Oltre i confini della retorica. Comunicazione e manipolazione
Umberto Vincenti*
Oltre i confini della retorica.
Comunicazione e manipolazione**
English title: Beyond the boundaries of Rethoric. Communication and manipulation
DOI: 10.26350/18277942_000205
Sommario: 1. La nuda comunicazione. 2. Il metodo d’Ippocrate. 3. La persuasione e i furbi. 4. Oltre la retorica. 5. Filosofia dell’influenza. 6. Un pianeta di ‘ciurmatori’.
una vera arte del parlare […] che non abbia
relazione con la verità, non c’è e non ci sarà mai
(Platone, Fedro)
che infiniti lo credevono sanza avere visto
cosa nessuna straordinaria, da farlo credere;
perché la vita sua la dottrina e il suggetto
che prese, erano sufficienti a fargli prestare fede
(Machiavelli, Discorsi)
- La nuda comunicazione
La comunicazione – la nuova comunicazione nei nuovissimi contesti della contemporaneità – è parola, e soprattutto concreta realtà consegnata ai mezzi mediatici, che esige di far parte per sé sola. Si è autopromossa perché non vuol più essere un mero mezzo di trasmissione del pensiero. Si è resa indipendente, costruendosi un suo codice senza limite, funzionale cioè anche al conseguimento della persuasione a prescindere. Per questo è nuda comunicazione: la consistenza o l’attendibilità del contenuto del messaggio offerto in comunicazione possono ben essere eluse quando l’impegno sia principalmente quello di catturare, carpire, padroneggiare l’altrui volontà.
In questa non rara eventualità lo scopo è captatorio e ingannatorio: anche quando non si menta e non si introduca la menzogna a bella posta, è regolare l’omissione di ciò che il destinatario dovrebbe necessariamente sapere per orientarsi correttamente. E la fisicità, di cui è intrisa la comunicazione tecnologica dei nostri giorni, offre un contributo talora determinante, almeno in certe situazioni.
Ci si rivolge principalmente o esclusivamente alle emozioni perché prendano il sopravvento e oscurino, soddisfacendolo all’apparenza, il desiderio di conoscenza[1]. Scompare, meglio è abiurata, una collaudata disposizione metodica: quella pratica che ordina il ragionamento e il discorso[2], che «impedisce di parlare al di fuori dell’oggetto»[3], che ammonisce a non deviare l’ascoltatore, chiunque esso sia, «portandolo all’ira, alla paura o all’inimicizia»[4]. L’eclissi di questa disposizione oscura l’intelligibile: siamo condotti ai confini della retorica, anzi oltre la retorica.
In questo quadro il discorso che segue baderà, più che alla metodica scientifica, alla dimensione politica dell’informazione nel contesto del modello di stato costituzionale oggi in essere in Occidente. Laddove la partecipazione dei cittadini alle dinamiche del potere sia consustanziale, la correttezza dell’informazione è essenziale e a questo fine essa deve uniformarsi a un certo protocollo che, così inteso, potremmo anche chiamare metodo, la cui genesi resta strettamente legata alla retorica e la cui articolazione, a sua volta, corrisponde al miglior codice retorico: da questo punto di vista si può dire che vi sia una certa comunanza con il metodo scientifico[5]. Con questa premessa, il nostro discorso assumerà inevitabilmente anche una valenza giuridica, quella connessa ai modi dell’informazione quali sono usualmente fissati nelle costituzioni, e nella Weltanshauung, dell’Occidente contemporaneo e, purtroppo, sempre più spesso ignorati o elusi.
- Il metodo d’Ippocrate
Entriamo allora nelle terre di Pheito, la dea greca della pura persuasione, spesso associata ad Afrodite, la dea dell’amore: quella persuasione che si trasforma in seduzione. Per questo l’ammaliatrice Pheito è considerata una divinità demoniaca. Entriamo nell’oltre-retorica. Nel Fedro Socrate si offre di farci da guida: proviamo allora a seguirlo.
Qui vien meno ogni relazione con la verità. Non c’è metodo. Socrate prova a renderci coscienti: senza metodo non potremmo mai acquisire la conoscenza delle cose per poi diffonderla e insegnarla. Socrate ci rivela che il metodo è quello d’Ippocrate e questo è perfetto anche per il buon retore[6]: si conosce dividendo l’oggetto con arte, sia questo il corpo o la psiche, e poi ricomponendo il tutto in unità[7], vuoi per somministrare le medicine corrette, vuoi per comporre il discorso corretto[8]. Lo stesso è per il diritto, come hanno dimostrato i giuristi romani che, dividendo, hanno costruito il diritto romano[9]; e, nel concreto, sezionando il caso da decidere, se ne impadronivano e, dalle sue circostanze, individuavano la migliore soluzione compatibile[10].
Un metodo per costruire il sapere e le vie del sapere, un metodo per fronteggiare e risolvere i molteplici casi della vita. Ma nell’oltre-retorica non c’è spazio né per il «tocco della verità»[11], né per l’episteme, il sapere certo, che si oppone all’opinione del singolo[12]. Socrate, che ci accompagna, ci incalza: nell’oltre-retorica, nelle terre della pura persuasione, dove regna la comunicazione senza pensiero e senza responsabilità, potrai credere di trovarti di fronte a un medico sol perché uno ha orecchiato qualcosa da un libro o si è casualmente imbattuto in un rimedio, in un farmachos[13].
Socrate a questo punto ci avverte. È necessario che questa esemplarità metodica si trasformi in metodica generale dell’indagine e della trasmissione della conoscenza: perché «ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo non sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro argomento»[14]. È un richiamo indiretto anche alla necessità che i procedimenti siano assolutamente trasparenti e non nascosti o camuffati.
Ciò rappresenta, in poche battute, uno statuto che ha sì una valenza conoscitiva, ma anche etica; e nel Fedro si aggiunge un’avvertenza significativa in ordine ai discorsi, occorre stare cauti perché lo strumento della persuasione è manipolabile dai «furbi»[15]. Senza metodo, senza conoscenza ed esercizio, ci ammonisce Socrate, saremo facile preda di falsi sapienti o di informatori che disinformano: gente astuta, scaltra, dissimulatrice[16] o, semplicemente, ignorante, dalla quale non ci dobbiamo assolutamente far persuadere.
Insomma c’è una dimensione metodica dentro la quale dobbiamo stare se non vogliamo andare pericolosamente oltre: nelle terre dei manipolatori, forgiatori di opinioni improbabili e di non-verità. In queste terre siamo fuori dal metodo. Uscendone lo lasceremo, ma non lasceremo la comunicazione, che resterà di conseguenza, cioè sola con sé stessa: quel che, ai nostri giorni, la comunicazione esige.
- La persuasione e i furbi
Lasciamo Socrate e affidiamoci alla guida di Aristotele. La ‘retta via’ è, però, la medesima. Laddove «non c’è esattezza, ma incertezza nelle opinioni»[17], la manipolazione è in agguato. Nella Retorica, in un passo su cui giustamente si è richiamata l’attenzione[18], l’invito a star cauti è perentorio[19]: il destinatario del discorso dovrà guardarsi da quei «furbi», dei quali già Platone aveva denunciato la pericolosità. Nel regno di Pheito l’homo suadens ci potrà aiutare nell’assumere una decisione esclusivamente se sarà un uomo onesto perché «in quest’arte […] l’ethos porta quasi la prova più forte»[20]. E noi, continua Aristotele, nelle questioni opinabili siamo indotti a credere «di più e più facilmente alle persone oneste», cioè a coloro che non adoperano strategicamente la furbizia o l’inganno[21].
Ma quali sono gli indici di riconoscibilità della persona onesta? Aristotele non lo dice. Non è però dubbio che anche per lui l’onestà restava una virtù che aveva a che fare con la veridicità e la sincerità[22]; e in quanto virtù essa non si sarebbe potuta esaurire in singole, estemporanee, manifestazioni, occorrendo che essa integrasse, anche in conseguenza di un impegno costante, un carattere dell’uomo appunto onesto.
Nella dimensione aristotelica l’homo suadens è un comunicatore; ma la sua onestà, la sua qualità morale, precede la comunicazione e si concretizza nei discorsi. La credibilità è nel suo carattere, è a lui intrinseca: per Aristotele la comunicazione sarà tanto più efficace quanto più elevato sarà il patrimonio di credibilità che il comunicatore sia riuscito a costruirsi nel tempo; mentre, nella nostra contemporaneità, questo patrimonio, per quanto reale esso sia, non basta ex se, essendo sempre più necessario che sia riconosciuto dall’interlocutore per divenire effettivo[23]. Evidente che la menzogna, almeno se rivelata, distrugge la credibilità; e per questo il comunicatore deve essere onesto.
- Oltre la retorica
Aristotele ci dice di più, ci porta ai confini della retorica, anzi al di fuori di essa: dalle forme del pensiero a quelle della seduzione. «Crediamo» – egli scrive – «quando noi supponiamo che qualcosa sia stato dimostrato»[24]. Com’è stato annotato, l’ambito è quello «di ciò che può essere diversamente da come è»: esso è sì esemplificato dalla retorica, «ma non coincide unicamente con l’ambito della retorica»[25]. Vale a dire: talora o per taluni un ragionamento pur cogente dal punto di vista logico, idoneo cioè ad implementare oggettivamente la conoscenza, può non bastare o essere inutile se l’ascoltatore non sia disposto ad accettarlo. Ma i cacciatori di opinioni sanno che l’ascoltatore sprovveduto, se avrà la dispositio a credergli, accetterà il dictum anche nel caso estremo, quando qualunque dimostrazione sia impossibile: ecco che siamo fuori dalla retorica, ma dentro la comunicazione[26].
Nell’oltre-retorica possiamo trovare anche il medico e il paziente oppure l’avvocato e il cliente. D’altronde, sia la medicina che la giurisprudenza sono entrambi – con notazioni diverse – saperi fallibili: hanno natura congetturale. Anzi la relazione medico-paziente è sempre stata avvertita come paradigmatica di uno schema verticale di potere basato sul carisma del guaritore. Nel Gorgia leggiamo un bell’esempio dell’efficacia della comunicazione nell’ambito extra-retorico della seduzione. Gorgia riferisce di avere spesso accompagnato Erodico, suo fratello medico, e altri medici al letto di malati che rifiutavano le cure farmacologiche o chirurgiche; e che, però, egli riusciva a persuadere, con la terapia verbale, ad accettarle[27]. Parole che ammaliano e incantano prevalendo sul sapere tecnico: come quelle che sapeva usare Antifonte sofista, che con esse curava i sofferenti, anche se poi egli finì con il ritenere «quest’arte indegna di lui» e allora «si volse alla retorica»[28].
- Filosofia dell’influenza
Nel XIV secolo il padovano Pietro d’Abano pubblicava il Conciliator, un’enciclopedia medica dove si delinea una filosofia dell’influenza: l’influenza è ricercata e attuata dall’incantatore, uno scaltro e pieno di empatia, il quale ha bisogno dell’incantato, uno «pieno di desiderio e interamente disposto affinché l’azione cada come in materia preparata»[29]. L’incanto è un discorso persuasivo che crea nell’incantato una costrizione a compiere un atto volontario: un fenomeno la cui origine è puramente mentale.
Questa filosofia dell’influenza ai medici interessa parecchio. Ecco che, tra il 1504 e il 1507, Andrea Cattaneo – medico presso l’Ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze e professore di filosofia nello Studio fiorentino – pubblica un opuscolo intitolato Opus de intellectu et de causis mirabilium effectuum[30]. Analizza una serie di casi reali recenti e considera fenomeni di persuasione. Si può persuadere, egli scrive, attraverso l’incantatio, consegnata alla parola; o la fascinatio, generata dalla vista. Anche Cattaneo sottolinea la relazione necessaria di reciprocità: determinante è la credulitas, la disposizione a credere da cui discende il patto di credenza.
La tematica è poco dopo ripresa e sviluppata da Pietro Pomponazzi, professore di filosofia a Padova e Bologna, che pubblica, nel 1520, il De incantionibus: sono più disposti all’incantamento, egli scrive, vulgares et qui rerum causa non cognoscunt i quali, oltre ad essere corredati dell’indispensabile credulitas, sono naturalmente forniti di vis immaginativa[31].
L’incanto può operare nella relazione uno a uno, specie se verticale, come tra medico e paziente; ma anche in relazioni più estese, tra un incantatore e una moltitudine, massa particolarmente atta al recepimento. In questa seconda relazione entriamo – Pheito fa il suo ingresso – nel mondo della politica. Machiavelli, che aveva letto Cattaneo, se ne serve per descrivere (ma anche per spiegare) quel che a Firenze era accaduto con il frate Savonarola: una gran folla di individui, «involti dalla sua parola»[32]; e «infiniti lo credevono, sanza avere visto cosa nessuna straordinaria da farlo loro credere»[33]. Savonarola aveva un carisma magnetico: il popolo suggestionato politicamente grazie a una certa forma di parola, ma anche grazie al suo “carattere”, «come» – scriveva Pomponazzi – «accade al ferro che per virtù ricevuta dal magnete ha la capacità di attrarre a sua volta altro ferro»[34]. Non diversamente Machiavelli parlando di Savonarola: «’e si trova in questa nostra città, calamita di tutti i ciurmatori del mondo»[35]. Ma già allora era lucidamente avvertito che la prima difesa stava nell’acculturamento diffuso perché, suggeriva Pomponazzi, la credulitas è generata dal non cognoscere, dall’essere vulgares[36].
- Un pianeta di ‘ciurmatori’
La scarsa qualità dell’udienza apre le porte alla pseudo-dimostrazione e ne estenderà l’ambito di azione, implementando le possibilità della manipolazione. Resta da vedere se, nel frattempo, ci siamo acculturati a sufficienza: se, come singoli e come comunità, siamo divenuti sufficientemente consapevoli e immuni da malie di varia origine e incidenza. A questo punto il ritorno al presente rappresenta un passaggio inevitabile, e finale, del nostro discorso.
Per Machiavelli gli incanti di Savonarola avrebbero avuto successo a Firenze perché questa città sarebbe stata accogliente per «i ciurmatori del mondo». ”Ciurmatore” è l’incantatore e anche l’ingannatore e l’impostore[37]: termine in uso in Italia dal Quattrocento, è un derivato dal francese charmer, il cui significato è appunto sedurre, incantare, affascinare. Per Machiavelli, «Firenze è fondato sotto un planeta che simili huomini vi corrono, e sonvi uditi volentieri»[38].
Qualcuno avrebbe potuto pensare che con l’Illuminismo il tempo dei ciurmatori sarebbe finito, che essi si sarebbero ridotti al massimo a una specie in via di estinzione. Non è così. L’abbraccio fanatico con le dittature novecentesche e il fanatismo ancora diffuso, seppur in misura ineguale, in qualunque luogo del mondo provano inequivocabilmente come, anche in Occidente, siamo scoperti e disponibili agli incantamenti più devianti (e deviati).
La nostra autonomia di orientamento vacilla facilmente; e siamo preda di emozioni incontrollabili e, conseguentemente, di astuti e cinici manipolatori. Se la retorica ha conosciuto un’inattesa nuova stagione, almeno a livello generale, cioè fuori dall’ambito degli studi specialistici, essa si è tuttavia presentata nella veste convenzionale già criticata da Aristotele[39]: quella che vorrebbe suscitare emozioni come ira, compassione, benevolenza nelle o contro le persone esulando dalla questione trattata per fare – delle emozioni intendo – l’unico decisore. Invece anche le emozioni sono influenzabili, e governabili, dalla ragione; e solo la retorica bene intesa sembra adatta fornire un codice di condotta adeguato a ricercare un equilibrio, indispensabile in democrazia, tra esercizio della razionalità ed elementi emotivi[40].
Oggi il mondo, e non solo Firenze, è terra di ciurmatori: non una città o una nazione specifica e concreta, ma l’universo, generale e astratto, dell’internet. Gli spazi interessati dai ciurmatori del pianeta sono sì, e prima di tutto, quelli privati: consiliatori e venditori di infiniti beni materiali e di benessere fisico e mentale, la cui credibilità è quasi sempre non testata, ignote molto spesso anche le persone degli offerenti. Ma questa cifra comunicativa tende a coinvolgere anche lo spazio pubblico: l’informazione quotidiana, e pure la comunicazione ufficiale, non ne sono esenti.
Chi ci informa, per dovere istituzionale o professionale, deve essere credibile. La credibilità non può, però, dipendere dalla nostra disposizione a credere o, almeno, solo da questa: perché noi siamo portati naturalmente a credere a chi appartenga al nostro orizzonte valoriale o al nostro ambiente. La credibilità deve avere una sua oggettività, una qualità che dipende dalla disposizione verso di essa da parte di chi informa: scrivendo, parlando, muovendosi nello spazio pubblico, da indipendente e da informato, cioè da competente.
La retorica classica consegna ai nostri Stati repubblicani, democratici, costituzionali moduli discorsivi adeguati all’attività e di informazione e (poi) di deliberazione. Alcuni, fondamentali, sono stati qui messi in evidenza: se non è mai bastevole la «disposizione naturale alla retorica»[41], determinanti saranno il «tocco della verità»[42] insieme al «sapere certo (episteme) e all’impegno»[43]. Ma, con Aristotele, dovremmo concludere che, su tutto, sarà sempre cruciale l’ethos – la disposizione all’onestà – di orientatori, consiliatori, informatori, infine decisori.
Abstract: The rhetorical code is certainly the basis of contemporary communication, but there is a danger that the latter tends to break the thread in order to construct its own code, with emotions at the center and manipulation as the goal.
Key Words: emotions, rhetoric, persuasion, manipulation, honesty.
* Università di Padova (umberto.vincenti@unipd.it)
** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review. Relazione inaugurale del IV Convegno Diritto e Clinica, tenuta nell’Aula Magna dell’Università di Padova il 30 settembre 2024.
[1] In punto, e più in generale sulle emozioni nei processi di persuasione, C. Raff, L’arte di suscitare le emozioni nella Retorica di Aristotele, in «Acta Philosophica», 2, 14, 2005, pp. 313-326. Il che non significa affatto che l’oratore non deve ‘lavorare’ con le emozioni; solo che la retorica dialettica (quella patrocinata da Aristotele) «non distrae dalla questione specifica trattata, ma sfrutta invece il potenziale persuasivo insito nella cosa stessa di cui si parla, ragion per cui anche il processo di persuasione in linea di principio diventa pertinente alla questione trattata».
[2] Arist., Rhet. 1354 a, 4-7: «tutti infatti sino a un certo punto si occupano di indagare su qualche tesi e di sostenerla, di difendersi e di accusare. Senonché la maggior parte fa ciò spontaneamente, alcuni invece lo fanno per una pratica che proviene da una disposizione».
[3] Arist., Rhet. 1354 a, 22-23: «come avviene nell’Areopago».
[4] Arist., Rhet. 1354 a, 23-24 (25: «sarebbe come se uno pervertisse la regola di cui deve servirsi»). Qui Aristotele si riferisce specificamente al discorso il cui destinatario sia il giudice (l’Areopago appunto).
[5] Arist., Rhet.1354 a, 1-3: «La retorica è analoga alla dialettica: entrambe riguardano oggetti che, in certo modo, è proprio di tutti gli uomini conoscere e non di una scienza specifica».
[6] Plat., Fedr. 270 b: «lo stesso procedimento dell’arte medica lo ritroviamo nell’arte retorica». In punto, M. Vegetti, La medicina in Platone, in «Rivista di storia della filosofia», 24, 1969, pp. 3-22. Più in generale, sull’analogia tra retorica e medicina, S. Di Piazza, F. Di Piazza, Il sapere congetturale tra medicina e retorica. Un’indagine su semeion e tekmerion, in I nomi del male. Pensare, nominare e curare la malattia «genetica» dai Greci a noi, a cura di M. Capocci, M. Cilione, F. Giorgianni, il Mulino, Bologna 2019, pp. 281-310.
[7] Plat., Fedr. 265 e – 266 a-b: «proprio di questo io sono amante, Fedro, delle divisioni e delle unificazioni, per poter parlare e pensare».
[8] Plat., Fedr. 270 b: «salute e forza mediante farmaci e nutrimento» da una parte; «persuasione e virtù desiderate mediante i discorsi in accordo con le norme» dall’altra.
[9] Su ciò, sintesi in U. Vincenti, Metodologia giuridica, Cedam, Padova 2008, pp. 23-40.
[10] Sulla tecnica diaretica, anche in relazione alla costruzione di un sistema giuridico, come realizzata dai giuristi romani, mi permetto di rinviare ancora al mio Categorie del diritto romano. L’ordine quadrato5, Jovene, Napoli 2024, pp. 7-10.
[11] Plat., Fedr. 260 e: «una vera arte del parlare, dice lo Spartano, che non abbia relazione con la verità, non c’è e non ci sarà mai».
[12] Plat., Fedr. 247 d-e; 268 b; 269 e.
[13] Plat., Fedr. 268 c.: «ha forse sentito parlare di un libro, o si è imbattuto in qualche farmaco, e quindi si crede medico, mentre nulla sa della techne».
[14] Plat., Fedr. 271 c. Il verbo ricorrente è pethein, persuadere.
[15] Bell’esempio in Fedr. 260 b: Socrate e Fedro non conoscono il cavallo, ma Fedro crede che il cavallo sia l’animale domestico con le orecchie più lunghe; e allora Socrate ne approfitta a scopo esemplificativo, chiamando cavallo l’asino e facendo credere a Fedro che si tratti dell’animale più utile in casa come in guerra.
[16] Costoro, pur conoscendo molto bene l’arte, «sono portati a dissimulare; perciò […] non lasciamoci convincere da loro, credendo che scrivano con arte» (Plat., Fedr. 271 c).
[17] Arist., Rhet. 1356 a, 4.
[18] Da. F. Piazza, Retorica vivente. Un approccio retorico alla filosofia del linguaggio, in «Rivista italiana di filosofia del linguaggio», 9, 2015, pp. 238-239.
[19] Arist., Rhet. 1356 a, 4-13.
[20] Arist., Rhet. 1356 a, 5.
[21] Arist. Rhet. 1356 a, 4.
[22] Implicitamente, però, in Rhet. 1354 a, 26-28: «è evidente che il compito del contendente non è null’altro all’infuori del dimostrare che il fatto e non è, è avvenuto o non è avvenuto».
[23] Cioè non è soltanto una caratteristica personale, ma anche relazionale (G. Gili, La credibilità. Quando e perché la comunicazione ha successo, Rubettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 3-18, ove pure si indicano le radici della credibilità nella competenza del persuasore, nei suoi valori, nell’affetto che lo lega all’interlocutore).
[24] Arist., Rhet. 1355 a, 5-6. Analogamente, Arist., Rhet. 1356 b, 28,31:«il persuasivo è persuasivo per qualcuno ed è persuasivo e degno di fiducia o immediatamente e di per sé oppure per il fatto che si ritenga che sia mostrato attraverso cose di tal genere». Su ciò, S. Di Piazza, Fiducia e argomentazione. Una prospettiva aristotelica, in «Rivista italiana di filosofia del linguaggio», 6, 2012, pp. 1-12.
[25] Di Piazza, Fiducia, cit., p. 6.
[26] Questi cacciatori di opinioni sono duramente criticati da Aristotele, che altrettanto duramente critica i suoi predecessori circa le tecniche da loro usate per far presa sulle emozioni: l’oratore può far uso delle emozioni, ma lo deve fare in modo metodico. Cioè correttamente vale a dire non oscurando od obliterando la questione dibattuta per dedicarsi solo alle emozioni e alla loro manipolazione: «un oratore che seguisse tale impostazione potrebbe infatti mettere ad esempio in risalto gli aspetti riprovevoli di un comportamento riprovevole di determinate persone e con ciò spingere i giudici a una decisione che appare però giustificata anche da un punto di vista obiettivo» (Rapp, L’arte, cit., p. 315).
[27] Plat., Grg. 456, su cui F. D’Alfonso, Platone, Antifonte e la medicina di Zalmossi, in «Studi italiani di filologia classica», 19, 2001, pp. 77-78.
[28] Antiph. 87 A 6 D.-K, su cui D’Alfonso, Platone, cit., pp. 79-80.
[29] Cito da S. Landi, Guaritori del popolo. Le radici moderne del populismo (Machiavelli, Pomponazzi, La Boétie), in «Teoria politica», 12, 2022, 237
[30] Su cui, Landi, Guaritori, cit., pp. 240-243. Adde: S. Landi, La questione della persuasione in Machiavelli, in «Nuova informazione bibliografica», 15, 2018, pp. 481-483; nonché I due corpi della moltitudine. Su un concetto chiave della critica machiavelliana, in «Storia del pensiero politico», 3, 2020, pp. 21-22, dove anche si accenna ad Avicenna per il quale «la persuasione (dispositio) del paziente sul proprio stato di salute è spesso lo strumento più efficace di cui dispone il medico», come dimostra l’omeopatia, affidata a «un fenomeno puramente mentale come l’autosuggestione».
[31] Landi, Guaritori, cit., p. 241; I due corpi, cit., pp. 22-26.
[32] N. Machiavelli Opere letterarie, a cura di L. Blasucci, Adelphi, Milano 1964, p. 240.
[33] N. Machiavelli, Discorsi 1.11.25.
[34] Cito da Landi, Guaritori, cit., 243.
[35] N. Machiavelli, Lettere, a cura di F. Gaeta, Feltrinelli, Milano 1981, p. 308 (‘ciurmatore’: dal francese charmer).
[36] Landi, I due corpi, cit., pp. 23-24.
[37] Landi, Guaritori, cit., pp. 230-231.
[38] Machiavelli, Lettere, cit., p. 313.
[39] Aristotele, si è visto, patrocina invece una retorica diversa, di tipo dialettico (Rapp, L’arte, cit., pp. 313-316).
[40] Passioni, pensiero e riflessione «al servizio di un’agenda democratica» (M. Serra, Retorica, argomentazione, democrazia. Per una filosofia politica del linguaggio, Aracne, Roma 2017, p. 159).
[41] Plat., Fedr. 260 e (sopra riprodotto).
[42] Plat., Fedr. 260 e; nonché 262 a («chi non conosce la verità, ma va a caccia di opinioni ci procurerà un’arte dei discorsi ridicola e senza tecnica»).
[43] Plat., Fedr. 269 e.
Vincenti Umberto
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