Master and servant, that is the modern subject’s compossibility. From Haunold to Kant

Padrone e servo, ovvero la compossibilità del soggetto moderno. Da Haunold a Kant

27.06.2022

Guido Alimena*

 

 

Padrone e servo, ovvero la compossibilità del soggetto moderno.

Da Haunold a Kant**

 

English title: Master and servant, that is the modern subject’s compossibility. From Haunold to Kant

 

DOI: 10.26350/18277942_000079

 

Sommario: 1. I luoghi della cosalità moderna; 1.1. La reificazione reale della tardo-scolastica; 1.2. Nessuna via di mezzo; 1.3. La topica morale di Weigel; 2. Le specie al limite nel Kontinuum leibniziano; 2.1. La continuità tra persone e cose; 2.2. Intersezioni logico-reali; 3. Le combinazioni di ragione sufficiente in Darjes; 3.1. Linguaggio ed esperienza nelle compossibilità dei diritti; 3.2. Similitudo salva rei essentia; 4. La topica trascendentale dei diritti; 4.1. L’ipotiposi simbolica kantiana; 4.2. La reificazione data in certo qual modo.

 

1. I luoghi della cosalità moderna

1.1. La reificazione reale della tardo-scolastica

 

La conoscenza dell’altro da sé, nell’epoca moderna, non dovrebbe essere guidata da una realtà anteriore ed estranea al soggetto, dal momento che il suo principio guida riposa ormai nel soggetto stesso. Nell’aristotelismo medievale, ricorda Agamben, l’omologia tra fantasia ed esperienza è ancora perfettamente evidente: la fantasia, anziché rispondere solo a un ordine soggettivo, è vissuta come punto di coincidenza tra soggettivo e oggettivo, interno ed esterno, intellegibile e sensibile[1]. Se così è, la soggettività può ritenersi sufficientemente affrancata dall’oggettivismo medievale – in cui l’oggetto empirico è al centro della conoscenza – soltanto all’esito di una faticosa opera di rimozione della cosalità dallo spazio reale in cui l’ha riposta il pensiero scolastico dei suáreziani. Si allude a uno spazio intellettuale fortemente influenzato dall’esterno, cioè da leggi civili e canoniche, da costumi e abitudini, che insieme precedono e informano il modo di rappresentare l’uomo nello stato di servitù, quale paradigma della reificazione[2].

Nelle dottrine giuridiche del secolo XVII, ispirate a quel pensiero, e specialmente nella dottrina del gesuita tedesco Christoph Haunold (1610-1689), è ammissibile considerare una persona ut rem & non ut personam e classificarla quindi tra gli oggetti dello ius reale, insieme alle cose vere e proprie[3]. Ciò grazie a un processo conoscitivo governato dai sensi e nutrito dallo studio della realtà fisica: una cogitatio mentis ex parte rei, nel senso di riflessione sulle proprietà di un certo oggetto per come esse si presentano nella mente secondo fatti ripetuti nello stesso modo – indicativo in tal senso è l’uso del verbo latino considerare[4]. Una riflessione che aspira a verità sempre più chiare per mezzo di metafore, similitudini o analogie saldamente ancorate al sensismo aristotelico, che impedisce ad esse di rendere presente l’assente. Kant le chiamerebbe verità senza ragione (cfr. infra, § 4), poiché prodotte da un pensiero ancora troppo influenzato dalla realtà empirica e, in particolare, dalla volontà di dominio e sottomissione: se vedo il servo lavorare nei campi come un bove o un cavallo, posso dire – secondo quel pensiero – che il servo è realmente posseduto dal signore come un bove o un cavallo[5].

Bisogna escludere, però, che il modello di reificazione appena evocato sia un ritorno alla nozione classica della verità come rispecchiamento della natura o della cosa reale (adaequatio intellectus ad rem), la quale, in tal modo, sarebbe l’unica misura dell’intelletto: ora è l’intelletto in quanto tale a essere «eminentemente reale»[6]. Ragionando sul concetto suáreziano di realitas objectiva, da intendere come realtà indipendente dall’esistenza reale dell’oggetto della conoscenza, è quindi ipotizzabile che la rappresentazione di una persona ut rem & non ut personam astragga dallo spazio e dal tempo per porsi come verità determinata realmente dalla stessa rappresentazione, fermo restando che, a differenza di Guglielmo di Ockham e del nominalismo, Suárez «mantiene un certo concetto della “realtà” che conviene in senso proprio all’esse objectale» – all’essere che si obietta all’intelletto come prodotto –, dal momento che egli non accetta intellezioni confuse o inventate[7].

Per esemplificare, si può dire che la conoscenza sensitiva, benché ritenuta, nella scuola di Haunold, più chiara di quella discorsiva e soprattutto di quella per species alienas (astrattiva), non impedisce a quest’ultima di essere fissata nel suo oggetto quando esso si comporta così come viene rappresentato[8]. Oltre alla rappresentazione, la verità «include una relazione intrinseca dell’atto il cui termine è l’oggetto che si comporta in una determinata maniera». Per giungere alla verità, dice Suárez, non è sufficiente la sola rappresentazione, se l’oggetto non si comporta così come viene rappresentato[9]. Dunque, nella metafisica del filosofo di Granada, se da un lato è ormai soltanto la realitas objectiva, l’oggettità, in quanto possibilità effettiva colta dall’intelletto, a portare tutto il peso della realtà e ad assicurare l’effettività della cosa, in luogo della sua manifestatività[10], dall’altro lato questa verità non è riducibile a una mera possibilità logica: «se è corretto sostenere che ogni essenza reale non implica contraddizione, non è altrettanto corretto sostenere che tutto ciò che è non-contraddittorio è un’essenza reale»[11]. Il concetto suáreziano di realtà essenziale non si confonde perciò con gli enti di ragione (intra-mentali), consistendo in un cogitabile ordinato intrinsecamente all’esistenza (cfr. infra).

Va da sé che quando Suárez parla di persona servi non può che riferirsi, con il primo termine, alla persona come tale (ut sic), cioè a un ente astratto dallo stato di servitù. La persona come tale, infatti, per Suárez è libera a statu servitutis, dove il servus est res aliena[12]. Il servo, in altre parole, mantiene la potenzialità ontologica, ovvero l’essenza potenziale puramente logica, di essere persona[13], mentre la sua essenza effettiva, colta dall’intelletto per mezzo di una finzione conforme alla realtà (cfr. infra), è quella della res. Suárez, si ricordi, non esclude che anche all’interno di una stessa ragione comune possano esserci diversi gradi di astrazione[14].

Del resto, nella dottrina di Haunold, la classificazione della persona reificata tra gli oggetti dello ius reale, con tutte le drastiche conseguenze giuridiche che ne discendono, a partire dalla facoltà di vendita del servo, è un chiaro indice sia della diffusa realtà empirica che alimenta quella rappresentazione, sia della realtà objectiva che la stessa rappresentazione produce nel sistema dei diritti. Si presti attenzione al ragionamento del teologo suáreziano Gaetano Felice Verani (1647-1713), seguace di Haunold: il diritto sul servo appartiene alla categoria generale dello Jus immediatè circa personam, dove però «il servo è da considerare non come persona ma come cosa, consequenter il diritto che il dominus ha circa mancipium è reale & in re»[15].

Certo, nella scolastica barocca ricorre un’importante nota evolutiva rispetto alla dottrina aristotelica della schiavitù: il servo, «sebbene mancipium», merita adesso anche l’appellativo di persona libera per natura ovvero in senso filosofico[16]. Sia chiaro, però, che questa natura altro non è che un’astrazione massima dall’esistenza. Il patire materiale del servo lo rende cosa non in senso metaforico o per modo di dire – come invece accade alle cose personificate[17] – ma in senso proprio, ossia ne compromette l’essenza rendendola quantomeno imperfetta. Secondo la prospettiva suáreziana, assunta nel presente paragrafo come pietra angolare, l’essenza non può prescindere dall’esistenza, poiché esse coincidono perfettamente quando alla prima non ripugna la seconda[18]. In sintesi: è vero che per Suárez la sussistenza, l’essere sui iuris, cioè libero dallo stato di servitù[19], non si confonde con l’esistenza dell’essenza (l’essenza reale e attuale), ma questa ben può esigere un modo di sussistenza o di inerenza affinché sia quel che è[20]: la sussistenza, in particolare, perfeziona la sostanza nella linea o nell’ordine dell’esistenza, consentendole di esistere «non in qualunque modo ma in sé e per sé»[21]. Solo ciò che compie azioni (opera) si chiama propriamente homo, anzi persona et suppositum[22]. Il celebre assioma actiones sunt suppositorum – risalente a san Tommaso e condiviso da Suárez[23] – convince Haunold del fatto che «l’umanità non può operare indipendentemente dal supposito»[24]. Ne consegue che la mancanza totale o parziale di subsistentia, quale costitutivo intrinseco e formale del supposito, comporta la mancanza di persona reale, se non della stessa umanità[25].

Nella locuzione persona servi, incontrata sopra, il primo termine non può allora condividere la dimensione valoriale del secondo, intercorrendo tra essi un rapporto del tipo universale-astratto/individuale-concreto: «Col nome natura intendiamo la sostanza singolare contenente l’essenza integra e completa dell’individuo o del supposito presa in astratto, che i metafisici sono soliti chiamare forma del tutto»[26].

L’antico fatto naturale della reificazione umana diventa, nella speculazione della scolastica barocca, un fatto del pensiero, una res-finzione, essendo il fictum piegato sulla realtà empirica, che al tempo stesso implica, in virtù della propria imperfezione, l’apertura all’universale del concetto filosofico di persona servi, ottenuto per astrazione dalla corporeità[27]. L’essere cosa del servo corrisponde perciò a una consideratio rei in suo esse objectali – nella sua oggettività– non opposta alla consideratio rei in suo esse reali, dal momento che quest’ultima completa (intrinsecamente) la prima[28]. Come a dire: una finzione conforme alla realtà; un’unità formale in rebus non distinta formalmente dalla realtà, perché «l’esse objectivum, vale a dire ciò che lo spirito propone in prima istanza a sé stesso, riceve una ratio realitatis che gli è del tutto propria»[29].

La conoscenza di tale cosalità, per quanto possa muovere da una cogitatio mentis sempre più libera e fondativa dell’essere, si avvicina molto alla c.d. deduzione empirica, nell’accezione kantiana di riflessione sull’esperienza priva di (reale) fondamento oggettivo. D’altronde, lo spazio della rappresentazione reificante in esame coincide con l’habitus aristotelico, spazio di possesso o avere comune dato dall’unione fisica di due contrapposte estremità: la forma (veste) dell’azione, spettante solo a chi possiede (padre, padrone o sostanza in generale), e la forma (vestita) della passione, spettante solo a chi è posseduto (figlio, servo o accidente in generale), anche in tal caso come certa qualità permanente e stabile nel soggetto[30]. Ed è qui che si aggroviglia la trama conoscitiva da cui dipende, nel secolo XVII, la rappresentazione del servo come cosa (e non come persona): il servo versa in habitu & conditionem servilem[31], cioè in una posizione da intendere come mero spazio fisico di accadimento (hic et nunc) del quale non si può disporre liberamente, in quanto abito di risposta all’atto di un agente ripetuto nello spazio e nel tempo. In modo significativo, nella dottrina di Haunold il servo è considerato come cosa perché assoggettato al dominus non in ratione humano & civili modo agentis, cioè formaliter ovvero limitatamente alle sue azioni, ma in ratione patientis, cioè materialiter ovvero, direbbe Suárez, con sé-stesso, intendendo così i soli beni corporali[32]:

 

il valore specifico dell’habitus, e il suo essere tale, sono dati dal fatto dell’essere recettivo (motus). L’interazione tra mondo esterno e mondo interiore, mediato dalle passioni istintuali e dall’influsso della razionalità, produce una “certa qualità” (quaedam qualitas) nelle potenze recettive della psiche che si chiama appunto abitudine (habitus). Tale qualità acquisita, o abitudine, difficilmente poi può essere rimossa per il fatto che diventa, in un certo senso, co-essenziale al soggetto agente [o paziente]. Diventa cioè qualità permanente psicofisica, quasi una seconda natura[33].

 

1.2. Nessuna via di mezzo

 

L’ordinamento giuridico della servitù, fin qui analizzato, non è un semplice riflesso dell’effettività delle relazioni umane, stante l’importante opera di mediazione svolta dalla fictio mentis per la sua legittimazione razionale. Mediazione, però, che tende a mantenere un certo equilibrio tra l’astrazione del logos e l’esperienza concreta, tra res cogitans e res extensa[34], per mezzo del principio di non-contraddizione nella sua formulazione classica: è impossibile che qualcosa sia e non sia allo stesso tempo.

Lo schema jus/obligatio, presupposto nel rapporto signoria/servitù[35], si risolve inevitabilmente nei dualismi azione/passione, sostanza/accidente, condizione/condizionato, soggetto/oggetto. In virtù del principio di non-contraddizione, la figura del servo – persona astratta considerata materialmente ut rem – non sembra infatti concepibile neppure come via di mezzo (Mittelding): «Repugnat enim in terminis, esse simul liberum & servum, non minùs, quàm repugnet esse simul ligatum & solutum»[36]. Sul piano giuridico-sistematico, di conseguenza, è pressoché impossibile non inquadrare il servo nella categoria delle cose, per quanto sia evidente la sua natura (forma) di uomo o persona.

Nell’epoca moderna non mancano gli esempi di lavoratori considerati come vie di mezzo tra le persone libere e le cose. Basti pensare all’ampia nozione di Unfreyheit del diritto tedesco, nella quale ricade il concetto di homo proprius – nel sottile significato di uomo che appartiene al Suo del padrone senza essere schiavo (cfr. infra, § 2.1) –, con tutte le sue cavillose declinazioni (Leibeigenschaft, Hörigkeit e Gutsunterthänigkeit)[37]. Come spiega Friedrich Bouterwek (1766-1828), concorda col diritto di natura un certo tipo di proprietà del corpo, in quanto servitù, dove tuttavia l’uomo non può essere preso in considerazione come proprietà di un altro[38]. In seno allo stesso pensiero scolastico del secolo XVII si fa strada l’idea che i servi siano persone che il dominus possiede instar rerum, cioè a guisa di cose, come se fossero cose, piuttosto che ut res & non ut personas[39]. L’avverbio instar denota una relazione di somiglianza indiretta (tra il servo e la cosa) che rimanda a una modalitàdi essere distinta dall’essenza, ma solo dal punto di vista formale, dato che nella realtà effettiva i servi continuano a ricadere tra gli oggetti di proprietà. Nella seconda metà del Seicento persiste quindi l’incapacità di classificarli in altro modo, malgrado sia ammesso da teologi e giuristi che i servi mantengono un diritto (dominio) tanto sui beni spirituali quanto su alcune parti del corpo e sulla vita – sotto questo profilo, essi sono considerati non ut servi sed ut homines liberi[40].

Al contempo, si può ipotizzare che la c.d. distinzione modale intrinseca (o formale ex natura rei) tra l’essenza e l’esistenza, sulla quale, com’è noto, la dottrina di Duns Scoto si discosta da quella di Suárez (cfr. sopra, nt. 39), abbia indotto gli studiosi dell’epoca a una nuova riflessione sulla servitù. Sembra infatti di assistere al passaggio da una reificazione come vera similitudo, fondativa di una relazione reale (in rebus)[41], a una reificazione per analogia, la quale, nello svelare la debolezza o l’imperfezione ontologica dell’uomo, testimonia della sua necessità di ancorarsi non a un ente di ragione, a una mera possibilità logica, ma all’essere quidditativo di un esistente, cioè a una possibilità reale[42].

Il modo di rappresentare il fenomeno della servitù appena indicato si diffonderà anche presso i gesuiti, portandoli a rielaborare la figura haunoldiana del servo in quella della persona come se fosse cosa riguardo a certe azioni che le competono (persona instar rei consideratam in ordine ad certas actiones circa illam competentes)[43]. Tuttavia, come accennato poc’anzi, la verità del servo continua a riposare nella sottomissione al dominium proprietatis[44]. I servi sono ancora chiamati formalia mancipia, cose mobili preziose, e in quanto tali possono essere venduti[45]. Ciò a causa dell’idea che l’esistenza sia il termine ultimo che misura ogni realtà: curvando verso la realtà effettiva dell’existentia realis, l’oggettità (suáreziana) diviene pienamente reale[46]. Analogie e similitudini, di riflesso, svolgono una funzione conoscitiva fortemente condizionata da costumi e abitudini. Habitus, del resto, continua a significare «qualità permanente prodotta dalla frequentazione degli atti, che difficilmente può essere rimossa dalla Potenza», oppure qualità «che risulta dal Corpo e dalla cosa che gli sta d’intorno»[47]: ratio Habitus est adjacentia vestium In corpore[48].

Di tale situazione è testimone l’orientamento del diritto civile e delle genti censurato dal gesuita Antonio Pérez (1599-1649): si finge che il servo non sia persona ma sia cosa posseduta e strumento animatodel signore, al pari di una mano o di un piede, e nello stesso tempo si vuole che tali finzioni siano verità. La fictio iuris che finge la nullità della persona servi finisce così per giustificare la privazione di diritti fondamentali in capo a essa[49]. Il che, nell’epoca di Pérez, dovrebbe dipendere non solo da disprezzo e volontà ma pure da un determinato processo cognitivo, che sembra rispecchiare, in modo estremo, la «svolta metafisica di Suárez»: il conceptus objectivus, nel senso di figmentum che si obietta alla mente, «non è soltanto ciò che tiene il posto delle cose individuali e concrete, ma ciò che costituisce il loro stesso essere»[50].

 

1.3. La topica morale di Weigel

 

L’impianto logico della classificazione haunoldiana dei diritti va ricercato nei luoghi topici (tópoi, loci). Nella filosofia di Boezio, com’è noto, essi sono luoghi o sedi della mente, regioni di natura esclusivamente logica, principi di natura razionale che presiedono alla formulazione di qualsiasi genere di argomentazione[51]. Si pensi all’arbor servitutum dei glossatori, dove i luoghi della persona e della cosa, con i loro vicendevoli rapporti, esauriscono ogni possibilità classificatoria: 1. servitus personalis (da persona a persona), cioè la condizione servile delle persone; 2. servitus (mixta)da cosa a persona, come usufrutto, uso e abitazione; 3. servitus realis (da cosa a cosa), cioè la servitù prediale; 4. servitus (mixta) da persona a cosa, come la servitù della gleba[52].

Haunold, in effetti, ripropone le stesse combinazioni logiche, attraverso le categorie del diritto a una prestazione obbligatoria (ius personale o ad rem) e del diritto reale (ius in re),nelle sue varie specificazioni: come diritto nella cosa o nella persona (considerata ut rem & non ut personam) o nella cosa personificata, cioè rappresentata, per metafora e modo di dire, come soggettodi obbligazione (cfr. sopra)[53].

Senza dubbio, la topica di cui si discorre fa leva sull’analogia. Come scrive Leibniz:

           

Ita patet analogia juris realis et personalis. Itaque jus reale, personale et personalissimum videntur idem in fundo esse, et tantum objectis distingui. Nam in reali quandoque jure res fingitur esse persona, cujus patrimonium est obligatum, ut quadrupes pauperiem faciens; in personalissimo persona est ut res[54].

 

Intercorre però una rilevante differenza tra il luogo della persona ut res descritto da Leibniz e quello analogo proprio della topica giuridica di Haunold. Quest’ultimo, come già rilevato, è caratterizzato da una similitudine intrinseca o diretta (tra il servo e la cosa) e non prevede altro spazio (habitus) relazionale che quello fisico. I capisaldi del primo, invece, sono l’analogia estrinseca o indiretta (di rapporti) e la figura giusnaturalistica della persona morale, risalente a Grozio e, sotto il profilo teoretico, all’astronomo matematico e filosofo tedesco Erhard Weigel (1625-1699), professore a Jena di Pufendorf e dello stesso Leibniz.

Il filosofo lipsiense riconosce l’importanza di Weigel per la distinzione degli enti in naturali, morali e nozionali (cfr. infra), insieme ai corollari del diritto come qualità morale e dello spazio come substrato in cui si esercita un movimento morale simile al moto in natura[55]. Idee che introducono una nuova disciplina giusfilosofica della topica, da Weigel delineata come quadripartizione di stati o condizioni: 1. tra persone; 2. tra cose; 3. tra persone e cose; 4. tra cose e persone. Se pensate all’interno del mondo morale, persone e cose, in quanto entia moralia, diventano parti di un’entità comune (gemeine Wesen) ove le une e le altre possono penetrarsi, in certi casi fino al punto del reciproco annullamento[56]:

 

c’è una grande differenza tra mondo naturale e mondo morale. Nel primo, infatti, non si rintraccia da nessuna parte alcuna penetration dei corpi naturali, anche quando una superfice si trova congiunta all’altra. Nel mondo morale, invece, talvolta anche la stessa solidità viene penetrata[57].

 

Sono noti gli approfondimenti di questa teoria da parte di Pufendorf. La persona morale, nel suo giusnaturalismo, pur non avendo nulla a che vedere con la persona psico-fisica, intesa come ente fisico, non si risolve in una mera fictio ma rappresenta una realtà culturale dotata di senso, vale a dire una qualità o un modo valorativo della persona fisica[58]. Non a caso, il termine status da lui impiegato «non caratterizza più la condizione e la posizione di una persona come qualcosa di permanente. L’immagine è quella di enti che si muovono liberamente in uno spazio»[59]. E infatti, secondo l’insegnamento di Weigel, gli stati dell’anzidetta quadripartizione – per esempio, la cosa che rappresenta (darstellen) la persona del suo padrone oppure lo stato di possesso o dominio – non vanno considerati come qualità che aderiscono (haften) nelle persone o nelle cose, essendo posti nello spazio esterno comune dove esse si trovano. Solo astraendo dal corpo e, in generale, dal mondo naturale – dall’habitus in senso classico –, quindi solo pensando e trattando l’uomo come persona morale – come membro vivente della comunità –, può accadere che una sostanza penetri l’altra completamente[60].

È qui, con ogni probabilità, che riposa la principale direttrice lungo la quale si dispiega, intorno al paradigma dell’idea servi, il passaggio dalla cosalità (Sachlichkeit), quintessenza dell’uomo ridotto a oggetto di proprietà, alla realità (Dinglichkeit), forma di reificazione non contrapposta alla personalità e a questa subordinata: un modo di esserci che non annulla l’essenza dell’uomo come persona; una reificazione vera ma non materiale, essendo prodotta da una soggettività – soprattutto quella del giurista chiamato a classificare diritti e uomini – di per sé capace del diritto di libertà, ossia di un movimento dell’essere autonomo e cosciente che può concretamente trascendere l’ordine e il fine della natura[61]. La ragione soggettiva della modernità, scrive Pietro Barcellona, è assolutamente sciolta da ogni vincolo sociale e naturale[62]. Essa, dunque, è in grado di riconoscere la personalità propria e altrui non come qualcosa sceso dall’alto o dato in prestito – viene in mente il principio della personificazione del servo ex persona domini, cioè tramite la persona del padrone, sostenuto da Iacopo Cuiacio e tramandato da Teofilo (Antecessore)[63]ma come qualità intrinseca all’uomo, qualunque sia l’effettività delle sue relazioni sociali.

In altre parole, nel corso della modernità la soggettività umana ha maturato una potenza performativa che le ha permesso di concepire la cosalità del servo trascendendo il meccanismo binario automatico dell’habitus, inteso come relazione reale (fisica) tra i due estremi dell’azione e della passione. Il rapporto servo/padrone, essendo ormai mediato dallo spazio comune (esterno al corpo) della topica weigeliana, inizia a configurarsi come relazione immaginaria tra un corpo e il luogo che lo circoscrive, quindi come formalitas che non si erge formalmente e completamente in rebus (nel corpo), se non per opera dell’intelletto: una formalità modellata dall’intelletto come se fosse reale (instar rei)[64]. La cosalità, in definitiva, smette di essere uno status che inerisce al servo e diventa uno status dislocato nello spazio morale in cui il servo interagisce col proprio signore. Rimanendo sul versante dello scotismo secentesco, si potrebbe parlare di formalitas nel senso di ratio objectiva, anziché in quello di realitas objectiva: la formalità, secondo il nuovo significato, «non è una cosa fisica distinta, bensì è qualcosa di positivo che in qualche modo è minore della cosa. È la ratio objectiva di un concetto formale distinto»[65], il quale, a differenza dell’oggettità suáreziana, riesce a salvaguardare l’essenza dell’uomo nel caso-limite della persona servi.

Nelle pagine che seguono si cercherà di spiegare nel dettaglio tale processo di trasformazione, assumendo come angolo visuale gli sviluppi che il rinnovato concetto di topica (degli enti e dei diritti) ottiene nei sistemi giuridici di Leibniz, Darjes e Kant. Al termine di questo percorso concettuale sarà possibile scorgere una soggettività nuova, poiché operante all’interno di uno spazio governato da leggi che palesano l’impossibilità di reificare realmente l’essere umano[66]. Sarà così che il concetto di proprietà materiale del corpo, espressione del decadimento dell’uomo nella servitù della gleba – grazie a semplici percezioni intellettualizzate di un fenomeno –, potrà essere poi sostituito dal concetto giuridico intellettuale puro di avere in mio potere l’oggetto esterno, da cui dipende il principio pratico del possesso noumenico (senza detenzione fisica) nella Rechtslehre kantiana (cfr. infra, § 4)[67].

 

2. Le specie al limite nel Kontinuum leibniziano

2.1. La continuità tra persone e cose

 

Un’immagine rappresentativa dell’idea di soggettività nel tardo Seicento è quella delle cose spinte da un proprio impulso interiore (impetus) verso un Centrum. Come scrive Weigel, l’essenza della potestà morale (Moralische Macht) non sta nel fatto che il suo detentore attrae a sé l’obbligatocon la forza: è l’obbligato stesso ad avvicinarsi spontaneamente alla potestas, in virtù di una spinta ad aprirsi verso di essa guidata da «parole» e «fiducia» – da linguaggio intersoggettivo e fiducia relazionale, diremmo oggi. Tra potestà (del signore) e obbligazione (del servo) si inserisce perciò la libertà (del soggetto), qualità morale grazie a cui l’uomo, in certi tratti, procede liberamente[68]. Lo schema jus/obligatio, di conseguenza, non è più riducibile allo schema sostanza/accidente: secondo il concetto di persona morale, servo e padrone sono interrelati.

Si giunge così all’altra fondamentale immagine incontrata sopra: l’entità comune. Essa, nel suo principio generale, sarà uno dei concetti chiave del kantismo giuridico nel primo Ottocento: la personalità omnicomprensiva (Gesammtpersönlichkeit), nel senso di persona moralis-juridica generata da una profonda unione tra due o più soggetti di diritto, ognuno dei quali è insieme agente e paziente, essendo titolare di una sfera di libertà (Freiheitskreise) in cui possono spettare anche certi diritti particolari – per esempio, i diritti domestici kantiani – in virtù dello specifico rapporto verticale o gerarchico dell’uno con l’altro. Ciascun soggetto, infatti, accetta con quell’unione una sfera di libertà comune, sicché le rispettive sfere si penetrano a vicenda, fino ad arrivare, in alcuni casi, a una compenetrazione pressoché totale, come due cerchi quasi sovrapposti. E quando ciò accade, ossia quando alla sfera di libertà dell’uno appartiene l’intera attività dell’altro, anziché una parte di essa, l’ultimo assume la forma-apparenza di una cosa (cfr. infra, § 4.2)[69]:

 

anche il servo domestico ottiene in tal modo un diritto al possesso del suo padrone, che nella sua persona e con la sua persona risponde delle proprie obbligazioni così: egli non può cedere a piacimento il suo domestico a un altro, né, in generale, può uscire dallo stato erile senza accordarsi su ciò con la sua servitù. […] La società erile si basa dunque su un possesso reciproco[70].

 

Il concetto basilare presupposto in questa teoria è quello di Suitas (o Suität), controverso residuo dei diritti di famiglia romani. Lo troviamo infatti associato ora ai diritti del villanatico tedesco (Hörigkeit), comprensivi delle facoltà di vendita e permuta dei servi[71], ora ai diritti domestici kantiani, in quanto diritti di avere un’altra persona come il Suo, ma incompatibili con quelle facoltà, poiché il Suo, in questo caso, è una persona reale, insuscettibile come tale di essere venduta o barattata[72]. Lungo il percorso tracciato alla fine del paragrafo precedente si svolge, dunque, una lenta trasformazione della Suitas, avviata dal meccanismo morale della topica weigeliana e dal principio leibniziano della continuità, che al momento può essere spiegato così: la continuità è una relazione astratta – irriducibile al rapporto sostanza/accidente e soggetto/predicato – fra due specifiche entità dotate di un quantum[73], siano esse persone o cose. Anche queste ultime sono soggetti di qualità e quantità morale, ovvero di diritto e obbligazione, e pertanto possono restare coinvolte, con le persone, nel processo di penetrazione reciproca sopra illustrato.

Il rapporto tra signore e servo subisce in tal modo un’importante evoluzione: all’idea di cosalità propugnata nelle dottrine della scolastica barocca – dove il fatto, pacifico per l’intelletto, del servo mancipium, strumento, dipende da un habitus dominicale o domestico privo di compenetrazione fra le sue parti antitetiche (cfr. sopra, § 1) – si affianca l’idea di una reificazione più mite, poiché spaziata tra i due estremi (concettuali) della persona e della cosa, grazie al meccanismo della penetration. Il servo, in altre parole, essendo un ente morale – tale qualifica, come si è visto, spetta ormai anche alle cose –, accede a uno spazio in cui può condividere col signore, seppure non allo stesso modo, la veste di persona agente.

Anche grazie alla categoria weigeliana dei quanta notionalia – enti possibili che esistono nell’intelletto in forma, per esempio, di genus o species, e che trovano nel mondo fenomenico qualcosa di adeguato[74] –, il servo è ormai entrato a far parte delle specie sul limite: non più una cosa vera e propria ma una speciedi res che giace presso o sopra una linea di confine, poiché equivoca e dotata di caratteri che possono egualmente essere attribuiti all’una o all’altra delle specie vicine[75]. Il rapporto fisico-causale caratteristico dell’habitus scolastico produce identità di disposizione tra il servo e la cosa – il primo corrisponde alla seconda in modo inequivocabile –, mentre il rapporto ideale che si affaccia ora, nella dottrina della potestà morale, produce omologie di disposizione. Le habitudines leibniziane, spiega Fabbrichesi Leo, sono «abiti connessi al proiettare, al combinare, al sostituire, cioè all’operare con i segni in vece delle cose. Non vi è mai evidenza intuitiva della cosa così com’è, ma la nostra conoscenza coincide sempre con la sua traduzione in un modello omologo: vediamo le cose come le trascriviamo, come le proiettiamo, perché non c’è mai l’originale, ma l’inesauribile sovrapporsi delle sue equivalenze»[76].

In Leibniz, il sistema delle intersezioni tra diritti o tra enti è governato dalla legge della continuità (lex continui o continuitatis o gradationis), ispirata al famoso adagio natura non facit saltus[77]. Il Kontinuum, dice Herbert Breger, rappresenta la forma più importante di infinitonella filosofia di Leibniz. La funzione dell’infinito, cioè pensare l’eterogeneo come prodotto da un principio fondamentale unitario, conduce al Kontinuum, schema universale del pensiero e della conoscenza per cui l’eterogeneo e finanche il contraddittorio possono essere, sotto certi aspetti, omogeneizzati e generati aus einem einheitlichen Prinzip – si pensi alla quiete intesa come moto infinitamente piccolo. Negli Initia rerum mathematicarum metaphysica (1715), Leibniz scrive che un Genus (moto, ineguaglianza, curva) si risolve in una contrapposta Quasi-Species (quiete, uguaglianza, poligono). Il principio di continuità, dunque, oltre a spiegare l’esistenza di un legame continuativo tra elementi eterogenei, rivela che tra due concetti contrapposti l’uno deve essere interpretato come Genus, l’altro come Quasi-Species[78]:

 

Il transito contraddittorio veniva qui risolto con la creazione di una “quasi specie”, versione raffinata dell’infinitamente piccolo: alla considerazione di entità si sostituiva la considerazione dell’andamento di pure corrispondenze formali, che meglio poteva essere regolato da principi metafisici sempre più eterei. La condizione per cui il rapporto tra un processo e il suo termine, ovvero tra un genere e la sua quasi specie opposta, si configurava come un rapporto tra omogoni, secondo la terminologia introdotta da Leibniz, era la qualità minimale di un processo continuo; Leibniz, difatti, definiva questo carattere come “il privilegio del continuo; ma la continuità si trova nel tempo, nell’estensione, nelle qualità, nei moti, in ogni transito della natura, che mai si svolge per salto[79].

 

Come ha notato Peter König, il principio di continuità gioca un ruolo importante anche nel systema iuris di Leibniz[80] – secondo Patrick Riley, quel principio trova una larga applicazione nella filosofia del diritto leibniziana[81]. Qui ius personalissimum, ius reale e ius personale si distinguono unicamente per i loro oggetti, essendo considerati una sola cosa nel fondamento. Il concetto di ius sembra essere ciò che assicura la continuità della divisione e che permette il passaggio da un diritto all’altro, poiché lo ius, inteso come qualità morale, essendo finalizzato a un’azione giusta, e perciò inteso come res incorporalis, comprende tanto la libertas quanto la facultas e la potestas. È questo, presumibilmente, il filo conduttore dei vari tentativi del filosofo lipsiense di mostrare le intersezioni (Überschneidungen) tra le citate forme giuridiche[82]:

 

secondo Leibniz, esistono intersezioni tra lo jus personalissimum e lo jus reale, tra lo jus personalissimum e lo jus personale e infine tra lo jus reale e lo jus personale. Detto con cautela, l’accertamento di queste intersezioni potrebbe servire allo scopo di far vedere la continuità tra tutte le sfere del diritto. Se così fosse, si dovrebbe poi accertare, nelle intersezioni, da quali variabili dipende la differenza tra i singoli generi del diritto. Dunque, se si potesse dimostrare che esiste una particolare specie [eine bestimmte Art] di jus reale da trattare come uno jus personalissimum, in modo che questo diventi una quasi-species dello jus reale, e se si potesse fare altrettanto con le altre specie giuridiche, si avrebbe di fatto una omogeneità delle specie del diritto che si estende dallo jus personalissimum fino allo jus personale, indicando perciò che l’intero diritto si lascia dedurre da un fondamento comune[83].

Se spinto fino all’estremo – in modo, per così dire, “linneano” –, il principio di continuità si dimostra in grado di far scoprire, mediante l’ars inveniendi, un legame del tipo appena descritto non solo tra persone e animali ma anche tra persone e cose, come se vi fosse una relazione di compossibilità transitiva[84]. A ogni modo, certo è che il principio di continuità, in quanto Analogie, opera nell’ambito dell’ars inveniendi[85]: Analogia autem in eo fundatur, ut quae in multis conveniunt aut opposita sunt, ea in datis quoque vicinis ad priora convenire aut opposita esse suspicemur (cfr. infra, § 2.2)[86].

König osserva che nella continuità leibniziana del diritto in senso verticale – nel passaggio dal diritto privato al diritto pubblico –, la divisione ius personalissimum, ius reale e ius personale gioca un ruolo nella misura in cui persone, cose e azioni (Personen, Sachen und Handlungen) possano essere, sia per natura sia per finzioni, distinte e considerate nel loro rapporto reciproco[87]. Il che renderebbe ammissibile l’esistenza (non solo logico-giuridica), tra i poli apparentemente antitetici della persona e della cosa, di due termini intermedi, nel senso di casi speciali o casi-limite: la persona da trattare come cosa e la cosa da trattare come persona (cfr. infra, § 2.2)[88]. Nel suo stretto significato, ricorda Kuno Fischer, la teoria della scala delle cose (Stufenreich der Dinge) – altro nome della lex continui – annulla tutte le opposizioni, al posto delle quali essa introduce distinzioni graduali e, da ultimo, differenze infinitamente piccole. Finisce così per cessare anche l’opposizione tra natura inanimata e natura vivente[89]:

 

Subjectum qualitatis moralis est Persona et Res. […] Res quoque subjectum juris est et obligationis. […] Res quoque sed modo jam dicto, per reductionem ad personam censetur subjectum juris et obligationis […] Objectum Juris et Obligationis est corpus subjecti, res, persona tertii. […] Jus in personam dicitur Potestas, et multis modis variat, interdum vitae et necis, interdum castigationis, interdum increpationis, etc. […] et persona hic rei assimilatur, veluti servus equo[90].

 

Questo brano – in cui Persona e Res condividono le nozioni di soggetto e oggetto – permette di supporre che l’assimilazione del servo a una cosa sia una conseguenza logica dei poteri oppressivi o coercitivi (reali) lì indicati, come se l’esercizio di essi avvicinasse, nei sensi e nell’immaginazione, il concetto di servo al concetto di cosa, fino a confonderli tra loro – degradando il servo verso la cosa. La lex continui, d’altronde, esige che, quando gli attributi essenziali di un essere si approssimano a quelli di un altro, tutte le proprietà dell’uno debbono ugualmente approssimarsi per gradi a quelle dell’altro, con la conseguente necessità che tutti gli ordini di esseri naturali compongano una sola catena, in cui le diverse specie, come altrettanti anelli, siano così strettamente connesse le une alle altre che sarà impossibile per i sensi o per l’immaginazione determinare esattamente il punto in cui l’una finisce e l’altra comincia[91].

 

2.2. Intersezioni logico-reali

 

Kant direbbe che l’assimilazione concettuale in esame consiste in una semplice comparatio, similmente all’equivoca riflessione logica leibniziana presa di mira nella prima Critica. Anche in quella si astrae del tutto dalla facoltà conoscitiva, e le rappresentazioni date vanno perciò intese, quanto alla loro posizione nell’animo, come omogenee. L’eterogeneità viene così ridotta a omogeneità, o meglio a omogonia (cfr. infra), senza alcuna preoccupazione del luogo in cui rientrano gli oggetti dei concetti paragonati logicamente, se nell’intelletto come noumeni o nella sensibilità come fenomeni[92]. In effetti, la meccanica assimilazione di Leibniz tra cose e persone (sottomesse alla potestas) sembra muovere dall’idea di un mutamento nella realtà che, in virtù del principio dell’omogonia, congiunge estremi opposti e conduce l’uno nell’altro, rendendoli logicamente equipollenti: «Secondo la legge [leibniziana] di continuità, si danno solo omogoni e ogni genere si può trasformare nel suo opposto, nella “specie del suo contrario”»[93].

In ultima analisi, per Assimilirung della persona alla cosa Leibniz dovrebbe aver inteso una vera e propria equipollenza logico-reale – Sequitur manifeste ex praecedenti. Ita enim maxime effectus causae, vel status sequens praecedenti assimilatur[94] –, di cui la storiografia giuridica tedesca ha conservato svariate tracce:

 

Se nei diritti di molti popoli si trovano analogie tra i due campi del diritto [Rechte an Personen e Rechte an Sachen], ossia persone trattate [behandelt] come cose, ciò ha la sua ragione nel fatto che la determinazione di certe persone è stata trattata in modo analogo alla determinazione delle cose, un’assimilazione [Assimilirung] che, se estremizzata, fa migrare le persone dalla cerchia delle persone a quella delle cose[95].

 

Siamo dinanzi a un esempio di anfibolia in cui sensibilità e intelletto, natura e ars, finiscono per sovrapporsi, spiegando così il motivo della reificazione di certi uomini in numerosi trattati giuridici dei secoli XVII e XVIII[96]. Coglie perciò nel segno d’Ippolito quando afferma che per Leibniz l’ambito dell’esistenza è retto dalla logica dell’immaginazione che mescola la verità alla confusione del sensibile[97].

Pasini, analizzando la lex continui leibniziana, ha rilevato che in uno dei suoi ultimi scritti il filosofo di Lipsia sottolinea il valore ideale e addirittura paradossale della continuità, il suo carattere fittizio e immaginario[98]:

 

nei continui l’estremo esclusivo si può trattare come inclusivo, e così, benché l’ultimo caso sfugga, in tutto diverso, alla legge generale degli altri, al tempo stesso si può intendere, secondo una considerazione paradossale e, per così dire, una figura filosofico-retorica, il punto incluso nella linea, la quiete nel moto, il caso speciale nel caso generale rispetto ad esso contraddistinto: come se il punto fosse una linea infinitamente piccola o evanescente, la quiete un moto evanescente e altri argomenti del medesimo tenore, che Joachim Jungius, uomo profondissimo, chiamerebbe tollerabilmente veri[99].

 

Queste cose, aggiunge Leibniz nella stessa lettera a Wolff, servono molto per l’arte della scoperta, sebbene implichino qualcosa di fittizio e immaginario (aliquid fictionis et imaginarii), che tuttavia si può aggiustare facilmente, senza errori, con la riduzione a espressioni ordinarie, posto che la natura procede sempre ordinatamente e non per salto[100]. Si tratta di un’immaginazione, infatti, che «non compie la sua funzione producendo uno schema», quello che Kant definisce, nella prima Critica, monogramma dell’immaginazione pura a priori, esistente nel pensiero come regola della sintesi dell’immaginazione. Piuttosto, quest’ultima foggia le proprie rappresentazioni con tale forza suggestiva da imporre all’intelletto di far sue le nozioni immaginarie: «idee fittizie, contraddittorie, ma convincenti per l’intuizione, di cui abbiamo visto essere vero capofila il dominio infinitesimale»[101]. In altri termini, sulla legge leibniziana della continuità tra datis e quaesitis «torreggia il modello del “come se”: interpretiamo la quiete come se fosse un piccolissimo movimento, “equivalente alla specie del suo contraddittorio”, come scrive [Leibniz] a Varignon»[102]. Il filosofo lipsiense, dunque, «ci conduce verso un nuovo modo di intendere la verità», tramite le habitudines, intese«non più come corrispondenza in-equivocabile tra segni e cose, ma come infinito prodursi di equivalenze, sostituzioni, proiezioni»[103].

Conformemente a ciò, il carattere paradossale del principio di continuità, riconosciuto da Leibniz, deve alla fine lasciarsi dissolvere, secondo la sua teoria analitica della verità, in definizioni e identità logiche[104]: «se i casi-limite possono essere considerati comese possedessero le proprietà dei membri della serie, allora in senso logico le posseggono»[105]. Una soluzione, questa, che ha esercitato una notevole influenza sul pensiero giuridico tedesco tra Seicento e Ottocento (cfr. sopra, nt. 91). A partire da Leibniz, la teoria della scala delle cose è divenuta un abito culturale, una postura comune[106], talora senza alcun rispetto dei principi cardine della gerarchia e della perfezione crescente, su cui poggia la c.d. grande catena dell’essere:

 

Si può intanto dire in generale che tutta la continuità è una cosa ideale e che non c’è mai nulla nella natura che abbia delle parti perfettamente uniformi, ma in compenso il reale non manca di governarsi perfettamente secondo l’ideale e l’astratto[107].

 

3. Le combinazioni di ragione sufficiente in Darjes

3.1. Linguaggio ed esperienza nella compossibilità dei diritti

 

Ratio est catena veritatum. Questo assioma di Leibniz viene accolto ed esaltato dal poliedrico pastore luterano Joachim Georg Darjes (1714-1791), interessato all’attività della ragione nel suo significato di nexum ex notionibus perspiciendi[108]. Interesse che lo porterà ad assumere posizioni più radicali di quelle proprie del suo maestro Christian Wolff, ma con una particolare attenzione sia all’esperienza, di cui rivaluterà il ruolo attivo e costruttore rispetto al razionalismo dogmatico, sia alla facoltà linguistica, ritenuta di grande importanza per la formazione e la composizione dei ragionamenti[109]. In generale, la teoria darjesiana del Nexus può essere riepilogata così:

 

Sono connessi gli enti di cui l’uno contiene in sé una determinazione senza la quale non sarebbe possibile l’altro, per es. padre e figlio […] sovrano e sudditi […]. Riguardo al mio luogo (locum relativum), io sono connesso con tutti quegli enti che esistono insieme a me, e ci si potrà persuadere facilmente del fatto che nel mioluogo esistono determinazioni senza le quali quegli enti non sarebbero possibili[110].

 

Tale principio, senza dubbio, deriva dall’idea leibniziana (-wolffiana) di catena, definita come nesso in cui qualcosa contiene la ragione sufficiente della coesistenza o della successione di qualcos’altro[111]. Un qualcosa che può anche corrispondere al luogo in cui si trovano gli enti connessi. La loro ragione sufficiente, in altri termini, può riposare in fattori empirici esterni, situati nello spazio dove gli enti coesistono e sono correlati per continuità[112]. Si ribadisce in proposito che il razionalismo dogmatico di Wolff non è pienamente condiviso da Darjes. Anch’egli si dedica alla rivalutazione del rapporto ragione-esperienza – istituito a tratti dal filosofo di Breslavia –, sulla scia di Christian August Crusius (1715-1775). Questi aveva distinto le condizioni di esistenza degli oggetti, legate all’intuizione sensibile di essi (nello spazio e nel tempo), dalle condizioni della loro essenza, cioè dalla loro determinabilità mediante concetti, allo scopo di non risolvere e vanificare l’oggetto reale, esistente, in pure determinazioni concettuali[113]: ex quo patet, verum esse, quod ex experientia legitime infertur[114].

Tornando al tema che interessa maggiormente, si scopre che l’esigenza di rivalutare il rapporto ragione-esperienza è avvertita da Darjes anche con riguardo alla catena dei diritti e dei rispettivi oggetti, posto che qui come altrove ricorre la necessità di sapere se la ratio della modificazione di qualcosa sia interna o esterna a esso[115]. Bisogna cioè stabilire se le verità particolari di un certo diritto o del suo oggetto, quali modi di esistere, abbiano o meno la propria ragione sufficiente nelle verità universali (necessarie) con cui sono connesse. Si rifletta sul modo di esistere del servo come cosa, contrario al concetto di persona: se la ragione sufficiente del modo risiedesse nel concetto, piuttosto che all’esterno, la reificazione del servo sarebbe ontologica, cioè insita nella sua struttura essenziale. Ebbene, nell’ambito del diritto di natura Darjes si cimenta con una serie di approfondimenti del nesso delle verità da concetti – così egli si esprime richiamando Leibniz[116] – che non ha precedenti nei sistemi wolffiani, se non, forse, in quello di Hermann Friedrich Kahrel (1719-1787) (cfr. infra).

I due aspetti dell’esperienza e del linguaggio sopra focalizzati sono al centro dell’indagine condotta da Darjes sulle connessionitra ius personale e ius reale, di cui stigmatizza l’equivocità terminologica[117]. Tra l’uno e l’altro egli vede (un nesso di) determinati rapporti riguardo a certe qualità, che impongono puntualizzazioni logiche e terminologiche, al fine di superare ogni logomachia. Il filosofo luterano, quindi, procede col fissare entrambi i diritti mediante appendici desunte da ciò che egli chiama fondamento dei concetti, vale a dire la determinazione dell’oggetto (sui cui verte il diritto) e del soggetto (al quale compete il diritto), nel senso di modo di avere qualcosa – una modalità che configura formalmente il possesso di qualcosa –, oltre alla determinazione del fondamento (ex lege, ex turbatione, ex contractu)[118]. Così egli elabora quattro figure possibili di per sé: in merito al soggetto, si parla di ius personale ratione modi (cioè spettante a un uomo in quanto tale) e di ius reale ratione modi (cioè spettante nella misura in cui esista un certo vincolo o sia posseduto un certo bene), mentre per quel che concerne l’oggetto si parla di ius personale ratione obiecti (o semplicemente ius ad rem)e di ius reale ratione obiecti (o semplicemente ius in re). Conseguentemente, secondo le concatenazioni osservabili nell’esperienza, «può accadere che il diritto reale in ragione dell’oggetto [ius ratione obiecti reale] sia personale in ragione del modo [ratione modi personale] e che il diritto personale in ragione dell’oggetto [ius ratione obiecti personale] sia reale in ragione del modo [ratione modi reale], e così via»[119]: quattro luoghi topici che non generano alcuna contraddizione tra il diritto secondo l’oggetto e la sua pertinenza secondo il modo (cfr. infra).

Lo schema basilare sottinteso in queste catene (esistenti) tra diritti è la grande divisione logica delle rappresentazioni (Vorstellungen) in quelle materiali e in quelle formali, ricalcata sulla distinzione generale delle idee[120]. Una Vorstellung può dirsi materiale quando verte sul proprio oggetto, formale se invece riguarda il modo in cui si rappresenta qualcosa[121]. Modo che a sua volta si scinde in necessario e contingente, a seconda del tipo di combinazione del predicato col soggetto[122]. Ma oltre a ciò è indispensabile, al fine di una connessione possibile, che vi sia una ragione sufficiente o nel soggetto in quanto tale o nella relazione del soggetto a qualcos’altro[123]. Di fatto, i diritti personali ratione modi consistono in quelli che si estinguono (necessariamente) con il soggetto cui ineriscono, poiché gli competono per la sua persona in quanto tale – è il caso delle servitù personali, quali uso, usufrutto e abitazione –, a differenza dei diritti reali ratione modi, che si trasferiscono a chiunque venga a trovarsi (eventualmente) nel medesimo vincolo originario (cfr. infra)[124].

In termini leibniziani, si può dire che le intersezioni tra diritti, delineate da Darjes, realizzano un sistema di compossibilità, di cui la legge della continuità è la principale nota definitoria (cfr. sopra, § 2.1). La congiunzione tra un diritto ratione obiecti e un diritto ratione modi non genera alcuna contraddizione, sicché ognuno di essi è compossibile: compossibilia sono le cose possibili che possono stare l’una con l’altra in eodem subjecto[125], in modo tale, è bene precisare, che in questa connessione sia osservabile una similitudine (Aehnlichkeit)[126]. Dalla similitudine nei fondamenti dipende infatti l’ordine di cose diverse connesse fra loro[127]: quando io, per la mia persona, ho l’usum o l’usufructum di un terreno oppure di una casa, vanto un diritto sì reale ratione obiecti (ius in re) ma personale riguardo al modo ovvero al soggetto (in Absicht der Art oder des Subjekts), essendo io titolare solo per la mia persona del diritto di escludere chiunque dall’uso della cosa. Da questo punto di vista, il diritto reale (in quanto ius ab usu rei cuiusdam excludendi) diventa simile a quello personale, nel senso che il primo viene personificato[128].

Simmetricamente, se un contadino è obbligato a corvée (Frohndienste) verso ogni possessore della terra su cui lavora, il diritto corrispondente è sì personale ratione obiecti (ius ad rem) ma reale ratione subiecti seu modi, consistendo nel diritto di esigere da quel contadino la prestazione di qualcosa a favore di chiunque si venga a trovare esattamente nello stesso rapporto ovvero possegga proprio lo stesso bene[129]. Stavolta, dunque, è il diritto personale (in quanto ius ab altero, ut aliquid praestet, postulandi) a diventare simile a quello reale, nel senso che il primo viene reificato. Ma non tanto perché la cosa (la terra) finisca per figurare come soggetto titolare del diritto alle prestazioni del contadino – si rammentino i modelli di reificazione incontrati nel § 2.2. In realtà, il vero motivo della similitudine sta nel fatto che essa attiene a un diritto che aderisce alla cosa (der an der Sache haftet) e che, nello stesso tempo, trova il suo esercizio e il suo adempimento in prestazioni personali (Reallasten), restando così indissolubilmente legato con tale obbligazione[130].

 

3.2. Similitudosalva rei essentia

 

La categoria darjesiana del diritto personale di modo reale ovvero soggettivamentereale (cfr. infra) è la più interessante, in ragione delle sue implicazioni (anche filosofiche) nei delicati settori del lavoro servile e delle obbligazioni reali (o della cosa), altamente strategici per la vita in generale nei secoli XVIII e XIX. In queste epoche, non casualmente, tale categoria è al centro di controversie dottrinali e persino giudiziarie, oltre che di varie interpretazioni e rielaborazioni[131]. Di certo, però, la sua peculiare struttura logica – ricavabile dall’analisi congiunta delle opere di Darjes e Gunner – segnala l’avvio di una nuova fase della summa divisio tra diritti reali e diritti personali[132]. Si allude alla funzione del predicato reale ratione modi,quale predicato contingente e accidentale, incapace quindi di intaccare l’essenzadel diritto di cui costituisce l’appendice (Zusatz): salva rei essentia modi determinati abesse possunt[133]. La similitudine sopra discussa, di conseguenza, è altrettanto accidentale[134]. Il che significa che il diritto verso il contadino obbligato a corvée resta nell’essenza uno ius ad rem, un mero diritto personale a prestazioni obbligatorie, con buona pace dei sostenitori delle forme più rigide di servitù della gleba[135].

In linea con ciò si pone necessariamente la dottrina darjesiana degli status, anch’essa governata dal principio della catena veritatum, ma secondo una modulazione più evoluta rispetto a quella riscontrabile presso i wolffiani: essi dicono che tutte le modificazioni che si manifestano in una cosa appartengono alla sua essenza, e pertanto chiamano capriccio la distinzione inter statum essentialem et accidentalem. Wolff, in particolare, definisce lo Status come coexistentia mutabilium cum rei constantibus. Ma tali concetti, osserva Darjes, non sono esatti, altrimenti, posto che coexistentia significa Status rei, dello stato farebbero sempre parte cose mutabili, e non si potrebbe più parlare di stato essenziale. Occorre allora distinguere tra determinazioni mutabili, che rendono uno stato mutabile salva rei essentia, e determinazioni senza le quali non esisterebbe la cosa cui appartengono. Status, prosegue il giurista luterano, vuol dire in realtà collectio determinationum, quae in subiecto tanquam existentes sumuntur, con il risultato che può esserci sia uno stato essenziale sia uno stato accidentale[136].

Una simile dottrina non poteva non ripercuotersi sulla nozione di persona e specialmente sul numero dei soggetti meritevoli di ricevere tale appellativo. Dopo una tortuosa analisi del concetto di Status, Darjes giunge a riconoscere, sia pure implicitamente – per non dire in modo criptico –, che anche il servo è persona. I sottili ragionamenti da lui condotti al riguardo possono essere semplificati come segue: l’espressione servitù naturale è contraddittoria, poiché per essentiam i servi sono liberi. Non solo: la deminutio capitis, minima, media o massima che sia, è una mutatio dello stato – anziché una permutatio – che determina senz’altro la perdita di diritti, ma senza sopprimere totalmente lo Status moralis, come accadeva invece presso i Romani in merito alla figura dello schiavo (servus qua talis, Knecht)[137].

Lo stato naturale ipotetico (mutabile perché accidentale) si contrappone allo stato naturaleassoluto(essenziale e costante), composto da determinazioni per essentiam nude sumtam, le quali garantiscono diritti naturali fondamentali che prescindono da ogni determinazione accidentale, fermo restando che lo Jus, inteso come capacità di agire suo pro arbitrio, subisce limitazioni a seconda delle varie circostanze. Si prospetta in tal modo la possibilità di diversi stati morali dell’uomo, anzi della persona, la quale, per Darjes, est homo qui habet statum moralem, nel senso generale di collectio determinationum moralium o nel senso speciale – ma equivalente al primo – di collectio jurium, tra i quali spicca il diritto naturale assoluto alla conservazione della vita (alimenta)[138].

Entra qui in gioco la legge della connessione. La famiglia, per esempio, altro non è che un nexus personarum ex societate connubiali concipiendus, istituito intorno alla necessità di conseguire uno scopo comune, da cui discendono gli aspetti della dipendenza (tra le esistenze dei familiari) e della subordinazione, a partire da quella del servo domestico (famulus, Gesinde). Come intuisce Gunner, commentando quest’ultima figura, signore e servo si trovano all’interno di un unico status – nell’entità comune incontrata nei §§ 1-2 – il quale costituisce la società erile (herrschaftliche Gesellschaft), anch’essa finalizzata al raggiungimento di uno scopo comune[139]: Statum, quo personae in personam competit ius perfectum atque affirmativum, societatem vocavimus[140].

Il principio universale seguito da Darjes è perentorio: lo Status naturalis absolutus risulta ex notione rei nude sumta, e questa è uguale per tutti. Come io ho il diritto di cercare alimenta, così anche gli altri lo hanno: quod tibi vis fieri, alteri non facias[141]. Il servo – qualunque servo – gode perciò di un certo stato morale già per Natura, ossia in virtù del suo stato essenziale. Lo Status in generale, si ricordi, è definito da Darjes come una combinazione o un insieme di determinazioni presupposte nel soggetto come (se fossero) esistenti (cfr. sopra). Sono allora l’essentia dell’uomo o la sua notione a individuarlo come persona, non le determinazioni estrinseche che definiscono, come dice Canale, la dislocazione concreta della sua esistenza[142]: nello stato assoluto l’uomo è considerato in sé, nel senso che i rispettivi diritti sono considerati in rapporto alla sua persona[143]. In tal modo, nel giusnaturalismo di Darjes il divario tra persone e cose acquisisce una misura difficilmente riscontrabile nella letteratura giusfilosofica del Settecento. La sua precisione terminologica è inequivocabile: persona in senso giuridico è l’uomo considerato con un certo qual stato. Da ciò la regola del diritto: chiunque non goda di alcuno stato non è persona ma è cosa[144].

Oltre ad aver confinato nel diritto romano antico la mancanza di stato morale nel servo, Darjes ha sciolto il nodo più problematico della nozione di status propugnata da Wolff nell’Ontologia (cfr. sopra, nt. 136), facendo dell’esistenza non uno status rei ma un predicato contingente, non un completamentodel possibile (dell’essenza, del concetto) ma un’aggiunta o al limite un compimento, incapace però di stravolgere il possibile[145]. Al contrario del filosofo di Breslavia, Darjes non considera l’homo o la persona moralis (quale soggetto di certi obblighi e diritti nello stato di natura) come una finzione utile, simile a quella in cui si risolve la differenza tra uomo carnale e uomo spirituale[146]: per natura egli intende l’essenza (das Wesen) e il concetto di una cosa (der Begriff einer Sache), con i suoi predicati naturali assoluti e ipotetici. Ed è l’essentia nude considerata che determina il predicato, sicché quello che le si contrappone può essere solo un predicato contingente[147].

Risulta chiaro che la distanza tra i due filosofi è notevole. La persona, in Darjes, è possibile a priori, al di fuori dell’esperienza, mentre Wolff segue la via a posteriori, che sale dall’esperienza – dalla co-esistenza – alla possibilità dell’esperienza[148]. Si ritiene perciò che sia da rintracciare più in Darjes che in Wolff l’affermazione dell’idea di essenze realmente possibili che, prescindendo dalla loro esistenza, danno ragione «tanto di proposizioni descrittivamente vere che di proposizioni ipotetiche». A tali essenze «la realtà vera e positiva, cioè l’esistenza attuale, si può aggiungere come predicato accidentale e ad opera di una causalità estrinseca, senza però che ne risulti trasformata l’essenza in quanto tale, che resta completamente determinata per se stessa, sia che la cosa esista, sia che no»[149]. La libertà del servo peressenza ovvero perconcetto non è infatti una chimera o una mera astrazione dallo stato reale di servitù[150]. I servi rimangono uomini (bleiben Menschen), con l’obbligo del signore di trattarli in modo umano[151], poiché i particolari diritti verso di essi, come il diritto di disporre delle loro forze (ius de viribus servi disponendi) o il diritto di rivendicare il servo fuggitivo (ius servum fugitivum vindicandi) sono espressione non di uno stato di servitù totale ma dell’idea servi in genere considerati. Sono cioè diritti che scaturiscono dalla rappresentazione intellettuale (in anima) del servo come cosa, la quale, a sua volta, dipende dal dato empirico (problematico) dell’appartenenza delle sue forze fisiche ad τό suum domini[152]. La verità (ambigua) del servo è perciò un’esibizione di idee correlate: quella universale dell’essenza e quella particolare dei modi, in quanto caratteri ipotetici, contingenti, immersi nella confusione del sensibile[153].

Questa rappresentazione è la chiave per comprendere il nuovo concetto di possesso erile che si fa strada nella seconda metà del secolo XVIII, quale nexus (reale) che lega i servi al proprio signore: esso non equivale al possesso delle cose perché secondo l’idea servi ciò che si trasferisce al Suo del padrone (in τò suum domini) sono soltanto le forze del servo, ivi compreso quello di stato libero (famulus). Analogia e similitudine svolgono insomma un ruolo decisivo, a causa della confusione in cui versa l’intuizione umana: il signore possiede la sostanza del servo, e quindi le sue forze, ma può disporre solo di queste ultime, non avendo uno ius in substantia[154]. Ognuno dei citati diritti particolari, dunque, se da un lato costituisce un predicato (un modo di esistere) opposto all’essenza della persona, dall’altro è compatibile con essa salva sua essentia[155]. In definitiva, il rapporto tra i due poli si configura come similitudine di relazioni esterne, da cui promanano soltanto genus vel species late dicta et analogica[156].

 

4. La topica trascendentale dei diritti

4.1. L’ipotiposi simbolica kantiana

 

Dall’analisi condotta nel § 2 emerge che il sistema leibniziano delle intersezioni tra i diritti privati e tra i loro oggetti poggia sulla logica del verosimile, sulla ricerca dei gradi di probabilità del vero, «forma di conoscenza intermediatra la certezza dimostrativa e la probabilità induttiva (o probabilità a posteriori)»[157], chiamata anche verosimiglianza in senso stretto o probabilità non empirica, poiché «fondata a priori su argomenti razionali desunti lege artis dalla natura delle cose»[158]. L’influsso reciproco, in cui si risolve la lex continui, è infattiideale, cioè semiotico, proiettivo, espressivo[159], posto che in Leibniz il problema della realtà è immediatamente pensato nei termini del suo schema logico[160]: tra il come se (als ob) delle regole ideali e il contenuto oggettivo dei concetti non c’è separazione, non avendo il concetto «altro essere che quello che gli riconosce la riflessione scientifica»[161].

Tale impostazione, aggiunge Laino, viene portata a compimento da Leibniz per mezzo dell’idea di serie (Reihe), da intendere come spazio vuoto che costituisce la regola secondo cui vengono coordinati fra loro degli elementi singolari, che però non sono qualcosa di concreto: «di principio, essi sono il posto che occupano all’interno del dettato di una regola»[162], la quale, nel caso dei continui, stabilisce che l’estremo esclusivo può essere trattato come inclusivo[163], secondo relazioni di inclusione o esclusione che non sono tuttavia sempre evidenti. Da ciò dipende, in sostanza, il ricorso di Leibniz alla Topica, all’arte della scoperta di luoghi, ossia di relazioni non evidenti da cui derivano concetti mediante l’ars combinatoria:

 

la logica, e più precisamente l’arte di inventare [l’Art d’inventer], dipende interamente dalla Combinatoria, la quale insegna a trovare, in ordine, tutte le combinazioni possibili dei concetti semplici (o dei loro segni), ed a determinare con sicurezza le loro relazioni d’inclusione o esclusione, vale a dire a scoprire tutte le verità relative a questo o quel concetto. Da lì è nata l’idea di una Simbolistica o Characteristica universale[164].

 

Dovrebbe essere emerso, inoltre, che le regole logiche sottostanti le connessioni tra diritti ratione objecti e diritti ratione modi, “scoperte” da Darjes, convergono anch’esse verso l’ars characteristica combinatoria – da lui identificata con l’ars inveniendi[165] –, ma con una maggiore apertura all’empirico rispetto alle compossibilità logiche leibniziane[166]. È l’esperienza, secondo il filosofo luterano, a insegnarci come sia possibile conoscere le verità attraverso noi stessi e come questa facoltà di conoscere le verità possa essere elaborata[167]. Per Lorini, l’obiettivo principale della characteristica darjesiana, in vista dell’ars inveniendi, sembra essere quello di determinare la relazione tra forma e materia della conoscenza per giungere a una conoscenza che sia pienamente adeguata, posto che di qualsivoglia termine, nella misura in cui sia un segno, si può doppiamente distinguere il materiale, vale a dire il sensibile che costituisce il segno, e il formale, il signatum, ciò che è congiunto con quello[168]. Ne sono espressione proprio le citate connessioni, poiché limitate a due diritti contrapposti (ius reale e ius personale), invece che alla serie triadica legittimata dalla legge leibniziana della continuità, dove anche lo ius personalissimum è suscettibile di combinazione (cfr. sopra, §§ 2.1, 3.1):

 

“Da cosa si può riconoscere […] che in un concetto messo assieme meramente a parole vi sia una contraddizione o che i caratteri in esso presi insieme (zusammengenommen) non possano stare assieme (nicht beysammen seyn können)?” […] Qui il principio di contraddizione è impotente. Per giungere al possibile positivo e categorico – e questa è la lezione di Euclide – occorre prendere in considerazione l’inevitabile “limitazione nelle possibilità di comporre concetti” […]. Se alla base dei concetti non si trovassero le cose stesse, allora le possibilità combinatorie dei concetti sarebbero certamente più estese […]; è sulla base di questo riferimento mai cancellato al reale, che si genera la distinzione tra “wahre Begriffe” e mere “Hirngespinste[169].

 

Il riferimento alle cose reali, tuttavia, non è sufficiente per la conoscenza oggettiva dei diritti. Il criticismo kantiano insegna che senza l’unità trascendentale dei fenomeni, che è l’unità completa e sintetica delle percezioni secondo i concetti puri dell’intelletto (le categorie), vi sarebbe una «baraonda di apparenze» nella nostra anima, da cui non potrebbe sorgere un’esperienza[170]. Mancherebbe infatti una connessione sulla base di leggi universali e necessarie[171]. In linea con ciò, la riflessione trascendentale sulla topica dei diritti, seguita da Kant nella Rechtslehre, cerca di stabilire uno iato profondo tra veri concetti e semplici chimere – come il diritto reale ratione modi personale (cfr. infra) –, pur muovendo egli da un presupposto simile a quello da cui muove la speculazione giusnaturalistica di Darjes: i titoli dello ius realiter personale e dello ius personaliter reale corrispondono a membri a prioridella topica dei diritti, cioè a luoghicomuni disponibili per concetti giuridici secondo la forma sintetica della partizione metafisica. Questa, a differenza della semplice divisio logica, non astrae dal contenuto della conoscenza, dall’oggetto, e, come tale, verte su topoi koinoi (metafisici) in cui entrano in gioco unificazioni (Verbindungen) tra diritti contrapposti:

 

la partizione di cui qui si parla, cioè la partizione metafisica, può essere anche una tetracotomia, poiché oltre ai due membri semplici della partizione si aggiungono ancora due rapporti, vale a dire quelli delle condizioni limitative del diritto, sotto le quali l’un diritto entra in collegamento con l’altro[172].

 

Ma la tetracotomia è solo il primo stadio del processo di deduzione delle categorie giuridiche. Il luogo di un diritto personale di forma (o modo) reale (auf dingliche Art persönliches Recht o ius realiter personale) si presenta, nella Rechtslehre, come l’unico topos trascendentale (oggettivamente precostituito) in grado di accogliere un concetto sintetico necessario (nothwendiger): l’unica unificazione tra diritti contrapposti data a priori nella ragione[173], oltre che nelle quattro sintesi dell’intelletto puro (della Categorientafel) applicate ai diritti della società domestica[174]. Tant’è vero che il suo opposto, cioè l’auf persönliche Art dingliches Recht (o ius personaliter reale), è di per sé impossibile: se il contrario di una cosa è intrinsecamente impossibile, è impossibile anche sotto ogni riguardo, e dunque la cosa stessa risulta assolutamente necessaria[175]. Pertanto, come dice Kant, il concetto di un diritto reale di forma (o modo) personale cade senza ulteriori considerazioni, non essendo pensabile alcun diritto di una cosa verso una persona (Recht einer Sache gegen eine Person)[176]: «è assurdo pensare un’obbligazione di una persona verso cose e viceversa, semmai si possa concedere di rendere sensibile il rapporto giuridico con una simile immagine e di esprimersi in tal modo»[177]. Per quanto sia diffusa e disciplinata nel tardo Settecento, la personificazione delle cose viene quindi relegata da Kant nell’ambito dell’inconcepibile, a differenza della reificazione di un diritto personale o di una persona, nel senso formale o modale che sarà esplicitato più avanti[178].

Approfondendo quest’ultimo tema, vari giusfilosofi kantiani descriveranno lo ius personaliter reale – insieme alla connessa idea di una cosa personificata dal lato attivo o passivo – come un concetto che non ha alcuna validità oggettiva o reale nella dottrina del diritto, anche se pensabile logicamente o soggettivamente[179]. Il che consente di vedervi un mero caratterismo, piuttosto che un simbolo. Secondo Kant, i caratterismi sono designazioni dei concetti mediante segni sensibili concomitanti (come le parole), i quali non contengono nulla che appartenga all’intuizione dell’oggetto, servendo soltanto come mezzo di riproduzione secondo la legge dell’associazione immaginativa, quindi con intento soggettivo. Essi, in altri termini, non hanno una vera e propria natura figurativa, perché riproducono concetti sulla base di meri meccanismi associativi[180].

Il simbolo, invece, è un Sinnbild, ossia un’immagine che ha una somiglianza con la cosa stessa: un oggetto d’intuizione, assunto però come rappresentazione di un altro oggetto[181], la quale può chiamarsi conoscenza quando si tratta di un principio non della determinazione teoretica dell’oggetto, di ciò che esso è in sé, bensì della determinazione pratica, ossia di ciò che deve diventare la sua idea per noi e per l’uso finalistico della medesima[182].

Simbolica, dunque, dovrebbe essere l’immagine della persona posseduta o trattata come cosa (gleich als Sache, instar rei), caratteristica dei diritti domestici kantiani, quali diritti (personali realmente)necessari. Quell’immagine, infatti, è capace di esibire il concetto di essi solo indirettamente. Com’è noto, esibire (darstellen) significa per Kant rappresentare in un oggetto d’esperienza un concetto puro dell’intelletto, in modo diretto, oppure della ragione, in modo indiretto, affinché il concetto diventi conoscibile:

 

Questa esibizione può essere di due tipi, a seconda del tipo di concetto con cui si ha a che fare. Essa può essere schematica, quando al concetto è sottoposta la corrispondente intuizione attraverso la mediazione di uno schema, e allora si ha a che fare con un concetto puro dell’intelletto, il quale sappiamo essere sempre schematizzabile tramite la condizione universale del tempo. L’esibizione è invece simbolica quando, come nel caso dei concetti puri della ragione, nessuna intuizione come tale può esser fatta corrispondere a quel concetto. In questo secondo caso, allora, il procedimento dell’esibizione è soltanto analogo a quello della schematizzazione: esso si accorda col procedimento generale dello schematizzare, ma non col contenuto stesso che viene schematizzato[183].

 

Sulla base di ciò, le espressioni del tipo sich zur Sache machen dovrebbero essere sempre e soltanto qualcosa di tropico[184]. Un’indicazione in tal senso proviene dal tropo analogico dell’als ob presupposto nelle locuzioni instar rei e gleich als Sache, usate da Kant nella materia dei diritti domestici. Il tropo del come se, spiega Fraisopi, consiste in una formula sintattico-concettuale che configura più nitidamente la connessione istituita dall’analogia rationis, che sintetizza da un lato l’ipotesi e dall’altro il paragone (o il parallelismo), nell’abbandono epistemologico della certezza empirica[185].

Sulla stessa linea si pone l’interpretazione della dottrina in esame offerta negli Aforismi di Wilhelm Traugott Krug (1770-1842). Egli pensa che la reificazione reciproca dei membri della società domestica kantiana, attraverso lo scambio reciproco delle personalità, risulti concepibile solo nel rapporto tra coniugi, non in quello tra genitori e figli e tra signore e servitù, dove la reificazione appare invece unilaterale: tra marito e moglie può esservi un vicendevole possesso – sebbene ineguale –, mentre non si può affatto dire che i genitori siano posseduti dai figli e i padroni dai servi. Tuttavia, secondo Krug, l’espressione gli uomini si posseggono tra loro è nient’altro che un’espressione figurata, con cui deve intendersi semplicemente l’intrinsichezza dell’unione tra certe persone, ma non un particolare tipo di rapporto giuridico tra esse. Il loro rapporto giuridico è quello di diritti personali reciproci, cioè ogni parte ha sempre e soltanto un diritto sulla causalità (non sulla sostanza) dell’altro, determinata dalla natura del rapporto in cui essi stanno, e perciò ha solo un diritto su certe azioni di esso[186]. Una persona, in definitiva, può essere considerata o chiamata proprietàsemplicemente per analogia del linguaggio (Sprach-Analogie)[187].

 

4.2. La reificazione data in certo qual modo

 

Invero, secondo il pensiero originario di Kant, l’ipotiposiche rende sensibile (e intelligibile) l’idea dello ius realiter personale, tramite la figura della persona come se fosse cosa, non può essere ricondotta alla semplice analogia del linguaggio ovvero a una mera somiglianza esterna, non fosse altro per la concreta e razionale realità degli estesi poteri coercitivi associati da Kant all’esercizio di quel diritto[188]. Se ne accorse Jakob Sigismund Beck (1761-1840), rilevando che il dinglich persönliches Recht ha una possibilità reale diversa da quella del diritto sulle cose e da quella del diritto personale[189], nel senso che alla prima categoria bisogna riconoscere una diversa possibilità di entrare nell’esperienza effettiva[190]. Lo stesso Krug, modificando la sua interpretazione iniziale, dirà che quell’espressione corrisponde sufficientemente al concetto (di avere una persona come se fosse una cosa), dal momento che tale conformità, se da un lato non può considerarsi piena – in questo concetto sempre una persona (fisica o morale) deve essere pensata come il soggetto di diritto –, dall’altro non è fittizia, altrimenti l’espressione non sarebbe accolta nella Rechtslehre[191], dottrina dei costumi per cui si esige un sistema tratto dalla ragione (metafisica del diritto) e tuttavia rivolto alla prassi, ai casi dell’esperienza[192].

L’analisi dettagliata del concetto kantiano di reificazione simbolica sarà affrontata in un altro contributo. Per il momento si prenda atto della problematicità della sua esibizione (la persona in forma di cosa), insieme alla particolare nozione di symbolum che la riguarda. Il diritto su una persona come se fosse cosa, scrive Rotteck, non può concepirsi razionalmente in senso stretto, poiché tra persona e cosa esiste una eterna e sostanziale differenza: tuttavia, «forse approssimativamente ovvero in certo qual modo [gleichsam], la proprietà di essere cosa può spettare anche a una persona, specialmente rispetto a un’altra determinata persona»[193]. Insomma, né una mera fictio iuris, né una realtà empirica assoluta. La figura kantiana della persona in formadi cosa allude a un certo modo di esistere per altri, come idea di un oggetto irraggiungibile dai sensi e dall’intelletto, e, ciò nonostante, dotato di validità oggettiva per l’uso pratico:

 

Il marito e il padrone costringono la moglie e il servo domestico a tornare indietro non perché questi sono proprietà del marito e del padrone, ma perché essi sono inseriti in una relazione giuridica per il raggiungimento di uno scopo, che non può essere raggiunto nella sua interezza senza riunione[194].

 

La chiave di volta della teoria in esame è il concetto di unità a priori.Come osserva Franz von Zeiller (1751-1828) durante uno dei suoi interventi nei lavori preparatori del codice civile austriaco del 1811 (ABGB), e precisamente nella Relazione del 21 marzo 1801, nei diritti di famiglia «noi acquistiamo l’intera persona dell’altro in certo qual modo» (gleichsam), e sempre «in certo qual modo siamo riuniti con essa in un’unica persona, in forza della più profonda unione»[195]. Una comunanza che, secondo Kant, è resa possibile dal concetto puro del commercium:

 

L’esperienza è, in definitiva, pensata da Kant come un coesistere del diverso che solo nell’influenzarsi reciproco delle sue parti può dare luogo al proprio essere insieme. Solo in virtù di questo essere-insieme come coordinazione, che si intende come reciproca dipendenza, e non di subordinazione sic et simpliciter tra cause ed effetti esplicantisi in una serie temporale, il carattere di totalità dell’esperienza può non sfociare nell’idea trascendentale del mondo, antinomica e indimostrabile, bensì, semplicemente, nella constatazione dell’essere una dell’esperienza, che è una in quanto complesso di relazioni[196].

 

L’influsso reciproco ideale o immaginario tra sostanze, ammesso da Leibniz, diventa in Kant commercium reale, dinamico, ossia la terza categoria della Relation, chiamata comunanza (Gemeinschaft) o azione reciproca (Wechselwirkung) tra agente e paziente[197]. L’idea servi propugnata dal giusnaturalismo precritico viene così approfondita in un’ottica essenzialmente organicistica: gli enti domestici possono essere pensati e conosciuti come membri di un corpo organico, nel senso di materia la cui forma è possibile solo mediante la determinazione di scopi interni. Ogni ente domestico è un agente morale inserito all’interno di una prospettiva teleologica che lo rende partecipe di un Tutto, come membro di un corpo (l’Hauswesen) in collegamento sistematico con gli altri membri mediante leggi comuni, ivi compresa la legge dell’avere giuridico reciproco: i rispettivi diritti, di conseguenza, debbono attuarsi – al pari della legge morale – soltanto a livello comunitario, cioè in una dimensione costituita dal mutuo rapporto di esseri dotati di ragione che mettono in comune qualcosa[198].

Il principio che muove tutto ciò contiene necessariamente un’assoluta unità delle sue forze collegate[199].La potentia del tradizionale habitus – in quanto Soggetto che fa di un’operazione come il possesso un atto immanentee unilaterale[200] – cede il passo a una Gewalt condivisa da tutti gli enti domestici, sia pure non allo stesso modo, a causa di storiche differenze naturali tra un ente e l’altro ancora presenti nel pensiero di Kant[201]. La reificazione materiale barocca diventa perciò inammissibile, poiché prodotta da una ragione riferita direttamente o alla realtà empirica (all’habitus della scolastica) o alla logica del verosimile (alle habitudines leibniziane), anziché alle categorie dell’intelletto, le cui divisioni tricotomiche prevedono che ogni loro terzo membro abbia la funzione di sintesi(cfr. sopra, nt. 174) senza tuttavia realizzare un mero congiungimento tra i primi due membri. La categoria dello ius realiter personale è infatti un concetto particolare, più di quanto non siano già i terzi momenti della Categorientafel.

Ognuno di essi trova fondamento in un concetto primitivo dell’intelletto puro, e come tale non si riduce a un semplice concetto derivato dal collegamento delle categorie che la precedono, essendo la stessa possibilitàdel collegamento un concetto particolare, la cui derivazione richiede non solo uno speciale atto dell’intelletto non assimilabile a quello esercitato per i primi due concetti: oltre alle operazioni dell’intelletto e del giudizio nelle premesse, ricorre un’operazione particolare e appropriata in modo specifico alla ragione, simile a quella che si compie nel sillogismo[202]. Talvolta, avverte Kant, la terza categoria non è applicabile là dove sono perfettamente utilizzabili le prime due – si pensi all’inconcepibile diritto reale di forma o modo personale (ius personaliter reale) –, e anche quando ciò può accadere essa contiene sempre qualcosa di peculiare e di completamente diverso dalle prime due categorie prese per sé o anche insieme[203]. È insomma la ragione a sancire definitivamente la possibilità metafisica di una combinazione tra categorie o diritti, stabilendo quel che nella combinazione costituisce l’essenza e la materia (lo ius ratione obiecti) e quel che invece rappresenta il predicato compatibile (lo ius ratione modi seu subiecti), ovvero la forma del diritto e del suo oggetto, nel senso di modo di possedere e di esserci (cfr. infra)[204].

Nel caso dello ius realiter personale (cioè personale secondo la materia e reale secondo la forma), la peculiarità di cui trattasi va senz’altro ricercata nel finalismo comunitario (reificante) intrinseco alla società domestica kantiana. Esso, nella Rechtslehre, non dipende dalla sola immaginazione riproduttiva (rievocativa), che, come tale, non può reagire agli spazi empirici di pluralità non comunitaria (cfr. sopra, nt. 30), né dall’immaginazione leibniziana, la quale sopperisce alla confusione del sensibile per mezzo di principi logico-formali che intellettualizzano i fenomeni[205]. Piuttosto, a determinare la conoscenza di quel finalismo èla ragione attraverso le categorie, a partire dallaGemeinschaft: lo stato domestico, scrive Kant, è un rapporto di comunanza tra esseri liberi che, per il reciproco influsso (della persona dell’uno su quella dell’altro), formano, secondo il principio della libertà esterna (causalità), una società di membri di un Tutto (di persone che stanno in comunità), che si chiama Hauswesen, come se si trattasse di un corpo le cui parti si attraggono e si respingono reciprocamente[206].

La Gemeinschaft è propriamente il fondamento della possibilità di una conoscenza empirica della coesistenza[207], che a sua volta sottintende la coordinazione implicata dal giudizio disgiuntivo, il quale concorda con la categoria pura della comunanza:«coloro che si coordinano devono proprio per questo considerarsi reciprocamente come uguali, in quanto stanno sotto leggi comuni»[208]. Coordinazione e comunanza, dunque, fanno sì che nel fenomeno domestico sia conosciuta spontaneamente una coesistenza dinamica (finalistica) di personeche permangono tali anche se coinvolte in uno stato reificato. La persona, spiega Schiller nel 1794, si manifesta nell’Io in eterno permanente e unicamente in questo, e quindi non può divenire e cominciare nel tempo. È il tempo, al contrario, che deve cominciare in essa, dovendo il permanente avere come principio qualcosa che permane. Ciò che cambia è solo lo stato della persona[209], il suo esserci (Daseyn), che nel caso del possesso domestico equivale a una Gestalt, da intendere non nel significato di forma logica ma in quello di forma-apparenza, o meglio di simbolo intriso di una certa realtà inaccessibile al pensiero teoretico[210].

Questa forma reale, come si è visto, non è affatto una forma-gioco (cfr. sopra, § 4.1), né può essere chiamata forma concettuale, né tanto meno falsa apparenza – la mistificazione che, secondo Schiller, aiuta la realtà degli uomini o dei popoli privi di moralità e di potenza estetica[211]. I contenuti dello spazio domestico kantiano sono coordinati e simultanei, con la conseguenza che la rappresentazione di esso non può essere la forma dei concetti, ma deve essere la forma delle intuizioni (esterne) e quindi essere originariamente data e non fatta in virtù dei tre atti logici (comparazione, riflessione e astrazione)[212]. I bisogni empirici individuali e gli scopi empirici collettivi, perseguiti nella società domestica (cfr. sopra, § 4.1), sono istanze pratiche necessarie dell’umanità che legano la capacità di immaginazione al reale, al mondo sensibile[213], il quale, invece di essere accolto dal pensiero passivamente o sostituito con verità logiche – talvolta assurde –, viene fatto oggetto di una sintesi figurata (figürlich), speciosa – da species, che a sua volta deriva dal verbo spectare (osservare, volgersi verso) –, attraverso cui il sensibile indeterminato si conforma alle categorie dell’intelletto[214].

Il predicato auf dingliche Art, descrittivo della realità formale dei diritti domestici kantiani, rimanda quindi a una species distinta sia dal concetto di carattere – dotato di una mera funzione discorsiva – sia dal concetto di Art nel senso di «somiglianza essenziale totale»[215]. Quei diritti e i loro oggetti hanno una possibilità reale sfuggente (cfr. sopra, § 4.1), la cui comprensione, di conseguenza, non può prescindere dall’intervento unificatore della Vernunft: «La ragione presuppone le conoscenze dell’intelletto, che vengono applicate direttamente all’esperienza, e in base alle idee cerca l’unità di tali conoscenze, la quale va molto più in là di quanto possa giungere l’esperienza»[216]. È come se il filosofo di Königsberg, in fin dei conti, volesse dirci che quando il luogo topico dello ius personale si unisce a quello dello ius reale la personalità dell’uomo coesiste necessariamente con uno stato reificato senza mai essere annullata, neppure nelle situazioni critiche in cui l’assolutezza dei poteri coercitivi domestici – preordinati al perseguimento di scopi comuni – si manifesta prevalendo sulla personalità. La ragione, infatti, deve spingere la conoscenza oltre ciò che appare all’esito di ogni esibizione e oltre ogni esperienza, ossia verso il sovrasensibile, che nel caso in esame è l’idea del diritto dell’umanità, fondamento e limite dei diritti personali di forma reale[217].

Può dirsi chiaro, a questo punto, lo sviluppo della topica dei diritti e degli enti compiuto da Kant rispetto a quella di Darjes, il quale aveva sì rivalutato l’esperienza come principio fondamentale della conoscenza – ogni rapraesentatio rei nell’anima, in quanto percezionedi oggetti, altro non è che l’esibizione della cosa stessa (esistente) con la sua possibilità (essentia)[218] – ma col risultato di rendere le combinazioni tra diritti ratione objecti e diritti ratione modi legittime indistintamente, trattandosi di congiunzioni prive dell’unità sintetica delle percezioni secondo i concetti puri dell’intelletto[219]: meri giudizi empirici di percezione, non di esperienza, poiché validi solo soggettivamente, nel senso che esprimono una relazione delle percezioni con un soggetto, non una qualità dell’oggetto, mancando in essi, per l’appunto, l’unità sintetica delle categorie[220]. Tant’è che nel diritto naturale di Darjes la personalità del servo resta alla fine qualcosa di dogmatico.

Nelle topiche non trascendentali la conoscenza equivale al pensabile privo di contraddizione interna. Secondo Kant, invece, «un giudizio, per quanto libero sia da ogni contraddizione interna, può essere falso oppure infondato», dal momento che il principio di contraddizione «appartiene soltanto alla logica», cioè vale per le «conoscenze in generale, a prescindere dal loro contenuto»[221]. Ormai anche i luoghi topici dell’unificazione tra diritti contrapposti debbono essere valutati secondo la ragione critica, «cioè la capacità che ha la coscienza di scorgere ed eliminare l’errore»[222]. E tale è l’aver definito o classificato per secoli mogli, figli e servi senza il giusto uso di intelletto, immaginazione, giudizio e ragione, presi nella loro totalità organica (cfr. sopra, nt. 170)[223], dalla quale affiora una verità problematica e ineluttabile: il non umano può essere per noi (solo) forma oggettiva data dell’umano.

Questa forma reale, come già spiegato, si distingue dalla realitas objectiva tardo-scolastica – che nel caso della reificazione del servo esprime una cosalità materiale (nel corpo) –, così come si distingue dalla Quasi-species leibniziana – tutt’altro che formale – e dal predicato reale ratione modi di Darjes, verità logica ed empirica dai confini incerti. La forma reale concepita da Kant è un limite della conoscenza e della volontà iscritto già nel soggetto: una forma-limite, tanto nel senso di forma problematica, presupponendo essa una certa realtà inaccessibile, quanto nel senso di forma invalicabile, non potendo la reificazione dell’uomo spingersi nella materia, cioè nell’uso fisico del corpo come cosa, se non in determinate circostanze, in via transitoria e sempre per finalità pratiche[224].

In tal modo, la coscienza del limite del soggetto kantiano, nel dare la «consapevolezza del carattere necessariamente limitato (finito, relativo, parziale) delle possibilità (conoscitive, pratiche, affettive, ecc.) dell’uomo»[225] anche nell’ambito della Rechtslehre, diventa un importante supporto per l’affermazione dell’autorità della ragione pratica quando essa spinge la conoscenza oltre l’esperienza, verso la dimensione sovrasensibile del diritto dell’umanità (cfr. sopra). Di qui, fondamentalmente, la controversa intangibilità dell’essenza dell’uomo come persona nei diritti domestici elaborati dal filosofo di Königsberg: situazioni di confine, direbbe Possenti, nelle quali il «personalismo kantiano», se da un lato «risulta in difficoltà», dall’altro rappresenta «un grande e duraturo guadagno»[226].

 

Abstract: The history of man’s reification is also the history of subjectivity. As long as reification is something given (by nature, sin, will, convention or practice) instilled from the outside into thought, to then be supinely “re-produced” in thought itself, it will be possible to speak of modern subject only in an improper way. This implies the need to set precise distinctions among the various models of human’s reification that follow one another in Modernity (in a chronological sense). The first models are those in which the process of reifying the subiectum is indeed an intellectual process – of theoretical immersion, perhaps Lukács and Honneth would say – but not enough to establish an effective discontinuity with respect to the Middle Ages. Therefore, the present essay has the purpose of analyzing some fundamental stages of “modern” subjectivity through the ideal relationships (generated by real bonds) that man – to put it in Rosmini’s words – builds with things and people. As it will be seen, these relationships are topical places where reification gradually passes from being a product of empirical reality, shaped by thought in more or less coherent forms, to being a logical product of the subject: a subject with performative power, that is, capable even of transforming the actual reality, now with intellectual and sensitive limits, now without.

Key words: modern subject, reification, topic, compossibility, hypotyposis.

* Università degli Studi di Teramo (galimena@unite.it).

** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] Cfr. in questi termini G. Agamben, Infanzia e storia, Torino, 2001, p. 19.

[2] Un anonimo scrittore del secolo XIX ricorda che nell’antico buon tempo – quando la società feudale era organizzata in gruppi di uomini liberi e non liberi – persona e cosa non erano distinte rigorosamente. La persona, pregiudicata nel pieno sviluppo del suo essere, ossia nell’autodeterminazione della volontà nei confronti della cosa, non esercitava alcun libero dominio su quest’ultima: «la cosa predomina» (die Sache prädominirt). Fu l’alba dell’età moderna, prosegue l’autore, a stimolare il bisogno della libertà di coscienza, e all’autodeterminazione interna – alla libertà di pensiero – seguì quella esterna, finché non venne raggiunta la grande meta: «il personale dominò il cosale» (das Persönliche beherrschte das Sachliche). Cfr. Fr., Von dem wahren und falschen Liberalismus in Bezug auf das Grundeigenthum, in Baltische Monatsschrift, I (1865), p. 253.

[3] Cfr. C. Haunold, Controversiarum de justitia et de jure privatorum universo nova et theorica methodo, 4 voll., Ingolstadii, 1671-1672, vol. I, pp. 79, 82. Si veda anche J.M. Dusin (praeside C. Haunold), Disputatio theologica de contractuum natura, Ingolstadii, 1656, p. 87. Qui compare per la prima volta l’espressione personas consideratas ut res, & non ut personas, che aggiunge questa negazione alla definizione formulata da Pietro Sforza Pallavicino (1607-1667), professore di filosofia e teologia al Collegio Romano, dove studiò Haunold. Cfr. F.A. Kotulinski (praeside P.S. Pallavicino), Conclusiones theologicae de iustitia, et iure, Romae, 1648, p. 35, e P.S. Pallavicino, Assertionum theologicarum, 6 voll., Romae, 1649-1650, vol. IV, pp. 163-164, il cui contenuto sarà riprodotto quasi fedelmente nelle Controversie di Haunold. L’importanza di quest’ultima opera è testimoniata da W.X.A. Kreittmayr, Anmerkungen über den Codicem Maximilianeum Bavaricum Civilem, 5 Teile, München, 1758-1768, Teil II, p. 401, e da G.F. Verani, Theologia universa et speculativa dogmatica, et moralis, 8 voll., Monachii, 1700, vol. VI, p. 517.

[4] Esso proviene dal linguaggio astronomico-sacerdotale, dove significa osservare a lungo e attentamente le stelle, studiandone rapporti, configurazioni e moti. G. Romaniello, Dalla tenebra alla luce semantica, Roma, 2002, p. 55. Cfr. F. Suárez, De Angelis (1620), in Opera Omnia, éd. M. André, vol. II, Paris, 1856, p. 203, in cui il cogitare è l’atto di conoscere e considerare.

[5] Cfr. J. Duns Scotus, Reportata Parisiensia (1302-1307), in Opera Omnia, éd. L. Wadding, vol. XXIV, Parisiis, 1894, dist. 36, p. 461. Sulla trasformazione dell’assenza in presenza per opera dell’immaginazione, nella filosofia politica kantiana e nella terza Critica, v. rispettivamente D. Mazzù, Il potere invisibile della legge, in La filosofia politica di Kant, a cura di G.M. Chiodi - G. Marini - R. Gatti, Milano, 2001, pp. 75-77, e P. Costa, La ragione e i suoi eccessi, Milano, 2014.

[6] Cfr. in generale J.-F. Courtine, Suárez et le système de la métaphysique (1990), tr. it. Il sistema della metafisica, a cura di C. Esposito, Milano, 1999, p. 151.

[7] Cfr. ivi, pp. 151, 160.

[8] Cfr. J.P. Sommervogell Ensishemiano Alsata (praeside C. Haunold), Philosophia de anima rationali, Dilingae, 1645, pp. 104, 116-117, 127.

[9] F. Suárez, Disputationes Metaphysicae (1597), in Opera Omnia, éd. C. Berton, vol. XXV, Parisiis, 1856, disp. 8, p. 280 (la traduzione della frase tra virgolette proviene da J.-F. Courtine, op. cit., p. 150).

[10] Cfr. in questi termini J.-F. Courtine, op. cit., pp. 147, 160, 162, 223-224, 357-358, insieme a F. Suárez, De Angelis, cit., p. 327, e a F. Suárez, Disputationes, cit., vol. XXV, disp. 8, p. 280.

[11] F. Renzi, L’unità dell’ente e l’intimità della sua trascendenza in Francisco Suárez, in Aquinas, 3 (2011), pp. 22-23.

[12] Cfr. F. Suárez, De Statu Perfectionis et Religionis (1632, e.p.), in Opera Omnia, éd. C. Berton, vol. XV, Parisiis, 1859, p. 417, insieme a Id., Disputationes, cit., disp. 7, p. 251, e Id., Disputazioni metafisiche, Milano, 2007, p. 765. Per Suárez, non a caso, la libertà fa parte di quel diritto naturale dominativo che si adatta alle circostanze mutevoli della vita, e pertanto, seppur positive a natura datum, posse per homines mutari. Cfr. in questi termini C. Faraco, I concetti di dignitas e di libertas nel pensiero di Francisco Suárez, in Heliopolis, 1 (2017), p. 30, con riferimento a F. Suárez, De Legibus, seu de Deo Legislatore (1612), in Opera Omnia, éd. C. Berton, vol. V, Parisiis, 1856, pp. 159-160. Il filosofo di Granada, in definitiva, ha una visione del dominium «tutta effettualistica». P. Grossi, La proprietà nel sistema privatistico della Seconda Scolastica, in La Seconda Scolastica nella formazione del diritto privato moderno, Atti dell’Incontro di studio. Firenze, 16-19 ottobre 1972, a cura di P. Grossi, Milano, 1973, p. 199.

[13] Cfr. in generale T. Tyn, Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis, Bologna, 1991, p. 261, sul concetto di astrazione.

[14] Cfr. F. Suárez, Disputationes, cit., vol. XXV, disp. 1, p. 23. Il filosofo di Granada ha elaborato «la distinzione di una duplice abstractio a materia secundum esse, la quale può essere necessaria, essenziale, intrinseca, oppure solamente ipotetica o per concessione (permissive)». J.-F. Courtine, op. cit., p. 397, con riferimento a F. Suárez, Disputationes, cit., vol. XXV, disp. 1, pp. 7-8, 22-24.

[15] G.F. Verani, op. cit., vol. VI, p. 517, in relazione a C. Haunold, op. cit., vol. I, pp. 78-79. Verani assimila la classificazione dei diritti esposta da Haunold nelle Controversie, nonché la dottrina suáreziana dell’essenza non distinta realmente né formalmente dall’esistenza. Su quest’ultimo punto, v. G.F. Verani, op. cit., vol. VII, pp. 246-247.

[16] Cfr. C. Haunold, op. cit., vol. I, pp. 79, 82. Parlare filosoficamente di qualcosa significa, per Suárez, analizzarla nell’ambito di un’operazione dell’intelletto (diretta o riflessa) avente a oggetto un ente o una relazione diragione. Cfr. F. Suárez, Disputazioni metafisiche, Milano, 1996, disp. 1, p. 59. Quanto ad Aristotele, si ricordi che lo schiavo per natura è di un altro, avendo un’esistenza incentrata sull’uso del corpo. Per lo Stagirita la schiavitù è una norma naturale perché la natura si rinviene in quel che accade sempre. Le analogie, di conseguenza, servono solo a rendere più convincente la tesi generale secondo cui quel tipo di subordinazione risulta essere diffuso. Cfr. in questi termini J. Annas, The Morality of Happiness (1993), tr. it. La morale della felicità in Aristotele e nei filosofi dell’età ellenistica, a cura di M. Andolfo, Milano, 1998, p. 211. È bene precisare, a tal proposito, che in Suárez la soggezione per vincolo di servitù, pur se non derivante dalla natura, è dovuta «a titolo di giustizia in base alla legge di natura», e questo vale altresì per la sottomissione di figli e mogli. Cfr. F. Suárez, De Legibus, cit., p. 177.

[17] Cfr. C. Haunold, op. cit., vol. I, p. 78.

[18] Cfr. Id., Theologiae speculativae, Ingolstadii, 1670, pp. 37-38, insieme a Id., Controversiarum, cit., vol. I, pp. 79, 82. L’esistenza cui si riferisce Haunold non è l’essere in atto nel senso di «qualche esistenza» (Id., Theologiae speculativae, cit., p. 37), ma piuttosto è l’ordine a essere o l’attitudine a esistere, che appartiene essenzialmente e intrinsecamente all’essenza della creatura: l’essenza attuale reale, in Suárez, è sì costituita dall’esse actuale, ma non per composizione. L’esistenza è un modo intrinseco costitutivo dell’essenza, da cui non si distingue né realmente né formalmente (ex natura rei), ma solo ratione. Così P. Di Vona, op. cit., pp. 61-62, in rapporto a F. Suárez, Disputationes, cit., vol. XXVI, Parisiis, 1856, disp. 31, p. 252.Cfr. C. Esposito, Francisco Suárez o del debito teologico dell’ontologia moderna, in Francisco Suárez 1617-2017, a cura di C. Faraco - S. Langella, Capua, 2019, p. 76: «Il concetto di ente costituisce dunque una sorta di tessuto connettivo che include in sé ogni determinazione […]. Il massimo della generalizzazione e il massimo dell’inclusione».

[19] F. Suárez, De Praeceptis Affirmativis Religionis ad Dei Cultum et Adorationem(1608), in Opera Omnia, éd. C. Berton, vol. XIII, Paris, 1859, p. 346.

[20] Cfr. in questi termini P. Di Vona, op. cit., p. 55.

[21] Cfr. P. Carosi, La sussistenza ossia il formale costitutivo del supposito, in Divus Thomas, XLIII (1940), p. 402.

[22] F. Suárez, Disputationes, cit., vol. XXV, disp. 4, p. 95. Secondo gli scolastici moderni, il supposito «è una sostanza singolare e individua, in se stessa del tutto completa, e perfettamente distinta da tutti gli altri esseri. È ciò che è espresso nella classica definizione boeziana: “Natura completae individua substantia”». P. Carosi, op. cit., p. 393.

[23] Cfr. F. Suárez, Disputationes, cit., vol. XXVI, disp. 34, p. 415.

[24] C. Haunold, Theologiae speculativae, cit., p. 534.

[25] La personalità, secondo il filosofo di Granada, «viene data alla natura per portarla al compimento ultimo nell’ordine dell’esistenza ossia, in altre parole, per completare l’esistenza in rapporto alla sussistenza; sicché la personalità non è termine o modo della natura secondo l’essere dell’essenza ma secondo l’essere dell’esistenza della natura medesima». Dunque, «se disponiamo il modo di esistere in un qualche luogo da cui viene sostentato e dipende, esso ottiene uno stato incompleto, poiché si trova in un luogo dal quale dipende, ordinato alla composizione di un qualche Ente completo». F. Suárez, Disputationes, cit., vol. XXVI, disp. 31, pp. 237, 251, disp. 34, p. 374 (la traduzione del primo brano tra virgolette proviene da B. Mondin, Storia della teologia, 4 voll., Bologna, 1996, vol. III, p. 294). Cfr. R. Garrigou-Lagrange, La Synthèse Thomiste (1947), tr. it. La sintesi tomistica, a cura di M. Bracchi, Verona, 2015, p. 224, in relazione a F. Suárez, Disputationes, cit., vol. XXVI, disp. 34, pp. 348-366, ove la personalità è considerata come «modo sostanziale, posteriore all’esistenza di una natura singolare che la rende incomunicabile».

[26] F. Suárez, Disputationes, cit., vol. XXVI, disp. 34, p. 353 (corsivo mio).

[27] Cfr. in generale P. Di Vona, op. cit., p. 58.

[28] Cfr. in questi termini J.-F. Courtine, op. cit., p. 160.

[29] Nel linguaggio dell’epoca si parlerebbe di cognitio abstractiva reale, nel senso di conoscenza evidente di un fatto (la passione del corpo) obbiettivato allo spirito mediante una fictio mentis. Cfr. F. Suárez, Disputationes, cit., vol. XXVI, disp. 30, pp. 142, 182. In Suárez, spiega Courtine, ricorrono due concezioni di res, diverse e complementari: da una parte la res intrinsecamente singolare, che non si distingue realiter dalla sua esistenza; e dall’altra parte una res che si definisce in maniera essenzialmente oggettivata, cioè come fictio mentis attraverso cui l’intelletto può darsi qualcosa da conoscere, un qualcosa che però non si oppone al reale. Cfr. J.-F. Courtine, op. cit., p. 158.

[30] Cfr. su tutto F. Suárez, Disputationes, cit., vol. XXVI, disp. 44, pp. 662, 664-666, 724, disp. 53, p. 1012. L’habitus in questione deve essere pensato come pluralità: esso, dice Suárez richiamando Aristotele, non è la veste che giace accanto estrinseca, ma è l’avere tale veste, è ciò che mediat inter vestitutum et vestem. Cfr. ivi, disp. 53, p. 1012. Ma l’unica pluralità pensabile al momento consiste in una relatio mutua disquiparantia, nell’accezione scolastica più rigorosa. Cfr. Aristotele, La metafisica, a cura di C.A. Viano, Novara, 2014, l. V, p. 331, insieme ad A. Calov, Scripta philosophica, Lubecae, 1651, pp. 282-283, e a C. Werner, Franz Suarez und die Scholastik der letzten Jahrhunderte, 2 Bde, Regensburg, 1861, Bd. II, p. 53.

[31] L. Hutter, Tractatio Theologica, De Veritate Et Maiestate Humanae Naturae Iesu Christi, Witebergae, 1605, p. 716, circa la dottrina paolina della natura umana di Cristo, in cui la nozione di similitudo converge in quattro esempi di habitus. Cfr. J.P. Sommervogell Ensishemiano Alsata, op. cit., p. 275, sull’habitus come condizione e inclinazione.

[32]Cfr. C. Haunold, Controversiarum, cit., vol. I, pp. 79, 82, unitamente a F. Suárez, Disputationes, cit., vol. XXV, disp. 6, p. 238, e a F. Suárez, De Statu Perfectionis et Religionis, cit., p. 557. La distinzione tra soggezione materiale (con il corpo) e soggezione formale (con le azioni) ricorre anche in F. Suárez, De Praeceptis Affirmativis Religionis, cit., p. 346.

[33] A. Stagnitta, La fondazione medievale della psicologia, Bologna, 1993, p. 141 (ultimo corsivo mio), con riferimento alla Summa Theologica di san Tommaso, parte II, sez. I, q. 51, art. 2, e q. 53, art. 1.

[34] Cfr. in generale P. Barcellona, La parola perduta, Bari, 2007, p. 100, e G. Agamben, op. cit., p. 19.

[35] Cfr. C. Haunold, Controversiarum, vol. I, p. 216.

[36] J.C. Steczewicz (promotore C. Haunold), Assertiones de dispositionibus lucrativis, Ingolstadii, 1657, p. 92, con chiaro riferimento a F. Suárez, De Praeceptis Affirmativis Religionis, cit., 346, ove si nega che tra il servo e il libero possa esserci un medium. Cfr. A. de Rosate, In Primam ff. Veter. Part. Commentarij, Venetiis, 1585, p. 54, in cui si legge che è impossibile che un uomo sia duplex: o lo consideriamo ut personam o non lo consideriamo tale, limitatamente però ad alcune sue qualità connesse ai suoi officia.

[37] Cfr. C.J.A. Mittermaier, Grundsätze des gemeinen deutschen Privatrechts mit Einschluss des Handels-, Wechsel- und Seerechts, 2 Bde, Regensburg, 1847, 7a ed., Bd. I, pp. 269-271. Con l’espressione Mittelding sono stati definiti i contadini tedeschi al tempo della servitù della gleba (homines proprii, servi anonymi), nonché i diritti misti (reali e personali insieme), spesso associati a quei lavoratori. Cfr. F.F. Weichsel, Rechtshistorische Untersuchungen des gutsherrlich-bäuerliche Verhältniss in Deutschland betreffend, Bremen, 1822, p. 128, e C. v. Rotteck, Lehrbuch des Vernuftrechts und der Staatswissenschaften, 4 Bde, Stuttgart, 1829-1835, Bd. I, p. 224.

[38] F. Bouterwek, Lehrbuch der philosophischen Wissenschaften nach einem neuen System entworfen, 2 Bde, Göttingen, 1820, 2a ed., Bd. II, p. 309. Il ragionamento era suppergiù il seguente: le persone non sono né oggetti né cose, ma i loro corpi e le loro azioni sono, rispettivamente, oggetti e cose suscettibili di acquisto come mezzi serventi per il fine di un’altra persona, purché colui che concede le sue forze corporali e le sue azioni soddisfi effettivamente il proprio fine personale. Così J.H. Abicht, Neues System eines aus der Menschheit entwikelten Naturrechts, Bayreuth, 1792, pp. 172-173.

[39] Cfr. B. Sannig, Scholae theologicae Scotistarum, 4 voll., Vetero-Pragae, 1675-1676, vol. IV, p. 157. Il boemo Bernard Sannig (1638-dopo il 1707) è un francescano scotista. È importante sottolineare ciò, dal momento che l’esse esistenziale, nel pensiero di Duns Scoto, «non ha una funzione qualificante l’essenza ma solo modificante, poiché l’essenza sulla linea dell’essenza è perfetta prima che sopraggiunga l’esistenza, dalla quale mutua soltanto l’intensificazione della sua attualità». O. Todisco, Lo spirito cristiano della filosofia di Giovanni Duns Scoto, Roma, 1975, pp. 65-66.

[40] B. Sannig, op. cit., vol. IV, p. 171. L’avverbio ut sembra trovare il suo migliore impiego là dove si vuole esprimere un’identità marcata. Comunque sia, la dottrina giuridica di Sannig è visibilmente ispirata a quella di Duns Scoto. Il servo, secondo il Sottile, mantiene un diritto residuo sul proprio corpo, poiché egli non si priva di ogni libertà nei confronti di qualunque atto: il signore non ha potestà totale sul corpo del servo, che resta infatti homo, e perciò dotato di libero arbitrio. Cfr. G. Alliney, I presupposti teorici della servitù nella riflessione teologica di Tommaso d’Aquino e Giovanni Duns Scoto, in I Francescani e la politica, a cura di A. Musco, 2 voll., Palermo, 2007, vol. I, pp. 20-30.

[41] Cfr. F. Suárez, Disputationes, cit., vol. XXVI, disp. 47, p. 822.

[42] Cfr. in questi termini e in generale E. Bettoni, O. Todisco, La nozione metafisica di essere nell’ascesa a Dio del B. G. Duns Scoto, in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 5-6 (1970), p. 745.

[43] A.F.X. Auer (praeside W. Beüsch), Prodromi juris controversi. Dissertatio prima de jurisprudentia in genere, Ingolstadii, 1737, p. 137. Si affaccia, nella nuova definizione, una minimale ma significativa contrazionedell’esistenza (in ratione patientis)a favore dell’essenza e della stessa esistenza (in ratione agentis), preannunciata velatamente dall’avverbio instar.

[44] Cfr. B. Sannig, Scholae theologicae Scotistarum, cit., vol. IV, p. 157.

[45] Cfr. Id., Schola canonica seu universum jus canonicum, 2 voll., Neo-Pragae, 1686-1687, vol. II, pp. 41, 193.

[46] Cfr. in questi termini J.-F. Courtine, op. cit., p. 162.

[47] V. Coronelli, Biblioteca universale sacro-profana, antico-moderna, 7 voll., Venezia, 1701-1707, vol. I, co. 491-492.

[48] B. Sannig, Schola philosophica Scotistarum, Tomus I, Vetero-Pragae, 1684, p. 301.

[49] Cfr. A. Pérez, De iustitia, et iure. De restitutione, & de poenitentia, Romae, 1668 (e.p.), p. 39. Secondo Pérez, al contrario, le finzioni giuridiche non sono mai assimilabili alla verità e ai suoi effetti. Semmai, possono avere effetti simili a quelli della verità. Cfr. ivi, p. 203.

[50] J.-F. Courtine, op. cit., p. 161.

[51] Così S. Boezio, Le differenze topiche, a cura di F. Magnano, Milano, 2017, Introduzione (della curatrice), pp. 17-18.

[52] Questa tetracotomia, risalente a Bartolo da Sassoferrato (In primam ff. veteris partem commentaria, ad l. 1, ff. de servitutibus (D. 8, 1, 1), 1574, fol. 183 v.), rappresenta in realtà una dottrina minoritaria, essendo prevalsa tra i glossatori la tricotomia elaborata in B. Cipolla, Tractatus de servitutibus urbanorum preadiorum et de servitutibus rusticorum praediorum, in Opera omnia, Lugduni, 1577, pp. 171 s., 175 s. Ivi la servitù a personae rei non è considerata propriamente una servitù. Si tenga comunque presente che fino ai sistemi del giusrazionalismo ottocentesco la topica ha contemplato, insieme al locus della persona reificata, il locus della cosa personificata, cioè innalzata a soggetto titolare di obblighi, diritti e privilegi verso uomini, altre cose o intere società. Cfr. C. v. Rotteck, Dingliches Recht, in Das Staats-Lexikon, hrsg. C. v. Rotteck - C. Welcker, 12 Bde, Altona, 1845-1848, 2a ed., Bd. IV, p. 53.

[53] Cfr. C. Haunold, Controversiarum, cit., vol. I, p. 78, insieme a W.X.A. v. Kreittmayr, op. cit., Teil II, p. 401. Nel secolo dei lumi e in quello dell’idealismo, l’ultimo istituto sarà inquadrato sotto i nomi di obbligazione reale, obbligazione della cosa (obligatio rei) e diritto reale soggettivamente (o personalmente), nel senso di diritto su una cosa come se fosse su una persona. Cfr. L. Duncker, Die Lehre von den Reallasten, Marburg, 1837, p. 37, e C. v. Rotteck, Lehrbuch, cit., Bd. I, p. 225, in cui l’autore ricorda che la categoria (ripudiata da Kant) del persönlich-dingliches Recht (o ius personaliter reale), in quanto diritto su una cosa come se fosse su una persona (cfr. infra, § 4), è divenuta realtà grazie a una finzione e all’arroganza della giurisprudenza positiva, specialmente in tema di oneri fondiari (Grundlasten), trattandosi di qualcosa che si chiede alla terra, al fondo, ma che di fatto solo i rispettivi possessori possono dare – Rotteck fa l’esempio delle corvée e di tutte le servitù di fare o prestare.

[54]G.W. Leibniz, Textes inédits, éd. G. Grua, 2 tomes, Paris, 1948, tome II, p. 799 (corsivo mio). Si tratta di un testo risalente forse al 1695. Cfr. ivi, p. 935.

[55] Cfr. G.W. Leibniz, Saggio di questioni filosofiche estratte dalla giurisprudenza e Dissertazione sui casi perplessi in diritto, a cura di A. Artosi - B. Pieri - G. Sartor, Torino, 2015, p. 101.

[56] Cfr. E. Weigel, Arithmetische Beschreibung der Moral-Weißheit von Personen und Sachen, Jena, 1674, pp. 65-72, 93-94, 98-99. Weigel porta l’esempio dell’estinzione del debito per confusione, quando il debitore diventa creditore di se stesso.

[57] Ivi, p. 94.

[58] Cfr. in questi termini G. Civello, Le radici giusnaturalistiche del pensiero welzeliano, in Studi in onore di Mauro Ronco, a cura di E.M. Ambrosetti, Torino, 2017, p. 90. La dottrina degli enti morali è di grande importanza. In Germania, scrive Wiguläus X.A. von Kreittmayr (1705-1790), non è stata mai accolta la distinzione romana tra persone e servi, poiché questi appartengono agli entia rationis moralia. W.X.A. v. Kreittmayr, op. cit., Teil I, pp. 123-124. La personalità del servo tedesco, dunque, non è mai andata perduta completamente, e perciò anche la perfettibilità del suo status non si è mai resa impossibile.Così J.C. Bluntschli, Allgemeines Staatsrecht, 2 Bde, München, 1857, 2a ed., Bd. I, p. 145.

[59] M. Ricciardi, Status. Genealogia di un concetto giuridico, Milano, 2008, p. 97.

[60] E. Weigel, op. cit., pp. 68-69, 72, 93. Il filosofo respinge il concetto di inerenza morale (fissa o permanente), che sta invece a fondamento della definizione dello ius in re formulata in C. Haunold, Controversiarum, cit., vol. I, p. 78.

[61] Cfr. in generale A. Cavagnari, Corso moderno di filosofia del diritto, 2 voll., Padova, 1882-1892, vol. II, p. 325.

[62] P. Barcellona, op. cit., p. 100.

[63] Cfr. J. Cujas, I.C. Praestantissimi operum postmorum quae de iure reliquit, 6 voll., Lutetiae Parisiorum, 1617, vol. II, p. 1170.

[64] Cfr. in generale B. Mastrio - B. Belluto, Philosophiae ad mentem Scoti cursus integer, 5 voll., Venetiis, 1757, 5a ed., vol. I, p. 300, circa la differenza tra formalitas e respectus reale. Si veda anche S. Cirami, La «relatio transcendens» nel pensiero di Duns Scoto (tesi di dottorato), Salerno, 2018, p. 118: «La “ratio” della relazione [in san Tommaso] non include l’inerenza del soggetto, e perciò se inerisce in qualcosa non lo fa in quanto relazione. Ciò conferisce alla relazione una caratteristica unica tra i predicamenti, ossia la possibilità di non essere reale e di potersi perdere o acquistare senza mutamento del soggetto».

[65] A.B. Wolter, The Transcendentals and Their Function in the Metaphysics of Duns Scotus, St. Bonaventure (NY), 1946, p. 22, con riferimento a B. Sannig, Schola philosophica Scotistarum, Tomus I, cit., p. 126: «formalitas est ratio objectiva identificata rei, conceptibilis in re aliqua conceptu adaequato, et perfecto, distincto á conceptu quô concipitur alia formalitas ejusdem rei» – tale definizione proviene da un formalista, di cui però Sannig non indica il nome.

[66] Si tratta di una impossibilità reale, non logica. Sul piano logico, come si è visto, il principio di non-contraddizione si limita a escludere che un uomo possa essere persona e cosa insieme, lasciando intatta la possibilità che esso sia soltanto cosa. Ciò perché il possibile logico prescinde dai predicati dello spazio e del tempo, appartenenti invece al possibile reale kantiano, il quale rimanda all’esperienza, di cui fornisce le condizioni formali. Su quest’ultimo punto, cfr. F.L. Marcolungo, Kant e il possibile, in Kant und die Aufklärung, hrsg. L. Cataldi Madonna - P. Rumore, Hildesheim – Zürich - New York, 2011, p. 149.

[67] Su quest’ultimo punto, cfr. H. Hoenegger, La terminologia della spazialità in Kant, in Locus-Spatium, Atti del XIV Colloquio Internazionale (Roma, 3-5 gennaio 2013), a cura di D. Giovannozzi - M. Veneziani, pp. 567-568.

[68] E. Weigel, op. cit., pp. 135-136.

[69] Cfr. su tutto W.T. Krug, System der praktischen Philosophie, 3 Teile, Königsberg, 1817-1819, Teil I, pp. 75-77.

[70] G.L. Reiner, Allgemeine Rechtslehre nach Kant. Zu Vorlesungen, Landshut - Augsburg, 1801, p. 73. Di qui la differenza, nella Rechtslehre kantiana, tra meri diritti personali e diritti personali realmente (cioè di forma reale), come recepita dai giusrazionalisti agli inizi del secolo XIX. Cfr. infra, § 4.

[71] Cfr. W.A.F. Danz, Handbuch des heutigen deutschen Privatrechts, 10 Bde, Stuttgart, 1796-1823, Bd. V, p. 453.

[72] In Kant, com’è noto, i diritti della società domestica, se da un lato sono diritti di possedere i rispettivi membri come cose, stante il potere di ricondurre nell’orbita familiare il soggetto da essa fuggito o strappato – una sorta di jus vindicandi personam a quocunque ejus possessore –, dall’altro implicano l’uso di ciascun familiare come persona. Cfr. G. Alimena, La “reale natura” dei diritti domestici secondo Kant, in Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto, 1 (2015), p. 126.

[73] Così O. Meo, Osservazioni sulla teoria leibniziana dello spazio, in Epistemologia, 1 (1998), p. 18. Dalla connessione fra ordine, mondo della percezione e idealità di spazio e tempo consegue che il principio di continuità – quale principio del generale ordinamento che garantisce la mancanza di vuoti nell’applicazione concreta allo spazio e al tempo – è come un ponte che sorregge e guida la conoscenza dei fenomeni da parte dell’intelletto umano. In questi termini E. Moriconi, Sul concetto di relazione di Leibniz, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, 2 (1980), p. 629.

[74] Entia moralia ed entia notionalia sono fondati, per Weigel, su atti di attribuzione (impositio), di ordinamento i primi, di regolamento i secondi, fermo restando che nella vita comune le persone, con il loro stato e valore, non vanno confuse né con gli enti naturali né con gli enti nozionali, essendo enti morali, cioè degni di particolare considerazione. Cfr. E. Weigel, op. cit., p. 20. Sulla nozione di quanta notionalia, si veda anche Id., Idea matheseos universae, Jenae, 1669, pp. 7-8.

[75] Cfr. in questi termini e in generale R. Fabbrichesi Leo, I corpi del significato. Lingua, scrittura e conoscenza in Leibniz e Wittgenstein, Milano, 2000, pp. 167-168. La studiosa si riferisce a una lettera di Leibniz al matematico francese Pierre Varignon del 1702, pubblicata nel 1758. Cfr. G.W. Leibniz, Scritti filosofici, a cura di D.O. Bianca, 2 voll., Torino, 1967-1968, vol. II, pp. 21, 767-770. La lettera prosegue con queste parole: «Così, non c’è nulla di mostruoso nell’esistenza di zoofiti o piante animali».

[76] R. Fabbrichesi Leo, op. cit., p. 94. La parola habitudo, in Leibniz, può essere tradotta in «complessione, conformazione, disposizione, forma o struttura [...], ma richiama anche il modo d’essere, l’abito (l’exis aristotelico)». Ivi, p. 88.

[77] Tale legge può essere definita come consecutionem extremorum & mediorum reciprocam. Cfr. W.G. Ploucquet et al. (praeside G. Ploucquet), Dissertatio historico-cosmologica de lege continuitatis sive gradationis leibniziana, Tubingae, 1761, p. 21.

[78] Cfr. su tutto H. Breger, Kontinuum, Analysis, Informales – Beiträge zur Mathematik und Philosophie von Leibniz, hrsg. W. Li, Heidelberg, 2016, p. 116. Il metodo di riferimento, osserva Breger (p. 117), è quello apagogico di Archimede. Cfr. G.W. Leibniz, Initia rerum mathematicarum metaphysica (1715), in Leibnizens mathematische Schriften, hrsg. C.I. Gerhardt, Bd. VII, Halle, 1863, p. 25.

[79] E. Pasini, Il reale e l’immaginario. La fondazione del calcolo infinitesimale nel pensiero di Leibniz, Milano, 1993, pp. 203-204 (corsivo mio), con riferimento a G.W. Leibniz, Initia rerum mathematicarum metaphysica, cit., p. 25.

[80] P. König, Das System des Rechts und die Lehre von den Fiktionen bei Leibniz, in Entwicklung der Methodenlehre in Rechtswissenschaft und Philosophie vom 16. bis zum 18. Jahrhundert, hrsg. J. Schröder, Stuttgart, 1998, p. 159.

[81] Leibniz. Political Writings, ed. P. Riley, Cambridge, 1988, 2a ed., pp. 21, 45.

[82] Cfr. P. König, op. cit., p. 159.

[83] Ibid., con riferimento a G.W. Leibniz, Textes inédits, cit., tome II, pp. 798-799: «Intelligi possunt [jura] generalia non omnibus tribus, sed alicui horum trium combinationi. Communia personalissimo et reali, nam et personae in jure personalissimo aliquando ut res considerantur, veluti servus. Sic operae sunt quasi usufructus ex persona, etc. Communia personalissimo et personali (veluti potestati et obligationi), velut scientia, culpa etc. Communia reali et personali, v. g. quod sunt regulariter transmissibilia».

[84] In una raccolta di excerpta del matematico spagnolo Juan Caramuel y Lobkowitz (1606-1682), «Leibniz riporta senza commentarlo un passo nel quale Caramuel sostiene che la relazione di compossibilità è transitiva. Chiaramente, se Leibniz fosse stato di parere contrario, non avrebbe mancato, come suo solito, di manifestare il proprio dissenso». M. Mugnai, Leibniz e i futuri contingenti, in Rivista di Storia della Filosofia, 1 (2013), p. 195. Sulla nozione di compossibilità, cfr. ibid.: «Secondo la definizione che ne dà Leibniz […] due proposizioni, ciascuna possibile di per sé, sono compossibili se la loro congiunzione […] non dà luogo a contraddizione». Come osserva Deleuze, «la continuità rappresenta la principale nota definitoria della compossibilità leibniziana». A. Delcò, Filosofia della differenza. La critica del pensiero rappresentativo in Deleuze, Locarno, 1988, p. 75, in relazione a G. Deleuze, Différence et répétition, Paris, 1968, p. 339.

[85] Cfr. H.-J. Hess, Methodologische Einheit und charakteristische Vielheit in Leibniz’ mathematischem Schaffen, in Unità e molteplicità nel pensiero filosofico e scientifico di Leibniz, a cura di A. Lamarra - R. Palaia, Firenze, 2000, pp. 249, 256.

[86] G.W. Leibniz, De Arte inveniendi Theoremata (1674), in Id., Sämtliche Schriften und Briefe, hrsg. Akademie der Wissenschaften der DDR, Reihe VI, Bd. III, Berlin, 1980, pp. 425-426.

[87] P. König, op. cit., p. 160.

[88] La quasi-species è un caso speciale nel senso che essa contiene l’altro non con riguardo alla sua essenza ma solo con riguardo alle sue proprietà, cioè in cases. Cfr. The Theory of Difference, ed. D.L. Donkel, New York, 2001, p. 207. Di casi-limite parlano invece R. Fabbrichesi Leo - F. Leoni, Continuità e variazione. Leibniz, Goethe, Peirce, Wittgenstein. Con un’incursione kantiana, Milano, 2005, p. 34. Cfr. infra.

[89] K. Fischer, Geschichte der neuern Philosophie, 8 Bde, Heidelberg, 1869, 2a ed., Bd. IV, pp. 349-350. Cfr. R. Fabbrichesi Leo - F. Leoni, op. cit., p. 19: «Già Aristotele, nella Historia animalium, ci dice che “la Natura passa per gradi dall’inanimato all’animato, sicché, a causa della continuità, è impossibile stabilire delle linee esatte di demarcazione tra di essi; e c’è un genere intermedio che appartiene ai due ordini”».

[90]G.W. Leibniz, Nova methodus discendae docendaeque jurisprudentiae (1667), tr. it. Il nuovo metodo di apprendere ed insegnare la giurisprudenza, a cura di C.M. de Iuliis, Milano, 2012, p. XCIII. Michele Barillari ritiene che il filosofo di Lipsia abbia attribuito alla res un’esistenza effettuale, dal momento che essa reca in sé il fine di servire a vantaggio dell’uomo. Barillari, inoltre, ipotizza che alla base del concetto leibniziano di res vi sia quello di oneri reali (Reallasten). Indicativa è la distinzione, nella Nova methodus, tra dominio utile e dominio diretto. Leibniz, in altre parole, «è ricorso ad una personificazione». M. Barillari, La dottrina del diritto di G. G. Leibniz, Napoli, 1913, pp. 69-71. Cfr. su tutto G.W. Leibniz, Il nuovo metodo, cit., pp. 64-65, 67.

[91] Cfr. G.W. Leibniz, Scritti filosofici, cit., vol. II, p. 769, circa la lettera a Varignon (cfr. sopra, nt. 75). Tornando alla materia delleReallasten, si noti che per esse fu teorizzato un diritto misto di elementi reali e personali che «non possono essere trattati come parti eterogenee del rapporto, dovendo il primo essere trattato giuridicamente come omogeneo al secondo. Essi costituiscono un Tutto non solo attraverso l’inseparabilità ma anche attraverso l’omogeneità giuridica. Di sicuro, secondo la propria natura un diritto a un fare e prestare non può mai diventare un diritto in una cosa in senso proprio, ma ben può essere pensato come pertinenza di un tale diritto e poi trattato giuridicamente come esso, considerato come una parte di esso». W.E. Albrecht, Die Gewere, als Grundlage des ältern deutschen Sachenrechts, Königsberg, 1828, pp. 167-168 (corsivo mio).

[92] Cfr. I. Kant, Critik der reinen Vernunft (1787, 2a ed.), tr. it. Critica della ragion pura, a cura di C. Esposito, Milano, 2012, 3a ed. (d’ora in poi solo CrV), pp. 485, 487, 495. Per Kant è la riflessione trascendentale, e non quella meramente logica, a implicare la distinzione della facoltà conoscitiva (sensibilità o intelletto) alla quale appartengono i concetti dati. Cfr. ivi, pp. 495, 497.

[93] R. Fabbrichesi Leo - F. Leoni, op. cit., p. 34.

[94] G.W. Leibniz, De corporum concursu (1678), in Id., La réforme de la dynamique, éd. M. Fischant, Paris, 1994, p. 146 (corsivo mio). Cfr. F. Pirro, Spontaneità e ragion sufficiente. Determinismo e filosofia dell’azione in Leibniz, Roma, 2002, p. 54: «il Leibniz maturo continuerà a definire il principio di conservazione della Forza Viva in termini di equipollenza tra causa plena (lo stato precedente) e effectus integer (lo stato successivo)». Il significato di omogonia sopra riferito proviene da B.M. d’Ippolito, Geometria e Malinconia. Mathesis e Meditatio nel pensiero moderno, Genova, 1992, p. 166.

[95] H. Wagener, Neues Conversations-Lexikon. Staats- und Gesellschafts-Lexikon, 23 Bde, Berlin, 1859-1867, Bd. XV, p. 363.

[96] Per il secolo XVIII si veda, per es., J.C. Kyber (praeside J.J. Schierschmid), Dissertatio juris naturalis. De tutela occupatitia, Ienae, 1742, pp. 22-23, sui figli abbandonati come res nullius.

[97] B.M. d’Ippolito, op. cit., p. 164. Com’è noto, «Leibniz intellettualizzò i fenomeni», dal momento che le condizioni dell’intuizione sensibile, che portano con sé le loro differenze peculiari, egli non le considerò come originarie. La sensibilità, per il filosofo di Lipsia, era una specie di conoscenza confusa e non una particolare sorgente delle rappresentazioni. Fenomeno per lui era la rappresentazione della cosa in sé stessa. I. Kant, CrV, cit., p. 497.

[98] Cfr. E. Pasini, op. cit., p. 208.

[99] Ibid.Si tratta di un brano della lettera di Leibniz a Christian Wolff pubblicata nel 1713.

[100] Cfr. E. Pasini, op. cit., p. 208. Un esempio sta in J.C. Kyber, op. cit., p. 7: «Ius educandi liberos minorennes eſt aliquod ius reale, quod magnam cum dominio habet ſimilitudinem», ma il diritto spettante ai genitori nei figli, precisa Kyber nello stesso luogo, non può consistere nel diritto di uccidere, ferire o mutilare.

[101] E. Pasini, op. cit., p. 210.

[102] R. Fabbrichesi Leo, op. cit., p. 95. Ivi la studiosa trascrive anche un passaggio della lettera di Leibniz al filosofo francese Pierre Bayle del luglio 1687: «quando i casi (o ciò che è dato) si avvicinano continuamente e si perdono infine l’uno nell’altro, bisogna che le successioni o gli eventi (o ciò che si cerca) lo facciano allo stesso modo. Il che dipende da un principio ancor più generale: Datis ordinatis, etiam quaesita sunt ordinata». Cfr. G.W. Leibniz, Scritti filosofici, cit., vol. II, p. 764.

[103] R. Fabbrichesi Leo, op. cit., p. 94. Come sarà per Kant, secondo Leibniz «la conoscenza simbolica supplisce a quella intuitiva e perfetta che l’intelligenza umana a motivo dei suoi limiti non può cogliere, ma, diversamente dal pensiero di Kant, la ratio objectiva leibniziana rimane fortemente ancorata al canone fondamentale del razionalismo moderno, secondo cui è l’idea intuita che fa vero l’oggetto determinato, e non l’oggetto che fa vera l’idea». A. Lamacchia, Percorsi kantiani, Bari, 1990, p. 59. Si ricordi che per Leibniz la cognitio symbolica è una conoscenza adeguata non intuitiva, mentre in Kant essa è opposta non alla conoscenza intuitiva ma a quella discorsiva. Cfr. I. Kant, Critik der Urteilskraft (1790), tr. it. Critica della capacità di giudizio, a cura di L. Amoroso, 2 voll., Milano, 1998, 2a ed., vol. I, § 59, p. 543.

[104] Cfr. H. Breger, op. cit., p. 116.

[105] R. Fabbrichesi Leo - F. Leoni, op. cit., p. 34.

[106] Cfr. ivi, p. 20, e K. Fischer, op. cit., Bd. IV, p. 349.

[107] E. Pasini, op. cit., p. 135 (corsivo mio). Trattasi di un passo della lettera di Leibniz a Varignon del 2 febbraio 1702. Cfr. R. Fabbrichesi Leo - F. Leoni, op. cit., p. 20: «Dal Medio Evo al ‘700, l’idea di una grande catena dell’essere composta di tanti anelli intrecciati, disposti in modo gerarchico secondo un livello di perfezione crescente, dal genere più infimo all’ens perfectissimum, è assolutamente dominante».

[108] J.G. Darjes, Discours über sein Natur- und VölkerRecht, Jena, 1762-1763, p. 103.

[109] Cfr. E. Gattico - J.-B. Grize, La costruzione del discorso quotidiano. Storia della logica naturale, Pavia, 2007, pp. 75-76.

[110] J.E. Gunner, Volständige Erklärung des Natur- und Völkerrechts. Nach denen beliebten Grundsätzen des Herrn Hofrath Darjes, 8 Bde, Jena - Frankfurt - Leipzig, 1748-1752, Bd. II, pp. 169-170 (corsivo mio). I wolffiani spiegarono in maniera simile i concetti di connessione e catena (ZusammenhangundVerknüpfung), ora ricorrendo alla nozione di predicato, in forza del quale una cosa racchiude in sé il fondamento dell’altra, ora dicendo che le cose si relazionano tra loro in modo che l’una sia il fondamento dell’altra: nexus est vel analyticus vel syntheticus. Cfr. ivi, p. 170.

[111] Cfr. G.W. Leibniz, Dissertatio de conformitate Fidei cum Ratione (s.d.), in Tentamina theodicaeae de boninate Dei, libertate hominis et origine mali, Tubingae, 1771, 3a ed., p. 227, nonché, con riguardo a Wolff, J.G. Darjes, Anmerkungen über einige Lehrsätze der Wolfischen Metaphysik, Frankfurt - Leipzig, 1748, p. 25.

[112] Cfr. J.E. Gunner, op. cit., Bd. II, pp. 171-173, e Bd. VIII, p. 7, insieme a T. Gowan, Ars sciendi sive logica, Londini, 1682, p. 36, sulla relatio mutua padre-figlio e signore-servo.

[113] Cfr. in questi termini N. Merker, L’illuminismo in Germania. L’età di Lessing, Roma, 1989, p. 107. Sul realismo di Darjes, si veda in generale J.G Buhle, Geschichte der neuern Philosophie (1800-1804), tr. it. Storia della filosofia moderna, a cura di V. Lancetti, 12 tomi, Milano, 1821-1825, tomo X, pp. 355-357.

[114] J.G. Darjes, Via ad veritatem, Ienae, 1764, 2a ed., p. 109.

[115] Cfr. Id., Anmerkungen, cit., pp. 12-13. Il tema delle modificazioni ovvero dei modi di un ente, oltre a essere legato a quello della continuità tra luoghi topici contrapposti – è il modo, in quanto limite, a determinare il rapporto d’inclusione tra un genus e la quasi-species analizzato sopra (§ 2) –, oltre a ciò, rimanda al problema della distinzione tra essentia e status, che nell’Ontologia latina di Wolff diventa ambigua a causa della rispettiva nozione di soggetto perdurabile e modificabile, che si colloca a metà strada fra il logico e il metafisico, fra l’essenza e l’esistenza, fra il concetto e l’atto. A loro volta, i rapporti fra tali termini sono saldamente congiunti al tema dell’analogia, che sarà di attribuzione o di proporzionalità a seconda del concetto di essere presupposto. Cfr. ibid., insieme a M. Campo, Cristiano Wolff e il razionalismo precritico, Hildesheim - New York, 1980 (rist.), pp. 139-140, 188. I modi di esistere, pertanto, sono anche modi di rappresentare. Cfr. infra.

[116] Cfr. J.G. Darjes, Discours, cit., p. 103.

[117] Cfr. ivi, p. 1136. Il grande problema delle catene in esame è la libertà, che Darjes considera come una capacità dello spirito diversa dalla volontà e dall’intelletto e influente su di essi. Una forza che spetta a tutte le sostanze razionali, determinata non da una causa sufficiens ma da una decisione razionale libera, secondo il principio della valutazione fine-mezzo. Egli, infatti, rifiuta la teoria dell’armonia prestabilita, che a suo avviso comporta un pieno determinismo del mondo, e collega la sua teoria della libertà a quella dell’influxus physicus. Così Id., Elementa Metaphysices commoda avditoribvs methodo adornata (1753, 2a ed.), Hildesheim - Zürich - New York, 2019 (rist.), p. 24.

[118] Cfr. Id., Institutiones iurisprudentiae universalis, Ienae, 1751, 4a ed., pp. 460-463. Già nel secolo XVII il giurista di Tubinga Wolfgang Adam Lauterbach (1618-1678) svolse un’analisi simile a quella di Darjes, ma limitatamente alla materia del giudizio (iudicium). Cfr. W.A. Lauterbach, Compendium juris, a cura di J.J. Schütz, Francofurti, 1679 (e.p.), l. V, tit. 1, p. 74, in cui è chiamato Reale o Personale il giudizio ratione objecti, a seconda che riguardi o meno iura in re e azioni reali, mentre la divisione ratione modi attiene al modo di procedere in via ordinaria o straordinaria (sommaria). Circa la probabile influenza di Lauterbach su Darjes, v. C. Ritter, Der Rechtsgedanke Kants, Frankfurt a.M., 1971, p. 331. Un altro importante precedente è la teoria delle alleanze strette da reggenti o re di territori limitrofi formulata nel 1750 dal giurista filosofo wolffiano Hermann Friedrich Kahrel (cfr. sopra), che propose al riguardo la locuzione persönlich»dinglicher Contract, quale contratto ex personali et reali mixtus, interpretabile però in due significati fra loro opposti. Cfr. H.F. Kahrel, Völker-Recht, Herborn, 1750, p. 348. Si veda su tutto G. Alimena, La Stella mirabilis di Kant. Lavori preparatori e nuove fonti, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1 (2020), pp. 232, 239.

[119] Cfr. J.G. Darjes, Institutiones iurisprudentiae universalis, cit., p. 461. Dalle ultime parole di Darjes si evince che le intersezioni sono quattro, potendo ciascun diritto ratione obiecti combinarsi con ciascun diritto ratione modi (seu subiecti), come illustrato dal teologo norvegese Johann Ernst Gunner (1718-1773), seguace di Darjes. Cfr. J.E. Gunner, op. cit., Bd. VIII, pp. 9-10, ove per ogni combinazione è fornito uno specifico esempio. Cfr. infra.

[120] «La differenza formale delle idee è quella che si desume dal modo di conoscere, mentre la differenza materiale delle idee si desume dalla materia di esse, cioè dall’oggetto che rappresentano». C.J.A. Corvinus, Institutiones philosophiae rationalis, Jenae, 1739, § 76. Ivi il testo principale di riferimento è G.W. Leibniz, De Cognitione, Veritate, & Ideis, in Acta Eruditorum, 3 (1684), pp. 537-542.

[121] Cfr. J.E. Gunner, op. cit., Bd. II, pp. 13-14, dove si richiama la distinzione generale delle idee spiegata in C.J.A. Corvinus, op. cit., §§ 75 ss.

[122] Cfr. J.G. Darjes, Introductio in artem inveniendi, Ienae, 1742, p. 486.

[123] Cfr. ivi, pp. 20-21.

[124] Cfr. Id., Institutiones iurisprudentiae romano-germanicae, Ienae, 1749, p. 16, insieme a J.E. Gunner, op. cit., Bd. VIII, pp. 11-13, e a C. Wolff, Jus naturae methodo scientifica pertractatum, 8 Bde, Francofurti et Lipsiae, Halae Magdeburgicae, 1740-1748, Bd. V, § 1457, p. 967, sull’usufrutto come jus reale, in relazione al suo oggetto, e come jus personale, in relazione alla persona cui esso spetta.

[125] J.G. Darjes, Discours, cit., p. 167.

[126] In ciò riposa la funzione della Regula secondo Darjes: «Lex est regula [...] Regula è una Propositio che indica una Relationis similitudinem, cioè una Propositio in base alla quale i Varia devono essere connessi tra loro, in modo tale che in questa relazione venga osservata una similitudine». J.G. Darjes, Discours, cit., p. 173.

[127] Id., Philosophische Nebenstunden, 4 Bde, Jena, 1749-1752, Bd. II, pp. 4-5.

[128] Cfr. J.E. Gunner, op. cit., Bd. VIII, pp. 9-10. Si osservi che Darjes definisce il diritto reale (ratione obiecti) come diritto di escludere chiunque dall’uso della cosa, mentre il diritto personale (ratione obiecti) legittima soltanto a chiedere da qualcuno la prestazione di qualcosa. Cfr. J.G. Darjes, Institutiones iurisprudentiae universalis, cit., pp. 460-461.

[129] Cfr. J.E. Gunner, op. cit., Bd. VIII, pp. 9-10.

[130] Così P. Cappellini, Systema iuris, 2 voll., Milano, 1984-1985, vol. II, p. 154.

[131] Cfr. L. Duncker, Die Lehre von den Reallasten, cit., p. 37: «un diritto può essere solo reale o solo personale, mai entrambi insieme. [Georg v.] Franzke osserva perciò, molto giustamente, inaudita est in jure nostro obligatio realis, e tanto meno c’è un diritto reale soggettivamente ovvero, il che è lo stesso, un persönlich-dingliches Recht».

[132] Grazie al contributo autorevole di Johann Wilhelm von Tevenar (1724-1797), le quattro combinazioni sopra accennate sono confluite nelle codificazionidel diritto territoriale prussiano, dall’Entwurf del 1784 all’Allgemeines Landrecht del 1794. Cfr. A. v. Daniels, Lehrbuch des gemeinen preußischen Privatrechtes, 4 Bde, Berlin, 1851-1852, Bd. I, pp. 40-41.

[133] J.G. Darjes, Introductio in artem inveniendi, cit., p. 27. A p. 35 si legge: «Omnes itaque rei characteres vel absolute necessarii vel contingentes sunt. Illi exhibent attributa & essentialia, hi vero modos». Si veda anche T. Opacher, Christian Wolff filosofo del diritto e della politica, Padova, 2013, p. 64 (in relazione a C. Wolff, Philosophia prima, sive Ontologia, Francofurti - Lipsiae, 1730, § 529, p. 411): «Mentre la perfezione essenziale inerisce all’essenza ed è quindi, come questa, necessaria, la perfezione accidentale inerisce al rapporto fra i modi e l’essenza».

[134] Cfr. J.E. Gunner, Ars heuristica intellectualis, Lipsiae, 1756, p. 24.

[135] Darjes ricorda nel suo Discorso (p. 849) che nel ducato di Mecklenburg i contadini sono servi della gleba (leibegene Bauern) privi della libertà di disporre del proprio stato.

[136] Ivi, pp. 13, 15, 17, 850, 879. Per la definizione wolffiana, v. C. Wolff, op. cit., § 705, p. 531: «Mutabilium determinatione enascitur status rei. Ut adeo Status sit coëxistentia mutabilium cum iisdem fixis». Lo status, commenta Canale, «è quindi definito da Wolff innanzitutto come la somma contingente delle determinazioni dell’ente, ovvero come co-esistenza dello stabile (attributi dell’ente) col mutevole (modi dell’ente) in base al principio di ragion sufficiente». D. Canale, op. cit., pp. 145-146.

[137] Cfr. J.G. Darjes, Discours, cit., p. 30. L’espressione permutatio status, usata nel diritto romano con riguardo alle tre fondamentali capitis deminutiones, significa mutazione totale dello stato, a differenza del termine mutatio, considerato più idoneo per descrivere una mutazione minima. Cfr. W. Rein, Das Privatrecht und der Civilprocess der Römer, Leipzig, 1858, p. 122.

[138] Cfr. J.G. Darjes, Discours, cit., pp. 31, 36-39.

[139] J.E. Gunner, op. cit., Bd. VII, p. 123.

[140] J.G. Darjes, Institutiones iurisprudentiae universalis, Ienae, 1776, 7a ed., p. 321, circa la società erile.

[141] Id., Discours, cit., p. 40.

[142] Cfr. D. Canale, Dagli stati della persona alle persone dello Stato, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1 (1998), p. 147. L’existentia dell’uomo è contingente, secondo Darjes, poiché nel concetto di uomo, e quindi nella sua natura ovvero nella sua essenzao notione assoluta, è anche possibile la sua inesistenza. Cfr. J.G. Darjes, Discours, cit., pp. 34, 36, insieme a J.G. Darjes, Institutiones iurisprudentiae universalis (1751, 4a ed.), cit., p. 6.

[143] Id., Discours, cit., p. 42 (corsivo mio).

[144] Id., Institutiones iurisprudentiae universalis (1751, 4a ed.), cit., p. 4 (ultimo corsivo mio).

[145] Si veda il § 174 (p. 143) dell’Ontologia di Wolff: «Hinc Existentiam definio per complementum possibilitatis». L’ambiguità di tale definizione ha innescato numerose interpretazioni (cfr. in generale M. Campo, op. cit., pp. 174 ss.), come quella di F.C. Baumeister, Elementa philosophiae recentioris, Lipsiae, 1747, p. 149, ove l’esistenza corrisponde allo «statum rei, quo es apta est vel ad agendum, vel ad patiendum». Importante è anche il § 14 della Metafisica tedesca (1720), in cuiWolff definisce l’esistenza come compimento del possibile (Erfüllung des Möglichen), concetto ripreso dal giovane Darjes nell’opera Lehrende Vernunft-Kunst, Jena, 1737, § 5.

[146] Cfr. C. Wolff, Jus naturae, cit., Bd. I, § 70, p. 43, insieme a Id., Institutiones juris naturae et gentium, Halae Magdeburgicae, 1750, § 96, p. 50. Cfr. T.-M. Wu, Christian Wolff, «persona moralis» y «homo moralis»: una relectura, in Glossae, 11 (2014), pp. 165-166: «aunque la ficción de homo moralis sea útil para Wolff en 1740, el término preferido de persona moralis elimina la necesidad de hacer referencia a la idea de ficción. El calificativo de moralis es suficiente».

[147] J.G. Darjes, Discours, cit., pp. 34-36, 38. Eloquente è l’esempio portato dal filosofo a sostegno della sua teoria: «Ci si chiede se abbiamo per natura una signoria sulla donna. Se ci consideriamo nello stato coniugale, allora la signoria appartiene non ad naturalia hominum absoluta ma ad naturalia hominum hypothetica». Ivi, p. 35.

[148] F.L. Marcolungo, Wolff e il possibile, Padova, 1982, p. 30. Nella stessa pagina, citando la Metafisica di Wolff (§§ 15-16), Marcolungo precisa: «la non contraddittorietà che il reale rappresenta è espressione solo della sua possibilità, non d’un suo intrinseco essere in quanto tale. L’ente infatti coincide non con il reale, ma con il possibile».

[149] M.G. Lombardo, La forma che dà l’essere alle cose, Milano, 1995, p. 51. Lombardo si riferisce alla metafisica moderna, definita anche da lui come scienza dei possibili considerati prescindendo dalla loro esistenza. Secondo l’autore (pp. 51-53), l’opera di Francisco Suárez è stata il tramite della diffusione di tale metafisica in quasi tutte le università tedesche, comprese quelle luterane, traducendosi nell’insegnamento scolastico fino a Wolff, Baumgarten, Meier e Kant.

[150] Una simile astrazione viene riferita da Darjes al diritto romano, là dove esso considera lo stato di servitù come stato contro natura. J.G. Darjes, Discours, cit., p. 556.

[151] Ivi, p. 860, conforme a C. Wolff, Institutiones juris naturae et gentium, cit., § 952, p. 588.

[152] Cfr. J.G. Darjes, Discours, cit., pp. 860-861, insieme a Id., Institutiones juris naturae et gentium, cit., § 601, p. 326.

[153] Cfr. Id., Introductio in artem inveniendi, Ienae, 1747, 2a ed., pp. 23-26, 331. Come si vedrà più avanti, il termine exhibitio ricorre anche nella conoscenza simbolica. In generale, si può dire che l’idea servi, al pari di molte altre rappresentazioni nell’anima, risponde alla confusione della realtà empirica. Chiaro segnale del capovolgimento soggettivista dell’ontologia wolffiana, ormai razionalista, mentalizzata e ridotta all’essenza. Così M. Campo, op. cit., pp. 201, 206.

[154] J.G. Darjes, Discours, cit., pp. 47, 860-861. L’argomento dell’idea servi si oppone alla communis Doctorum sententia, secondo cui lo ius vindicandi servum fugitivum presupporrebbe solo uno stato di servitù piena. Cfr. ivi, p. 861.

[155] Cfr. ivi, p. 36.

[156] J.E. Gunner, Ars heuristica intellectualis, cit., p. 24. Commentando i paragrafi del Discorso di Darjes dedicati alle tematiche in esame, Gunner parla di dominio delle persone e di servitù morale. Cfr. J.E. Gunner, Volständige Erklärung des Natur- und Völkerrechts, cit., Bd. VII, pp. 121-122.

[157] L. Mengoni, Ancora sul metodo giuridico (1983), in Id., Diritto e valori, Bologna, 1985, p. 78, insieme a G.W. Leibniz, Il nuovo metodo, cit., pp. XXXII-XXXIV, in relazione a G.W. Leibniz, Noveaux essays sur l’entendement humain (1704), tr. it. in Id., Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai - E. Pasini, 3 voll., Torino, 2000, vol. II, p. 354.

[158] L. Mengoni, op. cit., p. 84.

[159] In questi termini R. Fabbrichesi Leo, op. cit., p. 93.

[160] Così L. Laino, L’autonomia del λóγος. Esposizione della filosofia di Ernst Cassirer da un punto di vista epistemologico (tesi di dottorato), Napoli, 2013, p. 15. Esiste «un influsso ideale reciproco tra agente e paziente, per il quale ogni sostanza reca in sé traccia di quanto avveniva in tutte le altre, secondo un principio di regolazione, posto da Dio, tale da rendere possibile la comunicazione ideale di ciascuna con tutte, tanto che ogni cosa è in collegamento». L. Imperato, Dalla sostanza alla relazione: il principio della Wechselwirkung nella filosofia trascendentale kantiana, in Quaderni Materialisti, XVII (2018), p. 15.

[161] L. Laino, op. cit., pp. 19-20. La continuità «è un presupposto logico, poiché essa non deriva “dall’esperienza, ma appartiene alle direttive fondamentali [Grundregeln] che regolano [regeln] la funzione dell’esperire scientifico e l’osservare stesso”». Ivi, p. 20, con riferimento all’interpretazione di Ernst Cassirer.

[162] Ivi, p. 15.

[163] Cfr. L. Borzacchini, Il computer di Kant, Bari, 2015, p. 138.

[164] L. Couturat, La logique de Leibniz d’après des documents inédits, Hildsheim, 1961, p. 49 (tr. it. in L. Laino, op. cit., p. 78). Cfr. G.W. Leibniz, Il nuovo metodo, cit., p. LXXI: «Topicae seu artis inventivae funtamentum sunt Loci, id est Relationes trascendentes, ut Totum, Causa, Materia, Simile, etc. Et ex rebus tali aliqua relatione nexis fiunt propositiones per artem combinatoriam». Sulle finalità della topica leibniziana, nel senso di ars combinatoria, v. T. Viehweg, Topik und Jurisprudenz (1953), tr. it. Topica e giurisprudenza, a cura di G. Crifò, Milano, 1962, p. 90.

[165] Cfr. G. Lorini, Kant e Darjes fra logica e «ars inveniendi», in Kant und die Aufklärung, a cura di L. Cataldi Madonna - P. Rumore, Hildesheim - Zürich - New York, 2011, p. 282.

[166] Su tale apertura, v. S. Tedesco, L’estetica di Baumgarten, Palermo, 2000, p. 30.

[167] Cfr. G. Lorini, op. cit., p. 286, in relazione a J.G. Darjes, Weg zur Wahrheit, Frankfurth a.d.O., 1776, § 1.

[168] Cfr. J.G. Darjes, Introductio in artem inveniendi (1742), cit., p. 218, insieme a G. Lorini, op. cit, p. 283 e a F.V. Tommasi, Philosophia transcendentalis, Firenze, 2008, p. 141. In vista di quanto si dirà più avanti, si focalizzi anche la distinzione tra conoscenza intuitiva e conoscenza simbolica – che Darjes condivide – nella Metaphysica di Baumgarten: se nel congiungimento del segno al designato la chiarezza rappresentativa del designato è maggiore di quella del segno, si è di fronte a una conoscenza intuitiva; se, invece, la chiarezza rappresentativa del signum è maggiore di quella del signatum, allora la cognitio dovrà dirsi symbolica. Così F. Fraisopi, Adamo sulla sponda del Rubicone. Analogia e dimensione speculativa in Kant, Roma, 2005, p. 149, con riferimento a A.G. Baumgarten, Metaphysica, Halae Magdeburgicae, 1739, p. 153.

[169] P. Basso, Filosofia e geometria. Lambert interprete di Euclide, Firenze, 1999, p. 63, con riferimento a J.H. Lambert, Anlage zur Architectonic, 2 Bde, Riga, 1771, Bd. I, § 250, pp. 221-222.

[170] Cfr. A. Aportone, La soggettività di spazio, tempo e fenomeni secondo Kant. Idealismo o realismo?, in Leggere Kant. Dimensioni della filosofia critica, a cura di C. La Rocca, Pisa, 2007, p. 56: «le condizioni a priori della conoscenza, quelle sensibili e quelle intellettuali, hanno per noi senso e significato solo in quanto sempre già vicendevolmente mediate nell’esperienza (che precede ogni riflessione trascendentale), come elementi con funzioni diverse e irriducibili, ma complementari, di un tutto, ossia come parti di una totalità organica».

[171] Cfr. in questi termini F. Bosio, Le antinomie kantiane della totalità cosmologica e la loro critica in Hegel, in Il pensiero, 1-3 (1964), p. 50.

[172] I. Kant, Die Metaphysik der Sitten. Erster Theil, metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, Königsberg, 1798, 2a ed. (d’ora in poi solo Rechtslehre), Anhang, p. 162. Nella prima Critica, Kant chiama luogo trascendentale il posto che noi assegniamo a un concetto nella sensibilità o nell’intelletto puro. La determinazione di questo posto, spettante a ciascun concetto secondo la diversità del suo uso, insieme all’indicazione di regole per assegnare il rispettivo posto a tutti i concetti, prende invece il nome di topica trascendentale. Cfr. Id., CrV, cit., pp. 495, 497. Infatti, il luogo del diritto personale realmente o quello del diritto reale personalmente viene assegnato nella sensibilità del fenomeno domestico in virtù del collegamento insito nei rispettivi concetti, laddove il luogo di un mero diritto reale o di un mero diritto non reale è un topos assegnato all’uno o all’altro concetto nel puro intelletto.

[173] Id., Rechtslehre, cit., Anhang, p. 162.

[174] Si tratta delle combinazioni stabilite da Kant fra la tavola delle categorie (quantità, qualità, relazione e modalità) e la tripartizione dei diritti privati (1. Sachenrecht, 2. persönliches Recht, 3. dinglich-persönliches Recht), illustrate già nelle Vorarbeiten della Rechtslehre. Cfr. M. Sänger, Die kategoriale Systematik in den «Metaphysischen Anfangsgründen der Rechtslehre», Berlin - New York, 1982, e G. Alimena, La Stella mirabilis di Kant, cit., pp. 220, 242. Anche la tripartizione dei diritti soggiace alle istanze critiche, ossia alla progressione concettuale degli schemi logico-trascendentali, di cui è ben nota la struttura tricotomica e la funzione di sintesiin capo a ogni terzo elemento. Cfr. la lettera di Kant a Marcus Herz del 26 maggio 1789, sul sistema della metafisica dei costumi.

[175] I. Kant, CrV, cit., p. 567. Il concetto di un diritto personale di forma reale, scrive Kant, deve essere inserito nella Rechtslehre come problematico per l’esame della sua possibilità, stante la logica travatura (Fachwerk) della divisione secondo principi sintetici, che nel compito della metafisica «non si accontenta della dicotomia ma richiede, secondo l’ordine delle categorie, un triplice rapporto di concetti». Il diritto in una cosa e il diritto su una determinata persona esauriscono tutti gli oggetti giuridici, ma non tutte le Rechtsformen, poiché è concepibile «un diritto verso una persona secondo l’analogia di esso con un diritto verso una cosa». Bemerkungen zur Rechtslehre, in Kant’s gesammelte Schriften, hrsg. Deutschen Akademie der Wissenschaften zu Berlin, Bd. XX (Abt. III/Bd. 7), Berlin, 1942, pp. 453-454. Sui contenuti dello ius realiter personale kantiano, v. Erläuterungen Kants zu G. Achenwalls Iuris naturalis Pars posterior, in Kant’s gesammelte Schriften, cit., Bd. XIX (Abt. 3/Bd. 6), Berlin - Leipzig, 1934, Nr. 7881, p. 544: «C’è un triplice legame che deriva dalla natura dell’umanità: 1. l’uomo ha bisogno di un altro sesso; 2. egli ha bisogno dei genitori; 3. egli, infine, ha bisogno di un padrone. Tutti e tre per la sua conservazione. In tutti e tre è la dignità giuridica dell’umanità che pone a questo legame dei limiti di subordinazione. Questa dignitas iuridica è la personalitas. In conformità a essa è necessaria non la pura soggezione ma la società, cioè non ius reale nell’uomo ma ius personale. La totale spoliazione della libertà sopprime la persona».

[176] I. Kant, Rechtslehre, cit., Anhang, p. 162.

[177] Ivi, § 11, p. 81 (corsivo mio).

[178] Sulla diffusione e sull’intrinseca irrazionalità dello ius personaliter reale, v. C. v. Rotteck, Dingliches Recht, cit., p. 53.

[179] Cfr. W.T. Krug, System, cit., Teil I, p. 92.

[180] Cfr. in questi termini G. Tomasi, Sul simbolo e la realtà oggettiva delle idee, in Isonomia (isonomia.uniurb.it), 2004, p. 6, insieme a I. Kant, Critica della capacità di giudizio, cit., vol. I, § 59, p. 543.

[181] Cfr. G. Tomasi, op. cit., pp. 5-6, e I. Kant, Critica della capacità di giudizio, cit., vol. I, § 59, p. 545, sull’esempio dello stato monarchico rappresentato come un corpo animato, se dominato da leggi popolari interne, o come un mulino a mano, se dominato da una singola volontà assoluta: in entrambi i casi la rappresentazione è solo simbolica. Infatti, fra uno stato dispotico e un mulino a mano non c’è alcuna somiglianza, mentre essa ricorre fra le regole per riflettere sull’uno e sull’altro e sulla loro causalità.

[182] I. Kant, Critica della capacità di giudizio, cit., vol. I, § 59, p. 547.

[183] F. Bellucci, Il simbolo e l’icona (tesi di dottorato), Siena, 2012, p. 152, in relazione al § 59 della terza Critica. Riassumendo: l’exhibitio di un concetto consiste nell’attività di porre accanto a esso un’intuizione corrispondente, e può chiamarsi schematica, quando a un concetto puro dell’intelletto è data la corrispondente intuizione a priori, o simbolica, quando nessuna intuizione è adeguata al concetto della ragione, e allora si fa corrispondere a esso un’intuizione solo per analogia. Cfr. I. Kant, Critica della capacità di giudizio, cit., vol. I, § 59, p. 453.

[184] J.C.F. Meister, Lehrbuch des Natur-Rechtes, Züllichau - Freystadt, 1808, p. 398.

[185] Cfr. in questi termini F. Fraisopi, op. cit., p. 228.

[186] Si veda però J.H. Tieftrunk, Philosophische Untersuchungen über das Privat- und öffentliche Recht, 2 Teile, Halle, 1797-1798, Teil I, p. 342, in cui si legge che l’obbligazione attiva corrispondente al diritto personale di forma reale, teorizzato da Kant, verte non solo sulla libertà e sulla capacità altrui, ovvero sulla causalità dell’arbitrio, ma anche «sulla sostanza in considerazione dello stato». Cfr. infra.

[187] W.T. Krug, Aphorismen zur Philosophie des Rechts, Leipzig, 1800, pp. 73-74. Cfr. ivi, p. 76: «come prova della Realität del concetto di un diritto personale realmente non può essere dedotto nulla neanche dalla circostanza che, se tra due persone, che stanno in uno dei rapporti giuridici sopra citati, l’una lascia l’altra arbitrariamente (per es., la moglie il marito o il servo il padrone), chi è stato lasciato ha il diritto di ricondurre chi lascia, con la forza, nel precedente rapporto. Questo recupero non è altro che un esercizio del diritto di costringere, associato a ogni diritto, di conseguenza anche ai diritti personali, e ha con la Vindikazion di una cosa perduta o di un animale domestico scappato semplicemente una somiglianza esterna basata sulla suddetta analogia».

[188] Un coniuge può ricondurre in suo potere l’altro che sia fuggito o finito nel possesso di un terzo. Il padrone può andare a riprendere il servus fugitivus e reclamarlo da ogni possessore. I genitori sono autorizzati a ricondurre nel proprio possesso i figli loro sottratti e a impadronirsi di quelli fuggiti come cose, come animali domestici scappati, per poi recluderli. Così I. Kant, Rechtslehre, cit., §§ 25, 29-30, pp. 108, 115-116.

[189] J.S. Beck, Commentar über Kants Metaphysik der Sitten, 2 Teile, Halle, 1798, Teil I, pp. 259-260.

[190] Cfr. I. Kant, CrV, cit., pp. 265, 267.

[191] W.T. Krug, System, cit., Teil I, p. 85.

[192] Cfr. I. Kant, Rechtslehre, cit., p. III. L’avverbio sufficientemente, usato da Krug, rimanda al concetto «sufficientemente determinato» (per noi) dell’Essere supremo mediante l’analogia di proporzionalità intrinseca, di cui parla Kant nei §§ 57-58 dei Prolegomeni. Cfr. I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten können (1783), tr. it. Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, a cura di R. Assunto, Roma - Bari, 1979, §§ 57-58, pp. 125-127, nonché A. Incenzo, Il concetto di analogia in Kant secondo Eric Weil, in Studi Kantiani, XV (2002), pp. 186-196. È bene precisare che l’analogia intrinseca «considera la similitudine tra due realtà tenendo distinti, come scrive Gaetano, i loro fondamenti». Solo essa, pertanto, è adeguata «a nominare propriamente il divino». A. Incenzo, op. cit., pp. 165, 190.

[193] C. v. Rotteck, Lehrbuch, cit., Bd. I, p. 225.

[194] W.T. Krug, Aphorismen, cit., Bd. I, pp. 75-76. Si veda anche la lettera di Kant a Christian Gottfried Schütz del 10 luglio 1797.

[195] J. Ofner, Der Ur-Entwurf und die Berathungs-Protokolle des Oesterreichischen Allgemeinen bürgerlichen Gesetzbuches, 2 Bde, Wien, 1889, Bd. I, p. 213. Zeiller ha in mente, durante il citato intervento, la dottrina kantiana dei diritti personali di forma reale, da lui interpretata nel senso che coniugi, figli e servi domestici vanno considerati sì come cose (als Sachen), cioè come oggetti di acquisto e possesso, ma «soltanto in un senso improprio»: «Non le persone, ma solo il diritto su certe azioni delle persone viene acquistato e posseduto». F. v. Zeiller, Das natürliche Privat-Recht, Wien, 1802, pp. 196-197.

[196] L. Imperato, op. cit., p. 29.

[197] Secondo la materia (l’oggetto), «io acquisto o una cosa corporale (sostanza) o la prestazione (causalità) di un altro o questa stessa altra persona, cioè il suo stato, in quanto ottengo il diritto di disporre di essa (il Commercium con essa)». I. Kant, Rechtslehre, cit., § 10, p. 79. La Gemeinschaft di cui si discorre può essere definita come «commercium tra agenti che sono al tempo stesso pazienti, attivi solo perché anche patici o appassionati, così che l’essere agenti/pazienti in uno spazio comune è ciò a partire da cui è pensabile un’identità che si rapporti all’alterità non come suo opposto, ma come suo correlato costituente». L. Imperato, Tra esperienza e pensiero: azione reciproca e ontologia della relazione nell’idealismo trascendentale kantiano e nella dialettica materialistica, in Ontologia relazionale. Ricerche sulla filologia classica tedesca, a cura di A. Carrano - M. Ivaldo, Napoli, 2019, p. 131.

[198] Cfr. in generale A. Pirni, Morale e comunità in Kant a partire dal “regno dei fini”, in Studi Kantiani, XIV (2001), pp. 113-114, 120. Si tratta di una soluzione fondamentale, testimoniata dalla recezione diffusa dello ius realiter personale kantiano nel primo Ottocento, in seno alla pandettistica di Georg Arnold Heise (1778-1851), a vari diritti positivi e a numerosi sistemi giusfilosofici postkantiani. Cfr. G. Alimena, La persona come cosa nel secolo XIX. Alcuni esempi di reificazione «civile» dopo Kant, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2 (2017), pp. 315 sgg.

[199] Cfr. in generale I. Kant, Opus postumum, Roma - Bari, 2004, p. 228.

[200] Cfr. F. Suárez, Disputationes, cit., disp. 44, pp. 662, 664-666.

[201] Cfr. I. Kant, Rechtslehre, cit., § 26, p. 110.

[202] Cfr. in questi termini C.B. Munegato, Johann Schultz e la prima recezione del criticismo, Trento, 1992, pp. 163-164, sulla lettera di Kant a Johann Schulz del 17 febbraio 1784.

[203] Cfr. in questi termini ivi, p. 163. Viene in mente, al riguardo, il tratto peculiare della Zeichenkunst perfetta (caratteristica e scientifica) indicata da Johann Heinrich Lambert (1728-1777), cioè il c.d. zugleich mitgezeichnet, l’indicare più cose contemporaneamente con un solo segno: «Ciò avviene tramite l’attribuzione di significato alla posizione reciproca dei segni tra loro, grazie a una sintassi significativa, capace anche di impedire le combinazioni che non sono lecite». P. Basso, op. cit., p. 235.

[204] Cfr. J.H. Tieftrunk, Philosophische Untersuchungen, cit., Teil I, pp. 312, 411.

[205] Cfr. in generale F. Bellucci, op. cit., pp. 111, 114, 157, sulla distinzione kantiana tra immaginazione riproduttiva e immaginazione produttiva, nonché sulla sfiducia di Kant nei confronti delle possibilità sintetiche della logica formale e della scienza generale dei segni o characteristica.

[206] Cfr. I. Kant, Rechtslehre, cit., § 22, p. 105, insieme a Id., CrV, cit., p. 215.

[207] Id., CrV, cit., p. 415.

[208] Id., Rechtslehre, cit., § 41, p. 156 (corsivo mio). Sulla concordanza appena indicata e sul rapporto tra il giudizio disgiuntivo e i concetti di coordinazione e subordinazione, v. Id., CrV, cit., p. 215.

[209] In questi termini F. Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, Roma, 2005, pp. 151-152. Fabrizio Sciacca osserva in proposito che Schiller si richiama al concetto kantiano di homo noumenon (lo stato morale quanto all’intenzione), non soggetto ad alcun mutamento temporale. Cfr. F. Sciacca, Il concetto di persona in Kant, Milano, 2000, p. 60.

[210] Non si tratta cioè dell’apparenza estetica indicata da Schiller, dell’apparenza in quanto tale, che il soggetto distingue da ogni ente (Wesen): «il che vuol dire distinguere lo stesso essere-fenomeno del fenomeno (Erscheinung) dal suo mero esserci (Daseyn)». A. Ardovino, Il sensibile e il razionale. Schiller e la mediazione estetica, in Aesthetica Preprint, LVI (2001), p. 58. La Gestalt, in Schiller, è un «concetto che raccoglie sotto di sé tutte le caratteristiche formali delle cose e tutte le relazioni di esse con le forze del pensiero». Ivi, p. 40.

[211] Cfr. F. Schiller, op. cit., p. 231.

[212] Cfr. in questi termini T. Morawski, La questione dell’ordine spaziale nel pensiero di Kant (tesi di dottorato), Roma, 2016, p. 68, sulle Reflexionen aus Kant’s handschriftlichem Nachlaß (Logik), in Kant’s gesammelte Schriften, cit., Bd. XVI (Abt. III/Bd. 3), Berlin, 1924, Refl. 2854-2855, p. 547. In vista di quello che si dirà fra poco, bisogna anche sottolineare la grande importanza del principio kantiano della permanenza della sostanza nelle mutazioni, sottolineata in C. Luporini, Spazio e materia in Kant, Firenze, 1961, pp. 332-335.

[213] Cfr. F. Schiller, op. cit., pp. 222, 228, circa il rapporto tra mondo materiale esteriore e immaginazione. Si tenga presente che per Kant la capacità di giudizio adatta l’immaginazione all’intelletto, evitando così che essa, nel suo procedere libero, produca assurdità. L’immaginazione può essere sì produttiva ma non creatrice, poiché «deve ricavare la materia delle sue rappresentazioni dai sensi». C. La Padula, Immaginazione e intelletto nella Critica del Giudizio, in Immaginazione, oggettività e significato, a cura di A. Pisani, Pisa, 2018, pp. 29-30.

[214] La sintesi figurata sta al servizio della exhibitio e consente alle categorie, in quanto semplici forme del pensiero, di acquistare realtà pratica, cioè applicazione a oggetti dati nell’intuizione come fenomeni. Cfr. sopra, § 4.1.

[215] Questo è il significato dei termini Art e species in J.G. Darjes, Weg zur Wahrheit, cit., p. 34. Cfr. J. Grimm - W. Grimm, Deutsches Wörterbuch, Bd. I, Leipzig, 1854, pp. 534-535: «Art, s. natura, genus, indole, modus» o «natürliche Beschaffenheit», «species».

[216] I. Kant, CrV, cit., p. 951. Non è casuale che tra i molteplici esempi di recezione del diritto personale di species realevi siano tentativi di chiarirne il significato sostituendo la parola Art – senz’altro ambigua – con termini in apparenza meno equivoci, come Character, Qualität o Beschaffenheit, i quali, però, hanno finito per creare maggiore confusione. Cfr. G. Alimena, La “reale natura” dei diritti domestici secondo Kant, cit., pp. 130-131.

[217] Uno dei passaggi più importanti della Rechtslehre è quello in cui Kant scrive che il dinglich persönliches Recht si erge al di sopra di ogni diritto reale e personale, in quanto diritto dell’umanità nella nostra persona, inalienabile e personalissimo. Esso permette infatti di acquistare un’altra persona come se fosse una cosa, come mezzo per il mio fine, ma con l’obbligo di non recare offesa alla sua personalità. Ecco perché il titolo d’acquisto dello status di un ente domestico è colto da Kant nella lege (atto di un arbitrio onnilaterale), quale incondizionatoche ha per conseguenza una legge permissiva naturale, grazie al cui benestare ci è reso possibile un tale acquisto. Cfr. I. Kant, Rechtslehre, cit., §§ 22-23, p. 106, e Anhang, pp. 164-165.

[218] J.G. Darjes, Introductio in artem inveniendi (1742), cit., pp. 34, 319-320, 382.

[219] Cfr. in generale ivi, pp. 48-53. È importante sottolineare che le categorie, per Kant, «sono il limite intellettivo del limite sensibile, entro cui l’io è considerato non come generante i concetti (tutto l’ambito psicogenetico è al di fuori della prospettiva trascendentale), ma come l’unità formale in cui essi si trovano. Le categorie non sono una realtà astratta dalla esperienza o poste come ipotesi, ma sono presupposti come fatti intellettivi, come l’imperativo categorico della ragione pura pratica. La deduzione trascendentale ha solo il compito di dimostrare che non si può pensare senza di esse come non si può sperimentare al di fuori del tempo e dello spazio». U. Pellegrino, La filosofia trascendentale e l’« Opus postumum » di Kant, in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 4 (1958), p. 357 (corsivo mio).

[220] Cfr. I. Kant, Prolegomeni, cit., § 18, p. 55. Per Darjes la verità, nel suo significato generale, consiste solo in «ciò che è pensabile senza contraddizione». M. Albrecht, Wahrheitsbegriffe von Descartes bis Kant, in Die Geschichte des philosophischen Begriffs der Wahrheit, hrsg. M. Enders - J. Szaif, Berlin, 2006, p. 246.

[221] I. Kant, CrV, cit., p. 317.

[222] P. Carabellese, La filosofia dell’esistenza in Kant, Bari, 1969, p. 230.

[223] Di questa totalità organica fanno parte la categoria intellettuale della comunanza, l’ipotiposi simbolica, il giudizio disgiuntivo e la ragione morale-pratica, oltre, naturalmente, all’esperienza. Si tratta però di un processo conoscitivo complicato dal rapporto che intercorre tra la categoria pura della comunanza e il giudizio disgiuntivo. Cfr. I. Kant, CrV, cit., pp. 213, 215: «Solo per una categoria che si trova sotto il terzo titolo, e cioè per la comunanza, non salta subito agli occhi in che modo essa concordi con la forma corrispondente nella tavola delle funzioni logiche – vale a dire con il giudizio disgiuntivo –, come invece accade per la altre categorie».

[224] Mi riferisco al concetto kantiano di uso (acquisto) reciproco degli organi sessuali, nel corso del quale è possibile, grazie alla reciprocità, che ciascun coniuge si renda cosa (con il corpo) conservando la propria personalità. Cfr. I. Kant, Rechtslehre, cit., § 25, p. 108.

[225] F. Semerari, Il gioco dei limiti. L’idea di esistenza in Nietzsche, Bari, 1993, p. 8. Cfr. ibid.: «Da Kant in poi, nella Modernità, il principio del limite, così assunto, è stato sempre più riconosciuto come elemento essenziale di ogni posizione di pensiero che pretenda di definirsi critico. Sono la ricerca e la coscienza del limite che fissano il passaggio dalla ragione dogmatica alla ragione critica».

[226] V. Possenti, Il nuovo principio persona, Roma, 2013, p. 49.

Alimena Guido



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