fbevnts Note in tema di societas venaliciaria

Note in tema di societas venaliciaria

28.02.2018

RosannaOrtu

 

Professore associato di diritto romano, Università degli Studi di Sassari

 

Note in tema di societas venaliciaria*

 

Sommario: 1.Premessa. – 2. Gai 3.148: inquadramento tipologico della societas venaliciaria. – 3. D. 17.2.60.1 (Pomp. 13 ad Sab.) e D. 17.2.65.5 (Paul. 32 ad ed.):due casi di specie in tema di societas venaliciaria. – 4. D. 21.1.44.1 (Paul. 2 ad ed. aed. cur.): responsabilità per vizi dei venaliciarii socii e rilevanza esterna della societas venaliciaria. – 5. Considerazioni conclusive.

 

   Premessa

Con il presente contributo vorrei proporre una rinnovata riflessione sulle caratteristiche della societas[1] venaliciaria[2] (la società dei mercanti di schiavi), e nello specifico focalizzare l’attenzione su una problematica dibattuta in dottrina in merito alla responsabilità oggettiva per vizi occulti dei venaliciarii[3]socii, prevista nell’editto degli edili curuli de mancipiis emundis vendundis, e della conseguente possibilità di riscontrare l’effettiva esistenza di una forma di rilevanza esterna del rapporto societario, nonché di prospettare le concrete modalità di una sua attuazione pratica nell’ambito delle attività commerciali oggetto del rapporto societario, così come emerge dal contenuto di un testo di Paolo riportato in D. 21.1.44.1 (Paul. 2 ad ed. aed. cur.).

A tale proposito, prima di soffermarmi sul noto frammento di Paolo D. 21.1.44.1, ricco di spunti interpretativi e di questioni tuttora da sviluppare, in cui il giurista severiano affronta il regime giuridico della società dei venditori di schiavi in rapporto ai precetti generali contenuti nell’editto edilizio e a quelli più specifici enunciati nella rubrica ‘adversus venaliciarios’, vorrei esaminare alcuni testi giuridici in cui esplicitamente o implicitamente si fa riferimento al modello organizzativo della societas venaliciaria adoperato dai venaliciarii al fine di strutturare al meglio l’attività di commercio degli schiavi, con l’intento di delineare un quadro compiuto su questo particolare tipo di società.

Pertanto, analizzerò brevemente i passi di Gaio (Gai 3.138), Pomponio (D. 17.2.60.1; 13 ad Sab) e Paolo (D. 17.2.65.5; 32 ad ed.) inerenti ad alcuni elementi di carattere generale della societas venaliciaria in età imperiale, per poi dedicarmi all’esegesi di D. 21.1.44.1 (Paul. 2 ad ed. aed. cur.) oggetto principale di questo contributo.

 

            Gai 3.148: inquadramento tipologico della societas venaliciaria

Constatando l’eccessiva genericità del modello della societas consensu contracta, giustamente il Cerami[4], sulla scia del Serrao[5], ha ribadito che «nell’esperienza giuridica romana – analogamente a quanto è dato riscontrare negli ordinamenti giuridici moderni - più che “la società” sono presenti “le società”», e ha inoltre rilevato che «la società consensuale poteva essere utilmente impiegata per una variegata gamma di esigenze, che vennero confluendo nella graduale configurazione di più tipi di societas, le cui modalità organizzative appaiono comprensibilmente legate agli specifici assetti economici ed alle correlate forme giuridiche»[6]. I giureconsulti romani, infatti, indentificarono diverse forme organizzative di societas, come attestato anche da Gaio nel II sec. d.C., il quale, nel terzo libro delle sue Institutiones, trattando del contratto di società scrive:

Gai 3.148: Societatem coire solemus aut totorum bonorum aut unius alicuius negotii, veluti mancipiorum emendorum aut vendendorum,

individuando così due modelli societari che coincidevano essenzialmente con le figure della societas omnium bonorum, comunemente ritenuta società di godimento o di gestione di beni, e con quella della societas alicuius negotiationis, contraddistinta dall’esercizio permanente di una determinata attività economica, industriale o commerciale, esempio specifico della tipologia più generale delle società questuarie[7] o di lucro.

Nel testo appare molto significativo il fatto che il giurista, dopo aver enunciato che si è soliti unirsi in società “aut totorum bonorum”, oppure “unius alicuius negotii”, citi come esempio tipico di societas unius alicuius negotiationis la società di coloro che si dedicano alla compravendita di schiavi. L’attività di mancipia emere vendereque corrispondeva a quella particolare forma di negotiatio[8] propria dei venaliciarii. Dunque, con grande probabilità, doveva essere molto frequente per i venaliciarii riunirsi in società, se in età degli Antonini la societas venaliciaria era citata testualmente come esempio di societas unius alicuius negotiationis. Quest’ultima tipologia di societas era sicuramente assai utilizzata nell’ambito delle attività commerciali, al punto che si arrivò a presumere la volontà di costituire tale modello di società in assenza di una espressa dichiarazione dei soci, al momento del perfezionamento del contratto, inerente al tipo societario da istituire[9].

A tale presunzione[10] fa esplicito riferimento Ulpiano[11], il quale introduce il principio giurisprudenziale in questione nel XXX libro del suo Commentario ad Sabinum:

D. 17.2.7 (Ulp. 30 ad Sab.): Coire societatem et simpliciter licet: et si non fuerit distinctum, videtur coita esse universorum quae ex quaestu veniunt, hoc est si quod lucrum ex emptione venditione, locatione conductione descendit.

Secondo Ulpiano, nella costituzione della societas, simpliciter, senza aver fatto distinzioni, si presupponeva che le parti avessero voluto creare una società avente per oggetto ogni futuro guadagno (videtur coita esse universorum quae ex quaestu veniunt) derivante dalle attività di compravendita, e di locazione conduzione, alludendo in sostanza ad una societas unius alicuius negotiationis.

Si può quindi ipotizzare che, nel caso in cui i commercianti di schiavi avessero voluto organizzare dal punto di vista imprenditoriale la propria attività mediante il contratto consensuale di società, tipizzato nello schema della societas unius alicuius negotiationis, avrebbero potuto costituire la societas venaliciaria anche simpliciter, senza specificare l’oggetto, secondo il principio giurisprudenziale enunciato da Ulpiano in D. 17.2.7 (Ulp. 30 ad Sab.).

 

D. 17.2.60.1 (Pomp. 13 ad Sab.) e D. 17.2.65.5 (Paul. 32 ad ed.): due casi di specie in tema di societas venaliciaria

Anche in alcuni frammenti[12] del Digesto, riportati nel titolo secondo Pro socio del libro XVII, i giuristi, nell’analizzare alcune problematiche di carattere generale inerenti al contratto consensuale di società, riportano come esempi concreti di studio alcune fattispecie ricollegabili al consueto operare della societas venaliciaria. Il contenuto di questi testi, D. 17.2.60.1 (Pomp. 13 ad Sab.)e D. 17.2.65.5 (Paul. 32 ad ed.), può essere sicuramente utile per delineare un quadro indicativo più compiuto a proposito di questo tipo di società.

 

a)      D. 17.2.60.1 (Pomp. 13 ad Sab.): a proposito del rimborso delle spese mediche sopportate dal venaliciarius socius.

In un frammento di pomponio leggiamo:

D. 17.2.60.1 (Pomp. 13 ad Sab.): Socius cum resisteret communibus servis venalibus ad fugam erumpentibus, vulneratus est: inpensam, quam in curando se fecerit, non consecuturum pro socio actione Labeo ait, quia id non in societatem, quamvis propter societatem inpensum sit, sicuti si propter societatem eum heredem quis instituere desisset aut legatum praetermisisset aut patrimonium suum neglegentius administrasset: nam nec compendium, quod propter societatem ei contigisset, veniret in medium, veluti si propter societatem heres fuisset institutus aut quid ei donatum esset[13].

Già da un primo esame del testo emerge chiaramente che il giurista fa riferimento indiretto alla societas venaliciaria, in quanto si pone il problema di stabilire a chi imputare le spese mediche del socio ferito durante un tentativo di fuga dei servi comuni messi in vendita[14]. Sembra comunque chiaro che il socio in questione era un venaliciarius e che quindi pomponio discute un caso di societas venaliciaria riferendo l’autorevole parere di Labeone. L’opinione di quest’ultimo è molto chiara: non si potranno conseguire mediante l’actio pro socio le spese per le cure mediche sostenute dal socio ferito dagli schiavi comuni messi in vendita, poiché tali spese, secondo Labeone, non sono state sostenute nell’interesse della società, ma a causa della società. Inoltre, l’accenno di Pomponio alla fuga di schiavi comuni (… communibus servis venalibus ad fugam erumpentibus) suggerisce che anche nel caso della societas venaliciaria, che si configura sotto il profilo della tipologia societaria come societas unius negotiationis[15], i beni apportati dai soci si intendevano normalmente conferiti in comproprietà.

Al frammento di Pomponio, segue, nell’ordine sistematico voluto dai compilatori giustinianei, un testo di Ulpiano, il quale in D. 17.2.61 (Ulp. 31 ad ed.), a proposito del risarcimento del danno sopportato da uno dei soci, riporta anche il parere di Giuliano, che appare contrastante con quello espresso da Labeone:

D. 17.2.61 (Ulp. 31 ad ed.): Secundum Iulianum tamen et quod medicis pro se datum est recipere potest, quod verum est,

poiché ritiene che tuttavia il socio può recuperare anche ciò che è stato dato ai medici per le cure. L’opinione di Giuliano, che sembra pienamente condivisa da Ulpiano, appare in sintonia con il principio generale espresso sempre dal giurista adrianeo in un altro frammento (D. 17.2.52.4; Ulp. 31 ad ed.), il cui contenuto secondo il Lenel[16] è giustamente da ricollegare sia a D. 17.2.60.1 (Pomp. 13 ad Sab.), e sia a D. 17.2.61 (Ulp. 31 ad ed.). Al riguardo, lo studioso tedesco, nella Palingenesia iuris civilis, propone il seguente ordine sistematico di frammenti originariamente racchiusi nel XIV libro dei Digesta di Giuliano (Iulianus, Dig. Lib. 14), traendoli dal XXXI libro del commentario di Ulpiano all’editto del pretore:

Lenel, Palingenesia, I, par. 234, col 357: [(17.2)52§4] Quidam sagariam negotiationem coierunt: alter ex his ad merces comparandas profectus in latrones incidit suamque pecuniam perdidit, servi eius vulnerati sunt resque proprias perdidit. Dicit Iulianus damnum esse commune ideoque actione pro socio damni partem dimidiam adgnoscere debere tam pecuniae quam rerum ceterarum, quas secum non tulisset socius nisi ad merces communi nomine comparandas proficisceretur. sed et si quid in medicos inpensum est, pro parte socium agnoscere debere rectissime Iulianus probat.

Ulp. ibid.: [Socius cum resisteret communibus servis venalibus ad fugam erumpentibus, vulneratus est: inpensam, quam in curando se fecerit, non consecuturum pro socio actione Labeo ait, quia id non in societatem, quamvis propter societatem inpensum sit…][17] [(17. 2) 61] secundum Iulianum tamen et quod medicis pro se datum est recipere potest, quod verum est.

Il principio generale, secondo cui il danno patito da un socio è comune e deve essere assunto per la metà dell’ammontare anche dall’altro socio, comprese le spese mediche, proposto da Giuliano in D.17.2.52.4, come già anticipato supra, appare pienamente sintonico con ciò che il giurista afferma in D. 17.2.61, anche se nel primo frammento la fattispecie attiene a spese mediche sostenute da uno dei due soci (di una societas costituita per il commercio di mantelli, probabilmente militari), a seguito di un agguato di latrones, per le ferite riportate dai suoi schiavi, durante un viaggio intrapreso per l’acquisto delle merci per la società. Le spese mediche citate in D. 17.2.52.4, pertanto, non riguardano direttamente la persona del socio, come prospettato in D.17.2.60.1 e D.17.2.61, ma gli schiavi feriti che si trovavano al seguito del socio caduto nell’imboscata dei latrones. Mi pare interessante rilevare che in D. 17.2.52.4 gli schiavi feriti sono di proprietà del socio, e pertanto non fanno parte del patrimonio comune della societas, come le altre res e i denari sottratti dai latrones.

La dottrina romanistica ha dibattuto ampiamente sulla divergenza di opinioni di Labeone e Giuliano[18], elaborando al riguardo diverse teorie interpretative, anche se vale la pena di rilevare che solo il Santucci[19] ha giustamente evidenziato la diversità sostanziale attinente al contenuto delle fattispecie oggetto di discussione da parte dei giuristi in D. 17.2.60.1 e D.17.1.52.4. L’A. ritiene che il contrasto di pareri sia da considerarsi solo apparente, in quanto i casi di specie sono sostanzialmente differenti, ma per quanto riguarda il frammento D.17.2.61, sulla scia del Gandolfi[20], manifesta di propendere per la non autenticità del passo considerandolo opera dei compilatori giustinianei[21].

A mio avviso, la divergenza delle opinioni di Labeone e Giuliano attiene solo al contenuto dei frammenti D. 17.2.60.1 e D.17.2.61, se si considera quest’ultimo autentico e non frutto di un intervento compilatorio, poiché entrambe le fonti concernono alla medesima fattispecie.

Pertanto, partendo dal presupposto di autenticità di D.17.2.61, considerando la sequenza di frammenti proposta dal Lenel, si potrebbe ipotizzare che Labeone offra la soluzione in auge in età augustea, strettamente ancorata al rigoroso principio giurisprudenziale per cui il rimborso delle spese mediche del socius vulneratus non poteva essere contemplato fra i danni risarcibili al socio che le aveva dovute sostenere, in quanto id non in societatem, quamvis propter societatem inpensum sit. Principio giurisprudenziale fondato su una valutazione ben precisa delle spese, rimborsabili solo se sopportate nell’interesse della società e non risarcibili se sostenute a causa della società, che porterà Labeone a collocare le spese mediche fra quelle propter societatem. Tale principio evidentemente non teneva conto del rischio e del pericolo inerente allo svolgimento di alcune attività commerciali, e non assicurava alcuna tutela al socio nel caso intraprendesse attività rischiose mentre prestava la propria opera (ad es. viaggiando per mare o per terra per l’acquisto e la vendita delle merci; oppure trovandosi ad operare in più mercati con lo scopo di acquistare o vendere gli schiavi comuni, come nel caso della societas venaliciaria descritta in D. 17.2.60.1) per la realizzazione dello scopo sociale.

Il superamento di suddetto principio si verificherà nel II sec. d.C., in età adrianea, probabilmente attraverso un lungo percorso di interpretatio giurisprudenziale sviluppatosi successivamente all’età augustea, ad opera di Giuliano, il quale propenderà per una tutela forte del venaliciarius socius vulneratus, applicando estensivamente la regola già enunciata in D. 17.2.52.4 per gli schiavi feriti di proprietà del socio assalito dai latrones nell’esercizio dell’attività della società di commercio di mantelli (considerate spese mediche in societatem per usare la terminologia di Labeone), mediante la concessione dell’actio pro socio con lo scopo di ottenere il rimborso pro quota da parte dell’altro socio.

Si può supporre che incidenti come quello incorso al venaliciarius socius, ferito durante il tentativo di fuga degli schiavi comuni messi in vendita fossero assai frequenti nel momento di maggiore sviluppo del commercio degli schiavi e che Pomponio, nei suoi libri a commento all’opera di Sabinum, in D. 17.2.60.1, riportando il parere di Labeone, facesse riferimento ad un principio effettivamente valido agli albori del I sec. d.C., però successivamente superato in età adrianea, pienamente condiviso da Ulpiano in età severiana e fatto proprio dalle scuole di età giustinianea come testimoniato gli scolii di Stefano e Cirillo a Bas. 12.1.58[22].

 

b)     D. 17.2.65.5 (Paul. 32 ad ed.): a proposito del recesso intempestivo del socius.

In D. 17.2.65.5 (Paul. 32 ad ed.) Paolo scrive:

Labeo autem posteriorum libris scripsit, si renuntiaverit societati unus ex sociis eo tempore, quo interfuit socii non dirimi societatem, committere eum in pro socio actione: nam si emimus mancipia inita societate, deinde renunties mihi eo tempore, quo vendere mancipia non expedit, hoc casu, quia deteriorem causam meam facis, teneri te pro socio iudicio. Proculus hoc ita verum esse ait, si societatis non intersit dirimi societatem: semper enim non id, quod privatim interest unius ex sociis, servari solet, sed quod societati expedit. haec ita accipienda sunt, si nihil de hoc in coeunda societate convenit[23].

Anche in questo testo si può notare che il giurista non utilizza l’espressione societas venaliciaria per qualificare la societas citata a titolo di esempio con l’intento di configurare una fattispecie concreta attinente all’oggetto di discussione: dal contesto generale del passo, però risulta evidente che Paolo fa riferimento ad una societas costituita al fine di svolgere attività di compravendita di schiavi, ovvero una societas venaliciaria.

Il caso di specie considerato in D. 17.2.65.5 è inserito nell’ambito della tematica più generale del recesso intempestivo del socius e della eventuale concessione dell’actio pro socio a tutela del socio che non avesse avuto interesse allo scioglimento della societas.

Il giurista severiano, al riguardo, cita il parere di Labeone e quello di Proculo, il quale, pur seguendo la linea interpretativa di Labeone, osserva che la soluzione labeoniana è condivisibile solo se supportata da ragioni oggettive che giustifichino il mantenimento in vita della società in questione.

Il dato interessante, però, è senza dubbio la fattispecie concreta delineata nell’esempio di Paolo. Infatti, come risulta chiaramente dal tenore delle parole del giurista, non dovevano essere rari i casi di societates di venditori di mancipia costituite ad hoc in momenti favorevoli per le vendite di schiavi e soprattutto risulta abituale anche la prassi di procedere allo scioglimento delle suddette societates in tempi di mercato “sfavorevole”.

Altro dato interessante attiene alla tipologia della societas descritta dal giurista: una piccola societas venaliciaria costituita da due soci, probabilmente operante nell’ambito delle vendite al dettaglio di homines.

 

D. 21.1.44.1 (paul. 2 ad ed. aed. cur.): responsabilità per vizi dei venaliciarii socii e rilevanza esterna della societas venaliciaria.

In un frammento di Paolo si prendono in considerazione i problemi della responsabilità per vizi dei venaliciarii socii:

D. 21.1.44.1(paul. 2 ad ed. aed. cur.): Proponitur actio ex hoc edicto in eum cuius maxima pars in venditione fuerit, quia plerumque venaliciarii ita societatem coeunt, ut quidquid agunt in commune videantur agere: aequum enim aedilibus visum est vel in unum eius, cuius maior pars aut nulla parte minor esset, aedilicias actiones competere, ne cogeretur emptor cum multis litigare, quamvis actio ex empto cum singulis sit pro portione, qua socii fuerunt: nam id genus hominum ad lucrum potius vel turpiter faciendum pronius est[24].

Il testo lascia intendere che i mercanti di schiavi erano soliti costituire delle società per poter organizzare meglio la loro attività. Paolo, discutendo il caso della societas venaliciaria, mostra come ormai consolidata la prassi di ricorrere al contratto di società per l’esercizio del commercio degli schiavi. A tal proposito, il giurista dà notizia del fatto che gli edili curuli emanarono l’editto adversus venaliciarios per sanzionare la responsabilità dei singoli soci con l’actio redhibitoria[25], nel caso in cui fosse stata omessa la dichiarazione dei vizi degli schiavi venduti nei mercati.

Inoltre, nella parte finale del passo si legge una frase assai significativa, con la quale Paolo delinea chiaramente i fini poco nobili insiti nel mestiere di venditori di schiavi: “nam id genus hominum ad lucrum potius vel turpiter faciendum pronius est”. Nel pensiero del giurista si coglie una nota di disapprovazione[26] nei confronti dell’operato di coloro che si dedicavano alla compravendita di homines. È risaputo che questo ramo dei traffici commerciali era considerato dagli antichi come il peggiore e il più infamante[27], ed è altrettanto noto che i mercanti di schiavi, per ottenere facili guadagni, attuavano numerosi artifici e raggiri ai danni dei compratori ignari[28].

Nel testo di Paolo emergono inoltre ulteriori dati su cui vale la pena soffermarsi. Così come evidenziato in precedenza, a proposito del passo di Pomponio (D. 17.2.60.1; Pomp. 13 ad Sab.), in cui il riferimento alla fuga di schiavi comuni (… communibus servis venalibus ad fugam erumpentibus) indicava che anche nel caso della societas venaliciaria i beni conferiti si intendevano normalmente conferiti in comproprietà, anche nel frammento di Paolo, si legge che i venaliciarii nella maggioranza dei casi formulavano l’accordo societario in modo tale che qualunque atto essi compissero, in commune videantur agere. Ciò significa che ogni vendita di schiavo veniva effettuata come vendita di uno schiavo comune, e quindi che ogni schiavo si intendeva venduto pro quota da tutti i soci. Questo espediente costringeva l’acquirente che volesse intentare l’actio redhibitoria o la quanti minoris ad agire contro ciascuno dei soci, con evidente disagio, un disagio che poteva anche indurre a desistere[29].

Di conseguenza, per salvaguardare i diritti degli acquirenti, gli edili curuli inserirono nel loro editto la rubrica adversus venaliciarios[30], con la quale si stabiliva che le azioni edilizie potevano essere intentate per intero nei confronti del venditore cui spettasse una quota maggiore o, in mancanza, uguale a quella degli altri soci.

Con questa disposizione si affermava uno speciale regime di solidarietà[31], al fine di evitare che il compratore dovesse agire pro quota contro ogni singolo socio, per ottenere il prezzo pagato durante la vendita dello schiavo. Ancora una volta va sottolineato il tentativo dei venaliciarii di ottenere vantaggi ai danni dei compratori attraverso comportamenti non illeciti, ma sicuramente non del tutto limpidi[32], e la puntuale risposta degli organi giusdicenti.

Secondo alcuni Autori dal testo di Paolo si può dedurre che al momento della vendita del mancipium non era indispensabile la presenza di tutti i venaliciarii socii, dato che questi ultimi sarebbero risultati comunque obbligati, entro i limiti della loro quota, dall’atto compiuto da un solo socio. In particolare, questa tesi viene sostenuta da F. Serrao, secondo il quale nel caso in questione non si può negare l’esistenza di una forma di rappresentanza diretta reciproca tra i soci e una rilevanza esterna del rapporto sociale, qualora i mercanti di schiavi avessero costituito la società in modo da renderne nota l’esistenza ai terzi[33].

Altri Autori hanno ritenuto invece che per configurare la fattispecie prevista da Paolo fosse necessaria la presenza di tutti i soci al momento della vendita dello schiavo: solo in questo modo – essi affermano – in base al regime della comunione, tutti i venaliciarii socii si obbligavano e potevano così applicarsi le disposizioni dell’editto degli edili curuli[34].

L’interpretazione del Serrao, alla quale avevo in un primo tempo aderito[35] non mi sembra oggi del tutto convincente. In particolare, mi sembra di poter osservare che la norma introdotta dagli edili – da cui derivava uno speciale regime di solidarietà – era tesa a tutelare non i venaliciarii, ma i compratori, mentre invece l’A. sembra giungere alla conclusione che il regime delineato da Paolo risultava essere vantaggioso proprio per gli stessi venaliciarii, i quali avevano così la possibilità di agire contemporaneamente su diversi mercati[36]. D’altra parte, il Serrao non dice in che modo, dal punto di vista tecnico-giuridico, si sarebbe raggiunto l’effetto di obbligare tutti pur contraendo uno solo, se non ammettendo, come per altro fa l’A., che il semplice accordo fra i soci ut quidquid agunt in commune videantur agere avesse come effetto quello di ammettere la rappresentanza diretta di ciascun socio nei confronti degli altri. Su questo punto in particolare non mi sento oggi di seguire il parere dell’illustre studioso, dato che nella sua ottica l’esservi o non esservi rappresentanza diretta sarebbe dipeso unicamente dalla volontà dei soci, a patto che la particolare natura della società fosse resa nota al terzo contraente. Dal punto di vista pratico, secondo il Serrao, per rendere effettivo il regime particolare della societas venaliciaria da lui delineato sarebbe bastato inserire nel contratto di società una clausola in virtù della quale ogni socio fosse obbligato - al momento della conclusione di ogni singolo atto di vendita di schiavi – a dichiarare al compratore di agere in commune, «indicando i nomi degli altri soci e le rispettive quote»[37]. Questa soluzione non sembra essere molto pratica, ma d’altra parte l’osservazione che una società tale per cui i soci fossero costretti tutti ad intervenire nella vendita di ciascun schiavo sarebbe stata assai poco «comoda e funzionale»[38], è indubbiamente vera, anche se la necessità invocata dall’A. per i socii venaliciarii di operare in società per poter agire contemporaneamente su più mercati poteva trovare, e trovava, piena soddisfazione anche nello strumento del mandato[39].

A mio avviso, sulla base del testo di Paolo, si possono in realtà ricostruire due modelli di societas venaliciaria, due modelli molto divergenti. Possiamo immaginare infatti una società composta di pochi soci, piccoli trafficanti che operavano di persona esclusivamente sul mercato romano[40], intervenendo insieme in ogni contratto sotto l’attenta sorveglianza degli edili curuli, oppure possiamo pensare – come sembra fare il Serrao - ad una società con un numero di soci tutto sommato indifferente, ma dotata di cospicui capitali e di personale libero e servile che operava sia a Roma, sia oltremare.

Il quadro che emerge dalle fonti letterarie, giuridiche ed epigrafiche[41] corrisponde più al secondo modello, quello cui si ispira il Serrao, che non al primo, per cui si tratta di capire che cosa esattamente intendesse dire Paolo con l’espressione «… ut quidquid agunt in commune videantur agere», o meglio, come si potesse tecnicamente raggiungere quel risultato.

Un suggerimento viene dalla Glossa, dove si legge, in nota alle parole cum singulis del passo di Paolo:

Glossa Singulis a D. 21.1.44.1: Hic ergo loquitur cum omnes vendiderunt, vel maior pars vendidit. Alioquin singuli conveniri non possunt, nisi cum magistro omnium contraheretur.

Secondo l’anonimo glossatore, quindi, affinché i singoli soci potessero essere convenuti occorreva che ciascuno avesse partecipato alla vendita, oppure che il contratto fosse stato concluso con chi era stato preposto da tutti. E proprio questa, a mio avviso potrebbe essere la soluzione: un contratto di società nel contesto del quale venisse stabilito che ogni socio avrebbe agito come praepositus[42] da tutti gli altri per la vendita di beni in comunione (gli schiavi). Fra l’altro un simile accordo non poteva rimanere privato, ma doveva essere portato a conoscenza di tutti i possibili acquirenti, come ci informa Ulpiano:

  1. 14.3.11.2-4 (Ulp. 28 ad ed.):De quo palam proscriptum fuerit, ne cum eo contrahatur, is praepositi loco non habetur: non enim permittendum erit cum institore contrahere, sed si quis nolit contrahi, prohibeat: ceterum qui praeposuit tenebitur ipsa praepositione. Proscribere palam sic accipimus claris litteris, unde de plano recte legi possit, ante tabernam scilicet vel ante eum locum in quo negotiatio exercetur, non in loco remoto, sed in evidenti. litteris utrum Graecis an Latinis? puto secundum loci condicionem, ne quis causari possit ignorantiam litterarum. certe si quis dicat ignorasse se litteras vel non observasse quod propositum erat, cum multi legerent cumque palam esset propositum, non audietur. Proscriptum autem perpetuo esse oportet: ceterum si per id temporis, quo propositum non erat, vel obscurata proscriptione contractum sit, institoria locum habebit. proinde si dominus quidem mercis proscripsisset, alius autem sustulit aut vetustate vel pluvia vel quo simili contingit, ne proscriptum esset vel non pareret, dicendum eum qui praeposuit teneri. sed si ipse institor decipiendi mei causa detraxit, dolus ipsius praeponenti nocere debet, nisi particeps doli fuerit qui contraxit[43].

I terzi, quindi, necessariamente dovevano essere portati a conoscenza dell’esistenza di una praepositio, delle sue condizioni e quindi delle sue conseguenze. Da tutto ciò derivava rilevanza esterna[44] della societas venaliciaria[45], come giustamente sostenuto dal Serrao sulla base però di differenti soluzioni dal punto di vista pratico attuativo, nel senso che per il terzo contraente non era indifferente l’esistenza o meno della società, dato che dalla sua esistenza derivavano per lui conseguenze sul piano giuridico, come disposto dagli edili curuli a difesa degli acquirenti di schiavi, di fronte ad un ulteriore espediente escogitato dai venaliciarii per tentare di eludere, sia pure in modo legittimo, le stesse norme edilizie[46].

 

            Considerazioni conclusive

Dal quadro delle fonti giuridiche esaminate in questo contributo, emerge chiaramente che la societas consensuale, nella tipologia della societas unius alicuius negotiationis, rappresentava un modello organizzativo ben congeniale per la realizzazione del commercio degli schiavi intrapreso dai venaliciarii. La societas venaliciaria riproduceva una struttura organizzativa che sicuramente destava interesse agli occhi dei giuristi, i quali a partire da Labeone mostrano attenzione nei confronti di questo particolare tipo di società, citandola a titolo di esempio per la trattazione di alcune problematiche di carattere generale in tema di societas consensuale.

In età imperiale, come attestato da Gaio (3.148), la societas venaliciaria è il modello esemplare di societas unius alicuius negotiationis: una società le cui caratteristiche saranno peculiari per il tipo di negotiatio intrapresa dai soci, e che anche a seguito delle riflessioni della giurisprudenza, che si svilupperanno attraverso un lungo percorso interpretativo, andrà a connotarsi secondo alcuni principi fondanti che terranno conto sia delle esigenze dei venaliciarii socii, mediante il riconoscimento di una forte tutela a proposito della risarcibilità dei danni subiti dal socio d’opera (come ad es. per le spese mediche, D. 17.2.60.1 e D. 17.2.61) o per il recesso intempestivo del socio (D.17.2.65.5), e sia, ed ancor più, dei terzi contraenti, i quali, grazie all’attestarsi dell’eccezione al principio di carattere generale di irrilevanza esterna del rapporto societario nei confronti dei terzi, potranno essere tutelati con forza ai sensi dell’editto adversus venaliciarios contenuto nell’editto degli edili curuli de mancipiis emundis vendundis (D. 21.1.44.1). Il riconoscimento da parte dei giureconsulti della rilevanza esterna nei confronti della societas venaliciaria avrà come effetto quello di collocarla sullo stesso piano delle altre società commerciali a preminente interesse pubblico come la società dei publicani, quella degli argentari e quella degli armatori[47].

Dalle fonti analizzate in questo contributo si delinea inoltre un’organizzazione societaria che poteva essere più o meno complessa, con società venaliciarie che potevano essere semplicemente costituite da due soci, i quali operavano spesso nell’ambito della vendita di schiavi al dettaglio con impegno e presenza contemporanea al momento della conclusione dei contratti di compravendita dei servi, o società anche con più di due soci, i quali invece svolgevano singolarmente e contestualmente l’attività del commercio degli schiavi in differenti mercati, a volte molto distanti, anche oltremare, servendosi dell’ausilio di mandatari o il più di frequente, come dimostrato in queste pagine, della praepositio reciproca che consentiva loro di attuare al meglio, dal punto di vista tecnico giuridico, il principio di rilevanza esterna del rapporto di societas venaliciaria, rendendo così tutti i socii obbligati verso i terzi a seguito di stipulazione di compravendite di schiavi concluse da un solo socio che agiva però in qualità di praepositus.

* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] Il contratto di società è stato oggetto di numerosi studi da parte della dottrina romanistica. Tra le voci di Enciclopedia, rinvio soprattutto a: F. Cancelli, voce Società (Diritto romano), in Noviss. dig. it.,vol. XVII, Torino 1970, p. 495 e ss.; M. Talamanca, voce Società (dir. rom.), in Enc. dir., vol. XXIX, Milano 1990, p. 814 e ss. (ivi ampia bibliografia sul tema). Tra gli altri, vedi in particolare: B.W. Leist, Zur Geschichte der römischen Societas, Jena 1881; E. Del Chiaro, Le contrat de société en droit privé romain, Paris 1928; A. Poggi, Il contratto di società in diritto romano classico, vol. II, Torino 1934; S. Solazzi, Societas e communio (a proposito di Gai 3. 154.), in Atti Acc. Napoli, 57 (1935), p. 127 e ss.; F. Wieacker, Societas. Hausgemeinschaft und Erwerbsgesellschaft, Weimar 1936; C. Arnò, Il contratto di società, Torino 1938; D. Daube, Societas as consensual contract, in Cambridge Law Journal, 6 (1938), p. 381 [ora, in D. Cohen-D. Simon (a cura di) Collected Studies in Roman Law. Melanges D. Daube, vol. I, Frankfurt am Main 1991, p. 37 e ss.]; E. Szlechter, Le contrat de société en Babylonie en Grèce et a Rome, Paris 1947; F. De Visscher, La notion du "corpus" et le regime des associations privees a Rome, in Scritti in Onore di C. Ferrini, vol. IV, Milano 1949, p. 43 e ss.; A. Watson, Consensual societas between romans and the introduction of formulae, in RIDA, 9 (1962), p. 431 e ss.; v. Arangio-ruiz, La società in diritto romano, Napoli 1950; U. Von Lübtow, Cato leges venditioni et locationi dictae. Nachtrag, in Studia Iuris Antiqui, vol. I, Warszawa 1958, p. 227 [ora, in Melanges U. Von Luebtow. Beitraege zur Geschichte des Roemischen Rechts, 3 (1996), p. 240 e ss.]; M. Bianchini, Studi sulla societas, Milano 1967; A. Guarino, La società in diritto romano, Napoli 1972 [ora, in Antiqua, 18 (1988)]; F. Bona, Studi sulla società consensuale in diritto romano, Milano 1973; M. Kaser, Neue Literatur zur Societas, in SDHI, 41 (1975), p. 278 e ss.; A. d’Ors, Societas y consortium, in Rev. Estud. Hist. Jur., 2 (1977), p. 33 e ss.; C. Masi Doria, Die Societas Rutiliana und die Urspruenge der Praetorischenerbfolge der Freigelassenen, in ZSS, 106 (1989), p. 358 e ss.; J.H. Lera, El contrato de sociedad. La casuistica jurisprudencial clasica, Madrid 1992; L. Gutiérrez-Masson, Del “consortium” a la “societas”, vol. I-II, Madrid 1994; G. Santucci, Il socio d’opera in diritto romano. Conferimenti e responsabilità, Padova 1997; G. Aricò Anselmo, Societas inseparabilis. O dell'indissolubilità dell’antico consorzio fraterno, in AUPA, 46 (2000), p. 77 e ss.; F.S. Meissel, Societas. Struktur und Typenvielfalt des Römischen Gesellschaftsvertrages, Frankfurt am Main 2004; A. Petrucci, Per una storia della protezione dei contraenti con gli imprenditori, vol. I, Torino 2007, p. 204 e ss.; Id., Osservazioni minime in tema di protezione dei contraenti con i venaliciarii in etá commerciale (II secolo a.C. - metá III secolo d.C.), Napoli 2007, p. 2082 e ss.; Id., L’impresa dei commercianti di schiavi, in Diritto commerciale, cit., p. 299 e ss.; P. Cerami, “Impresa e societas nei primi due secoli dell’impero”, in AUPA, 52 (2007-2008), p. 77 e ss. [on-line: http://www.unipa.it/dipstdir/pub/annali/2007-2008/Cerami2.pdf]; Id., Negotiationes e negotiatores. Tipologia dell’organizzazione imprenditoriale romana, in P. Cerami - A. Petrucci (a cura di) Diritto commerciale3, cit., p. 81 e ss.; A. Bürge, Die societas ad emendum im Lichte der Organisation von nundinae - Eine Deutung von Ulp. D. 17.2.69, in ZSS, 125 (2008), p. 425 e ss.; P. Onida, La causa della societas fra diritto romano e diritto europeo, in Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze giuridiche e Tradizione romana, 5 (2006), p. 1 e ss. [on-line: http://www.dirittoestoria.it/5/memorie/Onida-Causa-societas-diritto-romano-diritto-europeo.htm]; Id., Specificità della causa del contratto di societas e aspetti essenziali della sua rilevanza esterna, in Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze giuridiche e Tradizione romana, 10 (2011-2012), p. 1 e ss. [on-line: http://www.dirittoestoria.it/10/contributi/Onida-Specificita-causa-contratto-societas-rilevanza-esterna.htm]; A.M. Fleckner, Antike Kapitalvereinigungen. Ein Beitrag zu den konzeptionellen und historischen Grundlagen der Aktiengesellschaft, Köln 2010 (su cui vedi recensioni di F.S. Meissel, in ZSS, 130 (2013), p. 543 e ss. e di F. Mercogliano, Fondamenti ‘romanistici’ delle società per azioni?, in Annali della Facoltà Giuridica dell'Università di Camerino, 3 (2014), p. 1 e ss.). Da ultimo, fondamentale per gli studi in materia societaria, il corso di lezioni cagliaritane tenuto dall’illustre Maestro M. Talamanca, La Societas. Corso di lezioni di diritto romano, Padova 2012.

[2]Per quanto riguarda la società venaliciaria vedi E. Del Chiaro, Le contrat de société en droit privé romain, cit., p. 232 e ss.; v. Arangio-ruiz, La società, cit., p. 142 e ss.; M. Bianchini, Studi sulla societas, cit., p. 103; F. Serrao, Sulla rilevanza esterna, cit., p. 748 e ss.; Id., Impresa, mercato, cit., p. 48 e ss.; A. Guarino, La società, cit., p. 72 e ss.; M. Talamanca, voce Società,cit., p. 830; L. Manna, Actio redhibitoria, cit., p. 77 e ss.; G. Santucci, Il socio d’opera, cit., p. 129; R. Ortu, ‘Qui venaliciariam’, cit., p. 9 e ss.; Ead., Schiavi e mercanti di schiavi in Roma antica, Torino 2012, p. 108 e ss.; Ead., Brevi note in tema di societas venaliciaria, in Archivio storico giuridico sardo di Sassari, 19 (2014), pp.152-169; A. Petrucci, Per una storia, cit., p. 224 e ss.; Id., Osservazioni minime, cit., p. 2099 e ss.; Id., L’impresa dei commercianti di schiavi, in Diritto commerciale, cit., p. 316 e ss.; P. Cerami, Negotiationes e negotiatores, cit., p. 86 e ss.; P. Onida, Specificità della causa, cit., p. 6 e ss.

[3] Mentre nella lingua latina i termini di uso più comune per definire il mercante di schiavi erano venaliciarius e mango, nel linguaggio dei giuristi, invece, colui che esercitava il commercio di schiavi veniva di norma indicato con il sostantivo venaliciarius. Per quanto riguarda venaliciarius, il termine risulta già utilizzato dal giurista Africano (D. 50.16.207; Afr. 3 quaest.); successivamente lo si ritrova nelle opere di Papiniano (D. 17.1.57; Pap. 10 resp.) e il suo uso si consolida in età severiana con i giureconsulti Paolo (D. 21.1.44.1; Paul. 2 ad ed. aed. cur.) e Ulpiano (D. 21.1.37; Ulp. 1 ad ed. aed. cur.) i quali offrono significative testimonianze sugli impieghi del lemma venaliciarius e sull’attività svolta da questa categoria di mercanti. Per quanto riguarda l’uso nelle fonti del sostantivo venaliciarius vedi: H.E. Dirksen, voce Venaliciarius, in Manuale latinitatis fontium iuris civilis Romanorum, Berolini 1837, p. 987; E. Forcellini, voce Venaliciarius, in Lexicon totius Latinitatis, vol. IV, Patavii 1887, p. 931; Id., voce Venaliciarius, in Vocabolarium Jurisprudentiae Romanae, vol. V, Berolini 1939, col. 1255; H. Heumann - E. Seckel, voce Venaliciarius, inHandlexicon zu den Quellen des römischen Rechts, Graz 1958, p. 616.

[4]  P. Cerami, Impresa e societas, cit., p. 77 e ss.

[5] F. Serrao, Sulla rilevanza esterna, cit., p. 748 e ss.

[6] P. Cerami, Impresa e societas, cit., p. 77 e ss.

[7] In riferimento a questo tipo di società, rinvio ad alcuni studi fondamentali: V. Arangio-Ruiz, La società in diritto romano, Napoli 1950, p. 141 e ss.; F. Bona, Contributi alla storia della “societas universorum quae ex quaestu veniunt” in diritto romano, in Studi in onore di G. Grosso, vol. I, Torino 1968, p. 385 e ss.; Id., Le “societates publicanorum”, cit., p. 54 e ss.; M. Cimma, Ricerche sulle società dei publicani, Milano 1981, p. 171 e ss.

[8] Sul significato di negotiatio, vedi E. Forcellini, voce Negotiatio, in Lexicon totius latinitatis, vol. III, Patavii 1771, p. 355. Risulta assai utile, per la nozione di negotiatio, un testo di Marciano, in cui si riferisce l’autorevole opinione di Labeone riguardo ad una fattispecie di legato di schiavi da cui venivano esclusi i servi negotiatores: D. 32.65 pr. (Marcian. 7 inst.): Legatis servis exceptis negotiatoribus Labeo scripsit eos legato exceptos videri, qui praepositi essent negotii exercendi causa, veluti qui ad emendum locandum conducendum praepositi essent: cubicularios autem vel obsonatores vel eos, qui piscatoribus praepositi sunt, non videri negotiationis appellatione contineri: et puto veram esse Labeonis sententiam. Dal frammento emerge chiaramente quali attività debbano essere ricomprese nella nozione di negotiatio e quali debbano esserne escluse: per Labeone la negotiatio riguarda l’attività svolta dai servi al fine di acquistare, locare e condurre. Per la nozione di negotiatio vedi anche D. 14.3.5 (Ulp. 28 ad ed.); D. 14.4.1.1 (Ulp. 29 ad ed.) e D. 50.11.2 (Call. 3 de cogn.). Sul significato del termine negotiatio nel linguaggio dei giuristi romani vedi, anzitutto, C. Fadda, Istituti commerciali del diritto romano. Lezioni 1902-1903, vol. I, Napoli 1903, p. 52, il quale riconduce il concetto di negotiatio a quello di «speculazione commerciale». Per quanto attiene alla nozione generica di negotiatio, come attività continuativa commerciale, vedi: W. W. Buckland, The Roman law of slavery,Cambridge 1908, p. 234; A. D. Manfredini, Costantino, la ‘tabernaria’, il vino, in Atti del VII convegno internazionale dell’Accademia Romanistica Costantiniana (Spello-Perugia-Norcia, 16-19 ottobre 1985), Napoli 1988, p. 328; A. Wacke, Alle origini della rappresentanza diretta: le azioni adiettizie, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Prof. Filippo Gallo, vol. II, Napoli 1997, p. 596. Rinvio, inoltre, agli studi di F. Serrao, Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, Pisa 1989, p. 22, il quale, in riferimento al frammento di Ulpiano D. 50.16.185 (Ulp. 28 ad ed.) su taberna instructa e negotiatio, così afferma: «E se, come parmi sicuro, negotiatio si traduce con “impresa”, cominciamo pure ad avere il concetto di impresa e in particolare di impresa commerciale»; F. Gallo, Negotiatio e mutamenti giuridici nel mondo romano, in M. Marrone (a cura di) Imprenditorialità e diritto nell’esperienza storica (Erice 22-25 novembre 1988), Palermo 1992, p. 133 e ss., p. 823 n. 4, il quale sottolinea efficacemente lo stretto collegamento tra negotiatio e attività imprenditoriale; A. Di Porto, Il diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella storiografia romanistica e nelle riflessioni storico-comparative dei commercialisti, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Prof. Filippo Gallo, vol. III, Napoli 1997, p. 440, il quale scrive: «Come studi recenti hanno posto ormai in chiara evidenza, con negotiatio i giuristi fanno riferimento all’idea generale di attività imprenditoriale, in una parola al concetto di impresa». Di grande interesse anche lo studio di T.J. Chiusi, Contributo allo studio dell’editto “de tributoria actione”, in Memorie Acc. Lincei, serie IX, vol. III, fasc. 4, Roma 1993, p. 283 n. 2: «Negotiatio, correlato a negotiari, è termine vasto nel quale rientra sia l’attività di rivendita di merces, sia quella artigianale, sia quella di prestazione di servizi»; nonché quello più recente di M.A. Ligios, “Taberna”, “negotiatio”, “taberna cum instrumento” e “taberna instructa” nella riflessione giurisprudenziale classica, in «Antecessori oblata». Cinque studi dedicati ad Aldo Dell’Oro (con, in appendice, un inedito di Arnaldo Biscardi), Padova 2001, p. 65 e ss., la quale sostiene che: «siano qualificabili alla stregua di negotiationes le sole attività economiche consistenti nella conclusione di determinati contratti con la clientela, che siano svolte in maniera stabile e abituale a fine di lucro». Inoltre, la Ligios è dell’avviso che il concetto di ‘negotiatio’ non riguardi il settore della produzione (in part. vedi p. 53 e ss.) e mostra di non condividere quanto sostenuto da A. Di Porto, Il diritto, cit.,p. 439, a proposito dell’interpretazione di D. 14.4.1.1 (Ulp. 29 ad ed.), il quale ritiene che negotiator e negotiari venissero utilizzati da Sesto Pedio e da Ulpiano «per fare riferimento all’intero ambito imprenditoriale, compresa la produzione». Tra i contributi più recenti in tema di impresa, diritto commerciale romano vedi: M. Bianchini, Attività commerciali fra privato e pubblico in età imperiale, in Fides, fidelitas e ius. Studi in onore di Luigi Labruna, vol. I, Napoli 2007, p. 423 e ss.; T. J. Chiusi, Diritto commerciale romano? Alcune osservazioni critiche, in Fides, fidelitas e ius. Studi in onore di Luigi Labruna, vol. II, cit., p. 1025 e ss.; M. D’Orta, Dalla morfogenesi alla struttura del diritto commerciale: imprenditorialità e diritto. L’esperienza di Roma antica, in Fides, fidelitas e ius. Studi in onore di Luigi Labruna, vol. III, cit., p. 1593 e ss.; L. Solidoro, Annotazioni sullo studio storico del diritto commerciale, in TSDP, 2 (2009), p. 6 e ss.; A. Campanella, Brevi riflessioni su D. 50.16.185 (Ulp., 28 ad ed.). Profili terminologico-concettuali della definizione ulpianea di taberna instructa e locuzioni sostanzialmente equivalenti nella riflessione giurisprudenziale romana tra il I sec. a.C. e il III d.C., in Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze giuridiche e Tradizione romana, 8 (2009), p. 1 e ss. [on-line: http://www.dirittoestoria.it//tradizione-romana/Campanella-D-50-16-185-taberna-instructa-Ulpiano.htm]; P. Cerami, Negotiationes e negotiatores. Tipologia dell’organizzazione imprenditoriale romana, in Il diritto commerciale romano3, Torino 2010, p. 36 e ss.; A. Petrucci, Alcune osservazioni sul rapporto contrattuale con imprenditori nel diritto romano classico, in RHD, 90 (2012), p. 1 e ss.; A.M. Giomaro, Impresa, commercio, economia nel diritto romano, Fano 2014.

[9] Cfr. P. Cerami, “Impresa e societas nei primi due secoli dell’impero”, cit., p. 105 e ss. (ivi ampia lett. sul frammento di Ulpiano), il quale, giustamente, collega il contenuto del testo di Ulpiano con un passo di Paolo (D. 17.2.3.1): «Sono convinto che l’origine ed il senso della presunzione delineata nel brano ulpianeo siano da ascrivere – in coerente sintonia con il processo di mercantilizzazione che investì il contratto di società – al periodo compreso fra Quinto Mucio e Sabino: processo che finì per circoscrivere la societas omnium bonorum ai soli casi in cui le parti avessero esplicitamente manifestato la volontà di volerla costituire: ‘cum specialiter omnium bonorum societas coita est’ (Paul. D.17.2.3.1)». Invece, M. BIANCHINI, Studi sulla societas, Milano 1967, p. 52 e ss., afferma che la frase ΄fuerit distinctum΄ del brano di Ulpiano sia da collegare ad un altro testo ulpianeo, D. 17.2.73, nel punto in cui si legge: ‘si societatem’.

[10] Sul punto vedi C. ARNÒ, Il contratto di società, Torino 1936, p. 92. Al riguardo, F. BONA, Contributi, cit., p. 385 e ss., ritiene che la presunzione sia contributo della giurisprudenza postclassica; di opinione contraria A. GUARINO, La società, cit., p. 26 e ss.

[11] Secondo M. Talamanca, voce Società, cit., p. 827, nt. 136, la presunzione in questione era frutto “un’opinione personale di Ulpiano” e probabilmente nota solamente alla giurisprudenza tardoclassica.

[12] D. 17.2.60.1 (Pomp. 13 ad Sab.), D. 17.2.65.5 (Paul. 32 ad ed.) e D. 21.1.44.1 (paul. 2 ad ed. aed. cur.).

[13]o. lenel, Palingenesia iuris civilis, vol. II, cit., col. 116, fr. 585. Sul passo si vedano: V. Arangio-Ruiz, La società, cit., p. 194; G. Gandolfi, ‘Damnum commune’, in Studi in onore di E. Volterra, vol. III, Milano 1971, p. 535; G. Santucci, Il socio, cit., p. 128 e ss. Da ultimo, vedi C. Pelloso, Il concetto di ‘actio’ alla luce della struttura primitiva del vincolo obbligatorio, in ‘Actio in rem’ e ‘actio in personam’ - In ricordo di Mario Talamanca, vol. I, Padova 2011, p. 166, nt. 149 (ivi lett.).

[14] In merito ai problemi inerenti al risarcimento del danno sopportato dal socio d’opera vedi G. Santucci, Il socio, cit., p. 128 e ss., il quale, nel mettere in correlazione D. 17.2.60.1 (Pomp. 13 ad Sab.) con D. 17.2.52.4 (Ulp. 31 ad ed.), evidenzia il contrasto tra le opinioni di Labeone e di Giuliano.

[15]Rinvio al famoso passo di Gaio 3.148, già citato supra, § 1 di questo contributo. Cfr. V. Arangio-Ruiz, La società, cit., p. 141.

[16] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, vol. I, cit., par. 234, col. 357.

[17] D. 17.2.60.1 (Pomp. 13 ad Sab.).

[18] Per una puntuale ricostruzione del dibattito della dottrina sulla divergenza di opinioni tra Labeone e Giuliano, rinvio tra tutti a G. Santucci, Il socio, cit., p. 128 e ss.

[19] G. Santucci, Il socio, cit., p. 131 e ss.

[20] G. Gandolfi, ‘Damnum commune’, p. 542 e ss., dopo una precisa e puntale indagine sul significato dell’espressione impendere in utilizzata da Pomponio in D. 17.2.60.1, a cui rinvio (p. 537 e ss.), arriva alla conclusione che il frammento D. 2. 61 sia stato redatto ex novo dai Compilatori.

[21] Cfr. G. Santucci, Il socio, cit., p. 138 e ss., il quale afferma che si tratta di un “brevissimo sunto di tenore similare” rispetto a D.17.2.52.4, a cui rinvio anche per la ricostruzione delle motivazioni della dottrina romanistica in merito alla non autenticità del frammento D. 17.2.61.

[22] Sch. 9 e 11 a Bas. 12.1.58 (Scheltema, B II, 498).

[23] Sul testo di Paolo, vedi G. Santucci, Il socio, cit., p. 18. Da ultimo, vedi C. Pelloso, Il concetto di ‘actio’, cit., p. 166, nt. 149 (ivi lett.).

[24] Sul frammento di Paolo, rinvio, nello specifico, a: E. Del Chiaro, Le contrat de société en droit privé romain, cit., p. 232 e ss.; v. Arangio-ruiz, La società, cit., p. 91, p. 142 e ss.; M. Bianchini, Studi sulla societas, cit., p. 103; F. Serrao, Sulla rilevanza esterna, cit., p. 748 e ss.; Id., Impresa, mercato, cit., p. 48 e ss.; A. Guarino, La società, cit., p. 72, p. 104 e ss.; G. Sacconi, Studi sulle obbligazioni solidali da contratto in diritto romano, Milano 1973, p. 101 e ss.; M. Talamanca, voce Società,cit., p. 830; L. Manna, Actio redhibitoria, cit., p. 77 e ss.; G. Santucci, Il socio, cit., p. 129; R. Ortu, ‘Qui venaliciariam’, cit., p. 9 e ss.; Ead., Schiavi e mercanti di schiavi, cit., p. 110 e ss.; A. Petrucci, Per una storia, cit., p. 224 e ss.; Id., Osservazioni minime, cit., p. 2099 e ss.; Id., L’impresa dei commercianti di schiavi, in Diritto commerciale, cit., p. 316 e ss.; P. Cerami, Negotiationes e negotiatores, cit., p. 86 e ss.; C. Pelloso, Il concetto di ‘actio’,cit., p. 166, nt. 62 (ivi lett.); P. Onida, Specificità della causa, cit., p. 6 e ss.

[25] Sull’actio redhibitoria si vedano soprattutto: W.W. Buckland, The Roman law, cit., p. 59 e ss.; R. Monier, La garantie contre les vices, Paris 1930, p. 59 e ss.; A. Pezzana, D. 21, 1, 45. Contributi alla dottrina romana dell’actio redhibitoria,in risg,III3, 5 (1951), p. 275 e ss.; F. Pringsheim, The decisive moment for Aedilician liability,in Rida, 5 (1952), p. 545 e ss.; v. Arangio-ruiz, La compravendita in diritto romano, Napoli 1954, p. 369 e ss.; G. Impallomeni, L’editto degli edili curuli, Padova 1955, p. 137 e ss.; A.M. Honoré, The history of the Aedilitian actions from Roman-dutch law, in Studi De Zulueta, Oxford 1959, p. 132 e ss.; D. Pugsley, The Aedilician Edict, in A. Watson (a cura di) Daube Noster, Edinburgh-London 1974, p. 253 e ss.; A. Watson, Sellers’ Liability for Defects: Aedilician Edict and Pretorian law, in Iura, 38 (1987), p. 167 e ss.; L. Manna, “Actio redhibitoria” e responsabilità per vizi nell’editto “de mancipiis vendundis”,Milano 1994, p. 173 e ss.; Ead., L’interdipendenza delle obbligazioni nella vendita e la redibizione volontaria, in L. Garofalo (a cura di) “La compravendita e l’interdipendenza delle obbligazioni nel diritto romano”, vol. II, Padova 2007, p. 539 e ss.; R. Zimmermann, The Law of Obligations. Roman Foundations of the Civilian Tradition, Oxford 1992 (rist. 1996), p. 317 e ss.; N. Donadio, Sull’“actioredhibitoria”, inIndex, 25 (1997), p. 649 e ss.; Ead., La tutela del compratore, cit., p. 40 e ss.; Ead., Azioni edilizie e interdipendenza delle obbligazioni nell’‘emptio venditio’. Il problema di un giusto equilibrio tra le prestazioni delle parti, in La compravendita, vol. II, cit., p. 455 e ss.; L. Garofalo, “Redhibitoria actio duplicem habet condemnationem” (a proposito di Gai. ad ed. aed. cur. D. 21,1,45), in Atti del Convegno sulla Problematica contrattuale in diritto romano, Milano 11-12 maggio 1995. In onore di Aldo Dell’Oro, Milano 1998, p. 57 e ss.; Id., Perimento della cosa e azione redibitoria in un’analisi storico-compararatistica, in Europa e diritto privato, 2 (1999), p. 843 e ss.; Id., Studi sull’azione redibitoria, Padova 2000; E. Parlamento, Labeone e l’estensione della “redhibitio” all’“actio empti”, in Rivista di Diritto Romano, 3 (2003), p. 1 e ss. [on-line: www.ledonline.it/rivistadirittoromano/]; R. Ortu, ‘Aiunt aediles …’, cit., p. 69 e ss.; Ph. Cocatre-Zilgien, La redhibition de l’esclave pour cause de maladie en droit romain, in Rev. Gen. Droit Med., 2008, p. 9 e ss.; J.J. Aubert, Vitia animi: tares mentales, psychologiques, caracterielles et intellectuelles des esclaves en droit romain, in A. Maffi-L. Gagliardi (a cura di) I diritti degli altri in Grecia e a Roma, Sankt Augustin 2011, p. 236 e ss.

[26]La disapprovazione sociale e la pessima reputazione dei venditori di schiavi emergono fin dal periodo di Plauto, Capt. vv. 98-101: nunc hic occepit quaestum hunc fili gratia/ inhonestum et maxime alienum ingenio suo:/ homines captivos commercatur, si queat/ aliquem invenire, suom qui mutet filium.

[27] Cfr. W.E. Boese, A Study, cit., p. 158 e ss.; H.A. Wallon, Historie de l’esclavage, Aalen 1974, p. 48; A.J. Toynbee, L’eredità di Annibale, vol. II, Torino 1983, p. 425.

[28]Nelle fonti vi sono numerose attestazioni degli atti di frode dei venditori di mancipia. Sono particolarmente interessanti gli atti fraudolenti perpetrati dai commercianti di schiavi per aggirare le disposizioni dell’editto degli edili curuli. Le frodi dei venditori di servi vengono evocate in maniera molto limpida da Cicerone, de off. 3.17.71: Nec vero in praediis solum ius civile ductum a natura malitiam fraudemque vindicat, sed etiam in mancipiorum venditione venditoris fraus omnis excluditur. Qui enim scire debuit de sanitate, de fuga, de furtis, praestat edicto aedilium. Nel titolo D. 21.1 vi sono alcuni frammenti in cui l’emanazione dell’editto degli edili viene sempre giustificata facendo ricorso alla volontà di porre fine alla fallacia dei venditori di schiavi, tra tutti vedi: D. 21.1.1.2 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.): Causa huius edicti proponendi est, ut occurratur fallaciis vendentium et emptoribus succurratur ...; D. 21.1.37 (Ulp. 1 ad ed. aed. cur.): Praecipiunt aediles, ne veterator pro novicio veneat. Et hoc edictum fallaciis venditorum occurrit: ubique enim curant aediles, ne emptores a venditoribus circumveniantur. Nei due passi citati il giurista Ulpiano descrive chiaramente comportamenti fraudolenti dei venditori di servi ai danni degli ignari compratori. Ma vedi anche D. 21.1.44 pr. (Paul. 2 ad ed. aed. cur.): Iustissime aed

Ortu Rosanna



Download:
Fascicolo-I---2018-206-225 Ortu.pdf
 

Array
(
    [acquista_oltre_giacenza] => 1
    [can_checkout_only_logged] => 0
    [codice_fiscale_obbligatorio] => 1
    [coming_soon] => 0
    [disabilita_inserimento_ordini_backend] => 0
    [fattura_obbligatoria] => 1
    [fuori_servizio] => 0
    [has_login] => 1
    [has_messaggi_ordine] => 1
    [has_registrazione] => 1
    [homepage_genere] => 0
    [homepage_keyword] => 0
    [insert_partecipanti_corso] => 0
    [is_login_obbligatoria] => 0
    [is_ordine_modificabile] => 1
    [libro_sospeso] => 0
    [moderazione_commenti] => 0
    [mostra_commenti_articoli] => 0
    [mostra_commenti_libri] => 0
    [multispedizione] => 0
    [pagamento_disattivo] => 0
    [reminder_carrello] => 0
    [sconto_tipologia_utente] => carrello
    [scontrino] => 0
    [seleziona_metodo_pagamento] => 1
    [seleziona_metodo_spedizione] => 1
)

Inserire il codice per attivare il servizio.