fbevnts Minority Report: a crime without crime

Minority Report e il crimine senza crimine

27.02.2020

Tommaso Gazzolo

Ricercatore in Filosofia del Diritto, Università degli Studi di Sassari

 

Minority Report e il crimine senza crimine*

 

English title: Minority Report: a crime without crime

DOI: 10.26350/18277942_000004

 

sommario: 1. Introduzione; 2. I futuri multipli; 3. L’infallibilità della previsione; 4. Conoscenza necessaria e necessità del crimine; 5. Futuri contingenti; 6. Dal futuro al passato; 7. Il tempo del crimine.

 

1. Introduzione.

Che cosa sarebbe un crimine – un’azione, cioè, considerata in quanto delittuosa – senza crimine, senza cioè che l’azione stessa sia stata compiuta? Minority Report[1] consente di articolare questa domanda, nei problemi che essa mette in gioco, ed in ciò che permette di pensarla. Dick fa del tempo, della riflessione sul carattere intrinsecamente temporale del crimine, il punto che consente questo passaggio: dal crimine che è tale in quanto accaduto, al crimine che è tale in quanto accadrà. Per questo, nel racconto, si tratterà di pensare anzitutto ciò che va sotto il nome di precrimine, di un crimine prima del crimine.

Si potrebbe obiettare, è vero, che in realtà non saremmo di fronte ad un “crimine”, propriamente parlando: si tratterebbe, piuttosto, di impedire che lo si commetta, di intervenire prima che un crimine possa essere compiuto – secondo una profilassi, una logica della prevenzione, della sorveglianza capillare sui cittadini. Il racconto stesso lo suggerisce, per certi versi: il precrimine è ciò che consente la «pre-detenzione profilattica dei criminali»[2]. Ma, se le cose ci appaiono in questo modo, è solo perché stiamo già assumendo che l’idea di un crimine ante factum, di un crimine prima del crimine, sia una contraddizione in termini, e che potremmo, pertanto, parlare soltanto di un crimine che è stato prevenuto, che non c’è stato e che, quindi, come tale, non è un “crimine”[3].

Il punto, però, è che proprio tale assunzione è quanto dev’essere abbandonato, perché il testo di Dick possa essere seguito in quel che tenta di pensare. Il testo ha in fin dei conti poco interesse, finché lo si legge secondo il registro della denuncia di una certa società del controllo, poliziesca, della sorveglianza – che è poi la nostra, e non certo un’altra[4] –, e ciò per quanto queste possano essere state le stesse “intenzioni” dell’autore. L’idea che il crimine venga eliminato prevenendolo, è certamente presente, ma è anche in fondo smentita dallo stesso testo: la pre-visione del crimine, infatti, non comporta che esso non esista più, ma che esso continui ad esistere senza tuttavia essere mai presente, senza realizzarsi.

Ciò che il pre-crimine implica, infatti, è che «la perpetrazione del crimine stesso» divenga «un qualcosa di assolutamente metafisico» (So the commission of the crime itself is absolute metaphysics)[5]. Il che significa: non si tratta tanto dell’assenza di uncrimine, quanto del fatto che la sua presenza non coincide con il factum, con il suo verificarsi nella realtà.

Il crimine in un certo modo accade, si realizza, l’azione si compie: ma non in un tempo che sia mai stato o sarà mai presente. Non ci sarà infatti mai un momento del tempo in cui si potrà dire che io sia colpevole: non ora, in quanto non ho commesso alcun crimine; non in un futuro destinato a divenire presente, in quanto – grazie al fatto di essere arrestato – non lo commetterò più. Se c’è crimine, se c’è «colpevole», questa esistenza non sta sul piano di ciò che, prima o poi, sarà presente in un qualche momento del tempo.

Ed è proprio questo “crimine senza crimine” che costituisce il concetto che viene progressivamente delineato nel testo di Dick, secondo una serie di operazioni che dovremo, ora, analizzare.

 

2. I futuri multipli.

Il tema del pre-crimine viene articolato, nel racconto, attraverso il ricorso ad una temporalità che è definita dalla logica dei futuri multipli. Sappiamo che Anderton scopre, leggendo il “rapporto di maggioranza”, che ciò che i pre-cog hanno previsto è che egli ucciderà Leopold Kaplan. Poiché non sa neppure chi sia la futura vittima, e sa di non poter avere alcuna “intenzione” di ucciderlo, egli sospetta immediatamente che la relazione sia falsa, che sia stata manomessa dal suo nuovo assistente per prendere il suo posto. Mentre si sta preparando a fuggire per sottrarsi all’inevitabile arresto, Anderton viene sequestrato dagli agenti di Kaplan e portato davanti a quest’ultimo.

Kaplan – capo di una organizzazione di veterani molto influente – gli rivela di essere a conoscenza del rapporto, e che per questo – secondo quello che è il funzionamento normale della Precrimine – lo farà subito consegnare alla polizia, affinché lo prenda in custodia. Durante il trasporto, Anderton viene aiutato a fuggire e a nascondersi da un certo Fleming, il quale dice di far parte di una specie di polizia che ha il compito di sorvegliare la polizia, e che lo informa che il rapporto è stato falsificato e che si tratta, come egli aveva sempre sospettato, di una manovra per incastrarlo. E’ a questo punto che Anderton riesce ad accedere a quello elaborato dal pre-cog che egli sa essere il rapporto di “minoranza”, quello di Jerry, e legge per la prima volta ciò che questi ha visto.

Di esso sappiamo per ora solo questo: la sequenza temporale che Jerry ha visto è relativa a ciò che è accaduto dopo che Anderton ha saputo che avrebbe ucciso Kaplan. Il solo fatto di sapere che avrebbe commesso l’omicidio, avrebbe infatti indotto Anderton a rinunciare: egli «avrebbe cambiato idea e non l’avrebbe compiuto. La previsione dell’omicidio lo avrebbe cancellato: la profilassi si sarebbe verificata semplicemente informando il futuro omicida»[6].

            Anderton si convince, pertanto, che il rapporto di Jerry, invalidato dagli altri due, sia quello corretto, in quanto, venendo dopo gli altri, ha potuto tener conto delle conseguenze che la conoscenza, da parte di Anderton, del rapporto di maggioranza avrebbe determinato. Il “rapporto di minoranza” sarebbe, in questo senso, quel futuro che sarà a partire dall’assunzione come dato del rapporto di maggioranza.

            Non occorre, qui, ripercorrere nei dettagli l’intreccio – la discussione con la moglie Lisa, lo scontro con Fleming, che si rivela essere un agente di Kaplan. Giungiamo al momento in cui Anderton capisce che Kaplan, che è in possesso del rapporto di minoranza, intende sfruttarlo per screditare il sistema pre-crimine: egli potrà dimostrare, infatti, che, poiché l’analisi predittiva dei pre-cog non tiene conto di ciò che la sua stessa esistenza determina, essa giunge sempre a conclusioni sbagliate. Il solo fatto di sapere che commetterò un crimine per ciò stesso mi determinerebbe a non commetterlo. Come dirà Kaplan:

 

[…] Non può esistere alcuna valida conoscenza del futuro. Non appena si ottiene un’informazione precognitiva, questa si cancella da sé (as soon as precognitive information is obtained, it cancels itself out). L’affermazione che quest’uomo commetterà un omicidio è paradossale (paradoxical). Il solo fatto di possedere in anticipo questo dato la rende spuria. In ogni caso, e senza eccezione, il rapporto dei tre precog della Polizia ha invalidato i loro stessi dati di partenza. Anche se non ci fosse stato alcun arresto, non sarebbe stato comunque commesso alcun crimine (If no arrests had been made, there would still have been no crimes committed)[7].

 

Un futuro che sia conosciuto in anticipo si revoca da sé, si cancella da sé come futuro. Questa è la tesi di Kaplan, e la tesi che anche Anderton pensa di poter ricavare dopo aver letto quello che crede essere il rapporto di “minoranza” di Jerry.

Ciò che tuttavia la lettura degli altri due rapporti mostra, è che tutte e tre le sequenze temporali sono differenti. Il primo rapporto, Donna, è quello che Jerry ha assunto come dato. Donna pre-vede un futuro che non è quello che si è verificato. In esso Kaplan rivela a Anderton il complotto ai suoi danni, ed egli lo uccide. Jerry, come sappiamo, utilizza il materiale di Donna, invalidandolo. Ma Mike, il terzo pre-cog, viene a sua volta dopo Jerry. Egli vede come Anderton, una volta che sia venuto in possesso del rapporto di Jerry – come accade nella storia – capisca che non uccidere Kaplan significherebbe mettere fine alla polizia, al sistema pre-crimine, e scelga pertanto di sparargli:

 

“Mike” è stato l’ultimo dei tre, certo. Avendo saputo dell’esistenza del primo rapporto, avevo deciso di non uccidere Kaplan. Ciò ha prodotto il secondo rapporto. Ma di fronte a quel rapporto, ho cambiato idea un’altra volta. Il rapporto due, la situazione due, era quella che Kaplan voleva creare. Era vantaggioso per la Polizia ricreare la posizione uno. E, arrivato a quel punto, io avrei pensato alla Polizia. Avrei capito ciò che Kaplan stava facendo. Il terzo rapporto invalidava il secondo proprio come il secondo invalidava il primo. Questo ci ha riportati alla situazione di partenza[8].

 

            Non c’è dunque mai stato un rapporto di maggioranza. I tre rapporti, diversamente, sono consecutivi: il futuro del primo è assunto come dato dal secondo rapporto, che lo invalida, e a sua volta il futuro del secondo è invalidato dal terzo. Ma se Anderton, infine, ucciderà Kaplan, proprio come avevano previsto i pre-cog, ciò non vale a confermare l’esattezza della loro previsione? In fondo, il racconto di Dick – ma torneremo su questo punto – non sembra mai smentire in alcun punto ciò che il lettore tende sempre a sospettare: che le previsioni dei pre-cog siano realmente infallibili, che esse non siano affatto smentite[9].

 

            3. L’infallibilità della previsione.

            Nel pre-crimine, la pre-visione che consente di conoscere anticipatamente il delitto prima che sia commesso, si esprime normalmente – a differenza di quanto accade nel caso di Anderton – attraverso la formazione di un rapporto di maggioranza. E’ quanto Anderton ribadisce: «l’unanimità tra tutti e tre i pre-cog è un fenomeno auspicabile ma che si verifica di rado»[10]. Se seguiamo ancora il suo discorso, la necessità di tre previsioni dipenderebbe dall’esigenza di verificare, di controllare l’esattezza del risultato della prima. La seconda previsione può infatti coincidere con la prima, validandola. Ma, laddove si crei un contrasto tra le due, la terza previsione interviene risolvendo il contrasto: «si può presumere con buona approssimazione che la concordanza di due computer su tre indichi quale dei due risultati alternativi sia più accurato»[11].

            Si tratterebbe dunque di una logica che ha a che vedere con il calcolo, con la probabilità, con ciò che dovrebbe, in ultima istanza, unicamente verificare la correttezza di una previsione? E’ evidente che non si tratti di questo, se lo stesso Anderton, come ricordato, fa notare come sia necessario che esistano sempre diversi percorsi temporali, che non vi sia un unico sentiero, perché altrimenti non esisterebbe neppure la possibilità di arrestare il futuro colpevole, di «alterare il futuro». Affinché il sistema funzioni – affinché cioè sia possibile anticipare il crimine che i precog hanno pre-visto – occorre, cioè, che l’informazione fornita circa ciò che accadrà possa essere smentita dall’intervento tempestivo della polizia.

Ma le profezie dei pre-cog sono corrette? Il delitto che prevedono, si compirebbe davvero se la polizia non intervenisse per tempo? Kaplan ha davvero ragione, quanto sostiene che la polizia in realtà non conosce affatto il futuro o, quantomeno, non può avere la certezza di conoscerlo? Il fatto stesso di possedere l’informazione precognitiva “x ucciderà y”, e di agire preventivamente impedendo che ciò si verifichi, non rende impossibile sapere se x avrebbe davvero ucciso y, laddove la polizia non fosse intervenuta?

Certamente, se non disponesse di questa informazione, la polizia non potrebbe intervenire – ma ciò non assicura che sia vera. L’obiezione di Kaplan, in fondo, è ancor più radicale: come sarebbe possibile commettere un crimine laddove sia certo che esso verrà commesso – con la conseguenza che mi sarà reso impossibile commetterlo? Per cosa vengo arrestato, se per il fatto stesso dell’arresto viene smentito quel futuro in cui commetto il crimine e che è stato la ragione del mio arresto?

            Come rispondere a queste domande? Bisogna cominciare a distinguere, per prima cosa, tra l’informazione finale che è elaborata dal computer – la “scheda” che annuncia il delitto che si compirà – e i tre rapporti dei pre-cog, le loro visioni.

Per farlo, dobbiamo provare a ipotizzare il modo in cui i diversi rapporti si articolano tra loro per tutti i casi ordinari, in cui il sistema funziona normalmente. E che funzioni, che le visioni dei pre-cog siano, nel futuro che delineano, infallibili, è ciò che risulta dal racconto stesso: anche di fronte al caso che dovrebbe ritenersi eccezionale, in realtà i pre-cog dimostrano di aver previsto correttamente il futuro.

Cominciamo a chiederci, allora, che cosa renda possibile l’elaborazione della scheda definitiva, che la Precrimine riceve dai computer, in cui viene indicato il nome dell’autore, il delitto che verrà commesso e la vittima[12], in cui, cioè, il “rapporto di maggioranza” dei pre-cog giunge alla previsione che un crimine verrà commesso. Ipotizziamo che l’informazione, la scheda finale, sia del tipo “X ucciderà Y”. Sappiamo che questa previsione non accadrà: la polizia, sulla base di essa, arresterà infatti X. Era allora falsa? Ma cosa significa?

Siamo di fronte al problema della verità o falsità delle proposizioni concernenti eventi futuri – a quello dell’applicabilità o meno del principio di bivalenza a tali enunciati. Che cosa implica, dobbiamo chiederci, che una proposizione del tipo “domani ci sarà un omicidio” sia vera o falsa fin dal momento della sua formulazione? Certamente, per sapere se essa sia vera o falsa dovrò attendere domani. Ma ciò implicherebbe comunque negare il carattere contingente del futuro. Proviamo a fare due ipotesi. Se l’omicidio si verificherà, allora posso dire era vero fin da ieri che si sarebbe verificato. Ma se ciò era già vero prima che esso fosse commesso, allora devo concludere che era necessario che si verificasse, che era impossibile che non accadesse. Viceversa, se l’omicidio non avviene, posso dire che era già falso ieri sostenere che esso sarebbe stato commesso: il che equivale a dimostrare che era impossibile che avesse luogo. In altri termini, se le proposizioni riguardanti eventi futuri fossero già vere o false nel momento in cui vengono formulate, ne conseguirebbe il venir meno di ogni contingenza. E’ l’aporia già individuata da Aristotele:

 

[…] se qualcosa è bianco ora, era vero dire prima che sarà bianco, cosicché sempre era vero dire in precedenza, di qualsiasi cosa di quelle che sono venute ad essere, che sarebbe stata; e se sempre era vero dire in precedenza che qualcosa è ora o sarà, ciò non è in grado di non essere ora o nel futuro. E ciò che non è in grado di non venire ad essere, è impossibile che non venga ad essere; e ciò che è impossibile che non venga ad essere, è di necessità che venga ad essere; e quindi tutto ciò che sarà nel futuro è necessario che venga ad essere[13].

 

Per evitarla, dovremmo allora limitare la validità del principio di bivalenza agli eventi passati o presenti? Non possiamo qui discutere la ripresa e la riformulazione del problema che è avvenuta almeno a partire dai lavori di Łukasiewicz – nonché soffermarci sullo stato del dibattito contemporaneo sul tema, soprattutto in ambito analitico. Ciò che, tuttavia, possiamo osservare è come una delle soluzioni proposte sia quella di considerare tali proposizioni sottratte al principio di bivalenza: non si tratterebbe, cioè, di proposizioni vere o false, ma indeterminate[14]. Esse non sarebbero, in altri termini, vere o false al momento della loro enunciazione. Se ciò che enunciano sia vero o falso, non è deciso in questo momento. Potremmo dire, piuttosto, che è dotato di un certo grado di probabilità – come Anderton sembra suggerire spiegando il funzionamento dei computer alla base del sistema Pre-crimine.

Eppure non è questa la strategia che segue Dick: non si tratta, infatti, di affermare la probabilità, di prevedere il futuro delitto con un certo grado di probabilità. Il pre-crimine è a rigore infallibile – questa ipotesi, a leggere attentamente il testo, non è mai messa in dubbio, non è mai smentita, come si è già ricordato.

Per capire come Dick risolva l’aporia – che è quella che denuncia Kaplan – dobbiamo invece tener sempre distinti due livelli: quello della visione, di ciò che vedono i pre-cog, e quello dell’informazione, di ciò che in base alla visione risulta dal rapporto.

Ciò che vedono i pre-cog, va sempre ricordato, non è mai da loro compreso: essi sono immersi nel «caos senza senso dell’idiozia»[15], non capiscono nulla delle immagini che scorgono, avvolti nell’ombra della loro demenza. Se essi forniscono informazioni, certamente non le comprendono. Ma cosa significa, questo, se non che tra ciò che accade e ciò che si predica di esso, tra l’evento e la sua previsione si introduce sempre una distanza, uno iato, uno scarto? E’ questo che occorre spiegare, facendo un passo avanti.

Dobbiamo tener presente che quello che si scopre, nel racconto, è che i futuri che vedono i pre-cog non sono, come Anderton ha sempre creduto, alternativi. Non vi è affatto la necessità che vi sia sempre più di un sentiero temporale, affinché la polizia possa intervenire per tempo. Il sentiero è sempre uno solo, ma si modifica nel suo stesso farsi[16]. Se i rapporti sono consecutivi, come Anderton si accorge, è perché ciascun pre-cog utilizza il rapporto del pre-cog precedente come «dato di partenza»[17]

Spieghiamo il punto. L’informazione finale, la proposizione predittiva “x ucciderà y” rimanda alle tre visioni che i pre-cog hanno avuto. Il primo pre-cog, certamente, vede l’omicidio: vede, cioè, in un futuro, che per lui è il presente, che x uccide y. L’informazione che trasmette, pertanto, nel tempo presente, è “x ucciderà y”.

Il secondo pre-cog vede il futuro che ora l’informazione del primo pre-cog ha modificato: vede, cioè, che il primo ha fornito la previsione – infallibile – della futura uccisione, e che in forza di questa informazione la polizia arresterà il colpevole. Il risultato, per lui, è dunque che x non ucciderà y. Dal punto di vista della predicazione, dell’ “informazione” che il computer potrebbe ricavare, al momento avremo perciò le due schede alternative: P1 (“x ucciderà y”) e P2 (“x non ucciderà y”).

Sappiamo dalla scheda finale che la terza previsione avrà come risultato quello di far sì che l’informazione sarà del tipo “x ucciderà y”. Dobbiamo allora chiederci come ciò sia possibile. Infatti, il futuro che si verificherà è un altro: x, alla fine, non ucciderà y, poiché sarà arrestato prima di poter commettere il fatto. Cosa vede il terzo pre-cog, allora?

Anche la previsione del pre-cog dev’essere consecutiva rispetto alle prime due: egli vede, cioè, a partire da esse. Vede, dunque, il futuro – che è quello che si verificherà – in cui x non uccide y perché è stato arrestato dalla polizia che ha ricevuto l’informazione P1, e non quella P2. Il terzo pre-cog, in altri termini, vede il futuro in cui la polizia non ha ricevuto il rapporto del secondo pre-cog (ossia l’informazione: x non ucciderà y). Un futuro in cui egli stesso ha convalidato – cosa che infatti farà – il primo rapporto, che è la condizione indispensabile affinché esso si verifichi.

Perché la polizia possa arrestare x, occorre infatti che il rapporto finale la informi che x ucciderà y[18]. Nel futuro che il terzo pre-cog vede, egli stesso ha necessariamente convalidato la proposizione P1: “x ucciderà y”. In questo terzo futuro, dunque, si verifica l’evento che ha visto il secondo pre-cog, ma ad essere stata convalidata è la proposizione che ha fornito il primo rapporto.

 

4. Conoscenza necessaria e necessità del crimine.

Quanto all’evento, la maggioranza dei pre-cog, due su tre, vede che esso non si verificherà. Ed è esattamente così, infatti, che andranno le cose. Quanto, invece, alla proposizione sull’evento, alla proposizione che ne dice la necessità, anche qui la maggioranza dei pre-cog, sempre due su tre, vede un futuro nel quale, tra le due, quella vera è la proposizione p “x ucciderà y”.

Ci sarebbe in altri termini uno scarto, una discrasia, una mancata corrispondenza tra l’evento e la proposizione che dice la necessità dell’evento.

Si tratta, del resto, di due necessità differenti. La scolastica medievale aveva già distinto due diversi sensi della modalità. Nell’opuscolo De propositionibus modalibus, attribuito dalla tradizione a Tommaso, viene indicato come la modale possa, anzitutto, essere de dicto, se il dictum funge da soggetto e il modo è ciò che è predicato di quanto viene detto: Socratem currere est possibile, che Socrate corra è cioè detto possibile. Diversamente, la modale è de re, se il modo interponitur al detto, se cioè la modalità si riferisce a come il predicato inerisce al soggetto: Socratem possibile est currere, dove viene detto che è propria di Socrate la possibilità di correre[19].

La modalità de dicto, cioè, si riferisce all’intera asserzione, è una modalità “proposizionale”, mentre il senso de re è relativo all’evento o al soggetto della proposizione. La prima necessità – come è stato osservato - è di tipo semantico, è riferita alla proposizione (ha carattere pertanto metalinguistico). La seconda, invece, è ontologica, è relativa all’evento[20]. L’una si riferisce alla necessità di ciò che è detto, l’altra alla necessità della cosa che è detta. Distinguere tra questi due livelli è ciò che consente di capire in che senso sia necessaria la previsione dei pre-cog del tipo “x ucciderà y”. Essa può infatti significare:

 

(1) De dicto - è necessariamente vero che x ucciderà y, che significa anche, nella nostra rilettura: “x ucciderà y” è necessariamente vera, ove la necessità è predicata della proposizione che afferma l’evento. Si tratta, diremmo, di una necessità semantica, necessità dell’enunciato. E’ il dictum, cioè che viene detto, ad essere affermato come necessario;

 

(2) De re - x ucciderà necessariamente y: dove la necessità si riferisce invece all’evento stesso. All’evento è cioè attribuita la proprietà di verificarsi necessariamente. Qui la necessità è cioè dell’evento o dello stato di cose sul quale verte la proposizione.

 

            La conoscenza dei pre-cog è infallibile, ma essa non implica in alcun modo la necessità de re che l’evento si verifichi. L’argomentazione era già presente in Tommaso: il fatto che Dio conosca i futuri contingenti, non significa che essi accadano per una loro propria necessità. Dio, infatti, conosce i futuri come presenti, dal momento che la sua conoscenza è «presente a tutte le cose». In tal senso, ogni cosa è conosciuta da Dio come ciò che si vede di presenza: per questo tutto ciò che Dio conosce è necessario, «come è necessario che Socrate sieda quando si vede che siede»[21].

La proposizione “chi si vede sedere è necessario che sieda” – la quale si ricava dalla condizionale “Se è veduto sedere, siede” – , allora, potrà essere intesa in due sensi: (a) in senso composito, ossia come enunciato, essa è vera, in quanto afferma che sedere è una conseguenza necessaria dell’essere veduto sedere (necessità della conseguenza); (b) in senso diviso, ossia come «dato oggettivo»¸ essa è invece falsa, in quanto affermerebbe la necessità del conseguente, ossia la necessità dell’oggetto o dello stato di cose conseguente. La distinzione richiama quella, che abbiamo visto, tra modalità de dicto e de re. Così ancora Tommaso precisa:

 

[…] quando si dice che Tutto ciò che Dio conosce è necessario, questa proposizione ha un duplice significato, in quanto può riguardare o l’enunciato o la cosa. Se riguarda l’enunciato, in tal caso la proposizione è composta ed è vera e il [suo] senso è il seguente: l’enunciato [nel quale si dice che] Ogni cosa che Dio conosce esiste è necessario, poiché è impossibile che Dio conosca che qualcosa esiste e che esso non esista. Se riguarda la cosa, allora [la proposizione] è divisa e falsa e il [suo] senso è il seguente: ciò che è conosciuto da Dio è necessario che esista. Infatti, le cose conosciute da Dio non per questo accadono necessariamente[22].

 

            Possiamo pertanto affermare, in prima battuta, che ciò che i pre-cog vedono è necessario che si verifichi, ma ciò non significa che si verifichi necessariamente. O, in altri termini, dalla verità di (a) “è necessariamente vero che x ucciderà y”, non segue che (b) “se x uccide y, allora era necessario che lo facesse”.

La strategia di Dick – che è ciò che rende pensabile, che consente di pensare il concetto di pre-crimine senza che l’obiezione di Kaplan possa fare davvero presa – è quella tuttavia di non limitarsi alla discrasia, lo scarto, tra questi due registri, tra il semantico e l’ontologico, tra la necessità della proposizione e la necessità dell’evento che essa ha ad oggetto. Egli si spinge più avanti, e in un’altra direzione. Infatti:

 

(a) da una parte, abbiamo la necessità de dicto, la verità della proposizione che dice che “x commetterà un delitto”. E’ questa necessità che giustifica l’arresto di «individui che non hanno infranto alcuna legge» (We’re taking in individuals who have broken no law) e che garantisce la verità del commento di Witwer: «ma che sicuramente la violeranno» (But they surely will) [23];

 

(b) dall’altra, il non verificarsi dell’evento: «Per fortuna non lo faranno» (Happily they don’t), come aggiunge ancora Anderton nel corso del dialogo sopra ricordato con Witwer. L’evento non accadrà mai, non sarà mai commesso quel crimine di cui sappiamo che è vero che sarà necessariamente commesso.

 

Dick giunge fino al punto di pensare come la necessità che il crimine accada sia esattamente ciò che fa sì che esso non accadrà mai. Il pre-crimine sarebbe dunque quel crimine che necessariamente sarà compiuto, ma che proprio per questo non verrà mai compiuto.

 

5. Futuri contingenti.

 

“Se stiamo parlando di Philip, essenzialmente direi che è vero – solo che non è accaduto” (Kleo Mini, febbraio 1986[24]).

 

Questa scissione tra semantico e ontologico viene portata da Dick fino al suo punto estremo – ed è solo da qui che il tema paranoico si inserisce, propriamente, nel racconto. Per ora, però, chiediamoci: perché, alla fine, non dovremmo dare ragione a Lisa, non dovremmo difendere la Precrimine? Anderton stesso, nel finale, non sembra aver perso la convinzione che il sistema non vada in alcun modo screditato, come vorrebbe Kaplan. Se fosse possibile realizzarlo, per quale ragione non dovremmo? Sappiamo che i pre-cog sono realmente infallibili. Che cosa non va, allora? 

Il punto da cui ricominciare è il seguente: cosa consente di credere che, dalla verità necessaria della proposizione “x ucciderà y”, segua che, se non si procederà all’arresto, x necessariamente ucciderà y?

E’ questo l’assunto, infatti, su cui si fonda il sistema della Pre-crimine, la sua giustificazione, la sua accettabilità. E’ vero, infatti, che i pre-cog a rigore non “sbagliano”. Ma non potremmo accettarne comunque le previsioni, se non avessimo la certezza che, non intervenendo, il crimine che essi vedono verrebbe necessariamente commesso.

Come si è detto, è proprio la separazione tra necessità de dicto e necessità de re che consente di dar conto dell’ “infallibilità” dei pre-cog e, insieme, del carattere ingiustificato dell’assunto alla base del funzionamento del sistema pre-crimine.

La possibilità di fondare la necessità della proposizione sul futuro, non dice nulla circa la diversa necessità, de re, che l’evento si compirà. Se gli arresti “preventivi” possono apparire, allora, come arbitrari, illegittimi, non è perché – come solitamente si sottolinea – la conoscenza del futuro falsificherebbe lo stesso futuro che conosce, secondo la logica della profezia che si autoannulla (self-defeating prophecy). Piuttosto, è perché se anche potessimo prevedere con certezza che un crimine si verificherà, se cioè potessimo giungere a stabilire la necessità della proposizione sul futuro p “domani x ucciderà y”, ciò non implicherebbe in alcun modo che domani, necessariamente, x ucciderà y. 

Ma, se seguiamo il modo in cui Dick separa le due necessità – de dicto e de re – fino al loro punto estremo, vediamo che egli ripensa questa distinzione portandola ad un nuovo livello.

Nella logica del racconto, infatti, il fatto che il crimine non accadrà necessariamente, non significa semplicemente che sarebbe sempre possibile che non accada – non è affatto questo ciò che è in gioco, ossia la semplice esistenza di “futuri contingenti”, tali per cui le previsioni dei pre-cog non definirebbero sempre e niente altro che mere possibilità.

Se l’evento non necessariamente accadrà, lo ricordiamo, è perché il futuro si modifica in quanto futuro, ossia: il futuro può sempre cessare di essere il futuro che sarà. Questo è il senso dello “spostamento”, nel racconto, dalla concezione dei futuri alternativi (f1 o f2 o f3) a quella dei futuri consecutivi (f1→f2→f3). I pre-cog, a rigore, non “sbagliano”, non vedono un futuro solo possibile: ciascuno di loro vede l’unico futuro che esisterà. Ma questo stesso futuro non cessa di trasformarsi, ogni volta che un nuovo pre-cog lo vede. Questa è la ragione, diremo, per cui alla necessità de dicto dell’evento non può mai corrispondere la sua necessità de re.

Dobbiamo spiegare, allora, cosa vi è, qui, in questione. Come si spiega la contingenza, infatti, dell’evento? Come, in altri termini, la discrasia tra necessità de dicto e necessità de re si definisce in Dick?

Abbiamo già accennato ad una delle soluzioni “classiche” rispetto al problema dei futuri contingenti. Poniamo la previsione p “x ucciderà y nel tempo futuro f”. Se, in f, x avrà ucciso y, ciò significa, forse, che la previsione era vera – ed era vera già al tempo in cui è stata formulata. Ma questo vorrebbe dire che x non avrebbe potuto non uccidere y. Una delle strategie per fare salva la contingenza del futuro, allora, è quella di introdurre l’idea che, per quel momento del tempo t in cui la previsione è stata enunciata, rispetto alla proposizione p esistano due futuri alternativamente possibili – quello in cui x ucciderà y (f1), e quello in cui non lo farà (f2). In tal senso, nel contesto in cui la proposizione è enunciata, nulla consente di dire quale dei due futuri si realizzerà, con la conseguenza che l’evento resta meramente “possibile”. Al di là delle diverse conseguenze che da tale posizione dipendono – e che costituiscono oggi oggetto del dibattito soprattutto in ambito analitico[25] – , quel che interessa, per noi, evidenziare, è che tutte presuppongono una certa concezione del tempo, che è quella che, talora, si tende a ravvisare anche nel racconto di Dick, del tipo:

                                       f1

                            t

 

                                       f2

 

            Dick, come abbiamo cercato di mostrare, non segue però tale strategia. Il futuro che i pre-cog vedono non è un futuro possibile, nel senso di un futuro tra altri. Ciascuno di loro vede lo stesso futuro, che è l’unico futuro che si realizzerà. E lo vede senza errore: nella visione del primo pre-cog, il futuro che è visto è l’unico futuro in quel momento, è il futuro che necessariamente si realizzerà. Ma questo futuro si modifica, attraverso le successive e consecutive pre-visioni dei pre-cog.

Dobbiamo però ancora chiederci: perché accade tutto ciò? Che cos’è che, propriamente, cambia, se la visione dei pre-cog è, a rigore, infallibile?

Quello che cambia, in realtà, è il passato. Il futuro che il primo pre-cog vede, infatti, è il futuro di un determinato passato p1 (es: x ha litigato con y). Ora, il secondo pre-cog non vede un altro futuro, nel senso di un futuro alternativo rispetto al primo. Vede lo stesso futuro, il quale però, adesso, è il futuro di un diverso passato rispetto a p1: è, infatti, il futuro di quel passato in cui x ha litigato con y, il primo pre-cog ha visto tutto ciò ed ha, poi, informato la polizia del fatto che x ucciderà, per questo, y. Se allora l’evento resta contingente, se x non ucciderà necessariamente y, è perché, a potersi sempre modificare, è il passato[26].

A rigore, del resto, i pre-cog non vedono mai un “futuro”, almeno dal loro punto di vista. Se l’evento si svolge sotto i loro occhi, essi vedono sempre un presente sulla base di un certo passato, vedono qualcosa che accade ora, per loro. Pertanto, si dovrebbe dire, propriamente, che se ciò che vede il primo pre-cog è un evento diverso da quello che vede il secondo, è perché è il passato del presente a modificarsi, tra una visione e l’altra.

Il primo pre-cog vede l’omicidio: o meglio lo ha visto, esso è per lui passato. Il secondo pre-cog non vede dopo il primo pre-cog, ma vede a partire da esso: vede, cioè, che il pre-cog ha visto l’omicidio e che, sulla base di quel che ha visto, ha informato la polizia del fatto che esso accadrà.

Dal punto di vista dei pre-cog, possiamo allora ricostruire come segue la vicenda. L’omicidio è accaduto in un tempo, che chiamiamo t, che si colloca sempre nel passato rispetto alla visione del primo pre-cog. E’ sulla base di esso che egli informerà, in un tempo t1, che per lui è futuro – poiché è successivo a ciò che vede – la polizia. Il secondo pre-cog vede a partire da qui. Per lui t1 è passato: la polizia è stata informata del crimine che sarà compiuto. Ma t1 presuppone t; presuppone, per poter essere stato, che anche t – che ne è la condizione - sia stato. Eppure, come sappiamo, il pre-cog vede, nel suo presente t2, che l’omicidio non è stato commesso: la polizia, infatti, è intervenuta prima che esso sia stato commesso, in un tempo t3 che, ora, viene ad esistere, revocando t.  

Per il secondo pre-cog, pertanto, t è al contempo ciò che è stato (perché, senza di esso, non potrebbe esservi stato t1) e che, in forza di t3, ha cessato di essere stato.

 

 

 


                t3   t                         t1                      t2

 

La linea continua indica il percorso temporale che vede il secondo pre-cog: t1 (l’informazione passata alla polizia) è il passato a partire da cui, in t2, in ciò che vede ora il pre-cog, ad essere stato è t3, anziché t.

Ma t, come indica la linea tratteggiata, ha dovuto essere stato, in un passato che non è più quello che vede il secondo pre-cog, se anche per il secondo pre-cog t1 è stato (esso è la condizione affinché, infatti, l’informazione sia stata passata alla polizia – a meno di non voler ipotizzare che il primo pre-cog abbia “errato” in ciò che ha visto, il che è quanto il racconto esclude).

            Se il racconto di Dick non fa vedere tutto questo apertamente, è perché in esso l’elemento di fiction consente di spostare sulla narrazione relativa al futuro questo meccanismo. Dal momento in cui, infatti, ciò che i pre-cog hanno visto è qualcosa che dovrà accadere, è cioè un tempo che per il tempo del racconto è il futuro, questo consente di essere letto seguendo una logica che ci è più familiare: quella “classica”, diremo dei futuri contingenti. Ma, se vogliamo seguire fino in fondo il testo di Dick, esso – consapevolmente o no – in realtà apre ad una logica del tutto diversa, e più difficile: quella della revocabilità del passato.

 

6. Dal futuro al passato.

Stiamo giungendo, finalmente, ad uno dei punti di svolta cui occorre pervenire, se si intende leggere il pre-crimine come qualcosa che ci riguarda, che ha a che vedere con il modo in cui noi giudichiamo il crimine. In quanto accadimento, in quanto “fatto”, il crimine resta, infatti, sempre contingente. Ma questa contingenza è definita, da Dick, non tanto dall’esistenza di futuri possibili rispetto ad un determinato presente e ad un passato che resterebbe, come tale, irrevocabile. Diversamente, essa è resa disponibile da una concezione della temporalità tale per cui, nel suo farsi, il futuro modifica se stesso. Ma, in ultima istanza, Dick sembra dire che ciò che realmente cambia, ciò che può sempre cessare di essere ciò che era, è il passato.

Dobbiamo intenderci su questo punto. Non si tratta di limitarsi a dire che il passato avrebbe potuto essere diverso da ciò che è stato (questa è ancora la logica dei futuri contingenti tradizionale). Si tratta, piuttosto, di capire come il passato possa sempre cessare, dopo che è stato, di essere ciò che è stato.

Questo è ciò che vi è più difficile da pensare: se, infatti, la contingenza del futuro ci appare sempre qualcosa da “salvare” rispetto a quanto conseguirebbe dall’accettazione di un “determinismo” radicale, essa è stata assicurata a partire dall’assunzione dell’irrevocabilità del passato, dell’impossibilità che ciò che è stato possa cessare di essere stato.

E’ proprio, tuttavia, questo assunto che la logica del testo di Dick tende a far venire meno, ed è su questo piano che esso si rende leggibile nella sua radicalità. E’ a partire da qui che il racconto consente di porre ad un nuovo livello le domande che esso presenta. In questo senso, non si tratterà di leggere Minority Report come se in esso fosse in questione il problema di come “prevedere” i crimini, di un mondo in cui i crimini vengono puniti prima che siano commessi. Al contrario, nel testo si articola il tema di ciò che separa la conoscenza del crimine dal suo essere o meno accaduto, della separazione tra il crimine come oggetto di un enunciato che lo dice e il crimine come evento.

La domanda, pertanto, non è più: “quali conseguenze, dal fatto di poter prevedere con certezza che un crimine sarà commesso?”, bensì “quali conseguenze, se potessimo giungere a conoscere con assoluta certezza che un crimine è stato sicuramente commesso?”

Non si tratterà più di chiedersi, per noi, che cosa segua dalla possibilità di prevedere il futuro, ma, diversamente, che cosa implicherebbe una conoscenza vera del passato. Che cosa significherebbe, che cosa verrebbe in gioco se potessimo un giorno giungere a conoscere necessariamente il passato? Se, in altri termini, i nostri metodi di indagine, se la verità a cui il processo giunge, potesse essere una verità necessaria, con riferimento al crimine che accerta? E’ l’ipotesi di un giudice infallibile, per la quale ciò che egli conosce, lo conosce necessariamente. Ma cosa vorrebbe dire? Di che cosa si predicherebbe la necessità?

Essa sarebbe, lo abbiamo già ricordato, la necessità della proposizione che accerta il fatto. La necessità, cioè, caratterizzerebbe la conoscenza che il giudice avrebbe: saremmo cioè di fronte ad un giudice per cui vale che, necessariamente, se qualcosa è da lui conosciuto, è vero. Diversamente, essa non potrebbe mai significare: se qualcosa è conosciuto dal giudice, allora è necessariamente accaduto, non avrebbe potuto non accadere.Il delitto si sarebbe sempre potuto anche non compiere.

Forse non siamo giunti a prendere realmente sul serio tale considerazione, sul piano del diritto. Che cos’è questo poter non essere accaduto di un crimine, di cui pure potremmo sempre accertare, al limite, il suo essere certamente accaduto?

Esso non mette, in fondo, in crisi la pretesa – che sempre il diritto ha – di poter, almeno idealmente, raggiungere una conoscenza certa, definitiva, in modo tale da separare una volta per tutte la colpevolezza dall’innocenza?

Per il passato, noi tendiamo a interpretare il “poter non essere accaduto” di un crimine che si è verificato come una mera possibilità logica: diciamo, cioè, che non era logicamente impossibile che il crimine non accadesse, che non sarebbe stato contraddittorio che non fosse commesso. In questo modo, ci limitiamo a intendere il possibile come non-impossibile. Certamente, dunque, ciò che necessariamente è accaduto non per questo era necessario che accadesse.

Ma, come si è visto, la posizione di Dick porta ad un nuovo livello la discrasia tra proposizione ed evento: il fatto che sia vero che il crimine è stato commesso, diremo ora, non esclude il fatto che esso possa sempre non essere stato commesso. La prima, infatti, è sempre e soltanto una verità della proposizione che enuncia, accerta, il passato. La seconda, diversamente, è una possibilità che il passato conserverebbe sempre in quanto tale, sul piano ontologico, e non semantico. Indica, cioè, che il passato può sempre essere non stato.

Dobbiamo, allora, fare i conti non tanto con il fatto – in fondo banale – che il crimine, anche se accaduto, avrebbe pur sempre potuto non accadere, quanto con l’idea che il passato, nel suo stesso essere accaduto, potrebbe sempre cessare di essere tale. Si tratta di quanto tendiamo sempre ad escludere: nessuno può scegliere di avere saccheggiato Troia, per dirla con Aristotele. Neppure Dio potrebbe far sì che ciò che è accaduto non sia stato, e viceversa:

 

Egli può certamente distruggere tutte le cose che sono state fatte, in modo che esse non siano più, ma non si riesce a vedere in che modo potrebbe fare che le cose che sono accadute non siano accadute. Ossia egli può far sì ora e in avvenire Roma non esista più, giacché può essere distrutta; ma in nessun modo si riesce a capire come possa darsi che non sia stata fondata anticamente[27].

 

Dick, diversamente, suggerisce questa ipotesi: noi potremmo, da un momento all’altro, trovarci in un mondo in cui Roma non è mai stata fondata. E’ qui che si inserisce l’effetto propriamente paranoico della sua scrittura, che presuppone che sia revocata ogni credenza preliminare nella realtà della realtà, in ciò che la garantisce come tale. Se “paranoica”, lo sottolineiamo, è la condizione della scrittura dickiana, è perché quest’ultima non comincia, non si fa, se non a partire da questa revoca, da questa messa in questione del reale. E, con esso, del tempo stesso, della realtà del tempo: «Ho la straordinaria frase rivelata su cui basarmi: “fa apparire le cose differenti così da far sembrare che il tempo è passato”. Ho studiato con impegno questa frase, con risultati stupefacenti. Per ricapitolare: c’è solo una differenza apparente. Dunque non c’è nessuna vera differenza»[28]. Ipotesi, dunque, che il passato non esista: che il tempo non passi. Ma ipotesi, appunto, perché la scrittura di Dick non procede che per continui ripensamenti, ri-articolazioni della domanda su che cosa sia reale – e, qui, che cosa sia reale del tempo. Le ipotesi, le tesi, le soluzioni possibili si sposteranno, allora, con i suoi racconti, e con essa la funzione del passato[29].

In Minority Report il tema è sempre quello del tempo: che cosa c’è di futuro e di passato? Che cosa li separa? Se ciò che i pre-cog vedono è, per loro, passato, come fissare la differenza reale rispetto al futuro? Se questo è il motivo che attraversa il racconto[30], noi lo potremo fare funzionare anche come momento che mette in questione l’idea che il passato sia “reale”, che esso sia certo, a differenza del futuro, in quanto e nella misura in cui non può cessare di essere ciò che è stato. 

 

7. Il tempo del crimine.

“Some men a forward motion love / But I by backward steps would move” (H. Vaughan)

 

Torniamo, finalmente, al concetto di pre-crimine, di un crimine che sarebbe necessariamente compiuto, senza mai essere stato compiuto. Non arriveremo a vederne le implicazioni, le questioni che sono poste, finché non capiremo l’operazione che Dick pone in atto con esso. Il pre-crimine non è altro, da questo punto di vista, che il nostro stesso concetto di crimine pensato, sviluppato secondo una strategia paranoica, tipica della scrittura dickiana[31]. Varrebbe la pena, allora, utilizzare quanto possiamo isolare nella logica di questo racconto per tornare al problema del crimine, del giudizio su di esso, della condanna. 

Quale certezza avrete mai – sembra chiederci Dick – nel condannare? Ma lo fa spingendo la domanda in una direzione nuova. Qui essa non riguarda infatti i limiti, sempre possibili, di ogni atto di conoscenza del passato (come a sottolineare che sarebbe sempre possibile l’ “errore”). Essa chiede altro, e mette in gioco un diverso problema. Ed è questo problema che, attraverso Dick ma al di là del suo testo, riguarda il nostro modo di pensare, di affrontare la punizione dei crimini.

Se anche, infatti, fosse possibile giungere ad una conoscenza vera del passato, davvero essa ci assicurerebbe del fatto che esso non possa cambiare? Il passato non conserva sempre la possibilità – ontologica, de re – di revocarsi, di non essere stato ciò che è stato?

Se diciamo che il colpevole avrebbe potuto essere innocente, non intendiamo più, allora, soltanto che potremmo sempre aver commesso un errore, al livello della nostra conoscenza dei fatti. Intendiamo dire, diversamente: ciò che egli ha fatto, conserva sempre, in se stesso, la possibilità, la potenza di non essere stato [32]. Anche la “realtà” del passato, cioè, può sempre cedere.

Il problema è spostato, finalmente. Non si tratta più di “denunciare” la sempre possibile incertezza del giudizio, la sempre possibile divergenza tra la “verità” processuale e la realtà dei fatti. Fino a qui, infatti, non c’è nulla di diverso rispetto a quanto i giuristi non hanno mai smesso di sottolineare. Se, infatti, essi ormai ammettono che la giustificazione che il processo produce è sempre e soltanto quella dell’enunciato sui fatti[33], l’ideale di una “verità” come corrispondenza alla realtà viene, in realtà, mantenuto se, come osserva MacCormick «ogni lite giudiziaria implica la supposizione che si possano stabilire delle verità nel tempo presente intorno a fatti passati»[34].

Per questo si continua a parlare dell’enunciato fattuale come di una proposizione di natura descrittiva, nel senso che essa si riferirebbe ad determinato fatto come una «realtà esterna al processo»[35]. Il riferimento alla possibilità di verificare se la proposizione corrisponda o meno alla realtà dovrebbe perciò essere sempre mantenuto, se non altro per consentire la valutazione critica della sentenza da parte di chi, ad esempio, sia in grado di provare «in base a successive scoperte, che la ricostruzione dei fatti operata dal giudice “non era vera”»[36]

Per questo si mantiene sempre, in ultima istanza, una certa concezione dell’ “errore” giudiziario, come se un enunciato relativo ai fatti potesse essere dimostrato “falso” in quanto non corrispondente ai fatti, per come essi sono accaduti. Se tutto ciò può continuare a funzionare, è solo sul presupposto che il fatto, per come accaduto, sia in ultima istanza irrevocabile. Certamente, cioè, x può essere falsamente ritenuto di aver commesso un crimine: ma, se lo ha commesso, è impossibile far sì che non lo abbia commesso (factum infectum fieri nequit). La possibilità stessa – come generalmente si ammette – che l’enunciato relativo ai fatti possa essere “falso”, possa non corrispondere alla realtà, implica che quest’ultima resti indifferente a ciò che nella proposizione si dice di essa. 

Ma questo significa che, se potessimo mai giungere alla certezza della verità dell’enunciato che accerta il delitto, ciò non potrebbe che significare la certezza che il delitto sia stato commesso. La verità, la forma di sapere che le pratiche giuridiche, il modo di giudicare gli uomini in relazione ai crimini, si sono imposte nella modernità, non ha mai smesso di essere pensata, in fondo, a partire dall’ideale - per quanto non raggiungibile - corrispondenza tra la conoscenza del fatto e il suo essere accaduto.

Dick fornisce, nel racconto, questo ideale compiuto: potrebbe sempre darsi, non può escludersi, che sia possibile giungere ad una conoscenza necessaria del passato, ad una conoscenza infallibile di ciò che è stato. Se giungessimo mai ad essa, avremmo realizzato l’ideale del processo per come pensato dalla modernità giuridica: ci sentiremmo, cioè, finalmente garantiti nel nostro condannare, nel fatto che non vi sarebbe, qui, errore possibile.

E’ a questo punto che Dick giunge a porre la domanda, nel momento e nel modo in cui essa va pensata: tutto ciò ci assicurerebbe davvero, in fondo, di condannare soltanto crimini che siano stati commessi? Di non condannare mai, dunque, degli “innocenti”?

Se vi è risposta affermativa, la si ottiene solo assumendo che un fatto, se si è compiuto, non può non essersi compiuto. Che ciò che è stato non può mai, non può più non essere stato. Ma questa credenza da che cosa è assicurata? Che cosa le consente di essere mantenuta, se non ciò che essa stessa assicura?

Essa è la condizione affinché, per il processo, vi possa essere una “verità”, affinché cioè esso possa presentarsi come atto di conoscenza – per quanto imperfetto – di ciò che è stato. Ma, dall’altra parte, è solo in quanto assumiamo che questo atto di conoscenza tenda in ultima istanza a corrispondere alla realtà che facciamo di quest’ultima qualcosa di “irrevocabile”, perché funziona come criterio ultimo di valutazione della correttezza di quell’atto. E’ dunque il condizionato che è condizione della sua condizione: è, cioè, il nostro modo di pensare che la conoscenza tenda verso l’accertamento dei “fatti”, a far sì che questi ultimi non possano che essere pensati come irrevocabili. La credenza nell’irrevocabilità del passato è ciò che costituisce quell’illusione di realtà che rende possibile il processo, la produzione della sua “verità”.

La paranoia, va ricordato, in Dick è ciò che consente di articolare la domanda: che cos’è reale? In altri termini: soltanto ad un livello “paranoico” è possibile che la realtà si riveli per ciò che essa è, è possibile giungere a ciò che costituisce il reale di ciò che è reale.

Che cos’è dunque reale? Il crimine, nel modo in cui lo pensiamo, in quanto fatto accaduto? Non più di quanto lo sia il pre-crimine – è questa la risposta implicata nel racconto. Perché la conoscenza del passato non è meno “illusoria” della pre-visione del futuro. Anche se, a rigore, non si dovrebbe parlare di illusorietà. Se infatti la realtà stessa è una illusione, e se non vi è un’altra realtà cui contrapporla, allora non c’è più la possibilità di dire che cosa il crimine sia “in realtà”. Esso è reale come, in quanto illusione[37].

Il processo diventa il luogo, allora, in cui ri-assicuriamo, ogni volta, la credenza nell’irrevocabilità del passato, in cui anzitutto condanniamo ciò che è stato ad essere stato. “Accertare” un fatto, ciò che è accaduto, non significa, per il diritto, escludere che esso possa non essere accaduto, quanto escludere che, se è accaduto, non possa cessare di essere accaduto (e, analogamente, se non è accaduto). Il problema, cioè, non è di condannare un innocente, non è la condanna di qualcuno per un crimine che non ha commesso. Il problema, piuttosto, è che la condanna per un crimine che si è commesso è sempre, anzitutto, condanna all’irrevocabilità di quel passato, è ciò che impedisce al crimine che è stato commesso di poter giungere, un giorno, a non essere stato commesso[38].

Questa possibilità, il testo dickiano giunge a pensarla sul piano ontologico – e non, dunque, limitandosi a fare di essa una possibilità che riguarderebbe il nostro modo di modificare il passato attraverso la narrazione che facciamo di esso. L’idea che sia al livello della costruzione narrativa della realtà che il passato viene reso “modificabile”, infatti, non fa che fondarsi sull’assunto per cui, nel suo essere accaduto come tale, esso sarebbe invece irrevocabile. Ma la scrittura di Dick non va in questa direzione, poiché la questione che essa sviluppa è sempre quella della realtà (ontologica) del passato. Ed è qui che l’incubo di un futuro che può sempre essere diverso da ciò che necessariamente e infallibilmente sarà, può anche rivelarsi come l’incubo di un passato a cui viene impedito di poter non essere stato.

Potremmo distinguere, allora, tra l’aver-avuto-luogo dell’evento e il suo essere-stato. Certamente esso ha avuto luogo, e come tale è irrevocabile. Ma può sempre cessare di essere stato, di essere il passato che è stato. E’ questa la domanda che, allora, andrebbe finalmente sviluppata: che cosa ne sarebbe di un diritto, in tutto ciò che riguarda il suo modo di considerare, di pensare il passato, se quest’ultimo ci apparisse, ora, come revocabile? Che ne sarebbe della pena, del giudizio, ma anche della riparazione, del crimine estinto, amnistiato, “perdonato”? Non cambieremo nulla dei nostri modi di giudicare, di condannare, di punire, finché non giungeremo ad essere all’altezza di ciò che realmente è ancora da pensare: che un crimine che è stato, possa sempre cessare di essere stato. 

 

Abstract: The paper analyses the topic of “pre-crime” included in Philip K. Dick’s novel, “Minority Report”. The purpose of the analysis is to identify the concept and implications of a “crime without a crime”, namely a crime which has been prevented from occurring thanks to the fact that it was forecasted. The idea of “pre-crime” questions the typical meaning given by the modern society to delict, guilt and punishment opening to a reinterpretation of our juridical categories.

 

Keywords: Philip Dick – Minority Report – Pre-Crime – Multiple Futures – Future Contigents


* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1]P.K. Dick, The Minority Report, in Fantastic Universe, 4 (1956), pp. 4-36; trad. it. Rapporto di minoranza, in Rapporto di minoranza e altri racconti, trad. it. di P. Prezzavento, Roma 2002. Per una introduzione ai temi filosofici presenti nella narrativa di Philip K. Dick, cfr. F. Rispoli, Universi che cadono a pezzi. La fantascienza di Philip K. Dick, Milano 2001; D.E. Wittkower (a cura di), Philip K. Dick and Philosophy. Do Androids Have Kindred Spirits?, Chicago 2011; S.J. Umland (a cura di), Philip K. Dick. Contemporary Critical Interpretations, Westport-London 1995.

[2] P.K. Dick, Rapporto di minoranza, cit., p. 47.

[3] Come sottolinea, tra gli altri, T. Elsaesser, Philip K. Dick, Hollywood e le causalità retroattive: il caso di Minority Report, in Imago. Studi di cinema e media, 10, 2 (2014), p. 91: «la stessa efficacia del programma Precrimine rappresenti in verità un eccesso di perfezione. Anticipare un reato evitando che il crimine venga commesso ha infatti come conseguenza (involontaria ma inevitabile) il fatto che la società crei (e incarceri) criminali che sono innocenti, agendo perciò essa stessa in modo immorale se non direttamente criminale. Il loop, basato sulla prevenzione e sulla deterrenza, rappresenta qui uno stallo morale, con la parte viziosa che cancella quella virtuosa».

[4] Del resto, la forma di conoscenza, e quindi la concezione di verità ed i meccanismi della sua enunciazione che il pre-crimine implica, ci apparirà estranea al funzionamento della nostra pratica giudiziaria soltanto se la assumiamo come storicamente determinata a partire dall’indagine, fondata sulla testimonianza di ciò che è stato. Ma – Foucault vi ha dedicato analisi essenziali – l’indagine, come pratica dell’accertamento della verità nel diritto, non solo non si è affermata che da determinate condizioni politiche e sociali, ma, soprattutto, a partire dal XIX secolo è stata affiancata da pratiche – come ciò che Foucault chiama l’examen, l’esame – che determinano nuove “forme” di verità, nuovi modi mediante i quali si forma un sapere sul crimine. Per quanto qui interessa, dobbiamo sottolineare due aspetti. Il primo è che solo nel momento in cui l’indagine si afferma quale metodo di accertamento della responsabilità, si passa da un modo di enunciazione della verità di tipo profetico – e che dunque si ha nella forma del futuro (il crimine che verrà compiuto) – ad uno di tipo retrospettivo, che appartiene all’ordine della testimonianza, del sapere ciò che è stato. La scoperta giudiziaria della verità, dunque, soltanto a partire da un certo periodo storico – e certamente nell’ambito del pensiero greco – si è definita a partire dal riferimento al passato, dal primato del passato (e ciò dovrebbe, pertanto, ricordare come non vi sia nulla di naturale in tale concezione). Il secondo aspetto, invece, è legato al fatto che la nascita di discipline quali la criminologia, e le stesse trasformazioni della penalità alla fine del XIX secolo, determinano un nuovo spostamento: nel momento, infatti, in cui la pericolosità sociale ha fatto il suo ingresso nel diritto penale (almeno con riferimento alle misure di sicurezza), nel momento, cioè, in cui l’individuo viene in considerazione per la probabilità che possa commettere nuovi reati, il sapere che si lega ad essa non ha più nulla a c

Gazzolo Tommaso



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