apre vie sicure per segnalare tali notizie e poterle verificare con prontezza e adeguato confronto, al fine di avviare eventualmente le procedure sanzionatorie previste dalla legge canonica»[30].

Di fatto quello che viene regolamentato è un modello di investigazione previa che potrebbe sfociare non necessariamente in un procedimento penale, ma anche amministrativo di rimozione dall’ufficio. Ciononostante, la connessione con la materia penale è di tutta evidenza, ragion per cui i principi che sovraintendono a quest’ultima dovrebbero sempre riverberarsi anche sulle norme di carattere strumentale, a partire dai principi di certezza, di determinatezza e di presunzione di innocenza.

In particolare, riguardo al principio di certezza giuridica è stato giustamente sottolineato come sia «importante que el legislador no dicte leyes presionado por la opinión del momento, en especial en materia sensible, porque puede faltar la maduración necesaria para dar una solución justa a los problemas que se plantean», sebbene «la necesidad de una respuesta pronta casi no tiene más remedio que recurrir al uso del ad experimentum, consciente de que la precipitación impide una mayor ponderación de la situación»[31].

Quanto invece alla presunzione di innocenza, va rammentato che anche uno dei «punti di riflessione» formulati in vista del vertice in Vaticano richiamava l’esigenza di salvaguardare il principio di diritto naturale e canonico della presunzione di innocenza fino a che si provi la colpevolezza dell’accusato (punto di riflessione 14)[32]. Il motu proprio accoglie l’enunciazione di questo principio nell’art. 12, § 7. Da esso deriva, fra l’altro, che quando la notizia di abuso risulti manifestamente infondata, epperò si sia comunque diffusa con danno per il denunciato, vengano prese le misure idonee a ristabilire la buona fama della persona[33].

In connessione con il principio di non colpevolezza va letto il diritto di difesa, peraltro diritto fondamentale del fedele sancito nel can. 221 – ma prima ancora nello stesso diritto naturale. L’art. 1, § 8 del m.p. prevede che il Metropolita, qualora richiesto dal Dicastero competente, informi la persona dell’indagine a suo carico, la senta sui fatti e la inviti a presentare una memoria difensiva. In tali casi, la persona indagata può avvalersi di un procuratore (da intendersi qui meglio come «avvocato»).

Il procedimento di indagine previa disegnato dal motu proprio non pretende, secondo quanto dichiarato da Mons. Arrieta nella nota esplicativa di presentazione, sostituire ex toto le «modalità consolidate nel corso dei secoli per indagare e sanzionare eventualmente i Vescovi diocesani, facendo ricorso all’assistenza delle Nunziature apostoliche, delle Visite canoniche sul posto, ecc.», bensì «affiancare tali metodi, che seguono ad essere in vigore, con sistemi che diano maggiore vicinanza ai luoghi dove si sono verificati i fatti, consentano una migliore conoscenza e contestualizzazione delle circostanze, e permettano anche soddisfare eventuali esigenze di giustizia nei confronti delle comunità»[34]. Si è puntato, quindi sulla figura del Metropolita, in coerenza con il maggior rilievo che il Santo Padre Francesco ha inteso attribuire a tale antica figura canonica.

Altro aspetto del motu proprio degno di seria ponderazione è quello che incide sul rapporto – anch’esso teologicamente fondato sul sacramento dell’Ordine, oltre che sulla Tradizione della Chiesa, testimoniata pure dai Padri (cf. ad es. S. Ignazio di Antiochia) – che sussiste fra il Vescovo e i suoi presbiteri. Il Concilio Vaticano II (cf. il decreto Presbyterorum ordinis) e le esortazioni apostoliche Pastores dabo vobis e Pastor gregis espongono in modo preciso la dottrina in materia. Sarebbe da evitare che il Vescovo per via delle norme di recente promulgazione (cf. soprattutto art. 1, § 1 lett. B del motu proprio), possa venire frainteso sia dai presbiteri che dal popolo fedele di Dio e infine dalla pubblica opinione, non solo risultando come un mero funzionario ispettivo operante per conto o per delega della Sede Apostolica, ma anche, di conseguenza, apparendo indebolito nella sua figura di padre e amico dei suoi preti.

È ben vero che la paternità e premura pastorale richiedono sommamente la giustizia e la salvaguardia dei fedeli, specialmente dei più vulnerabili, e che si deve vigilare e agire contro ogni e qualsivoglia abuso e delitto – questo è un preciso dovere del Vescovo e appartiene gravemente al suo munus –, ma ciò non deve importare una prescrizione legale che possa in qualche modo condurre – sia pur non volutamente – a ritenere che l’ufficio episcopale possa venire inteso essenzialmente come ufficio di controllore. La paternità episcopale esige la correzione dei figli che si amano (cf. Eb 12, 5-11), ma ciò deve essere naturale conseguenza dello speciale rapporto che deve sussistere fra il Vescovo e il presbitero, evitando appunto ogni fraintendimento e deriva di carattere «poliziesco».

Invero, la stessa potestà amministrativa, per raggiungere il bene dei fedeli nel caso concreto, abbisogna di quella discrezionalità proporzionalmente necessaria per provvedervi, dovendo in ciò scongiurare ogni possibile arbitrio, ma anche la paralisi del sistema, ovvero dell’esercizio del munus volto al conseguimento della salus animarum, se non si lasciasse detto margine.

La capitalità dell’ufficio episcopale, invero, comporta suapte natura ed ex iure divino, un notevole grado di autonomia di governo. Il che rende difficile, al di fuori dei casi di immediata  visibilità, determinare eventuali omissioni e abusi (e ancor più il «dolo specifico» – per così dire – insito nella previsione normativa dell’addebitabilità di «azioni od omissioni dirette a interferire o ad eludere le indagini civili o le indagini canoniche, amministrative o penali, nei confronti di un chierico», art. 1, § 1 lett. B cit.), col rischio che il Vescovo, per timore di accuse, possa agire, magari in buona fede, in modo preventivo e precipitato, in senso «giustizialista», pregiudicando così sia il singolo e la sua buona fama, sia la comunione col suo Presbiterio, sia infine la comunità dei fedeli che potrebbe essere scossa dallo scandalo o dall’eventuale azione errata e avventata, non meno – si ribadisce con forza -  che nel caso increscioso ed esecrando di aver omesso di agire per negligenza veramente colpevole.

 

Conclusioni

 

Come si vede i potenziali punti di criticità della recente normativa col magistero conciliare non mancano, e sta alla saggezza di chi tale normativa deve applicare disinnescare i possibili aperti conflitti.

Un ideale criterio-guida – nonché ottimale sintesi dell’intero discorso fin qui svolto – potrebbe essere ritrovato ricorrendo all’insegnamento di Papa Francesco circa la prestanza che l’ecclesiologia conciliare deve avere nel presiedere alla disciplina canonica. Il Sommo Pontefice, rifacendosi a quanto affermato da S. Giovanni Paolo II nella cost. Sacrae disciplinae leges, promulgativa del nuovo Codice canonico, riguardo al «grande sforzo» posto in essere per «tradurre in linguaggio canonistico [...] l’ecclesiologia conciliare» ha commentato: «L’affermazione esprime il capovolgimento che, dopo il Concilio Vaticano II, ha segnato il passaggio da un’ecclesiologia modellata sul diritto canonico a un diritto canonico conformato all’ecclesiologia. Ma la stessa affermazione indica anche l’esigenza che il diritto canonico sia sempre conforme all’ecclesiologia conciliare e si faccia strumento docile ed efficace di traduzione degli insegnamenti del Concilio Vaticano II nella vita quotidiana del popolo di Dio»[35].

Da questo insegnamento, e dalle considerazioni dottrinali che abbiamo esaminato in premessa, possiamo concludere che tutti i soggetti e gli organi deputati ad applicare i due motu proprio, di cui qui si è trattato, sono chiamati a porre in essere una interpretazione ed applicazione di essi il più possibile conforme ai dettami conciliari, a maggior ragione atteso che, essendo essenzialmente titolari di una potestà di carattere amministrativo, godono di un margine di discrezionalità ben più ampio di quello concesso agli organi giurisdizionali. Tale discrezionalità deve modellare la loro azione nel senso quanto più rispettoso delle prerogative dei Vescovi e della libertà nell’azione di governo, intimamente connessa al loro ufficio capitale di derivazione apostolica.

D’altro canto, si deve anche tener conto che le norme-principio su cui plasmare l’applicazione concreta del diritto canonico postconciliare «vanno ricostruite […] con criteri ermeneutici più larghi di quelli che possono desumersi dal riferimento alle sole proposizioni prescrittive del Concilio, propriamente intese: con criteri, cioè, che postulano il rinvio alla totalità del magistero conciliare». In sostanza e detto altrimenti, «sarà doveroso […] desumerle non solo dalla formulazione letterale delle singole proposizioni prescrittive contenute nei documenti conciliari, ma da quell’entità che potremmo designare come “lo spirito del Concilio”: e che può essere colta solo attraverso la lettura dell’intero magistero conciliare: delle sue prescrizioni normative, ma anche delle sue dichiarazioni teologiche e delle sue indicazioni e raccomandazioni pastorali»[36].

Per concludere, ripetiamo – e non trattasi di soluzione miracolistica, né di comodo – sarà l’aequitas canonica, invocata quale canone ermeneutico, a colmare l’eventuale iato tra lo spirito (ed eventualmente, ‘si et quatenus’ la lettera) di Lumen Gentium e talune statuizioni dei motu proprio presi in considerazione, modellando con sapienza la loro applicazione non già come su di un letto di Procuste, bensì sulla irreversibile lunghezza d’onda e ampiezza dei principi conciliari – vigorosamente riproposti da Papa Bergoglio col suo insistente richiamo alla sinodalità – che vedono irrinunciabilmente il Vescovo diocesano quale pastore, giudice, santificatore della sua Chiesa e collegialmente partecipe di tali munera in quella universale.

Si eviterà, grazie alla “flessibilità” offerta dall’aequitas, che da un’applicazione legalistica dei citati motu proprio – peraltro nella loro istanza di fondo motivati da serie esigenze pastorali – possa partire un involontario vulnus alla nervatura portante dell’ecclesiologia conciliare, siccome essa è stata provvidenzialmente e indelebilmente disegnata da Lumen Gentium.

Infatti, il supino adeguamento (per quanto nobilmente motivato come in praesentiarum) a quella che Paolo Grossi definisce “intelaiatura normativistica” costituirebbe una forzatura e un allontanamento dallo spirito del Concilio Vaticano II in un punto cruciale quale è quello del ‘mistero’ del Vescovo, per far nostra un’espressione cara a Dossetti.

“Es necesario” - afferma P. Lombardia – “que tengamos conciencia de que la norma no es el derecho… cada dia me persuado mas de que para profundizar en la estructura juridica de la Iglesia hay que superar la nocion de ordenamiento juridico come conjunto de normas” [37].

“E’ la natura stessa del diritto canonico” – scrive Grossi e queste parole ci sembrano attagliarsi a quanto da noi avvertito – “è il mistero grande della giuridicità nella Chiesa come mysterium salutis a pretenderlo: un diritto canonico sorpreso come aequitas, come strumento che può e deve superare rigidità di forme e di comandi (che pur ci sono, che pur ci debbono essere ma che non esauriscono il fenomeno giuridico) per salvaguardare la salvezza dei fedeli. È rispetto a questa funzione complessa che una intelaiatura unicamente normativistica sa di forzatura, anzi di tradimento”[38].

 

* Discussione scientifica non soggetta a revisione ai sensi dell’art. 9, co. 5, Regolamento Anvur.

[1] G. Sciacca, Note sulla dimissione del Vescovo dallo stato clericale, in JUS-online 2/2019, pp. 1-16.

[2] D. Bouix, Tractatus de principiis juris canonici, Parigi 1852 - Roma 2013, a cura di F. Zanchini.

[3] F. Cappello, Summa Iuris Canonici, Romae 1928, vol. I, p. 58.

[4] P. Gismondi, I principi conciliari e il diritto canonico, in Lezioni di diritto canonico sui principi conciliari, Roma 1967, pp. 37-38.

[5] Ibid., p. 45.

[6] Ibid., p. 46.

7 G. Lo Castro, La qualificazione giuridica delle deliberazioni conciliari nelle fonti di diritto canonico, Milano 1970, p. 32, nt. 24.

[8] G. Caputo, Introduzione allo studio del diritto canonico moderno, t. I, Padova 1978, p. 190.

[9] O. Giacchi, Diritto canonico e dogmatica giuridica moderna, in Annali della Università di Macerata, Padova 1939, p. 157.

[10] P. Gismondi, I principi conciliari e il diritto canonico,cit., p. 35. La citazione è tratta da U. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano 1949, p. 13.

[11] G. Lo Castro, La qualificazione giuridica delle deliberazioni conciliari nelle fonti di diritto canonico, cit., pp. 214-215.

In proposito l’Autore osserva che «sovra ordinazione delle leggi costituzionali o di struttura della Chiesa s’avrà solo nel caso in cui si tratti di norme di diritto divino. Per il resto abbiamo visto come la gerarchia delle fonti nel diritto canonico non dipenda dal contenuto delle leggi o dei procedimenti seguiti, bensì dai soggetti che le hanno emanate» (ibid., p. 288).

[12] Ibid., p. 285.

[13] Ibid., p. 287.

[14] Ibid., pp. 282-283.

[15] Ibid., p. 283.

[16] Ibid., p. 289.

[17] G. Caputo, Introduzione allo studio del diritto canonico moderno, cit., p. 170.

[18] Ibid., pp. 170-171.

[19] Cf. A. Montan, Il ministero episcopale nella comunione ecclesiale. Aspetti teologici e canonici (Sussidio per gli studenti), PUL 2016, p. 11.

[20] Cf. la nota Lett. Apost. ai Vescovi della Germania, 12 marzo 1875, e il successivo Discorso al Concistoro, 15 marzo 1875: Denz. 3112-3117. Vedi al riguardo O. Rousseau, Il vero valore dell’episcopato nella Chiesa, in Y. Congar et Alii, L’episcopato e la Chiesa universale, Roma 1965, p. 892 ss.

[21] Cf. Enc. Satis cognitum, 29 giugno 1896: ASS 28 [1895-96], p. 732.

[22] Enc. “Fidei donum” 2 apr. 1957, AAS 1957, t. XLIX, p. 235-237; Allocuzioni ai Vescovi del 31 mag. 1954 e 2 nov. 1954, AAS XLVI, p. 313-317, 666-677, Alloc. al 2° Congr. Apostol. dei Laici 5 ott. 1957, AAS 1957, t. XLIX, p. 924.

[23] Lettera ai singoli Vescovi della Chiesa Cattolica del 15 apr. 1962, “Disc. e Messaggi di Giovanni XXIII, v. IV, p. 901-908; Ibid., Alloc. 26 ag. 1962, “Disc. e Messaggi di Giovanni XXIII, v. IV, p. 486-492.

In questa prospettiva, stimolanti le suggestioni di un testo che, seppur datato (1960), si proietta potentemente verso lo spirito e le aperture del Concilio, al quale partecipò attivamente, quale “Il Clero diocesano”, di Mons. A.M. Charue, Vescovo di Namur (ed. it. Roma 1962).

[24] Cf. H. Legrand, Primato e collegialità al Vaticano II. Valutazione ecumenica di una formulazione dottrinale incompiuta, in Il ministero del Papa in prospettiva ecumenica, a cura di A. Acerbi, Vita e Pensiero, Milano 1999, pp. 211-231; Id., Quarant’anni dopo, che ne è delle riforme ecclesiologiche prese in considerazione al Vaticano II, in Concilium XLI (2005), fascicolo 4, pp. 76-95.

[25] Can. 193: «§ 1. Non si può essere rimossi dall’ufficio che viene conferito a tempo indeterminato, se non per cause gravi e osservato il modo di procedere definito dal diritto».

[26] Can. 401: «§ 2. Il Vescovo diocesano che per infermità o altra grave causa risultasse meno idoneo all’adempimento del suo ufficio, è vivamente invitato a presentare la rinuncia all’ufficio».

[27] Can. 1389: «§ 1. Chi abusa della potestà ecclesiastica o dell’ufficio sia punito a seconda della gravità dell’atto o dell’omissione, non escluso con la privazione dell’ufficio, a meno che contro tale abuso non sia già stata stabilita una pena dalla legge o dal precetto. § 2. Chi, per negligenza colpevole, pone od omette illegittimamente con danno altrui un atto di potestà ecclesiastica, di ministero o di ufficio, sia punito con giusta pena».

[28] Per i Vescovi sono ordinariamente competenti le Congregazioni per i Vescovi, per l’Evangelizzazione dei Popoli e per le Chiese Orientali.

[29] Si vedano, acutamente sollevati, in C. Gentile, Nuovo passo nella lotta alla pedofilia nel clero sul motu proprio Come una madre amorevole, in InStoria, Rivista online di storia e informazione, N. 107 - Novembre 2016 (CXXXVIII), disponibile all’indirizzo URL: http://www.instoria.it/home/lotta_pedofilia_clero.htm.

[30] Disponibile all’indirizzo URL: http://www.delegumtextibus.va/content/

testilegislativi/it/eventi/nota-esplicativa--vos-estis-lux-mundi--dal-mons--juan-igancio-ar.html.

[31] R. Rodríguez-Ocaña, El motu proprio Vos estis lux mundi, in Ius Canonicum 59 [2019], p. 851.

[32] In proposito è stato osservato che «la presunción de inocencia no es una presunción al estilo de las presunciones reguladas en los cc. 1585-1586 CIC. No existe un hecho indicio del que se parte para deducir que esa persona es inocente, sino que deriva de la misma dignidad de la persona humana que se la considere inocente de las acusaciones hasta que medie sentencia firme condenatoria, para la cual se exige en el juez la certeza moral sobre la existencia del delito y su imputación, certeza que solo se debe alcanzar de lo alegado y probado en juicio. Se podría decir que el indicio en este caso es la misma dignidad de la persona que es de tal naturaleza que su refutación solo puede provenir de la voz de la justicia en la Iglesia que es la sententia firme del juez» (R. Rodríguez-Ocaña, El motu proprio Vos estis lux mundi, cit., p. 867).

[33] Cf. ibid., p. 868.

[34] Disponibile all’indirizzo URL sopra citato (nt. 28).

[35] AAS 109 (2017), pp. 1026-1027.

[36] G. Caputo, Introduzione allo studio del diritto canonico moderno, cit., p. 171.

[37] P. Lombardia, Norma y ordenamiento juridico en el momento actual de la vida de la Iglesia, in Ius canonicum, XVI (1976), p. 80.

[38] P. Grossi, Scritti canonistici, Milano 2013, p. 228.

 

Sciacca Giuseppe



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