Note sulla dimissione del Vescovo dallo stato clericale
Giuseppe Sciacca
Segretario del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica
Note sulla dimissione del Vescovo dallo stato clericale*
Remarks about the loss of the clerical state of a Bishop
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. La disciplina secondo il Codice del 1917. 3. La disciplina attuale. 4. Una lacuna? 5. Tra diritto canonico ed ecclesiologia. 6. Munus et exercitium muneris. 7. Alcune incomprensioni. 8. La funzione della pena. 9. Il diritto alla pena 10. Perplessità e preoccupazioni. 10. Conclusioni.
- Introduzione.
Hanno suscitato le seguenti riflessioni e stimolato il desiderio di ulteriore approfondimento alcuni recenti eventi ecclesiali e provvedimenti pontifici, che a sommesso avviso di chi scrive possono risultare gravidi di conseguenze e rappresentare, altresì, delicate e problematiche interferenze con quella che è la divina, irreformabile costituzione della Chiesa e l’ecclesiologia, siccome essa promana soprattutto - come vedremo - dal Concilio Vaticano II e dalla imponente riflessione teologica che ne è schiettamente derivata[1].
Si diceva: riflessioni e voglia di approfondire.
Sì, poiché, in estrema sintesi, quel che si intende qui rappresentare è una non lieve (e assai sofferta) perplessità circa la reale, legittima possibilità che un Vescovo possa essere dimesso dallo stato clericale; o, quanto meno, nel caso che la legittimità di siffatto provvedimento non risultasse esclusa, qui si intende evidenziare la veemente non opportunità dello stesso.
L’evento ecclesiale, e la relativa decisione pontificia, di cui si tratta, infatti, riguarda la dimissione dallo stato clericale dei Vescovi cileni Cox Huneeus e Ordenes Fernandez, e dell’ex Cardinale statunitense McCarrick[2].
È fuor di dubbio - ed è bene dichiararlo sin da subito per sgombrare, ab imo fundo, il campo da ogni fraintendimento o equivoco e sottovalutazione del dolore delle vittime - che le ragioni che hanno motivato la decisione pontificia sono gravissime e non possono ormai essere misconosciute o sottovalutate: il recente summit pastorale voluto a Roma dal Santo Padre con i Presidenti delle Conferenze episcopali di tutto il mondo, alcuni Capi Dicastero della Curia Romana, altri esperti e rappresentanti delle vittime, lo dimostra in maniera irrefutabile.
Le presenti riflessioni intendono piuttosto declinarsi essenzialmente sul fronte canonico e su quello ecclesiologico.
2. La disciplina secondo il Codice del 1917.
Il CIC prevede, quale massima tra le pene espiatorie irrogabile a un chierico, la dimissione dallo stato clericale, in precedenza più impropriamente definita «riduzione allo stato laicale».
Si nota, obiter e celermente, senza volersi qui impancare in questioni teoriche de jure condendo, che tale pena è, suapte natura, per lo meno problematica, concettualmente confliggendo con la dottrina dell’indelebile carattere sancita dal Concilio di Trento, confermata dal Vaticano II e dal vigente CIC.
Lo status infatti esprime, per definizione, la permanente, consolidata, irreformabile configurazione e situazione di un modo d’essere, della realtà ontologica, cioè dell’essere, e intervenendo il carattere, integra la dimensione di intatta, intangibile “staticità” o stabilità sacramentale.
«Stato clericale e ordine sacro sono espressioni correlative, che si richiamano a vicenda, ma enunziano anche due concetti distinti. Lo stato clericale indica per sé una situazione ecclesiastica essenzialmente giuridica; l’ordine, invece, determina una condizione sacramentale di natura ontologica, che trasforma soprannaturalmente l’uomo nel suo essere, costituendolo “ministro sacro” e abilitandolo ad agire “in persona Christi” (can. 1008). Di conseguenza, la sacra ordinazione, che, come il battesimo e la confermazione, imprime nell’anima un carattere indelebile (can. 1008), una volta ricevuta validamente non può mai venir meno né essere annullata, mentre si può decadere dallo stato clericale, che è uno stato giuridico, con propri obblighi e diritti, sancito nell’ordinamento della Chiesa. A un ministro sacro - afferma in conseguenza il can. 1338 - si può proibire di esercitare la potestà di ordine o di porne alcuni atti, ma non lo si può privare della potestà che ha ricevuto nella sacra ordinazione, e gli atti da lui posti saranno sempre validi, anche se gravemente illeciti a causa del divieto»[3].
In altri termini, con le necessarie catechetiche esplicitazioni, dimissione dallo stato clericale significa uscita dal coetus esterno, dall’ordo inteso come gruppo, categoria etc.
In ogni caso la discordanza fra status ontologico e status giuridico indotta da tale situazione è manifesto sintomo di una patologia.
Invero, non è senza significato che il CIC del 1917 prevedesse la dimissione dallo stato clericale sic et simpliciter solo per i chierici in minoribus (cf. can. 132 § 2, 136 § 3, 141 § 2, 648, 2358, 2387); per i chierici in sacris, vel in maioribus (suddiacono, e per quelli in cui il sacramento dell’ordine ricevuto: diacono e soprattutto presbitero e vescovo, produce l’indelebile carattere), erano previsti i due istituti della depositio (che equivale pressappoco all’odierna rimozione dall’ufficio) e la degradatio,che poteva essere verbale, inflitta cioè con provvedimento scritto, o reale, allorquando veniva irrogata nella drammatica solennità del Pontificale romano: epperò anche quest’ultima - seppur pena estrema - non integrava un’uscita, peraltro metafisicamente impossibile, considerato, come si è visto, il carattere permanente, dallo stato sacramentale ontologico, bensì dal ceto, dal gruppo, tanto che la massima conseguenza era la proibizione dell’uso dell’abito ecclesiastico, la perdita del privilegium canonis et fori, tuttavia pur sempre «solo remanente charactere ordinis indelebilis»[4].
Invero, non esiste un vero e proprio argomento storico a sostegno dell’impossibilità di togliere a un vescovo lo stato clericale, tanto che l’antico Pontificale Romanum astrattamente prevedeva il relativo rito per i vescovi e finanche per i metropoliti. I precedenti normativi risalgono fino all’età post-apostolica (cf. i Canones Apostolorum); poi nei secoli più recenti si erano tradotti essenzialmente nella privazione del privilegium fori, con la consegna del degradatus al braccio secolare. Questo aspetto, peraltro, è certamente superato dalle circostanze storiche (vedasi ad esempio il doloroso caso del Cardinale Pell), e ciò rappresenta argomento utile per sostenere l’inopportunità/inutilità, attualmente, dell’istituto della riduzione allo stato laicale, anche se - va riconosciuto - non dimostra in maniera cogente che la sua applicazione in tempi passati sia stata reputata irrationabilis.
Ci si muoveva, peraltro, in un ambito teologico ben caratterizzato: «in Occidente c’è stata la tendenza a considerare il sacramento dell’Ordine soprattutto in rapporto al potere cultuale e specialmente quello di consacrare l’Eucaristia […]. Tutto ciò che concerneva invece i poteri sul Corpo Mistico che è la Chiesa, sembrava dover rimanere al di fuori del sacramento dell’Ordine propriamente detto»[5].
Pertanto anche la degradatio, per quanto applicabile ai Vescovi, andava forse letta essenzialmente in questa ottica della privazione del potere di giurisdizione, in una prospettiva quindi essenzialmente giuridico-disciplinare, lasciando in ombra, in qualche modo, la radice sacramentale di quel potere, ora rimessa nella giusta luce dalla teologia del Vaticano II, come si vedrà più avanti.
3. La disciplina attuale.
Ciò premesso, veniamo all’odierno ordinamento.
Invero, il can. 290 prevede che il chierico (senza ulteriori specificazioni, poiché si diventa chierici col diaconato) possa essere dimesso dallo stato clericale; epperò, quando lo stesso canone al n. 3 esemplifica la perdita dello stato clericale per rescritto della Sede Apostolica, così recita: «tale rescritto viene concesso dalla Sede Apostolica ai diaconi soltanto per gravi cause, ai presbiteri per cause gravissime».
Si impongono alcune considerazioni.
Il termine chierico, che ricorre nel CIC centinaia di volte, non sempre è comprensivo - eccetto sporadicamente, come, ad esempio, al can. 207, laddove si ribadisce la distinzione di diritto divino tra chierici e laici - di «Vescovo», bensì soltanto di presbitero e di diacono.
Per lo più, infatti, allorquando si vuole indicare il «Vescovo», questo termine (o l’equivalente Praesul), ricorre esplicitamente[6]. E’, comunque, solo il Vescovo che ha il potere di costituire i chierici nel loro stato.
Ciò premesso, e in stretta logica conseguenza, allorquando - come si diceva - al n. 3, il can. 290 esemplifica, dice esplicitamente del diacono e del presbitero, ma tace del tutto del Vescovo.
Dubitativamente e in ambito, comunque, di provvedimento grazioso, così scrive L. Chiappetta: «Il canone non accenna ai Vescovi, poiché ad essi un rescritto del genere, anche se possibile, di fatto non viene dato»[7].
Afferma, al riguardo, il Cardinal Velasio De Paolis: “Nella normativa e nella prassi non è presa in considerazione la possibilità di una dispensa per un chierico che sia costituito nell’ordine episcopale”[8].
Torna, pertanto, in mente il principio classico, secondo il quale «Quod Lex dicere voluit, dixit; quod dicere noluit, tacuit».
Purtuttavia a livello di normativa speciale nel m. p. Sacramentorum sanctitatis tutela (che risulta essere stato applicato nei casi citati all’inizio dell’esposizione, in particolare l’art. 21, § 2, n. 2) espressamente vengono menzionati fra i soggetti passibili di procedimento penale e di applicazione delle pene ivi previste « i Padri Cardinali, i Patriarchi, i Legati della Sede Apostolica, i Vescovi, nonché le altre persone fisiche di cui al can. 1405 § 3 del Codice di Diritto Canonico e al can. 1061 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali».
4. Una lacuna?
Ma poniamo il caso che, nel Codice, si possa essere trattato di una lacuna legis. Procediamo allora come previsto dal can. 19 nei confronti delle lacune legislative.
Ebbene: ferma restando l’inapplicabilità del diritto suppletivo in materia penale, facendo ricorso alle fonti c.d. sussidiarie, la giurisprudenza, la prassi della Curia Romana e i precedenti in materia son chiarissimi e inequivocabili.
Il Papa San Paolo VI non concedeva il rescritto di dispensa, et quidem nemmeno in grazia, non solo ai Vescovi, ma neanche agli Abati e ai Superiori maggiori degli Istituti clericali.
Gli unici precedenti - per fortuna sporadicissimi ma egualmente sfortunati (caso Milingo in poenam; Lugo in gratiam: il che cambia toto coelo la prospettiva) - son da far risalire al Pontificato di Benedetto XVI, invero troppo pochi per poter costituire un criterio ermeneutico nei confronti dell’eventuale lacuna di cui si diceva, e comunque si tratterebbe di quella exceptio quae firmat normam.
5. Tra diritto canonico ed ecclesiologia
Trascorrendo ora dal versante canonico a quello propriamente ecclesiologico, credo sia sufficiente far riferimento a Lumen Gentium nn. 19 ss., nonché a Christus Dominus nn. 2 ss., limpidamente recepiti e risuonanti nel can. 375.
«Uno è costituito membro del corpo episcopale in virtù della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica col capo del collegio e con le sue membra» si legge in LG 22, e nella stessa Costituzione dogmatica al n. 21: «La consacrazione episcopale conferisce pure, con l’ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e governare; questi però, per loro natura, non possono essere esercitati se non nella comunione gerarchica col capo e con le membra del collegio».
Così commenta il Chiappetta: «[I Vescovi] ricevono la loro potestà - il loro triplice “munus” - mediante la stessa consacrazione. È questa, infatti, che conferisce ai Vescovi la pienezza del sacerdozio, imprimendo in essi un carattere sacramentale proprio, che li costituisce maestri e pontefici “in persona Christi”, e, come tali, li inserisce nel corpo episcopale […].
Di conseguenza, la potestà che hanno i Vescovi - anche quella di governo - non deriva loro dal Romano Pontefice, ma attraverso la consacrazione sacramentale, dallo stesso Cristo, di cui sono in senso proprio “vicarii” (Lumen Gentium, n. 27, 1)».[9]
D’altro canto, «per l’effettiva appartenenza al Collegio [dei Vescovi], non è sufficiente la consacrazione episcopale; si richiede anche la “comunione gerarchica” col Capo e con gli altri membri (Lumen Gentium, n. 22, 1: can. 336). Ciò significa che, se i poteri episcopali hanno come fonte radicale, ontologica, la consacrazione sacramentale, il loro esercizio richiede la mediazione ecclesiale, vale a dire la “determinazione giuridica” - la missio canonica - da parte dell’autorità gerarchica: nel caso dal Romano Pontefice, Capo del Collegio Episcopale.
È questo il senso - annota da ultimo l’Autore - del n. 2 della “Nota esplicativa previa”»[10] annessa alla Costituzione Lumen Gentium.
Quindi, perché la consacrazione episcopale sia non solo valida ma lecita si richiede la comunione gerarchica col Capo del collegio e con le membra. Una volta avvenuta, essa è irreversibile e produce l’irreversibile inserimento del soggetto nel Collegio. E il Collegio - sia pure con la necessaria interpretazione autentica fornita dalla Nota praevia[11] - non è una metafora, bensì una realtà istituzionale e giuridica.
Pertanto, ne consegue che il venir meno della comunione gerarchica, per un provvedimento penale da parte del Pontefice, non può, retroattivamente agendo, provocare, per così dire, l’espulsione dal Collegio, nel quale si è stati - et quidem irrevocabilmente - inseriti in forza della consacrazione sacramentale, bensì solo inibire l’esercizio dei corrispondenti munera, come peraltro recepito dal § 2 del can. 375.
Sacramento e diritto - quindi - qui si compenetrano intimamente.
Interessantissimo al riguardo il voto di Mons. Giovanni Antonio Facchinetti (poi papa Innocenzo IX) al Concilio di Trento: «Dum creamur et consecramur episcopi, contrahimus duplex vinculum, alterum cum ecclesia particulari, cui sumus praefecti … alterum cum ecclesia universali, quae una est, et cuius episcopatus unus est … Illud vinculum cum ecclesia particolari contractum dissolubile est voluntate papae; alterum vero contractum cum ecclesia universali minime, sed perpetuum indissolubile est»[12].
In altri termini, la partecipazione al Collegio - una volta avvenuta validamente e lecitamente la consacrazione episcopale - è parimenti ontologica e giuridica.
Invero, per intendere in pienezza il dettato conciliare, la sua novità soprattutto circa la sacramentalità della consacrazione episcopale che conferisce la pienezza del sacramento dell’ordine (LG n. 21), e soprattutto per coglierne integralmente la ratio, conviene tener presente gli schemi preparatori a suo tempo pubblicati dal P. Umberto Betti, O.F.M., poi Cardinale: «praeterea Episcopus consacratus ita charactere sacramentalis ordinis ornatur, ut numquam simplex sacerdos vel laicus rursus fieri possit»[13]. Così, scriveva a commento, tra l’altro, lo stesso P. Betti: «Ne è prova il fatto che il Vescovo non è mai stato ridotto alla stato presbiterale, anche quando ciò avrebbe evitato tanti mali alla Chiesa»[14].
Per la chiarezza di linguaggio e di concetto le surriferite citazioni non necessitano di commento alcuno.
6. Munus et exercitium muneris.
Un facile contraddittore potrà obiettare che tutto ciò attiene all’indelebile carattere, e non già all’esercizio del munus (can. 1008).
Giustissimo! Non senza significato, infatti, il can. 375, § 2 parla dell’irreversibile effettodella consacrazione episcopale, il cui solo esercizio può essere inibito dalla mancanza di comunione gerarchica con il Capo del Collegio episcopale, il Romano Pontefice.
Commentando il testo di LG 22 il p. Lécuyer annotava acutamente: «Si osservi la formulazione: che la consacrazione conferisca l’ufficio o la funzione di santificare, è supposto come evidente, dal momento che essa conferisce il sacramento dell’Ordine nella sua pienezza […]. L’affermazione del Concilio Vaticano II indirizza dunque direttamente sulle funzioni di insegnamento e di governo, che sono conferite anch’esse con la consacrazione»[15].
Mentre così spiegava il requisito della hierarchica communio e gli effetti del suo venir meno: «Vi è senza dubbio una unità dell’episcopato che è procurata dall’unità del sacramento e dalla partecipazione alla medesima grazia episcopale. Però non potrebbe bastare: infatti, la grazia ricevuta e i poteri che quelle comportano sono ordinati a stabilire, conservare e rafforzare l’unità della Chiesa nel perseguimento della sua missione. È quindi necessario che il loro esercizio si svolga nell’unità visibile del Corpo apostolico continuato nell’episcopato. Una comunione di cuore o di sentimento non potrebbe bastare; è necessaria una comunione gerarchica, cioè che manifesti l’accettazione della coordinazione voluta da Cristo fra i membri del Corpo episcopale, e della subordinazione al successore di Pietro da parte degli altri membri del Collegio.
Voler usare i poteri ricevuti con la consacrazione al di fuori di questa comunione gerarchica, significa voler agire contro la natura stessa di questi poteri, che sono dati da Cristo per essere esercitati nell’unità del Collegio Apostolico; significa dunque, mettersi al di fuori del Collegio, separarsi, nel momento stesso, dal Collegio. Quando Nestorio rifiuta di sottomettersi agli avvertimenti di Cirillo d’Alessandria e di Celestino I, questi lo previene che egli si separa dall’insieme del Collegio, perché non può essere in comunione con i suoi membri; e quando egli si rifiuta di presentarsi al Concilio di Efeso, rinuncia, per così dire, all’ufficio episcopale.
Si deve dunque fare distinzione tra la funzione (munus) e l’esercizio di questa funzione: la consacrazione conferisce le funzioni episcopali, e quindi anche i poteri episcopali, perché siano esercitati nella comunione gerarchica. Questa distinzione è frequente in S. Tommaso a proposito del potere di Ordine; ma va notato subito che, con l’espressione “potere di Ordine”, S. Tommaso intende non solo il potere di conferire i sacramenti, ma ogni potere conferito con una consacrazione; di tale natura è il potere episcopale di agire “in persona Christi” sulla Chiesa, un potere di ordine che rimane perpetuamente anche se il vescovo per qualche ragione è stato deposto, o si è egli stesso separato con lo scisma, benché allora ne perda l’uso, cioè il diritto di usarne»[16].
Sembrerebbe, peraltro, che la modalità tipica di perdita della communio sia un volontario distacco dalla comunione con il Capo e le membra del Collegio, più che l’imposizione di una pena; gli esempi storici in cui si fa riferimento - saltem analogicamente - a una “uscita” dal Collegio episcopale attengono essenzialmente ad atti di iniziativa del Vescovo - per così dire - “auto-escluso”, che si pone sicuramente nella condizione di non dover usare il potere (anche di giurisdizione) conferitogli con la consacrazione.
Giova ricordare a questo punto che la stessa Nota esplicativa previa reca a conclusione un “Nota Bene” che avverte: «Senza la comunione gerarchica l’ufficio sacramentale ontologico, che si deve distinguere dall’aspetto canonico giuridico, “non può” essere esercitato. La commissione ha pensato bene di non dover entrare in questioni di “liceità” e “validità”, le quali sono lasciate alla discussione dei teologi», specialmente con riguardo alla situazione degli Orientali separati. Gli Orientali, infatti, non fanno parte del collegio episcopale poiché - seppur sacramentalmente valida - la loro consacrazione episcopale mancava funditus dell’imprescindibile requisito della hierarchica communio, anche se a tale riguardo la Nota praevia si astiene dall’esprimersi[17].
Prescindendo dalla motivazione specifica che ha indotto a questa precisazione, la stessa, giusta, esitazione a tracciare un limite netto fra la validità e l’invalidità dell’esercizio consente di porsi la questione della decisività dell’un elemento (la consacrazione sacramentale) rispetto all’altro (la communio hierarchica che si esprime nella missio canonica), ai fini della partecipazione ontologica all’ordo episcopalis.
I due requisiti - osserva ancora il Betti - non sono sullo stesso piano: il primo è causa efficiente (il testo dice: «in forza della consacrazione sacramentale»), il secondo è condizione indispensabile (il testo dice: «mediante la comunione»). Si ripete quindi quanto accade nella consacrazione che conferisce la pienezza di munus, mentre la comunione è soltanto la condizione per il suo esercizio.[18]
Paucis e in estrema sintesi: la dimissione dallo stato clericale inflitta a un Vescovo confligge fatalmente con l’oggettiva permanenza dello stesso nel Collegio episcopale, malgrado l’esercizio delle funzioni gli sia inibito (cfr. can. 375 § 2).
La consacrazione legittima, infatti, opera un’irreversibile incorporazione del consacrato nel collegio episcopale, che, come si diceva prima, è ontologica e giuridica insieme[19].
7. Alcune incomprensioni.
Mutando la prospettiva, e ponendosi nell’ottica del santo popolo fedele - il cui “fiuto” o sensus fidei, come ammonisce opportunamente Papa Francesco[20], deve far da guida agli stessi Pastori - è agevole constatare come le sottili distinzioni teologico-canoniche, così come la permanenza del carattere malgrado e dopo la c.d. dimissione dallo stato clericale, non sono attualmente comprese. Ciò se da un lato dipende dalla stessa stretta la connessione (arctissima coniunctio) che intercede tra carattere indelebile, cioè sfera ontologica e munus, suo esercizio, dall’altro trova eco nella pubblica opinione, che non esita a qualificare la dimissione dallo stato clericale in maniera assai sbrigativa: donde l’inquietante ritorno, anche in fogli di grande prestigio, dell’espressione spretato, spregiativa e forse anche lesiva degli stessi diritti umani di chierici, pur colpevoli, se colpiti dalla dimissione.
Né, invero, nei commenti ufficiali che sono seguiti alla dimissione dell’ex Cardinale McCarrick, nessuno ha ribadito la permanenza del carattere sacramentale e nessuno si è preoccupato di ricordare il dettato del can. 976, che pone in capo al sacerdote dimesso l’obbligo di ascoltare la confessione di qualcuno che versa in periculo mortis, anche in presenza di un sacerdote approvato.
Per cui, quel che ormai passa nell’immaginario collettivo, purtroppo anche ecclesiale, è che il sacerdozio sia una funzione temporanea, conferita ad tempus o ad nutum poiché suscettibile di esser revocata - seppur per motivi gravissimi -; e se ciò, come si diceva sopra, appare problematico per i presbiteri, può risultare parossistico ed eversivo per i Vescovi, ove si consideri che il provvedimento è preso da Chi - Titolare del Primato, e nella pienezza della giurisdizione - è pur sempre sacramentalmente un loro pari grado.
Né potrebbe tale argomento essere considerato meramente sociologico. Il fatto che il popolo non colga la sottile distinzione è sì un problema di catechesi, ma di tale gravità da far apparire tale intervento, se non formalmente incoerente col sistema teologico-canonico, certamente del tutto inopportuno e pericoloso.
In effetti, il rischio devastante è che ciò si possa tradurre in una vera e propria erosione del sacramento dell’ordine, che, viceversa - come ben sappiamo - è misticamente, soprannaturalmente e anche in maniera storica positivamente verificabile ed esperibile, il legame che collega la Chiesa, attraverso l’ininterrotta successione apostolica, al suo Divino Fondatore.
8. La funzione della pena.
Ed allora, quid faciendum di fronte a così gravi delitti, se perpetrati da un chierico, Vescovo compreso?
Ritengo che andrebbe attentamente considerato il principio della gradualità e proporzionalità della pena, ove soprattutto si pensi che la dimissione dallo stato clericale è, per coloro ai quali viene inflitta, una vera e propria sententia capitis, che sta finendo per assumere, mediaticamente, tutte le caratteristiche di una vendetta, mentre si perde di vista quel che ogni pena - dopo Beccaria! - deve essenzialmente e prioritariamente essere: rieducativa e realisticamente espiativa, allorquando le oggettive condizioni anche anagrafiche di colui alla quale viene inflitta, possano consentirlo (cf. can. 1341).
E ciò appare tanto più doveroso e coerente, allorquando - come nel momento presente e mai prima come adesso - provvidenzialmente la Chiesa col suo Capo Visibile è seriamente impegnata nella lotta per l’abolizione della pena di morte e dell’ergastolo, come il Santo Padre Francesco giustamente non ha esitato ad affermare: «Una pena senza futuro, una condanna senza futuro non è una condanna umana: è una tortura»[21].
Va aggiunto, per notizia storica, che la degradatio - l’unica pena del vecchio ordinamento che potesse integrare l’attuale dimissione dallo stato clericale - a giudizio di Benedetto XIV non fu mai applicata per il crimen della sollicitatio ad turpia in confessione[22].
Pena certamente severa da applicarsi preferibilmente ai presbiteri e, certamente, per i Vescovi, potrebbe essere la suspensio a tempo indeterminato (can. 1333 § 1-2, can. 1312 § 1 n. 1, e altre limitazioni quali l’obbligo di residenza, il divieto di usare le insegne etc., come avvenuto per l’Arcivescovo di Agaña, Mons. Apuron); il che eviterebbe formidabili rischi per l’integrità del sacramento dell’ordine e del carattere ontologico, come sopra si è tentato di descrivere.
La sospensione ha il pregio di essere una pena medicinale, il che evita l’eco vendicativa anche presente nelle pene c.d. espiatorie e, soprattutto, il rischio di abuso di potere, e consente, altresì, di mantenere una qualche forma di giurisdizione sulle persone cui viene inflitta, cercando di evitare, tra l’altro, la recidività con la possibilità di accompagnamento, controllo, aiuto, etc.: ciò che, per ovvie ragioni, è impossibile compiere nei confronti di chi è dimesso dallo stato clericale.
9. Il diritto alla pena.
Punire, dunque, sì; non solo le vittime ne hanno diritto, ma anche il reo ha diritto alla pena, come ha scritto in indimenticabili e sapientissime pagine F. Carnelutti[23], ma pur sempre all’interno di un sistema che non rinunci a fondamentali garanzie, senza le quali l’ordinamento giuridico cessa di esser tale, quali la presunzione di non colpevolezza, il diritto di difesa, la irretroattività della legge penale positiva, a meno che successivamente al reato non sia stata promulgata una pena più mite, in forza del principio del favor rei, la necessità della raggiunta certezza morale prima di profferir condanne e, certo non per ultima, la prescrizione, siccome radicata, seppur mediatamente, nel diritto naturale medesimo.
A suo tempo, non si è mancato di avvertire, salva debita reverentia, alcune perplessità nei confronti di taluni recenti provvedimenti legislativi, soprattutto per la funzione del Vescovo diocesano, per il quale, tra l’altro, si faceva riferimento al can. 193, che afferisce alla generica rimozione dagli uffici, mentre quello del Vescovo diocesano è ufficio primario ex iure divino, e il Vescovo può finir di essere considerato alla stregua di un funzionario della Santa Sede e non già quello che il Vaticano II indelebilmente scolpisce: «Episcopi Ecclesias particulares sibi commissas ut vicarii et legati Christi regunt […] neque vicarii Romanorum Pontificum putandi sunt» (LG 27).
Con conseguenze rischiose non solo per i singoli Vescovi, e le varie Chiese particolari coinvolte, ma anche per la stessa Santa Sede, che la c. d. accountability, in subiecta materia, fatalmente comporta alla luce di una pretesa responsabilità aziendale, del principio che «non poteva non sapere», e del «respondeat superior», che contraddice all’irrinunciabile principio della civiltà giuridica secondo il quale la responsabilità penale è personale.
10. Perplessità e preoccupazioni.
In conclusione, si ritiene che la presenza del su esposto dubbio positivo - attesa la formidabile gravità della materia - dovrebbe suggerire prudenza e cautela, magari in attesa di ulteriore chiarificazione e approfondimento giuridico-teologico.
Ma oltre a codeste perplessità in puncto iuris, altre ve ne sono, di carattere maggiormente pratico, che dovrebbero comunque indurre a maggior cautela nell’erogazione della c.d. dimissione dallo stato clericale nei confronti di chi è insignito della pienezza del sacerdozio.
Una preoccupazione che in particolare si vuole qui esternare ed è il rischio, non aleatorio, che qualche Vescovo maggiormente “reattivo” possa rispondere, polemicamente e violentemente, procedendo a conferire delle ordinazioni episcopali, che seppur illecite sarebbero parimenti valide, con le conseguenze che è facile immaginare.
È pur vero che una simile reazione è ipotizzabile anche nel caso di applicazione di altri e meno drastici provvedimenti, pur tuttavia è lecito ipotizzare che una più grave sanzione possa più facilmente provocare una “proporzionata” reazione.
In conclusione se non si può forse sostenere una vera impraticabilità teologico-canonica della dimissione dei vescovi dallo stato clericale, si ravvisano tuttavia, di certo, molti e gravi argomenti per riconoscerne l’inopportunità.
10. Conclusioni.
A questo punto sia consentita, quasi a mo’ di corollario, qualche riflessione sulle Note di Benedetto XVI, pubblicate nell’aprile 2019, in merito al fenomeno della pedofilia nella Chiesa. Joseph Ratzinger procede a lucidissima diagnosi quanto alle cause di natura culturale o para-culturale che avrebbero remotamente e meno remotamente determinato la lamentevole deriva morale nel clero: permissivismo sfrenato, erotismo dilagante, trionfo incondizionato delle tesi di Marcuse e, più da presso, cioè nel nostro ambito, una teologia morale che, in nome di un ottimismo di maniera, rinunciava a distinguere fra bene e male, lecito e illecito e si faceva - per così dire - solamente o prevalentemente “narrativa”, così finalmente superando il deprecato dualismo o dicotomia anima-corpo, di matrice platonica ed estraneo - si diceva - alla genuina tradizione biblica, e la conseguente sessuofobia che albergava negli ambienti ecclesiali.
Nondimeno, col dovuto rispetto e l’affetto di filiale gratitudine a Benedetto XVI, v’è un punto, invero a giudizio di chi scrive non secondario, nel quale non è possibile seguirlo ed è quando egli afferma che vi fu - nell’approccio ai casi di pedofilia nel clero - un eccesso di garantismo.
«Ormai - scrive J. Ratzinger - era considerato “conciliare” solo il così detto “garantismo”. Significa che dovevano essere garantiti soprattutto i diritti degli accusati e questo fino al punto da escludere di fatto una condanna».
Non si trattò affatto di garantismo - che è una categoria o, meglio, un modo di essere necessario di ogni sano, corretto, evoluto sistema giuridico - bensì della totale colpevole assenza di ogni e qualsivoglia ricorso ad un rimedio giuridico, segnatamente all’interno del diritto penale canonico, a causa del diffuso, pervasivo pregiudizio (anzi totale ostracismo) antigiuridico (e antiromano) presente in tantissimi e autorevolissimi protagonisti di quegli anni, che univano in un unico durissimo giudizio di condanna persone e ambienti, dal Cardinal Ottaviani alla c. d. Scuola Romana, per non parlare della Curia Romana, nel tentativo ora subdolo, ora clamoroso (vedi Hans Küng) di paralizzarne e colpevolizzarne perfino l’autoconsapevolezza identitaria, oltre che le funzioni istituzionali ed ecclesiali, come più volte e accoratamente denunciato da Paolo VI; pregiudizio che sostanzialmente perdurò fino alla promulgazione del Codice di Diritto Canonico da parte di Giovanni Paolo II nel 1983, così finalmente venendo fuori da quella che il Segretario di Stato Cardinal Agostino Casaroli, nel solenne Discorso rivolto a Giovanni Paolo II in occasione della promulgazione del nuovo Codice, - con finezza - non avrebbe esitato a definire “incertezza del diritto” e “pratica anomia”[24], iniziata coi lavori di revisione del Codice, peraltro sapientemente annunciata dal buon senso pastorale di Giovanni XXIII, in una con l’indizione del Concilio Ecumenico e del Sinodo Romano.
A quel pesante clima di autentica intimidazione anti-giuridica e anti-romana qualcuno, autorevolissimo, reagì: penso a Hans Urs von Balthasar (Il complesso antiromano), e allo stesso Ratzinger, i quali diedero vita - ma siamo sul versante schiettamente teologico e non canonico - alla rivista Communio.
Quindi non si trattò di eccesso di garantismo a favore dei colpevoli (rectius: degli accusati), bensì della totale assenza di un intervento di natura giuridica, e ahimè, si deve aggiungere che di eccessive garanzie (ma le garanzie se son tali non sono mai eccessive, bensì sempre e solo fisiologiche e, quindi, necessarie!) non si trova traccia né nel primo intervento legislativo in materia - Sacramentorum sanctitatis tutela del 2001 - né ancor meno nelle Norme successive del 21 maggio 2010, allorquando non solo si è ipertroficamente allungato il termine di prescrizione, giungendo financo a prevedere la dispensa dalla prescrizione tout court (il che lascerebbe basita qualunque persona di media sensibilità e cultura giuridico-secolare), ma non si è tenuto in nessun conto né il principio di irretroattività della legge penale positiva (con la significativa eccezione di una legge successiva, se più favorevole all’accusato), né della gradualità della pena (cf. can. 1364, §2; 1367; 1370, §1; 1387; 1394, §1; 1395, §1), comminando immediatamente la dimissione dallo stato clericale, né il necessario esercizio del diritto di difesa, dal momento che - contravvenendo al dettato del can. 1342 § 2, a mente del quale una pena perpetua può essere irrogata solo nel processo giudiziario e, quindi, dibattimentale - essa, disinvoltamente, viene applicata anche, anzi quasi sempre, per decreto amministrativo.
È altresì rivelatore e penoso quel che Joseph Ratzinger coraggiosamente confessa e cioè che si sostituì alla saggia, prudente proposta dei “canonisti romani” di comminare la sospensione (che poteva essere a tempo indeterminato) dei colpevoli (non escludendo così tassativamente una loro conversione e redenzione: nulla è impossibile a Dio), quella della dimissione dallo stato clericale, in quanto ciò «non poteva essere accettato dai Vescovi americani, perché in questo modo [con la sospensione a divinis] i sacerdoti restavano a servizio del Vescovo, venendo così ritenuti come figure a lui direttamente legate».
Così, per evitare complicazioni burocratiche e conseguenze economiche (business is business) si è proceduto a spron battuto con l’irrogare una pena, la dimissione dallo stato clericale, che - come si è cercato di dimostrare - è intrinsecamente problematica, poiché, se non rettamente intesa (come sovente avviene), confligge con la dottrina e la verità dell’indelebile carattere impresso dal sacramento dell’ordine.
Il rischio è che - seppur animati dalle migliori intenzioni e col sacrosanto dovere di proteggere le vittime, senza minimizzare quello che hanno subito, e di sanzionare doverosamente i colpevoli - si proceda a dar vita a una giustizia sommaria, frutto di veloci interventi legislativi emergenziali - sotto la spinta di formidabili pressioni mediatiche - dai quali, insieme alla giustizia sommaria di cui si diceva or ora, possono venir fuori tribunali di fatto speciali, con tutte le conseguenze, gli echi sinistri e le tristi memorie che ciò comporta. Il pericolo si è che - paradossalmente malgrado la riscoperta e la valorizzazione della collegialità episcopale - si possa verificare e ripetere, a danno del Vescovo diocesano, mutatis mutandis, quella svalutazione della sua funzione nella Chiesa che ebbe luogo allorquando si volle, giustamente, proteggere il Vescovo dal potere secolare in epoca feudale e si sviluppò ipertroficamente la centralizzazione romana, come scriveva acutamente O. Rousseau, OSB[25], già a gli inizi degli Anni Sessanta dello scorso secolo.
Quanto sopra, non già con la pretesa di aver risolto un problema, ma con l’intenzione di evidenziarne l’esistenza e il desiderio di approfonditi contributi da parte di altri.
Abstract. In the wake ex-Cardinal McCarrick--among other prelates--being dismissed from the clerical state, the Author sets out to pose a positive doubt regarding the ligitimate application of this expiatory penalty to bishops, or at least evidence the grave ecclesial consequences of doing so. As anticipated in the canonical tradition of the degredatio and reflected in the 1983 CIC, the Author contends that the Second Vatican Council in its Dogmatic Constitution Lumen Gentium teaches that a bishop's participation in the Colloge of Bishops is equally ontological and juridical, such that he cannot be dismissed from it, if not voluntarily, as in the case of heresy or schism. Prefering an alterative suspension a tempo indeterminato, the Author discusses the dangers both pastoral and diplomatic of the present approach, and concludes by addressing the idea of an excessive "garanterism" criticized by Pope Emeritus Benedict XVI's recent Note.
Keywords. Clerical state, loss, bishop.
* Contributo non sottoposto a valutazione.
[1] Vedi, a titolo esemplificativo: G. Alberigo, Lo sviluppo della dottrina sui poteri nella Chiesa universale, Roma 1964; D. Staffa, De collegiali episcopatus ratione, in Divinitas 1964; Y.M.J. Congar e altri, L’episcopato e la Chiesa universale, Roma 1965; G. Barauna (a cura di), La Chiesa del Vaticano II, Firenze 1965; W. Bertrams, Il potere pastorale del papa e del collegio dei vescovi, Roma 1967; G. Philips, La Chiesa e il suo mistero. Storia, testo e contenuto della Lumen Gentium, Milano 1967; P. Parente, Il mistero teandrico della Chiesa e la Collegialità, Rovigo 1978; G. Ghirlanda, "Hierarchica communio" - Significato della formula nella "Lumen Gentium" (coll. Analecta Gregoriana, vol. 216 Series Facultatis Iuris Canonici: Sectio A, n. 9), Roma 1980; AA. VV., Chi è il Vescovo?, Milano 1984; U. Betti, La dottrina sull’episcopato del Concilio Vaticano II, Roma 1984; G. Mazzoni, La collegialità episcopale tra teologia e diritto canonico, Bologna 1986; C.M. Martini, Il Vescovo, Torino 2011; D. Vitali, “Verso la sinodalità”, Comunità di Bose 2014. Tra le pubblicazioni anteriori al Concilio, ex. gr.: E. Guerry, Il vescovo, Roma 1956; A. Charue, Le clerge diocesain p uneveque souhai, (ed it. Roma 1962).
[2] Il successivo provvedimento a carico dell’Arcivescovo di Agaña, Mons. A.S. Apuron, è consistito nella privazione dell’ufficio, nel divieto perpetuo di dimorare anche temporaneamente nell’arcidiocesi di Agaña, nonché nel divieto perpetuo di usare le insegne proprie dell’ufficio di vescovo.
[3] L. Chiappetta, Prontuario di diritto canonico e concordatario, p. 1172.
[4] B. Ojetti, Synopsis rerum moralium et iuris pontificii, vol. 2, p. 1514.
[5] J. Lécuyer, L’Episcopato come Sacramento, in G. Barauna (a cura di), La Chiesa del Vaticano II, Firenze, 1965, p. 722.
[6] Cf. X. Ochoa, Index Verborum ac Locutionum Codicis Iuris Canonici.
[7] L. Chiappetta, op. cit., p. 1172.
[8] Nuovo Dizionario di diritto canonico, v. Perdita dello stato clericale, Milano 1993, p. 786.
[9] L. Chiappetta, Il Codice di Diritto Canonico. Commento giuridico-pastorale, vol. I, Roma 19962, p. 500, nn. 1932-1933.
[10] Ibid., n. 1934.
[11] Cf. al riguardo Ratzinger, La collegialità episcopale dal punto di vista teologico, in G. Barauna (a cura di), La Chiesa del Vaticano II, Firenze, 1965, p. 733 ss. e in particolare 751 ss.
[12] Citato in J. Ratzinger, art. cit., p. 745.
[13] U. Betti, La dottrina sull’episcopato del Concilio Vaticano II, pp. 53 e 94.
[14] Ibid., p. 139.
[15] J. Lécuyer, L’Episcopato come Sacramento, in G. Barauna (a cura di), La Chiesa del Vaticano II, Firenze, 1965, p. 722.
[16] J. Lécuyer, art. cit., pp. 723-724.
[17] Cf. J. Ratzinger, art. cit., p. 757.
[18] Cf. U. Betti, La dottrina sull’episcopato del Concilio Vaticano II. Il capitolo III della costituzione dommatica Lumen gentium, Pontificio Ateneo “Antonianum”, Roma 1984, p. 381.
[19] Cf. G. Mazzoni, La collegialità episcopale, Bologna 1986, pp. 117, 202.
[20] Cf. Evangelii gaudium, n. 119 ss.
[21] Discorso tenuto nel corso della visita al Centro Penitenziario Femminile di Santiago del Cile, 16 gennaio 2018, in Osservatore Romano del 18 gennaio 2018, p. 8.
[22] Cf. De Synodo Dioecesana, lib. IX, c. VI, n. VII. La previsione di tale sanzione venne introdotta dalla Cost. Universi dominici di Gregorio XV (30.VIII.1622); nondimeno, afferma Papa Lambertini, «ab eo tempore, quo haec Constitutio edita fuit, nullum exemplum reperire datum est, quo huiusmodi sollicitationis, cum circumstantiis etiam quantmcumque aggravantibus, reus, degradatione punitus, et foro saeculari traditus fuerit» (loc. cit.).
[23] Cf. F. Carnelutti, Arte del diritto, Torino 2017. E, sebbene spesso su posizioni discordanti da Carnelutti, concorda in questo G. Bettiol: «L’uomo ha diritto alla pena, così come ha diritto al riconoscimento della sua dignità di persona» (Il problema penale, Palermo 1948, p. 109).
[24] Communicationes, XV (1983) p. 40.
[25] Cf. O. Rousseau, La dottrina del ministero episcopale e le sue vicende nella Chiesa d’Occidente, in J. Congar, L’episcopato e la Chiesa universale, cit., pp. 372 ss.
Sciacca Giuseppe
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