Niebuhr, l’isopoliteia e il ius migrandiarcaico
Lorenzo Gagliardi
Professore associato di Diritto romano
Università degli Studi di Milano
Niebuhr, l’isopoliteia e il ius migrandiarcaico*
English title: Niebuhr, The Isopoliteia and the Archaic Ius Migrandi
DOI: 10.26350/004084_000082
Sommario: 1. Il ius migrandi di età arcaica nelle fonti romane e nella dottrina moderna: stato della questione – 2. Niebuhr e l’isopoliteia delle Antiquitates Romanae di Dionigi di Alicarnasso – 3. Inquadramento dell’isopoliteia “di tipo cittadino” ellenistica – 4. Ricapitolazione della tesi di Niebuhr alla luce dell’inquadramento dell’isopoliteia “di tipo cittadino” ellenistica – 5. Verifica della tesi di Niebuhr alla luce di alcuni passi di Dionigi di Alicarnasso – 6. Dionigi di Alicarnasso non impiegava il termine “isopoliteia” nel senso di “isopoliteia di tipo cittadino” come invece riteneva Niebuhr – 7.Conclusione: individuazione del contenuto dell’isopoliteia tra Romani e Latini nell’opera di Dionigi di Alicarnasso e nella realtà laziale del V secolo a.C.
1. Il ius migrandi di età arcaica nelle fonti romane e nella dottrina moderna: stato della questione
In relazione alla storia del diritto romano arcaico del V e del IV secolo a.C. viene oggi convenzionalmente chiamato “ius migrandi” un supposto diritto dei Latini prisci di emigrare a Roma e dei Romani di emigrare nelle (altre) città latine[1], trasferendovi il proprio domicilio e acquistando così la cittadinanza del luogo di destinazione. Per lo più si ritiene, da parte di chi ammette la storicità di tale diritto, che esso sia stato introdotto dal foedus Cassianum, siglato, per la parte romana, dal console Spurio Cassio Vecellino nel 493 a.C.
L’esistenza di codesto “ius migrandi” è però assai dubbia e vale la pena di interrogarsi sulla sua realtà storica.
Preciso espressamente che mi sto riferendo solo al c.d. ius migrandi di età arcaica. Non mi riferisco invece all’età medio/tardo-repubblicana, in relazione alla quale è attestata da Livio[2] una legge che, nel primo quarto del II secolo a.C., concesse ai Latini, questa volta non più solo prisci, ma anche coloniarii, il diritto di trasferirsi a Roma per migrationem et censum, acquistando la cittadinanza romana, a condizione che lasciassero un figlio nella città di provenienza. Quest’ultima legge, certamente esistita, pone una serie di questioni interessanti, che tuttavia fuoriescono dall’obiettivo di queste note e non saranno qui esaminate[3].
A proposito del ius migrandi di età arcaica, che dunque qui considero, occorre segnalare subito due dati.
Il primo è che nelle fonti l’espressione ius migrandi non si rinviene mai, ma è un’invenzione moderna[4]: come è stato rilevato da Franco Vallocchia[5], l’espressione ius migrandi è stata impiegata per la prima volta da Pietro Bonfante nel suo volume intitolato Diritto romano, pubblicato nel 1900[6].
Il secondo è che, come poi avrò modo di verificare, anche le prove sostanziali dell’esistenza di tale supposto ius nelle fonti a noi note sono impercettibili.
Eppure, va detto subito, l’esistenza del ius migrandi arcaico è da molti studiosi affermata e da molti studiosi non negata.
Possiamo considerare, in relazione a quest’ultima affermazione, in primo luogo i manuali moderni di diritto romano pubblico e privato, nei quali si rilevano due orientamenti.
Vi sono – e rappresentano la maggioranza – manuali che, quando trattano dei rapporti tra Roma e i Latini in età arcaica, descrivono una situazione complessiva di grande comunanza giuridica, oltre che etnica, per la quale Romani e Latini avrebbero reciprocamente condiviso una serie di diritti che si enumerano in quattro: ius commerci, ius conubi, ius suffragi e, appunto, ius migrandi[7].
Il secondo gruppo di manuali, recependo a sua volta l’idea di un’assimilazione per così dire naturale tra i Romani e il resto dei Latini, accoglie la comunanza dei iura commerci e conubi, e in parte anche suffragi, ma non menziona il ius migrandi[8]. Non lo menziona nel senso che da un lato non trova evidentemente sufficienti appigli testuali per affermarne l’esistenza, dall’altro non prende però posizione neppure per negare che esso sia esistito.
Se ci rivolgiamo alla letteratura specialistica moderna, dal secolo scorso in poi, notiamo un egualmente marcato e certamente più circostanziato quadro dicotomico.
Tra le principali opere che ammettono il ius migrandi arcaico, possiamo citare in primo luogo il secondo volume della Storia dei Romani di Gaetano De Sanctis del 1907[9]. Possiamo ricordare quindi il secondo volume della Storia della costituzione romana di Francesco De Martino pubblicato in prima edizione nel 1954 e in seconda edizione nel 1973, nel quale il ius migrandi al tempo del foedus Cassianum è detto «non attestato», ma «presumibile»[10], per arrivare poi al denso e fondamentale studio di Michel Humbert, Municipium et civitas sine suffragio. L’organisation de la conquête jusqu’à la guerre sociale, pubblicato a Parigi nel 1978[11], nel quale la derivazione del ius migrandi dal foedus Cassianum è affermata in modo netto. Sulla stessa linea si collocano quindi Giorgio Luraschi nel 1979[12], Mario Talamanca nel 1991[13], Fritz Sturm nel 1992[14] e Maria Floriana Cursi nel 1996[15] (entrambi sulla posizione di De Martino), Patrick Le Roux nel 1998[16], e quindi David Kremer nel suo importante saggio sul ius Latinum del 2006[17].
In senso opposto si sono espressi studiosi che hanno negato la risalenza del c.d. ius migrandi all’età arcaica, ammettendo unicamente l’acquisto della cittadinanza romana per migrationem et censum dal II secolo a.C. (o, al limite, solo in alcuni casi, retrodatando, quest’ultima possibilità al 338 a.C.). Possiamo ricordare Karl Julius Beloch e la sua Römische Geschichte del 1926[18], e quindi gli studi successivi di Gianfranco Tibiletti[19], Arnold Toynbee[20], Jochen Bleicken[21], Umberto Laffi[22], William Broadhead[23], Luigi Capogrossi Colognesi[24], fino ai lavori più recenti di Altay Coşkun[25], ove si trova la più radicale negazione dell’esistenza del ius migrandi in età arcaica[26]. Autori di altri importanti contributi specialistici hanno rilevato le perplessità suscitate dallo stato delle fonti antiche[27].
Di fronte a questo quadro complessivo della dottrina, si dispone nelle fonti di alcuni dati che possiamo fin d’ora porre alla base di quanto sarà detto. Il primo dato è che l’esistenza di commercium e conubium in capo ai Latini nei rapporti con i Romani è attestata per il quarto secolo da Livio quando scrive che, alla conclusione della guerra latina, nel 338 a.C., i Romani ceteris Latinis populis conubia commerciaque et concilia inter se ademerunt[28], affermandone così una maggiore risalenza. Tali commercium e conubium non derivavano dalla comune appartenenza etnica dei vari popoli latini, ma avevano certamente un’origine pattizia[29]. Poiché nel 338 a.C. il trattato che si andava ad abrogare era il foedus Cassianum, sembra logico intendere che commercium e conubium là avessero trovato disciplina. Il secondo dato è che il suffragium dei Latini a Roma è documentato con certezza almeno nel 212 a.C. nei concilia plebis[30], mentre la sua esistenza in tempi anteriori è a sua volta disputata per una serie di altri problemi sui quali dobbiamo in questa sede sorvolare, ma non sembra dimostrata[31]. In terzo luogo, l’asserita comunanza di valori dell’antica “nazione” latina a mio avviso va interpretata con molta prudenza, essendo essa stata fortemente accentuata, per ispirazione delle idee stataliste moderne, dalla letteratura ottocentesca, la quale ha invece gravemente trascurato che le città latine erano per lo più – al netto di singoli foedera – in conflitto permanente tra loro e in modo particolare tendevano al conflitto con Roma[32].
Svolte queste premesse, e venendo ora a concentrare l’attenzione sul ius migrandi, come ho detto, secondo la tesi “antichista” si ritiene che la sua origine rimonti, se non addirittura a un’epoca più antica, ma non molto documentata dalle fonti[33], almeno al foedus Cassianum.
Ebbene, il trattato, inciso su una colonna di bronzo posta dietro ai rostri, come testimonia per i suoi tempi ancora Cicerone[34], è menzionato da Livio[35], ma il suo testo è stato – in parte – tramandato unicamente da Dionigi di Alicarnasso:
ἦνδὲτὰγραφένταἐνταῖςσυνθήκαιςτοιάδε·ῬωμαίοιςκαὶταῖςΛατίνωνπόλεσινἁπάσαις εἰρήνηπρὸςἀλλήλουςἔστω, μέχριςἂνοὐρανόςτεκαὶγῆτὴναὐτὴνστάσινἔχωσι: καὶμήτ᾽αὐτοὶπολεμείτωσανπρὸςἀλλήλουςμήτ᾽ἄλλοθενπολέμουςἐπαγέτωσαν, μήτετοῖςἐπιφέρουσιπόλεμονὁδοὺςπαρεχέτωσανἀσφαλεῖςβοηθείτωσάντετοῖςπολεμουμένοιςἁπάσῃδυνάμει, λαφύρων τε καὶλείαςτῆςἐκπολέμωνκοινῶντὸἴσονλαγχανέτωσανμέροςἑκάτεροι: τῶντ᾽ἰδιωτικῶνσυμβολαίωναἱκρίσειςἐνἡμέραιςγιγνέσθωσανδέκα, παρ᾽οἷςἂνγένηταιτὸσυμβόλαιον. ταῖςδὲσυνθήκαιςταύταιςμηδὲνἐξέστωπροσθεῖναιμηδ᾽ἀφελεῖνἀπ᾽αὐτῶν, ὅτιἂνμὴῬωμαίοιςτεκαὶΛατίνοιςἅπασιδοκῇ[36].
Il patto, rientrante tra i c.d. foedera aequa, secondo il testo dell’Alicarnassense oltre a prevedere la pace tra i popoli coinvolti, poneva questi ultimi su un piano di parità, li obbligava a un aiuto militare reciproco, disponeva la divisione in parti eguali del bottino di guerra, e, in materia obbligatoria, stabiliva che le controversie di diritto privato insorte tra cittadini delle comunità alleate fossero decise entro dieci giorni dai giudici del territorio nel quale l’obbligazione fosse sorta[37]. Di un diritto di immigrazione e di acquisire conseguentemente la cittadinanza delle varie città legate dal foedus, però, non v’è traccia. È vero che non si parla espressamente neppure di commercium e conubium, ma, come ho già indicato, questo non contraddice la tesi che nel foedus essi fossero regolati, in considerazione della loro abolizione nel 338 a.C. Prove dell’esistenza del ius migrandi fino almeno al 338 a.C. (e con ogni probabilità, a mio avviso, anche oltre tale anno), invece, difettano.
Partendo da una base di dati così fragile, occorre a questo punto domandarsi chi per primo e soprattutto sulla base di quali argomenti abbia affermato nella storia della dottrina l’esistenza nel Lazio antico di tale supposto “ius”, che nelle fonti antiche non appare.
Già in uno studio del 1958, Carlo Castello[38] aveva osservato che nelle opere edite prima del diciannovesimo secolo non si trova alcun riferimento al c.d. ius migrandi. Tale supposto diritto era del tutto sconosciuto a Cujacius, a Sigonius, a Brissonius, a Heineccius.
2. Niebuhr e l’isopoliteia delle Antiquitates Romanae di Dionigi di Alicarnasso
L’origine del nostro tema ci porta allora, secondo le ricerche che ho potuto svolgere, al primo volume della Römische Geschichte di Barthold Georg Niebuhr (Copenaghen, 1776 - Bonn, 1831), pubblicato nel 1811 (poi seguito da un secondo volume nel 1812)[39]. Niebuhr scrisse tale opera condensandovi le lezioni di Storia romana che dal 1810 tenne all’Università di Berlino, come membro della locale Accademia delle Scienze. In essa si trova affacciata l’idea che gli Italici, e tra essi anche i Latini, potessero trasferirsi a Roma, acquistando così la cittadinanza romana. Tale prima provvisoria trattazione si trova alle pagine 368-373 (I vol.).
La trattazione è poi notevolmente ampliata, molti anni dopo, in un’edizione totalmente rifatta, dell’opera[40], nella quale, date le accresciute dimensioni del primo volume, la parte sui Latini è transitata al secondo volume pubblicato nel 1830 (2a ed.): pagine 17-93[41] (e 93-100[42] sugli Ernici). Questa edizione fu completata da Niebuhr a Bonn, ove egli si era trasferito a partire dal 1823, dopo essere stato ambasciatore prussiano a Roma presso la Santa Sede dal 1816 al 1823 e dopo avere incidentalmente riscoperto (nel 1816, durante il viaggio verso Roma), come si sa, il palinsesto veronese delle Istituzioni di Gaio[43].
L’opinione di Niebuhr era che i Latini e gli Italici dei municipi – uniti in una federazione a suo avviso comparabile con quella degli Stati Uniti d’America – godessero di un diritto di isopoliteia[44], così chiamato nelle Antiquitates Romanae, con ricorso a un termine ampiamente impiegato nel mondo greco e soprattutto ellenistico, da Dionigi di Alicarnasso[45], secondo il quale tale diritto sarebbe stato introdotto dal foedus Cassianum nel 493 a.C. (benché la parola non sia presente nel passo del trattato da Dionigi tramandato, e qui sopra riportato)[46]. Nell’opinione di Niebuhr, i Latini e i municipes ottenevano la piena cittadinanza romana trasferendo il domicilio a Roma e manifestando la volontà di ottenerla, senza bisogno che ciò fosse confermato dai magistrati romani[47]. Ma l’isopoliteia del mondo romano/latino cui allude Dionigi di Alicarnasso sarebbe differente da quella del mondo greco ed ellenistico. Niebuhr riferiva l’isopoliteia in questione ai rapporti tra due poleis o tra una polis e un cittadino di un’altra polis. In base a essa, secondo lo studioso, un greco, quando avesse acquistato la cittadinanza della città nella quale si fosse trasferito, avrebbe mantenuto quella d’origine e inoltre nella città di destinazione l’isopolites non sarebbe stato considerato tra i cittadini veri e propri. Nel mondo romano, invece, per il principio “nemo duarum civitatum civis esse iure civili potest” (ricavabile da Cic. Balb. 11.28), l’isopoliteia avrebbe previsto che chi si trasferiva perdesse la vecchia cittadinanza, acquistando la nuova[48]. Inoltre, gli isopolitai a Roma sarebbero stati iscritti in una particolare categoria di cittadini, quella degli aerarii.
A questo punto, Niebuhr compiva un’osservazione molto importante, per l’influenza che avrebbe avuto in seguito sugli studi in materia: a suo avviso, un Romano che fuggiva in esilio per sottrarsi al rischio di una condanna capitale, se si trasferiva in una città legata a Roma dall’isopoliteia, ne diventava automaticamente cittadino; viceversa, il cittadino che si fosse trasferito in una città non legata in tal modo a Roma, ne sarebbe diventato cittadino soltanto per formale decisione assunta dagli organi competenti. Egli collegò in tal modo il tema dell’isopoliteia con quello dell’esilio, ispirando suggestioni che sarebbero state successivamente e ampiamente raccolte da Theodor Mommsen[49], per il cui tramite esse sarebbero poi transitate in forma molto più organica alla dottrina successiva, lungo la catena che ho sopra per sommi capi riferito. Ma questa, del modo della recezione da parte di Mommsen delle idee di Niebuhr, e della loro trasmissione nel XIX secolo, è una storia che richiede una trattazione separata che ho avuto modo di affrontare in altra occasione[50].
Restiamo dunque in questa sede sulle idee pionieristiche di Niebuhr. A parte l’accostamento, certamente eccessivo, dei Latini ai municipes[51], la tesi del nostro autore rappresentò un momento importante di coagulo di argomenti intorno a un’idea principale: che l’isopoliteia del foedus Cassianum per gli abitanti del Latium comportasse il cambiamento di cittadinanza automaticamente, sulla base del trasferimento di domicilio e della volontà di diventare cittadini della città nella quale andavano a vivere. Se ne deduce, ad esempio, che, secondo tale ricostruzione, l’iscrizione dei Latini a Roma nelle liste (secondo Niebuhr, degli aerarii) da parte dei censori sarebbe stata un atto dovuto, né viene precisato come a un eventuale diniego gli interessati si potessero opporre. Quanto detto finora per i Latini valeva egualmente anche per gli Ernici, in virtù dell’estensione a tale popolo dal 484 a.C., mediante un nuovo trattato, delle norme introdotte per i Latini dal foedus Cassianum. Agli Ernici pure, d’ora in poi, parlando dei soli Latini, faremo implicitamente riferimento.
Osservo incidentalmente che anche secondo Mommsen l’acquisto della cittadinanza romana da parte dei Latini mediante spostamento di domicilio in età arcaica sarebbe stata in un primo tempo automatica (una “necessità legale”, rechtliche Notwendigkeit[52]) e solo in progresso di tempo sarebbe stata formalizzata mediante una dichiarazione ai censori. Ma tale dichiarazione, secondo Mommsen, peraltro, non avrebbe avuto efficacia costitutiva, poiché il mutamento di cittadinanza sarebbe avvenuto de facto con lo spostamento del domicilio. Le regole non sarebbero state queste, però, nell’opinione di tutti gli autori moderni che hanno sostenuto l’esistenza del ius migrandi arcaico: secondo Michel Humbert[53], ad esempio, i Latini dopo la migratio Romam avrebbero potuto scegliere se restarvi come semplici residenti, dotati di commercium e conubium, o diventare cittadini romani, esercitando il ius migrandi. Su questa particolare differenza delle tesi degli autori, che non è di poco momento, avrò modo di ritornare in seguito.
Per ora intendo concentrarmi sulla tesi di Niebuhr, che tanto ha influenzato la dottrina successiva, a prescindere dalla considerazione che quest’ultima si sia specificata in tesi differenziate.
Dunque Niebuhr partì dalla considerazione che Dionigi attribuiva ai Latini la condizione di isopolitai dei Romani. E questo è senz’altro innegabile. Ma che cos’era l’isopoliteia cui si riferiva Dionigi?
Come abbiamo visto, Niebuhr intendeva che tale isopoliteia fosse quella che legava per trattato tra loro due poleis, o una polis e un cittadino di un’altra polis. Potremmo definire questa isopoliteia come un’“isopoliteia di tipo cittadino” (per distinguerla dall’isopoliteia che si aveva tra due koina o all’interno di un koinon, che potremmo invece chiamare “isopoliteia di tipo federale”: vd. oltre, § 6). A suo avviso, in base a essa, un greco che mutava domicilio manteneva la cittadinanza d’origine e non era considerato tra i politai della città di destinazione.
Dobbiamo a questo punto domandarci in primo luogo se sia corretto l’inquadramento dell’isopoliteia “di tipo cittadino” ellenistica che Niebuhr ha proposto.
3. Inquadramento dell’isopoliteia “di tipo cittadino” ellenistica
Ebbene, l’isopoliteia – letteralmente attribuzione di “eguali diritti di cittadinanza” da parte di una polis a un singolo individuo o a tutti i cittadini di un’altra polis – rimonta, nei suoi primordi, ai rapporti tra le poleis della Grecia classica, ma ha avuto il suo sviluppo principale soprattutto durante l’età ellenistica, nel periodo dal III al I secolo a.C.
La dottrina moderna, risentendo dell’impostazione di Niebuhr, ha esitato sulle precise regole di questa isopoliteia ellenistica[54], ma mi sembra che l’insieme delle fonti disponibili – oltre un centinaio di epigrafi, molte delle quali frammentarie, e nelle quali l’isopoliteia è chiamata talora semplicemente anche politeia[55] – offra alcuni riferimenti oggi altamente affidabili, che non vanno nella direzione indicata da Niebuhr.
Mi riferisco soprattutto ad alcune epigrafi del Delphinion di Mileto che preservano convenzioni tra quest’ultima polis e altre città vicine, in particolare Seleucia-Tralles (Milet I 3 nr. 143, 218/217 a.C.), Mylasa (Milet I 3 nr. 146, 215/214 a.C.) ed Eraclea al Latmo (Milet I 3 nr. 150, 180 a.C.) e inoltre all’iscrizione del trattato tra Xanthos e Myra (SEG 44.1218[56]) databile tra il 150 e il 110 a.C., che sono ricche di particolari importanti.
È utile leggere alcune righe rilevanti del trattato tra Mileto ed Eraclea. In esse è riportato:
(10) ἐπειδὴἩρακλεῶταιφίλοικα̣ὶἀσ|τυγείτονεςτῆςπόλε<ως> ὑπάρχοντεςψήφισμακαὶπρεσβευτὰςἀποστείλαντεςἠξίωσ̣αν̣ | τὸνδῆμονσυνθέσθαιπρὸςαὑτοὺςὑπὲρτῆςἰσοπολιτείαςκαὶ τῶνἄλλωνφιλαν|θρώπων…. (34)εἶναιπολίταςΜιλησίουςἩρακλεωτῶνκαὶἩρακλεώταςΜιλησίων…
Queste disposizioni indicano chiaramente che il trattato di isopoliteia rendeva i cittadini di una delle due poleis contraenti cittadini anche dell’altra. Una cittadinanza, però, solo potenziale. Come essa diventasse effettiva[57] e con il conseguimento di quali diritti è indicato dalle successive linee 43-53:
τοὺςδὲβουλομένουςἩρακλεωτῶνμετέχειντῆςἐμΜιλήτωιπολ[ι]|τείαςκαὶἱερῶνκαὶἀρχείωνκαὶτῶνλοιπῶν, ὧνκαὶτοῖςἄλλοιςμέτεστιΜιλησί{ων}οις {Μιλησίοις}, ἀπο|γράφεσθαιἀν’ἕκαστονἔτοςπρόςτετοὺςπρυτάνειςκαὶτοὺςᾑρημένουςἐπὶτῆιφυλα|κῆιτάτεαὑτῶνὀνόματακαὶἧςἂνὦσινφυλῆςκαί, εἴτισινὑπάρχουσινγυναῖκεςκαὶτέκνα, | καὶτὰτούτωνὁμοίωςὀνόματα, ποιουμένουςτὴνἀπογραφὴνἐντῶιμηνὶτῶιἈνθεστη|ριῶνι. γίνεσθαιδὲαὐτῶνκαὶτὴνἐπικλήρωσινἐντῶιαὐτῶιμηνὶὑπότετῶνπρυτάνεω̣[ν] | καὶτῶνᾑρημένωνἐπὶτῆιφυλακῆι, ἐπικληρουμέμωναὐτῶνπρὸςμέροςἐφ’ἑκάστην̣ | φυλήν·εἶναιδὲαὐτοῖςτῶνμὲνλοιπῶνπάντωνπαραχρῆματὴνμετουσίαν, φρο[υ]|ραρχίαςδὲκαὶφυλακῆςτῆςκατὰπόλινκαὶφρουρικῆςμετεῖναιαὐτοῖςδιελθόντων | ἐτῶνδέκα, ἀφ’οὗἂνἕκαστοιἐπικληρωθῶσιν·τὰδὲἄλλατὰπερὶτὸνκλῆροντὸνἐνἀρχαιρεσ[ί]|αις ὑπάρχεινκατὰτὸνβουλευτικὸννόμον.
I cittadini di una polis che volevano rendere attuale la loro condizione di cittadini dell’altra polis, dovevano trasferirvisi e chiedere ai pritani di essere iscritti in una tribù e in un demo, la cui individuazione avveniva mediante sorteggio[58]. A quel punto, essi godevano di tutti i diritti come i cittadini nativi e potevano accedere anche alle magistrature, con qualche limitazione temporanea (nello specifico in ordine ad alcune cariche militari). Essi non esercitavano più il diritto di cittadinanza nella città di provenienza. Ma tale diritto non scompariva completamente. Diventava a sua volta potenziale e avrebbe potuto teoricamente essere fatto valere di nuovo con un inverso trasferimento della residenza e seguendo le ulteriori procedure previste. Il trattato disponeva, in punti successivi, che i cittadini di ciascuna città potevano trasferirsi come cittadini nell’altra soltanto se erano stati residenti in una delle due città negli ultimi cinque anni e i cittadini ascitizi di una delle due città potevano esercitare il diritto all’isopoliteia soltanto decorsi dieci anni[59]. Le informazioni sono in linea di principio confermate dagli altri trattati citati.
Tutte queste indicazioni appaiono ricavabili dalle fonti indicate, e si può dire che siano oggi largamente condivise dalla dottrina[60].
Va segnalato che nel 1930 esse furono messe in discussione, con una certa risonanza, da un autorevole studioso, Ugo Enrico Paoli, il quale si soffermò sul dato che in alcune iscrizioni la concessione dell’isopoliteia appare accompagnata dall’attribuzione della capacità di acquistare la proprietà della terra (enktesis) e/o di sposare le cittadine (epigamia) del luogo che concedeva l’isopoliteia[61]. Si possono citare ad esempio, per la loro chiarezza, le parole del trattato tra le città cretesi di Ierapitna e Prianso, IC III iii 4[62], databile post 205 a.C., nel quale alle ll. 12-14 si legge:
Ἱεραπυτν̣[ίοις] | καὶΠριανσίο<ι>ςἦμενπαρ’ἀλλάλοιςἰσοπολιτείανκαὶἐπιγα|μίαςκαὶἔνκτησιν…
Paoli affermò che la tesi che riconosce agli isopolitai ellenistici il diritto di ricevere la cittadinanza passando da una polis all’altra non apparirebbe compatibile con il riconoscimento espresso di enktesis ed epigamia[63], dato che esse sarebbero state implicite nell’isopoliteia intesa nel senso indicato. Egli concluse dunque che l’isopoliteia non fosse null’altro che la capacità processuale.
Quest’ultimo passaggio della tesi di Paoli non sembra persuasivo per due ragioni: in primo luogo, perché il significato letterale del sostantivo isopoliteia[64] lo rende difficilmente giustificabile e, in secondo luogo, perché appare più probabile che la capacità processuale, in capo a un residente di una polis ellenistica che avesse la capacità di acquistarvi la proprietà immobiliare, fosse implicita (come del resto probabilmente avveniva a Roma in base al commercium[65]).
Più degno di nota è però il rilievo principale di Paoli e cioè che l’enktesis e l’epigamia fossero capacità implicite in capo a un polites. Questo rilievo pone un argomento molto serio contro la tesi maggioritaria.
Tuttavia, va sottolineato che nel panorama delle epigrafi l’attribuzione dell’isopoliteia “di tipo cittadino” si accompagnava non solo all’attribuzione di enktesis ed epigamia, ma anche alla promessa di protezione (asylia, asphaleia) e alla concessione di altri privilegi, tra cui il diritto di pascolo (epinomia) e l’esenzione da tributi (ateleia)[66].
Leggendo l’insieme dei testi, si ha dunque l’impressione che l’indicazione del riconoscimento di specifici diritti o capacità agli isopolitai avesse un valore esclusivamente paradigmatico per agevolare i cittadini alla comprensione del contenuto dei trattati e dei principali diritti loro spettanti.
Del resto, anche in IC III iii 4, subito dopo le parole che ho riportato e sulle quali si soffermò Paoli, si legge che agli isopolitai spettavano non solo enktesis ed epigamia, ma la partecipazione a tutte le cose divine e umane spettanti agli iscritti alle tribù e inoltre diritti economici in relazione al commercio, diritti di sfruttamento del demanio (per coltivazione e pascolo), obblighi fiscali equiparati a quelli degli altri cittadini, diritti di partecipare a feste religiose[67]. Inoltre, va detto che Paoli ha totalmente ignorato le disposizioni che si traggono dalle epigrafi del Delphinion di Mileto[68].
Va aggiunto, per altro aspetto e per completezza del quadro che ho inteso fornire, che in molti casi l’isopoliteia “di tipo cittadino” non era fatta valere, ma restava a titolo onorario[69]. E questo pare attestato anche dal fatto che molto spesso, in casi di attribuzioni individuali di tale isopoliteia, l’isopolites era contestualmente reso anche proxenos, il che fa presupporre che non fosse atteso un suo trasferimento, ma al contrario ci si aspettasse la sua permanenza nella città nella quale si trovava[70].
Tutto questo nel complesso indica dunque che in base all’isopoliteia “di tipo cittadino”:
1) gli isopolitai delle poleis ellenistiche avevano il diritto di acquisire la piena cittadinanza nella polis legata da un trattato di isopoliteia con la propria;
2) la cittadinanza dei nuovi cittadini poteva conoscere alcune particolari limitazioni;
3) i nuovi politai godevano di tutti i diritti politici attivi e passivi;
4) evidentemente (per l’esigenza indicata al punto nr. 2) essi erano registrati in un registro particolare per tenere conto delle particolari limitazioni alle quali erano, come cittadini, sottoposti;
5) c’era, almeno in alcuni casi, un controllo a monte molto attento, evidentemente mediante registri, sul modo nel quale i cittadini che facevano domanda di cittadinanza avessero conseguito la cittadinanza originaria;
6) la vecchia cittadinanza restava latente o potenziale;
7) tutto ciò presuppone che vi fosse un’ordinata tenuta dei registri civici.
4. Ricapitolazione della tesi di Niebuhr alla luce dell’inquadramento dell’isopoliteia “di tipo cittadino” ellenistica
Torniamo a questo punto a Niebuhr e ricapitoliamo il suo argomento:
a) egli colse che Dionigi di Alicarnasso parlava di isopoliteia nei rapporti tra Romani e Latini del V secolo a.C., il che è certamente un dato innegabile;
b) applicò quindi la definizione dell’isopoliteia “di tipo cittadino” ellenistica alla situazione laziale;
c) desunse che, in modo analogo a quanto era accaduto nei rapporti tra le poleis ellenistiche, i Latini che emigravano in Roma o in altre città latine, così come i Romani che si spostavano in altre città del Latium acquistassero la cittadinanza della città di destinazione;
d) errò tuttavia nell’affermare che gli isopolitai ellenistici quando acquistavano la nuova cittadinanza mantenessero effettiva quella d’origine, ciò che, per le ragioni indicate sulla base delle fonti, non è sostenibile (la cittadinanza d’origine restava in realtà solo potenziale);
e) in ogni caso, non ammise che i Latini trasferiti a Roma (e viceversa) mantenessero la loro vecchia cittadinanza in virtù del principio “nemo duarum civitatum civis esse iure civili potest”[71] e quindi, pur per altra via, giunse alla stessa conclusione che avrebbe raggiunto se, sotto questo aspetto, avesse inteso l’isopoliteia “di tipo cittadino” ellenistica nel modo che la dottrina maggioritaria oggi ritiene, a mio avviso giustamente, corretto.
L’intuizione di Niebuhr basata sull’isopoliteia ellenistica sarebbe stata in seguito alla base e all’origine di tutte le teorie successive sul c.d. ius migrandi[72].
5. Verifica della tesi di Niebuhr alla luce di alcuni passi di Dionigi di Alicarnasso
Dato che nella teoria di Niebuhr non esistono testimonianze dirette dell’esistenza del ius migrandi tra Romani e Latini, ulteriori rispetto al fatto che Dionigi di Alicarnasso riferisca il termine isopoliteia alla realtà laziale del V secolo a.C., io credo che noi dobbiamo a questo punto verificare se vi siano altri elementi nell’opera di Dionigi di Alicarnasso che consentano di attribuire allo scrittore greco l’affermazione dell’esistenza di un tale ius.
Ebbene, io ritengo che Dionigi di Alicarnasso, pur applicando il termine del diritto ellenistico “isopoliteia” ai rapporti tra Romani e Latini, non ritenesse che nel contesto laziale tale isopoliteia desse adito a un ius migrandi. Questo sembra indicato da un paio di passi della sua opera e da un’osservazione generale sulla natura giuridica del foedus Cassianum.
Dobbiamo considerare in primo luogo il racconto di Dionigi relativo agli anni 486-485 a.C., dal terzo consolato di Spurio Cassio Vecellino alla sua morte (paragrafi 68-78 dell’ottavo libro delle Antiquitates Romanae).
All’inizio del paragrafo 68 si legge che furono eletti consoli per il 486 a.C. Proculo Virginio Tricosto Rutilo e, appunto, Spurio Cassio Vecellino per la terza volta. Scoppiarono guerre contro Equi, Ernici e Volsci. Contro i primi andò a combattere, vincendo, Virginio; contro gli altri, Cassio[73]. Anche Cassio ebbe buon giuoco nel prevalere contro i nemici. I Volsci si arresero presto. Subito dopo, anche gli Ernici giunsero a trattative di pace[74] e, dice Dionigi, con loro Cassio concluse, su mandato senatorio[75], un trattato di pace che era copia conforme di quello concluso con i Latini nel 493 a.C.[76]. Ciò, aggiunge Dionigi, naturalmente suscitò una vera e propria indignazione da parte di quei senatori che a Cassio avevano dato il mandato di concludere il trattato: in particolare i senatori più anziani, e più influenti, non condividevano il principio che gli Ernici godessero dello stesso onore riservato ai Latini, che erano della stessa stirpe dei Romani.
Il giorno dopo il suo trionfo, nello stesso anno 486 a.C., Cassio convocò l’assemblea del popolo. Nel suo discorso ricordò dapprima il suo primo consolato del 502 a.C., in cui aveva sconfitto i Sabini. Quindi, citò il suo secondo consolato, in cui aveva concluso il foedus con i Latini. Poi, dopo aver ricordato che nel suo terzo consolato aveva infine sconfitto i Volsci e indotto alla sottomissione gli Ernici, concluse asserendo che avrebbe presentato una proposta che avrebbe portato grandi benefici al popolo[77].
Presentò l’indomani la sua proposta proprio a quel senato che già lo aveva criticato per il trattato con gli Ernici. Propose una ridistribuzione di terre a vantaggio di Romani, ma anche di Latini ed Ernici[78]. Si opposero l’altro console, Virginio, e i tribuni della plebe, i quali erano favorevoli a una ridistribuzione soltanto a vantaggio di cittadini Romani, non avendo i Latini e gli Ernici partecipato a quelle conquiste[79]. Si sottolineava che solo da poco gli Ernici erano entrati in una relazione di amicizia (φιλία) con i Romani.
A questo punto assume rilievo un primo passo di nostro interesse, Dion. Hal. 8.72.4-5:
(4) ταῖςδ’ἑξῆςἡμέραιςἀρρωστίανσκηπτόμενοςοὐκέτικατέβαινενεἰςτὴνἀγοράν, ἀλλ’ὑπομένωνἔνδονἐπραγματεύετοβίᾳκαὶχειροκρασίᾳκυρῶσαιτὸννόμον·καὶμετεπέμπετοΛατίνωντεκαὶἙρνίκωνὅσουςἐδύνατοπλείστουςἐπὶτὴνψηφοφορίαν. (5) οἱδὲσυνῄεσανἀθρόοι, καὶδι’ὀλίγουμεστὴξένωνἦνἡπόλις. ταῦταμαθὼνὁΟὐεργίνιοςκηρύττεινἐκέλευσεκατὰτοὺςστενωποὺςἀπιέναιτοὺςμὴκατοικοῦνταςἐντῇπόλει, χρόνονὁρίσαςοὐπολύν. ὁδὲΚάσσιοςτἀναντίαἐκέλευσεκηρύττεινπαραμένειντοὺςμετέχονταςτῆςἰσοπολιτείας, ἕωςἂνἐπικυρωθῇὁνόμος.
Cassio invitò Latini ed Ernici a recarsi a Roma a votare a favore della sua proposta di legge[80] e gli appartenenti a tali popoli accorsero in massa. Dionigi dice che in breve “la città si riempì di stranieri” (δι’ ὀλίγουμεστὴ ξένωνἦνἡπόλις).
L’iniziativa di Cassio di chiamare al voto Latini ed Ernici fu un colpo di mano[81], non avendo essi il diritto di voto.
Ciò è dimostrato dal fatto che, come si legge nel passo, venuto a conoscenza dell’accaduto, Virginio comandò di divulgare per le strade l’ordine che coloro che, tra Latini ed Ernici giunti a Roma, non fossero κατοικοῦντες in città andassero via, e stabilì un termine brevissimo entro il quale entrasse in vigore la misura. Orbene, nella terminologia ellenistica κατοικοῦντες erano detti i soggetti domiciliati (se si vuole usare la terminologia latina che deriva da domicilium), o residenti (se si vuole impiegare la moderna terminologia italiana) nelle città[82]. Cassio per tutta risposta dispose, opponendo quindi di fatto il veto al collega, che tutti quegli stranieri che godevano dell’isopoliteia, pertanto di nuovo Latini ed Ernici (e s’intende: anche se non κατοικοῦντες), potessero restare in città, finché non fosse stata approvata la legge.
I senatori si riunirono, si opposero alla proposta di Cassio[83], che, l’anno seguente, il 485 a.C., fu perseguito in giudizio con l’accusa di avere, con la sua legge, aspirato alla tirannide[84] e fu condannato a morte, venendo precipitato infine dalla rupe Tarpea[85].
Da questo passo si ricavano due dati importanti.
Il primo è che i Latini e gli Ernici domiciliati a Roma erano rimasti stranieri: xenoi.
Il secondo – e si tratta di una conferma dei dati già noti da altre vie – è che nel V secolo a.C. Latini ed Ernici a Roma non votavano nelle assemblee del popolo, anche se residenti.
Questo rende altamente improbabile, se non del tutto impossibile, che Latini ed Ernici godessero di un’isopoliteia eguale a quella che sarebbe stata prevista, alcuni secoli dopo, dai trattati tra le città ellenistiche.
Il passo rende inoltre insostenibile l’idea del ius migrandi rappresentata da Niebuhr e da Mommsen, secondo cui l’acquisto della cittadinanza romana da parte dei Latini sarebbe stata automatica. Il passo prova al contrario che esistevano Latini residenti a Roma non cittadini romani.
Esso rende difficilmente proponibile anche l’idea del ius migrandi rappresentata da Michel Humbert[86], secondo cui l’acquisto della cittadinanza romana per i Latini trasferiti non era automatica, ma avveniva su richiesta degli interessati, secondo lo schema che sarebbe stato proprio delle città federate di età ellenistica: non si comprende perché nel 486 a.C. i Latini e gli Ernici domiciliati a Roma, qualora avessero potuto farlo, non avessero optato per quella cittadinanza romana che avrebbe conferito loro il diritto di voto e di partecipare alle distribuzioni di terre da parte della città.
Le determinazioni ora raggiunte sono confermate da un secondo testo di Dionigi di Alicarnasso, nel quale è scritto che nel 492 a.C., durante una carestia e per le connesse gravi tensioni sociali verificatesi nell’Urbe, alcune città latine offrirono ai Romani di emigrare presso di loro, conseguendo la cittadinanza locale. Dion. Hal. 7.18.3:
τοιαύτηςδὲκαταστάσεωςοὔσηςπερὶτὴνῬώμηναἱπλησιόχωροιπόλειςἐκάλουν τοὺςβουλομένουςοἰκεῖνπαρὰσφίσιῬωμαίωνπολιτείαςτεμεταδόσεικαὶἄλλωνφιλανθρώπωνἐλπίσινὑπαγόμεναι, αἱμὲνἀπὸτοῦβελτίστουδι' εὔνοιάντεκαὶἔλεοντῆςσυμφορᾶς, αἱδὲπλείουςδιὰφθόνοντῆςπάλαιποτὲεὐτυχίας. καὶἦσανοἱἀπαναστάντεςπανοικεσίᾳκαὶμεταθέμενοιτὰςοἰκήσειςἑτέρωσεπολλοὶπάνυ·ὧνοἱμὲνἀνέστησαναὖθις, ἐπειδὴκατέστητὰπράγματατῆςπόλεως, οἱδὲκαὶδιέμειναν.
Come ha messo in luce già Luigi Capogrossi Colognesi[87], la formulazione dell’offerta della cittadinanza sarebbe incomprensibile se i Romani già avessero goduto del diritto di acquisirla mediante trasferimento del domicilio in ragione del foedus Cassianum. Si ritrova una conferma che così non fosse.
Un altro argomento contro la tesi di Niebuhr è infine di carattere generale: come ha osservato ancora Capogrossi Colognesi, l’isopoliteia ellenistica che ho qui chiamato “di tipo cittadino” realizzava relazioni bilaterali, mentre nel caso del foedus Cassianum siamo di fronte a un trattato istitutivo di una confederazione plurilaterale fra civitates, sicché sarebbe impossibile che ciascun Latino e ciascun Romano fosse «contemporaneamente titolare, oltre che della sua cittadinanza d’origine, di tutte le altre cittadinanze dei membri della lega: un vero e proprio monstrum giuridico cui probabilmente lo stesso Dionigi non ha mai pensato»[88]. Questo rilievo mi conduce direttamente a esporre le considerazioni che svolgo nel prossimo paragrafo.
6. Dionigi di Alicarnasso non impiegava il termine “isopoliteia” nel senso di “isopoliteia di tipo cittadino” come invece riteneva Niebuhr
Dopo aver escluso, sulla base degli argomenti finora svolti, che Dionigi di Alicarnasso ritenesse che esistesse un ius migrandi reciproco tra gli abitanti delle città latine, resta a questo punto da chiarire ancora un tema: e cioè con quale significato, allora, Dionigi impiegasse il termine “isopoliteia” quando descriveva i rapporti tra le città latine basati sul foedus Cassianum. Abbiamo visto che la definizione giuridica dell’isopoliteia “di tipo cittadino”, alla quale siamo pervenuti, non si attaglia alla realtà romana, perché in quest’ultima, in base al foedus Cassianum, esistevano commercia conubiaque reciproci tra le varie civitates, mentre mancava proprio quel ius migrandi che viceversa esisteva – secondo le modalità che ho cercato di delineare – nel mondo ellenistico.
Come ho accennato in precedenza, tuttavia, bisogna considerare che nel mondo greco-ellenistico si parlava di isopoliteia non solo nei rapporti basati su un trattato tra due poleis (si tratta dell’isopoliteia considerata da Niebuhr), ma anche nei rapporti tra due koina/sympoliteiai (o più precisamente parlando: due koina organizzati in forma di sympoliteiai), in quelli tra un koinon/sympoliteia e una polis e infine in quelli tra poleis interne a uno stesso koinon/sympoliteia.
Come è noto, la sympoliteia, della quale sono esistiti nel tempo modelli largamente differenziati, poteva essere, nella struttura di nostro interesse, una confederazione o, se si vuole, una sorta di Stato federale[89], tra due o più poleis che condividevano, secondo forme variabili in base al contenuto del trattato istitutivo, elementi giuridici, politici, religiosi ed economici[90].
In una sympoliteia di tal genere esistevano due livelli di cittadinanza (non parlerei di “doppia cittadinanza”[91]). Vi era una cittadinanza superiore, comune ai cittadini di tutte le poleis del koinon, e a essa si aggiungeva una cittadinanza locale all’interno di ciascuna polis. Le norme che regolavano i rapporti tra le due cittadinanze possono così riassumersi[92]: i cittadini di ciascuna polis godevano della cittadinanza federale; il koinon poteva concedere a singoli che non fossero cittadini del koinon, o a comunità esterne (altri koina, o poleis) la cittadinanza federale, ma non le cittadinanze locali delle singole poleis del koinon[93]; soprattutto, per quanto a noi più da vicino interessa, le poleis non potevano, in condizioni normali, concedere la propria cittadinanza locale a persone che non avessero prima ottenuto la cittadinanza federale dal koinon[94].
In questa sede mi interessa sottolineare quale fosse la natura della cittadinanza federale che poteva essere oggetto di concessione da parte di un koinon ad altri koina, a poleis esterne o a individui esterni al koinon.
Ebbene, dalle fonti risulta che la cittadinanza federale che era concessa da un koinon faceva sorgere in capo agli individui che la ricevevano l’enktesis e l’epigamia all’interno del koinon e con tutti i suoi abitanti e inoltre conferiva loro un’isopoliteia[95].
Si consideri il testo particolarmente chiaro di IG IX,1² 1 3A, συνθήκακαὶσυμμαχίαΑἰτωλοῖςκαὶἈκαρνάνοις[96] del 262 a.C., ove alle ll. 11-13 si legge:
εἶμενδὲκαὶἐπιγαμίανποτ’ἀλλάλουςκαὶγ|ᾶςἔγκτησιντῶιτεΑἰτωλῶιἐνἈκαρνανίαικαὶτῶιἈκαρνᾶνιἐνΑἰτωλίαικαὶπολίτανεἶμε|ντὸνΑἰτωλὸνἐνἈκαρνανίαικαὶτὸνἈκαρνᾶναἐν <Α>ἰτωλίαιἴσογκαὶὅμοιον.
Si parlava di un’isopoliteia (πολίτανεἶμενἴσογκαὶὅμοιον) tra i due koina degli Etoli e degli Acarnani. Essa non era un’isopoliteia “di tipo cittadino”, che conferiva a uno o a tutti i cittadini di una polis il diritto di diventare cittadini della polis nella quale si trasferivano, perché qui non si trattava di un rapporto tra poleis e avente a oggetto le cittadinanze locali, ma si trattava di una condivisione della cittadinanza federale di due koina[97].
Questa isopoliteia, che possiamo chiamare dunque “di tipo federale”, come indica il testo citato dava diritto a enktesis e a epigamia[98], ma non a una cittadinanza locale. Alla stessa regolamentazione era improntata l’isopoliteia tra un koinon e una singola polis a esso esterna[99].
Gagliardi Lorenzo
Download:
6 Gagliardi.pdf