The criminal man by Cicero

L’uomo delinquente di Marco Tullio Cicerone

27.08.2022

Nunzia Donadio*

 

L’uomo delinquente di Marco Tullio Cicerone**

 

English title: The criminal man by Cicero

DOI: 10.26350/18277942_000086

 

Sommario: 1. Premessa. - 2. L’in Pisonem di Cicerone e i loci dell’invettiva politica tardorepubblicana. – 3. La straordinaria criminosità di Pisone. – 4. La pazzia e il furore criminale come fattori della personalità del delinquente nell’oratoria ciceroniana. – 5. La fisiognomica del personaggio. – 6. I vitia animi e l’indole perversa di Pisone. – 7. Altri tratti caratteristici della personalità di Pisone. – 8. Conclusioni.

 

1. Premessa.

 

Nel contesto di una ricerca più ampia sui precedenti della nozione di pericolosità criminale nel mondo antico, vado approfondendo da tempo i concetti di criminalità innata e indole delinquenziale nella riflessione retorica romana e nell’oratoria ciceroniana in particolare. L’Arpinate ricorre spesso contro i propri avversari di fazione o gli oppositori in una causa publica all’idea di delinquente-nato e di criminale per natura, restituendo dei nemici un’immagine aberrante, come di individui altamente pericolosi per la loro offensività verso la res publica, i cittadini, gli alleati, i familiari e i propinqui, gli hospites[1], e per l’irrecuperabilità alle consuetudini di vita onesta[2]. Si tratta di un modello retorico che è funzionale alla trasformazione del nemico di parte in hostis publicus: la sua rappresentazione come criminale altamente pericoloso per i singoli e per lo stato è intesa a suscitare il timore per la minaccia delinquenziale all’interno dell’urbe e a determinare così il risentimento dell’uditorio verso il destinatario delle invettive oratorie, privato di ogni credibilità politica e infangato per le riprovevoli costumanze di vita.

La nozione di delinquente innato fu verosimilmente concepita – in accordo con alcuni principi generali della precettistica retorica latina e dell’oratoria repubblicana in tema di loci argumentorum e di adtributa personis – per le finalità connesse con l’accusa nei processi criminali: nelle Verrinae,ad esempio, le argomentazioni accusatorie di Cicerone sono volte a dimostrare che è la stessa natura del corrotto governatore di Sicilia a spingerlo ripetutamente ai delitti più gravi[3], che la sua indole è particolarmente perversa e protesa al male, in quanto connotata dalle peggiori inclinazioni d’animo, alle quali una libido incontenibile e un irrefrenabile furor tolgono ogni limite di ragionevolezza umana[4]. La medesima nozione però si riscontra ampiamente anche nell’oratoria deliberativa e soprattutto nell’invettiva politica, dove contribuisce a restituire dei nemici politici dell’Arpinate una visione fortemente negativa[5].

In queste pagine intendo illustrare l’uso in Cicerone dei concetti di criminosità congenita e di capacità delinquenziale, la distinzione tra il delinquente-nato e il delinquente per occasione, i fattori che identificavano nel pensiero retorico antico il delinquente per natura sotto il profilo dei vitia animi, dell’atteggiamento verso la religione, della morale, dell’educazione, delle tare mentali (categorie che sono tipicamente assunte com’è noto anche nell’indagine del Lombroso[6]). Lo studio verterà sulla Pisoniana, perché quest’orazione consente di comprendere come la concezione di delinquenza ingenita finisca per essere adattata alle ragioni pratiche dell’invettiva politica a Roma, durante il periodo della crisi repubblicana. Scopo ultimo è mostrare che taluni concetti sviluppati dal Lombroso nel suo celebre L’uomo delinquente[7], in realtà, sono presenti almeno in parte in contesti diversi già nell’oratoria ciceroniana, perché essi sono funzionali a isolare i nemici politici dalla classe dirigente, dal contesto sociale e familiare, a sostenere la necessità della loro definitiva messa al bando dalla città come hostiles ai sui, come inimici e hostes civitatis, come praedones, piratae e latrones[8], come gladiatores[9], come proditores patriae[10]. Tutte queste tipologie di individui erano poste ai margini della società civile, non di rado in condizione di schiavitù o di semi dipendenza[11], vivevano dei proventi delle proprie attività criminose e, in ogni territorio dell’impero o ceto sociale, venivano percepiti come pericolosi “fuorilegge” o no-persons, per una propensione grave e ingenita a delinquere contro l’incolumità generale e la sicurezza dei patrimoni individuali.

Nella produzione oratoria ciceroniana è già presente l’idea dell’indole congenita criminale e la figura del delinquente-nato. A differenza però delle inferenze raccolte dal Lombroso, in Cicerone i tratti tipici del criminale ingenito sono riferibili prevalentemente alla sfera della psicologia e della morale, delle perverse passioni d’animo, di forme di devianza e alienazione mentale dell’individuo delinquente; mentre non attengono assolutamente all’ambito dell’anatomia patologica e dell’antropometria del delitto, che tanta parte assumono com’è noto nell’opera del Lombroso[12]. Questo si spiega per le diverse motivazioni dell’indagine scientifica lombrosiana, rispetto alle finalità retoriche delle figure aberranti create per i nemici di fazione dall’oratore tardorepubblicano, con lo scopo di indurre avversione nei confronti di individui presentati come hostes della civitas Romanorum e nemici dell’humanum genus[13].

Le componenti di questa natura animi del delinquente ingenito – definita nell’oratoria ciceroniana mediante espressioni come fera immanisque natura, importuna natura, immanis acerbaque natura, effrenatus animus importunaque natura[14] - si possono sintetizzare nell’avidità e crudeltà, in cui Cicerone indica la matrice di tutti i misfatti e i crimini che imputa ai suoi nemici; nella follia criminale, come eccesso nelle più aberranti inclinazioni d’animo, non contenute entro limiti di ragionevolezza umana; nella temerarietà e audacia, quali cause di delitti scandalosi spesso commessi contro i legami familiari, senza tema della vendetta divina, delle leggi, dell’opinione pubblica.

 

2. L’in Pisonem di Cicerone e i loci dell’invettiva politica tardorepubblicana.

 

L’in Pisonem è un’orazione pronunciata tra il luglio e il settembre del 55 a.C.[15], presumibilmente nei giorni del ritorno a Roma del proconsole dalla provincia di Macedonia[16], e costituisce la risposta di Cicerone alle offensive di Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, che si era visto revocare il proconsolato e aveva attaccato aspramente in un precedente discorso l’Arpinate[17]. Quest’arringa, insieme essenzialmente con la seconda Philippica, è emblematica dell’invettiva politica, forma di discorso accettata nell’agone politico della Roma repubblicana, che si identificava con l’aggressività verbale consentita all’oratore contro il nemico di fazione[18] e che realizzava anche una sorta di ritorsione politica ricollegandosi, sotto questo profilo, alla generale ammissibilità della vendetta nella società romana[19]. Già Paratore in un notissimo saggio[20] osservava, sullo stile delle invettive ciceroniane, che lo sdegno e il biasimo toccano nella Pisoniana toni triviali propri del sermo familiaris, non contenendosi a livello di austera e sostenuta riprovazione come invece accade nella seconda Philippica contro Marco Antonio. Più di recente Arena ha approfondito l’abuso dell’insulto nell’economia generale e funzione dell’invettiva, osservando che nell’orazione contro Pisoneesso assurge a un elevato grado di “linguistic artistry”[21]. L’in Pisonem, che è chiaramente incentrata sul meccanismo della contrapposizione tra vituperatio e laudatio proprio del demonstrativum genus[22], riprende anche nelle espressioni ingiuriose (come gladiator e lanista, ad esempio)[23] loci propri dell’invettiva romana, identificabili per grandi linee nelle tre ampie categorie che la trattatistica retorica repubblicana teorizzava per il genere dimostrativo[24]: quella delle circostanze esterne (come la famiglia, l’educazione, la ricchezza, i poteri, le glorie, la cittadinanza, le amicizie e il loro contrario); quella degli attributi fisici (come l’agilità, la forza, la bellezza, la salute e i loro opposti); quella dei difetti dell’animo o delle qualità caratteriali e virtutes individuali (come la saggezza, la giustizia, il coraggio, l’autocontrollo e i loro contrari)[25].

Quanto alla funzione dell’invettiva in generale, si può ripetere con Corbeill[26] che lo scopo fondamentale delle invettive politiche era determinare la riprovazione pubblica dei destinatari, attraverso la denuncia - secondo argomenti topici - delle loro colpe, delle loro corrotte costumanze di vita e delle condotte devianti rispetto al paradigma comportamentale dei ceti dirigenti romani, improntato alla dignitas e al decorum[27]. Sotto questa prospettiva, risulta agevolata nell’invettiva ciceroniana la rappresentazione dell’avversario politico come “lawbreaker from the community of the elite”[28]. L’esposizione alla riprovazione generale in base a dati “mechanisms for shame” determinava una mutilazione della reputazione, che finiva per integrare una vera e propria punizione di natura sociale (parallela all’amputazione fisica). L’invettiva politica dunque rappresentava - secondo Corbeill - anche un efficiente fattore di controllo sulle condotte potenzialmente antisociali degli esponenti dell’élite di governo nella capitale. Non diversamente, Powell specifica i tratti distintivi del genere, sottolineando che l’attacco personale diretto è lo scopo principale dell’invettiva, la quale rappresenta perciò anche una dichiarazione di aperta inimicizia all’avversario[29].

Sulla funzione della vituperatio nell’oratoria romana si è espressa di recente Arena[30], la quale ha sottolineato che scopo principale perseguito dall’oratore con l’invettiva era quello di emarginare l’avversario dalla comunità. In questa direzione si può ricordare che anche nella Pisoniana, come in molte altre orazioni in cui Cicerone ricorre all’aggressione ingiuriosa contro i nemici di fazione, è ribadita l’opportunità di sottoporre Pisone a tortura e supplizio[31]. l’Arpinate ricorda così all’avversario di essere ritenuto omni cruciatu dignissimus da tutti e ovunque: dai socii, dai foederati, dai liberi populi, dagli stipendiarii, dai negotiatores, dai publicani, dall’universa civitas, dai legati, dai tribuni militares e dai reliqui milites qui ferrum, qui famem, qui morbum effugerunt: con un’elencazione che accentua la potenza retorica del richiamo alla fama di Pisone (Cic. Pis. 98).

A questo proposito si deve ricordare anche l’epiteto prodigium, che ricorre insieme con portentum e monstrum nella Pisoniana contro il console del 58[32], così come in molte altre orazioni giudiziarie e politiche contro nemici di fazione dell’Arpinate (Verre, Sassia, Catilina, Clodio, Antonio e i suoi fratelli)[33]. Come ha osservato Corbeill[34], l’impiego del lemma prodigium con i suoi correlati serve a evocare all’uditorio la rituale espulsione del mostro dall’urbs, quale forma di espiazione volta a ristabilire la pax deorum. Secondo lo studioso americano, infatti, con questi appellativi ingiuriosi Cicerone vuole che il pubblico a Roma concepisca il suo opponente come effettivo prodigio, cioè come un essere sovrannaturale la cui reale esistenza minaccia la sicurezza della res publica[35].  Sotto questa prospettiva si può ricordare con Koster[36] che gli insulti portentum, monstrum, prodigium sono collegati all’ambito colpito dalla persona, espressi in Pis. frg. 1 con hic locus, urbs e civitas.

L’esclusione dalla civitas e dal genere umano è espressa anche mediante il ricorso alla metafora della bestia o belua, che come ha sottolineato ancora Corbeill serve a insinuare nell’uditorio l’idea che il rivale ha abdicato a tutte le sue responsabilità nei confronti della comunità[37].

Il significato della congiunzione tra i due differenti aspetti della prodigiosità e dell’animalità, che caratterizzano le figure dei nemici di fazione nell’oratoria ciceroniana tra cui Pisone, è ben spiegato da Cuny-Le Callet[38], allorché osserva che quella delineata da Cicerone per i suoi rivali politici è una mostruosità morale, una deformazione peggiorativa nella coscienza di un dato tipo d’individuo, a cui si ricongiunge la bestialità a denotare l’assenza dei tratti morali tipici dell’uomo, quali innanzitutto la spinta alla socialità, la razionalità, l’istintivo contenimento delle passioni più perverse e violente come la ferocia, la crudeltà, la cupidigia. Il ricorso all’immagine della bestialità in contesti d’invettiva politica poggia spesso sulla comparazione con animali di differenti specie e indole (pecus e fera, ad esempio), in quanto secondo Cuny-Le Callet si vuole così raffigurare l’innaturale molteplicità di forme che assume la mostruosità umana e la sua intrinseca incoerenza: “c’est un être en qui se succèdent différents états monstrueux”[39]. La studiosa delinea perciò i tratti antropologici tipici di questo prodigio, principalmente, nella debolezza intellettuale (infirmitas ingenii o mentis imbecillitas); nella rozzezza innata, non mitigata dall’educazione e dalla formazione culturale; nell’indolenza, apatia e inerzia, che ne caratterizzano il comportamento generale; nella tendenza a soddisfare senza limiti e pudore gli istinti più selvaggi e le brame più scabrose; nell’abbrutimento fisico; nell’intemperanza; nell’eccezionale resistenza fisica e nella specifica capacità di adattamento all’ambiente naturale circostante.

Altrettanto interessante è il punto di vista di Duplá Ansuategui[40], il quale rileva che le invettive politiche dell’Arpinate, fondate essenzialmente sul richiamo all’uso della violenza, alla pericolosità e all’insania come tratti caratteristici degli avversari, non perseguono il solo scopo di inquadrare i destinatari come “individuals outside of the community”, ma – specie per i leaders populares - anche quello di indurne la soppressione fisica.

Più in generale, l’invettiva ciceroniana può essere un buon campo di indagine ai fini del presente lavoro, atteso che, come riconoscono ormai da tempo gli studiosi dell’antichità, essa riflette all’interno del più ampio genere epidittico la realtà della società repubblicana[41]. È allora possibile con queste premesse procedere a identificare quelle imputazioni rivolte da Cicerone a Pisone che mostrano la criminosità ingenita del personaggio, e quelle caratteristiche che possono rievocare almeno in parte i connotati propri del delinquente-nato nella riflessione antropologica e criminologica ottocentesca (Lombroso).

Gildenhard ha giustamente rilevato che “the key themes of the In Pisonem … are poena and supplicium[42] e ha parlato di “imaginary penal system he [Cicero] enacts in the In Pisonem[43], con riferimento però all’esilio come punizione ingiustamente subita dall’oratore e al supplicium che, al contrario, questi invoca contro Pisone e Gabinio (di “his philosophy of punishment”, parla l’autore)[44]. Mostrerò più avanti che i temi della tortura e del supplizio (riflessi sulla figura del vituperato console del 58 a.C.) sono direttamente connessi con la criminosità e pericolosità delinquenziale imputate nella Pisoniana all’avversario di fazione: si tratta di caratteri fondamentali, che l’oratore argomenta sia attraverso la menzione degli episodi delittuosi che gli addebita (più o meno fondatamente), sia soprattutto mediante la descrizione della straordinaria immoralità e indole malvagia del personaggio, propensa alla ricaduta nel male.

 

3. La straordinaria criminosità di Pisone.

 

La criminosità comune ed eversiva di Pisone rappresenta una componente fondamentale del personaggio nell’invettiva politica ciceroniana: accanto al cliché del tiranno avido e crudele, alle figure retoriche del praedo pirata e latro, al modello negativo del proditor e hostis, assume un ruolo centrale l’immagine del mostro di inusitata criminosità, per natura estraneo al sistema valoriale del bonus vir[45]. Il carattere straordinario della sua delittuosità - per il numero dei crimini che gli vengono imputati, per la gravità degli stessi, per l’importanza degli interessi con essi lesi, per i destinatari dell’azione criminosa - è ripetutamente rimarcato a fini retorici: l’intento dell’oratore è suscitare avversione contro Pisone (e Gabinio), infondendo nell’uditorio il timore per la minaccia criminale nel territorio dell’urbe, in una fase in cui la violenza nella lotta politica aveva toccato livelli altissimi nel contesto della crisi repubblicana. L’accusa concerne sia la criminosità comune che quella politico eversiva, tesa cioè al sovvertimento dell’ordine costituito e ad atti di aggressione contro la res publica e contro gli organi costituzionali mediante l’uso di bande armate composte anche di gladiatori e schiavi fuggitivi.

Quanto alla delittuosità comune, all’avversario sono imputati sia delitti contro il patrimonio, come genericamente rapinae[46], sia reati di sangue, anche rivolti contro più vittime congiuntamente, come caedes e strages[47]. L’orazione è perciò puntellata di epiteti come fur (Pis. 38), furunculus (Pis. 66), rapax (Pis. 66), depeculator (Pis. 96), onde persuadere i senatori della propensione di Pisone ad aggredire la proprietà individuale, spesso con l’impiego di bande armate o tramite abuso delle funzioni magistratuali. In un caso, il rivale è definito direttamente sicarius (Pis. 38): a ciò si aggiungano i luoghi in cui sono imputati espressamente a Pisone uccisioni ingiuste di cives e di alleati[48]. L’elevata pericolosità criminale del personaggio è dimostrata anche dal suo discutibile rapporto con la sfera del sacro e della religione[49]: in Pis. 38, ad esempio, egli è detto sacrilegus, mentre in Pis. 11 viene definito proditor templorum omnium[50].

Quanto alla criminosità eversiva, in diversi luoghi della Pisoniana Cicerone sottolinea che la finalità delle scellerate azioni dell’avversario, specie durante il consolato e il proconsolato di Macedonia, era stata quella di sovvertire e distruggere lo stato: si parla di rem publicam evertere[51] o patriam adimere[52]. Egli imputa perciò al rivale la partecipazione, durante il proprio consolato, alle azioni criminose di Clodio e delle sue bande armate (principalmente nell’appoggiare la scelta di esiliare l’oratore e di impedirgli il ritorno in patria)[53]; l’aspirazione alla tirannide[54]; il tentativo di annientare il senato (exstinguere senatum, vendere auctoritatem huius ordinis, Cic. Pis. 56); la commissione durante il governo della provincia di intollerabili abusi e assassini di massa[55] ecc. Riporto tre noti testi, tra i più significativi delle delazioni mosse sotto questo profilo da Cicerone all’odiato console:

 

Cic. Pis. 26: … Numerandus est ille annus denique in re publica, cum obmutuisset senatus, iudicia conticuissent, maererent boni, vis latrocini vestri tota urbe volitaret neque civis unus ex civitate, sed ipsa civitas tuo et Gabini sceleri furorique cessisset?

 

Cic. Pis. 38: Quas res gessisti imperio, exercitu, provincia consulari? Quas res gesserit quaero? Qui ut venit statim – nondum commemoro rapinas, non exactas pecunias, non captas, non imperatas, non neces sociorum, non caedis hospitum; non perfidiam, non immanitatem, non scelera praedico: mox, si videbitur, ut cum fure, ut cum sacrilego, ut cum sicario disputabo; nunc meam spoliatam fortunam conferam cum florente fortuna imperatoris.

 

Cic. Pis. 90: … Mitto diplomata tota in provincia passim data, mitto numerum navium summamque praedae, mitto rationem exacti imperatique frumenti, mitto ereptam libertatem populis ac singulis qui erant adfecti praemiis nominatim, quorum nihil est quod non sit lege Iulia ne fieri liceat sanctum diligenter.

 

Nel primo testo l’oratore sta accusando veementemente Pisone di aver consentito ai clodiani l’incendio della propria casa; gli sta contestando la scarsa autorevolezza e credibilità durante tutto il suo consolato; sta imputando al volere di entrambi i consoli del 58 a.C. la violenza delle bande armate (latrocinium vestrum), che imperversarono allora in città al seguito di Clodio[56]. La metafora del pericolo minacciato da orde di ladroni e ‘domestici’ hostes[57] all’integrità della civitas Romanorum, alla vita e ai patrimoni dei boni, agli organi costituzionali, sintetizza la pericolosità criminale e insieme politico eversiva dei nemici di fazione. In questo contesto assume particolare interesse proprio il nesso che l’oratore suggerisce tra il ricorso alla violenza armata nella lotta politica e il furore criminale di Pisone e Gabinio (scelus furorque), cioè la dissennata sregolatezza morale che induce naturalmente al delitto: è quest’ultima che spinge a commettere scelera e che, al tempo stesso, rende criminoso (e perciò illegittimo) il contrasto politico interno alla classe dirigente della capitale. In questa soluzione retorica, che è chiaramente volta a denunciare la pericolosità eversiva e criminale dei due più acerrimi nemici dell’Arpinate (insieme con Clodio), per gettare su di loro discredito e sollevare l’indignazione dell’uditorio, è insita una concezione di criminosità e di capacità a delinquere ingenite, in chi non condivide realmente il sistema valoriale del bonus vir per una personalità malvagia innata.

Quanto agli altri due testi sopra trascritti, in essi Cicerone riporta una lunga serie di delitti, che riferisce direttamente alla responsabilità dell’avversario: reati di massa, crimini contro l’ordine costituito e gli organi costituzionali, azioni sacrileghe, facinora gravi contro cittadini e alleati, abusi de repetundis ex lege Iulia[58]. Essi sono in gran numero e continuativi nel tempo; ma soprattutto sono delitti di straordinaria gravità, perché portati contro l’integrità della res publica o contro i sui. Essi rivelano perciò un’elevata perniciosità sociale dell’individuo e lo pongono per la sua straordinaria azione offensiva al di fuori della civitas Romanorum e dei centri concentrici che la compongono (famiglia, città, aggregazione politica e ordo senatorius).

Frequenti sono inoltre i riferimenti più generici alla pericolosità criminale di Pisone nel corso dell’intera orazione. A tale riguardo merita sottolineare che sono differenti gli espedienti retorici e stilistici utilizzati dall’Arpinate per ottenere un’amplificatio di questo profilo fondamentale della personalità e dell’azione politica del rivale: dall’uso prevalente del plurale riferito a scelus, con cui si insinua nell’uditorio l’idea di una criminosità grave in ragione dell’elevato numero dei delitti commessi; alla ripetizione cadenzata del tradizionale epiteto ingiurioso sceleratus o consceleratus, che serve a denunciare una criminosità d’indole, partecipe della natura stessa del personaggio; all’assimilazione di Pisone a figure di delinquenti innati comunemente percepiti all’epoca come individui “fuorilegge” (pirata praedo latro).

Analizziamo più nel dettaglio queste componenti retoriche dell’accusa di criminosità eccezionale, che Cicerone rivolge a Pisone. Si tratta di elementi che perseguono la persuasione dell’uditorio attraverso l’animum flectere: smuovere l’indignazione verso la natura e l’azione del rivale; sollecitare la paura per la minaccia criminale grave all’interno dell’urbe, onde predisporre l’uditorio ad accettare la visione dell’oratore.

L’esplicita attribuzione di scelus ricorre ben ventidue volte nell’arringa[59], nella maggior parte dei casi al plurale (dodici volte): essa è ripetuta sia nell’esordio che nella conclusio, e ciò dà maggiore efficacia alla delazione dell’oratore. Seguono i riferimenti ai flagitia di Pisone, ben tre volte e tutti al plurale[60]; quindi quelli a facinus, che ricorre due volte al singolare[61]; a crimen, una volta al plurale[62]; e quello, infine, a latrocinium, che nel significato di ‘atto di brigantaggio’ o ‘rapina’ ricorre soltanto in Cic. Pis. 25. Quanto all’uso dell’epiteto sceleratus, bisogna evidenziare che in questa contestualizzazione delle accuse mosse da Cicerone al nemico di fazione, cioè di criminosità innata perché connessa con la sua malvagia indole, l’insulto assume un particolare significato per la sua allusività all’inclinazione a delinquere ingenita: vale la pena ricordare a questo proposito che in Pis. 24 l’oratore imputa a Pisone levitas ed egestas animi, mentre in Pis. 27 parla di miserrima naturae tuae. E così l’individuo è definito sceleratus[63], con Gabinio homo consceleratus[64] e, ancora, socius adiutorque delle scelleratezze di Clodio[65].

Completa l’immagine di mostro di straordinaria criminosità, edificata da Cicerone per Pisone a fini retorici, il ricorso al metaforico del brigantaggio, che consente all’oratore di assimilare l’avversario alle categorie di delinquenti pericolosi percepiti al tempo come nemici dell’umanità[66]: ecco perché Pisone è definito più volte praedo e latro[67]. Che l’uso di queste assimilazioni non avesse come finalità il mero insulto al nemico di fazione, ma mirasse a connotarne l’immagine alla stregua di un criminale altamente pericoloso, si trae anche dalla sequela di insulti che ricorre in Cic. Pis. 96: ovvero, depeculator, vexator, praedo, hostis[68]. Ad ogni modo, resta sempre istruttiva la notazione di Corbeill, allorché osserva che l’uso contro l’avversario della qualifica di latro non comporta automaticamente che questi sia implicato in attività criminosa, in quanto il termine fa piuttosto riferimento al comportamento politico e alla minaccia suo tramite all’ordine costituito[69]. È pur vero però che nell’oratoria ciceroniana l’aggressione all’ordine costituito e agli organi costituzionali si realizza anche attraverso la commissione di crimini comuni - prevalentemente di massa, come stragi, incendi, rapine, saccheggi, devastazioni -, per i quali gli avversari di fazione vengono assimilati alle tipologie al tempo più temute di delinquenti pericolosi: i latrones, i piratae, i praedones[70].

Infine, in connessione con le accuse di scelera facinora crimina contro l’integrità della res publica e degli organi costituzionali, contro l’ordine costituito, contro la vita e i patrimoni dei boni cives, l’Arpinate ricorre con una frequenza accentuata nel corso dell’orazione alle figure dell’hostis e del proditor[71], alle quali ascrive naturalmente anche Pisone. Tutti questi espedienti consentono all’oratore di sovrapporre all’ostilità personale quella generale dell’uditorio, trasformando così il nemico di parte in hostis publicus e delinquente pericoloso per l’intera umanità.

 

4. La pazzia e il furore criminale come fattori della personalità del delinquente nell’oratoria ciceroniana.

 

Nella rappresentazione ciceroniana degli avversari non manca mai l’individuazione nella follia di una causa fondamentale del loro delinquere grave e della loro propensione alla ricaduta nel crimine. In effetti, quest’aspetto evoca un punto cardine delle teorie del Lombroso, allorché dalle sue indagini questi ricavava la convinzione che vi fosse identità tra criminalità e follia morale, che il pazzo morale si identificasse con il delinquente-nato[72]. Più nello specifico il Lombroso individuava nel pazzo alcuni caratteri, relativi al peso, al cranio, alla fisionomia, che riproducevano quasi tutte le caratteristiche dell’uomo-delinquente. Da ciò inferiva l’elevata probabilità di una commistione nel criminale tra pazzia morale e propensione innata al delitto. Questo ragionamento, con esclusione dei profili anatomici e fisiognomici del delinquente, trova un’eco suggestiva nel nesso che nell’oratoria tardorepubblicana viene evidenziato - sia pure soltanto a fini retorici (che però incidevano sulla prassi processuale criminale) - tra furor e criminalità (o pericolosità delinquenziale) del soggetto dal comportamento moralmente indecente (anormale)[73]: tutti i grandi nemici di Cicerone sono beluae e monstra in quanto caratterizzati da un’originaria eccezionale immoralità e incontenibilità delle passioni più aberranti, che li porta naturalmente a delinquere contro la res publica, contro i cives e gli alleati, contro i familiari e l’intero genere umano (follia criminale).

Per pazzi morali il Lombroso intendeva coloro che avessero contratto la pazzia all’atto del loro concepimento e che mancassero di sentimenti affettivi e del senso morale[74]. È in parte suggerito già in Cicerone quanto affermava il Lombroso per l’identità tra criminale ingenito e pazzo morale: ovvero, che “tanto il delinquente-nato come il vero pazzo morale datano quasi sempre dall’infanzia e dalla pubertà”[75]. L’Arpinate ricerca - in ossequio ai principi dell’argumentum e anteacta vita - indizi della malvagia indole degli avversari già nelle consuetudini di vita della prima fanciullezza (pueritia e adulescentia), come accade in modo emblematico nelle Verrinae per il dissoluto propretore di Sicilia: Itaque primum illum actum istius vitae turpissimum et flagitiosissimum praetermittam. Nihil a me de pueritiae suae flagitiis audiet, nihil ex illa impura adulescentia sua; quae qualis fuerit aut meministis, aut ex eo quem sui simillimum produxit recognoscere potestis[76].

Il Lombroso[77] ricorda ad esempio quanto diceva il Tamburini su un caso da lui esaminato, che cioè i motivi più futili, quando sono ostacolo alla realizzazione dei desideri del delinquente, bastano a farlo scoppiare in accessi di collera, nei quali egli non conosce più freno ed è esattamente come i bambini che non avvertono proporzione tra reazione e motivo che la provoca, finendo per le cause più lievi per nutrire un odio così grande da provare per impulso irresistibile la spinta a uccidere. Un’idea similare si può riscontrare su un diverso piano anche per i destinatari delle invettive ciceroniane nell’oratoria forense e deliberativa. Ricordo un solo esempio. Nel racconto della crocefissione di Gavio di Compsa che occupa i paragrafi conclusivi della De suppliciis (Verr.2.5.139-170), a ridosso della conclusio (Verr. 2.5.171-189), e che Cicerone attribuisce agli abusi di Verre nella repressione criminale contro cittadini romani in provincia, così viene descritto l’avversario in procinto di ordinare l’esecuzione di Gavio (un abuso dovuto a crudeltà nell’ottica dell’oratore): Ipse inflammatus scelere et furore in forum venit. Ardebant oculi, toto ex ore crudelitas eminebat. Exspectabant omnes quo tandem progressurus aut quidnam acturus esset, cum repente hominem proripi atque in foro medio nudari ac deligari et virgas expediri iubet, Cic. Verr. 2.5.161[78].

L’imputazione di follia, che nell’oratoria giudiziaria ricorre contro figure emblematiche come Verre nelle Verrinae[79] appunto, o come Sassia e Oppianico senior nella Cluentiana[80], interessa anche il destinatario delle invettive politiche nella in Pisonem[81]. I riferimenti sono di diversa natura. Se non manca, come per altri oppositori[82], il concetto di pazzia indotta dal crimine e alimentata dalla vendetta divina (perturbatio mentis, Cic. Pis. frg. 3); la follia sembra intesa prevalentemente come furore criminale, cioè come eccesso nelle perverse passioni d’animo - la crudeltà, l’avidità, la cupidigia di potere -, che vengono vissute dal personaggio senza limiti di ragionevolezza umana[83] e che perciò portano ad azioni scellerate. Così, per un verso, Cicerone ricorda al rivale il proprio furor petulantiaque[84] (Cic. Pis. 31); rimarca che Gabinio e Pisone sono precipitati nel furor et insania (Cic. Pis. 46); imputa a entrambi furore criminale (scelus furorque, Cic. Pis. 26). Per altro verso, definisce Pisone vaecors et amens (Cic. Pis. 21), o insieme vaecors, furiosus, mente captus (Cic. Pis. 47), o ancora praedo amentissimus (Cic. Pis. 57).

Si può dire pertanto che la follia di Pisone, intesa come intemperanza e sregolatezza nelle perversioni umane, in quanto connessa con un’indole malvagia innata e irrecuperabile, è un fattore che contribuisce all’ingenita propensione al crimine del personaggio. I delitti che l’oratore gli imputa sono dettati nella sua ottica da questo furore; e il furor al tempo stesso alimenta la sua capacità delinquenziale, rendendolo particolarmente pericoloso per la pace sociale e per la sopravvivenza dello stato.

Un’altra caratteristica che ricorre nella Pisoniana e che anche il Lombroso[85] aveva evidenziato, sia pure a diversi fini e in un differente contesto di ricerca nei suoi studi sui delinquenti-nati, è la sintesi tra la coscienza dei delitti commessi e la spavalda convinzione della propria innocenza, che a sua volta favorisce la tendenza alla recidiva. L’audacia di Pisone insieme con la conscientia scelerum et fraudium suarum (Cic. Pis. 44) annebbiano nel personaggio ogni moralità e capacità di percepire il male, inducendolo così naturalmente alla ricaduta nel reato. Si legga il seguente testo:

 

Cic. Pis. 39: Nihil enim iam mea refert utrum tu conscientia oppressus scelerum tuorum nihil umquam ausus sis scribere ad eum ordinem quem despexeras, quem adflixeras, quem deleveras, an amici tui tabellas abdiderint idemque silentio suo temeritatem atque audaciam tuam condemnarint.

 

Com’è evidente, alla coscienza dei propri crimini fa da contrappunto la temeritas e audacia dell’avversario, vitia animi che rappresentano tratti tipici della sua indole malvagia[86], come mostrerò in seguito parlando del profilo morale e della psicologia di Pisone nella rappresentazione ciceroniana.

Queste idee di Cicerone sono utilizzate per costruire l’immagine del vituperato console come criminale socialmente pericoloso, sia per l’azione politico eversiva, sia per la delittuosità comune grave, e servono alla trasformazione del personaggio da nemico di parte a hostis rei publicae. Esse sembrano riecheggiare note osservazioni del Lombroso, il quale nel presentare le inferenze della sua indagine sui recidivi e sui delinquenti-nati affermava: “Gli è che il senso morale, nei più di costoro, manca del tutto; molti non comprendono affatto l’immoralità della colpa …”[87]; “… si vede insomma in costoro invertirsi completamente l’idea del dovere. Credono di avere diritto a rubare, ad ammazzare, e che la colpa sia degli altri nel non lasciarli fare a loro agio. E giungono perfino a trovare un merito entro il delitto …”[88]. “Si parla spesso da molti dei rimorsi dei delinquenti; anzi, pochi anni addietro, i sistemi penali aveano a punto di partenza il pentimento dei colpevoli. Ma chi ha praticato, anche per poco, in mezzo a questi sciagurati, acquista invece la certezza che costoro non hanno rimorsi”[89].

 

5. La fisiognomica del personaggio.

 

In conformità con un locus tradizionale dell’invettiva[90], Cicerone offre una descrizione fisica di Pisone identificandolo per alcuni tratti somatici o espressioni del volto e dello sguardo, anche ricorrendo a profili tipici delle maschere del teatro comico, come è stato ampiamente dimostrato nella letteratura specialistica[91]. Così egli restituisce del rivale l’immagine di un individuo di infime origini (almeno per parte di madre), impenetrabile e oscuro ai più, altamente pericoloso per la propensione all’inganno e al delitto.

Il tratto più importante del suo aspetto fisico è la pelle scura del corpo, che ricordava quella degli schiavi siriani (insieme alla carenza di senso di moralità, tipica nell’individuo di condizione servile)[92]. Con quest’elemento l’Arpinate dà un’immediata caratterizzazione sociale al personaggio[93]. Esso però rievoca anche il motivo topico dell’origo barbarica riferita qui all’avo materno, che è rappresentato come provinciale di infima estrazione, mercator e praeco stanziatosi a Piacenza[94], e congiunta con l’idea di trasmissibilità genetica dei tratti morali tipici legati alla razza. Infine, l’elemento in questione serve all’Arpinate per rimarcare la rozzezza del personaggio[95].

Alla funzione di banditore nelle vendite all’asta erano di solito addetti individui di umile estrazione, prevalentemente liberti; e la funzione stessa era essenzialmente equiparata a quella degli apparitores dei magistrati minori[96]. I mercatores poi erano noti per la loro infima posizione sociale e la propensione alla frode[97]. La condizione di mercator nell’avo di Pisone viene verosimilmente ricordata da Cicerone proprio per rimarcare che l’avversario era un individuo per estrazione sordido, vile, spregevole, incline alla truffa e al delitto al pari di chi era tradizionalmente dedito alla mercatura[98]. Quest’argomento presuppone l’idea di trasmissione genetica dei caratteri morali dell’individuo, legati alla razza, la quale idea non era estranea neppure al pensiero greco e in particolare agli oratori attici[99].

In un’orazione, subito dopo l’esordio e nella parte dedicata alla narratio, trovava largo spazio la biografia del cliente difeso o dell’avversario, per illustrarne i trascorsi, con uno sguardo particolare alle condizioni della nascita: paternità, maternità, gens etc.[100]. La discendenza provinciale per parte di madre e l’allusione alla condizione originaria dell’avo di mercante e banditore sembrerebbero richiamati anche per argomentare la propensione di Pisone ad azioni scellerate e delittuose. Come l’appellativo barbarus o rei publicae natus hostis, che Cicerone usa nell’inveire contro Marco Antonio nella tredicesima Philippica[101], così altri appellativi ingiuriosi nella Pisoniana servono a suscitare nell’uditorio composto di senatori repulsione verso l’avversario per la sua discutibile ascendenza e malvagità ingenita (tipica nella visione dell’epoca dei ceti sociali più infimi)[102].

La strumentalizzazione a fini retorici del richiamo alle modeste origini di Pisone (per parte di madre) è insita anche nell’uso di epiteti come furcifer (Cic. Pis. 24) o carnifex (Cic. Pis. 11), che sono tipici insulti servili. In particolare Opelt[103] ha sottolineato che Schimpfwörter connessi con il campo delle punizioni già nella commedia plautina, come carnufex e furcifer appunto, sono tipici del servo (Sklavenschimpfwörter), lo ridicolizzano “als Gegenstand von Strafmaßnahmen” e attengono alla realtà romana dei castighi piuttosto che a quella greca[104]. Nelle orazioni di Cicerone queste ingiurie vengono rivolte invece contro nemici politici di rango consolare, come ha giustamente osservato Nisbet[105]. Si può dire così, che il contrasto tra il valore di tali insulti (volti a sottolineare l’inusitata ferocia e avidità del soggetto) e l’elevata condizione sociale dell’uditorio nelle invettive oratorie li rendeva particolarmente utili alle finalità di queste ultime: ovvero, gettare discredito sull’avversario e suscitare l’ostilità dell’uditorio nei suoi confronti.

Il secondo importante tratto della figura di Pisone che emerge dall’arringa è la fronte ampia, solcata di rughe (distracta frons)[106], e la faccia di bronzo (os ferreum)[107]; quindi lo sguardo (Cic. Pis. 8); il caratteristico corrugamento delle sopracciglia (“un ciglio è alzato verso la fronte e uno abbassato verso il mento”)[108], ostentazione di severità, disdegno e superbia nell’atteggiamento del volto, che inganna: … Devenit autem seu potius incidit in istum, eodem deceptus supercilio Graecus atque advena quo tot sapientes et tanta civitas, Cic. Pis. 70[109]. Questi attributi fisici sono rievocati, amplificandone la negatività, per rammentare all’uditorio la disinvolta attitudine di Pisone a intimorire, abbindolare, truffare anche solo con espressioni e atteggiamenti del volto[110].

Altri connotati corporali invece servono a mostrare l’abbrutimento dell’uomo, diventato, nell’aspetto e nell’animo come suo riflesso, un bruto, una bestia pericolosa, un mostro. Mi riferisco all’accenno di Cicerone alle guance pelose e ai denti guasti di Pisone (pilosae genae e dentes putridi)[111] o alla sua fetida bocca (os foetidum)[112], che rievocano l’immagine di un animale selvaggio aggrovigliato nei suoi covili, pronto ad aggredire gli uomini con ferocia.

L’attenzione per l’aspetto fisico è motivata dall’esigenza di dare un’immagine immediatamente percepibile al pubblico dell’animo di Pisone, corrotto dalle peggiori viziosità e deturpato da abitudini ferine, come emerge in particolar modo dal seguente testo.

 

Cic. Pis. 1: …iamne vides, belua, iamne sentis quae sit hominum querela frontis tuae? Nemo queritur Syrum nescio quem de grege noviciorum factum esse consulem. Non enim nos color iste servilis, non pilosae genae, non dentes putridi deceperunt: oculi, supercilia, frons, voltus denique totus, qui sermo quidam tacitus mentis est, hic in fraudem homines impulit, hic eos quibus erat ignotus decepit, fefellit, induxit. Pauci ista tua lutulenta vitia noramus, pauci tarditatem ingeni, stuporem debilitatemque linguae

 

Il Lombroso sosteneva che se non è da escludere in base ai suoi studi che “anche uomini a tipo normale possano essere delinquenti”, “sicuro, invece, risulta che uomini con tipo craniometricamente e fisiognomicamente criminale, lo debbano essere anche moralmente, salvo pochissime, e facilmente rilevabili, eccezioni”[113]. A differenza che nell’opera dell’antropologo ottocentesco, le finalità retoriche segnano il valore dei riferimenti nella Pisoniana all’aspetto fisico del vituperato console, che lungi ovviamente dall’essere riguardati dall’oratore con interesse antropologico e anatomopatologico, sono descritti come indizi esterni della personalità malvagia di un individuo propenso per natura ed estrazione al crimine e alla frode; come manifestazione dei vitia animi che più specificamente rilevavano sul piano retorico per suggestionare i senatori circa la pericolosità delinquenziale del nemico di fazione. È chiaro, però, che alla base del rilievo dato a questi elementi di eloquentia corporis nella costruzione dell’immagine di Pisone si può scorgere un’idea di delinquente-nato, di criminale per inclinazione congenita al male, di mostro criminale. Si tratta di una concezione che è già implicita nella raccomandazione tradizionale, che la precettistica retorica rivolgeva all’accusator in un processo criminale, di argomentare la colpevolezza dell’imputato dalla sua spregiudicata immoralità, quale causa di riprovevoli costumanze di vita e di comportamenti scellerati, nel cui contesto poteva essere maturato il crimine (Cic. inv. 2.32 ss., Rhet. Her. 2.2.3-5, Quint. inst. 7.2.27-28)[114].

 

6. I vitia animi e l’indole perversa di Pisone.

 

Secondo il Lombroso[115], immoralità e malvagità d’animo si trovano dalla nascita nel delinquente-nato. Tra le sue difettosità, il medico ottocentesco indicava prevalentemente la vanità, l’instabilità affettiva, la crudeltà, la violenza, la propensione all’ubriachezza, al gioco e all’eccesso nel cibo[116]. Il principio della precettistica retorica antica, secondo cui il carattere del reo andava dimostrato onde provarne la colpevolezza rispetto all’imputazione mossagli in un iudicium publicum[117], viene riproposto da Cicerone nell’invettiva al nemico di fazione, allorché egli pone, accanto a una specifica immagine fisica di Pisone, anche una descrizione minuziosa dei tratti tipici dell’animo e delle perversioni che lo caratterizzavano, così come resi manifesti dalla condotta pubblica e dalle dissolute consuetudini di vita privata sin dalla fanciullezza. La connotazione morale dell’avversario lo avvicina nei tratti essenziali a quella degli altri grandi nemici politici dell’Arpinate, che l’oratore raffigura come criminali altamente pericolosi per la sopravvivenza della civitas Romanorum e per l’intero genere umano[118], tanto da assimilarli a monstra e beluae[119].

Per l’oratoria dimostrativa e l’invettiva politica, Cicerone si serve di precetti utilizzati dall’accusator nei processi criminali, onde realizzare con efficacia la vituperatio dei propri oppositori. Se la precettistica retorica repubblicana consigliava all’accusatore di dimostrare un’indole particolarmente malvagia dell’imputato; nella Pisoniana per il console del 58, nella De domo per Clodio, nelle Philippicae per Marco Antonio, l’oratore raffigura i rivali come criminali socialmente pericolosi, dalla personalità perversa e di irreversibile ingenium. In questa prospettiva emerge una concezione naturale della criminosità e della propensione alla recidiva: Pisone, Clodio e il futuro triumviro vengono presentati come delinquenti-nati. L’espediente non serviva soltanto alle esigenze della contrapposizione tra laudatio e vituperatio, propria del genere epidittico e in questi contesti adattata alle esigenze dell’invettiva politica; ma anche a sollecitare la paura dell’uditorio (di estrazione prevalentemente senatoria) per la minaccia criminale sul territorio dell’urbe, nella fase più acuta della crisi repubblicana. Dugan[120] osserva giustamente che nell’in Pisonem l’assalto verbale all’avversario prende il posto di una reale delazione criminale, che non avrebbe potuto realizzarsi per la posizione politica di Pisone e per i suoi rapporti con Cesare; mentre Cicerone assume il ruolo di accusatore.

L’immanitas naturae di Pisone è delineata attraverso il riferimento alla bestialità e alla mostruosità della sua indole: così in Cic. Pis. 1 egli viene definito belua e in Pis. 8 importuna belua. In Pis. frg. 1 è detto portentum, monstrum, prodigium e in Pis. 31 monstrum. La profonda immoralità del personaggio si riflette poi nell’aspetto e nei comportamenti, che spesso Cicerone descrive ricorrendo al lessico e al metaforico della bestialità, che come ha sottolineato Nisbet[121] è la forma privilegiata d’invettiva nella Pisoniana[122]. Da impurissima atque intemperantissima pecus (Cic. Pis. 72), a maialis (Pis. 19), a lutulentus caesus (Pis. 27), a vulturius (Pis. 38), ad admissarius (Pis. 69), ad asinus (Pis. 73): sono gli appellativi ingiuriosi attraverso cui Cicerone ascrive l’avversario al campo della bestialità per immoralità e aggressività verso i propri simili. L’assimilazione al porco ricorre ancora in Cic. Pis. 37, dove Pisone è definito Epicurus ex hara productus non ex schola[123]; e in Pis. 83, ove egli viene raffigurato come un maiale (Quas quidem nos non vestigiis odorantes ingressus tuos sed totis volutationibus corporis et cubilibus persecuti sumus). In un altro luogo dell’orazione, la bestialità (pecus e non homo) sembra addirittura pregressa al concepimento e connessa con le umili origini della madre di Pisone: Te tua illa nescioquibus a terris apportata mater pecudem ex alvo non hominem effuderit, Cic. Pis. frg. 9.

La rilevanza che nel processo criminale romano fra tarda repubblica ed età imperiale assumeva l’indole del reo - essenzialmente per la circostanza di agevolare la probatio della sua colpevolezza – ben emerge da un passo della Rhetorica ad Herennium tratto da una più ampia discussione in tema di inventio, in particolare nella causa iudicialis.

 

Rhet. Her. 2.2.3-5: … Huius constitutionis ratio in sex partes est distributa: probabile, conlationem, signum, argumentum, consecutionem, adprobationem. Horum unum quidque quid valeat aperiemus. Probabile est per quod probatur expedisse reo peccare et ab simili turpitudine hominem numquam afuisse. Id dividitur in causam et in vitam … 5. Deinde vita hominis ex ante factis spectabitur. Primum considerabit accusator num quando simile quid fecerit. Si id non reperiet, quaeret num quando venerit in similem suspicionem, et in eo debebit esse occupatus ut ad eam causam peccati, quam paulo ante exposuerit, vita hominis possit adcommodari, hoc modo: Si dicet pecuniae causa fecisse, ostendet eum semper avarum fuisse, si honoris, ambitiosum; ita poterit animi vitium cum causa peccati conglutinare. Si non poterit par vitium cum causa reperire, reperiat dispar. Si non poterit avarum demonstrare, demonstret conruptorem, perfidiosum; si quoquo modo poterit denique aliquo aut quam plurimis vitiis contaminabit personam; deinde qui illud fecerit tam nequiter, eundem hunc tam perperam fecisse non esse mirandum. Si vehementer castus et integer existimabitur adversarius, dicet facta, non famam spectari oportere; illum ante occultasse sua flagitia; se planum facturum ab eo maleficium non abesse

 

La trattazione ha inizio con l’illustrazione della coniectura e delle diverse partes che ne costituivano il fondamento[124]. Riguardo al probabile, si osserva che la “probabilità” è quell’argomentazione per la quale si prova che giovò al soggetto commettere il reato, e che esso non fu mai estraneo a una siffatta disonestà. Ricordato che il probabile si suddivide in movente e vita, si illustrano quindi gli argomenti vantaggiosi all’accusa e quelli utili alla difesa. Per il secondo dei due profili, attinente prevalentemente all’anteactae vitae aestimatio[125], dal punto di vista dell’accusatore si sottolinea innanzitutto l’importanza di considerare quei trascorsi dell’imputato e quei tratti innati della sua personalità che - abilmente enfatizzati dall’oratore con un’efficace actio nella loro portata negativa[126] - finivano per corroborare la tesi della sua reità. Quanto agli anteacta vita dictaque, è interessante ricordare che in un noto squarcio dell’Institutio oratoria quintilianea, concernente gli argumenta a persona[127], ovvero Quint. inst. 5.10.23-31, il retore d’età flavia spiega la ratio della loro portata probatoria osservando che era consuetudine valutare gli accadimenti presenti inerenti alla persona dal valore degli eventi occorsigli in passato[128].

Nella ricerca degli elementi funzionali ad avvalorare la congruità tra le consuetudini di vita del reus, le sue difettose inclinazioni d’animo e la natura del crimine imputatogli, l’accusator poteva giovarsi di taluni fattori che mostravano l’alta probabilità di commissione del reato. I motivi menzionati in Rhet. Her. 2.2.3-5 si possono dunque così sintetizzare: a) si poteva provare che l’imputato aveva già commesso in passato uno o più delitti analoghi a quello contestatogli; b) ove l’accusatore non fosse riuscito a raccogliere elementi utili in tal senso, poteva dimostrare che il reus era già stato sospettato in precedenza di un reato simile a quello oggetto della causa; c) infine, egli poteva corroborare la congruenza tra la condotta di vita, l’indole del reo e un dato movente del crimen, cosìcome assunto nel iudicium in atto (… ita poterit animi vitium cum causa peccati conglutinare)[129]. Riguardo a quest’ultimo argomento, nella Rhetorica ad Herennium si enumerano alcuni prototipi di moventi connessi con dati vitia animi, quali si riscontravano tipicamente alla base delle condotte criminose: come l’avarizia, l’ambizione, la slealtà, la propensione al falsum.

Rileva sottolineare l’esigenza che la precettistica retorica poneva, per l’accusator, di provare un nesso eziologico tra il movente del crimine (dimostrato a sua volta attraverso la ricerca di argomentazioni topiche) e la personalità del reus. Sempre Quintiliano precisa che all’advocatus che sostiene l’accusa compete in primo luogo analizzare il carattere dell’imputato, onde evidenziarne quei tratti negativi che più direttamente conducono al movente specifico del reato:

 

Quint. inst. 7.2.27-28: … Ideoque intuendum ante omnia qualis sit de quo agitur. [28] Accusatoris autem est efficere ut si quid obiecerit non solum turpe sit, sed etiam crimini de quo iudicium est quam maxime conveniat. Nam si reum caedis inpudicum vel adulterum vocet, laedat quidem infamia, minus tamen hoc ad fidem valeat quam si audacem, petulantem, crudelem temerarium ostenderit[130].

 

Quintiliano propone qui un exemplum connesso con l’accusa di omicidio. In questo caso – osserva –, ove l’accusatore sottolinei esclusivamente che l’imputato è inpudicus e adulter, egli ottiene certamente di gettare infamia sull’accusato (laedat quidem infamia), ma non dimostra in modo stringente la congruenza fra la natura del crimen commesso e una specifica predisposizione d’animo del reo, come accade - al contrario - laddove l’accusator riesca a comprovare che il reus è audax, petulans, crudelis et temerarius. La maggiore congruità di questi vitia animi con la specifica gravità dell’homicidium rendeva più persuasiva la tesi della colpevolezza, che fosse argomentata attraverso l’enfatizzazione di siffatti profili della personalità dell’accusato.

Ancora più interessante è ai nostri fini che in Rhet. Her. 2.2.3-5 si spieghi il valore dell’argomento fondato sulle modalità di commissione del reato o sulle relative aggravanti, come quello che rimarca la particolare malvagità manifestata dal responsabile nell’esecuzione del delitto (nequitia). Tale circostanza, infatti, debitamente comprovata dall’accusatore, contribuiva a dimostrare la predisposizione del reo alla crudeltà e, quindi, l’alta probabilità di coinvolgimento nel misfatto imputatogli.

Più in generale, era poi topica la considerazione che i criminali particolarmente pericolosi per l’innata crudelitas fossero individui inclini a commettere omnia scelera, con la conseguenza che dimostrare la natura malvagia dell’imputato o la sua temerarietà (audacia e temeritas) nel delinquere significava predisporre i giudici a ritenere il reus capace di compiere ogni nefandezza e meritevole di punizione estrema. Per evidenziarne la contrapposizione nelle costumanze di vita e negli intenti ai boni cives, alcuni delinquenti abituali, che fossero particolarmente perniciosi per la gravità dei misfatticommessi, venivano definiti mali homines o malefici[131]. Tali definizionirimarcano la circostanza che il crimine commesso ha manifestato nel suo insieme un’indole particolarmente malvagia nel colpevole.

A riprova di quanto detto fin qui, si può addurre ancora la seguente riflessione di Quintiliano: … Facile respondetur, vel quod omnia scelera in malos cadant ideoque saepe deprensa sint, vel quod indignum sit crimina ipsa atrocitate defendi[132]. Nel suo nucleo essenziale quest’argomento risulta applicato, sempre con il medesimo valore, anche nelle orazioni politiche di Cicerone, il quale rispetto ai nemici di fazione agisce come l’accusator di un processo criminale e cerca elementi utili a comprovare la malvagità degli avversari quale spinta ingenita al crimine e alla recidiva. La criminosità dei destinatari delle sue invettive politiche, come ad esempio Catilina, Clodio, Pisone e Marco Antonio, è per così dire endemica perché è direttamente connessa con personalità malvagie e straordinariamente immorali, con bestie, mostri, calamità, flagelli per la res publica.

La natura debole e perversa di Pisone si connota delle stesse prave inclinazioni d’animo che compaiono nella denuncia di criminosità e pericolosità sociale degli altri avversari di fazione fin qui ricordati. Molti di questi vitia animi ricorrono nella figura retorica del tyrannus – alla quale l’Arpinate ascrive anche il vituperato console del 58[133] - e nella semantica del dispotismo nel lessico politico tardorepubblicano, come la vis,la crudelitas, la libido[134].

Tra le difettosità morali evidenziate nell’avversario nella Pisoniana spiccano per ricorrenza la crudelitas[135], l’audacia e temeritas[136], l’avaritia[137], la libido[138], alle quali si aggiunge la più generica accusa di essere impurus e improbus[139] (individuo spregevole per immoralità, innata malvagità e iniquità). Questi vizi consentivano all’Arpinate di dimostrare caratterizzazioni d’indole tali da giustificare - in termini di movente - la commissione dei tanti delitti, delle innumerevoli frodi e delle atroci scelleratezze che egli imputa a Pisone nel corso dell’orazione. Riporto due soli testi, che provano questa connessione:

 

Cic. Pis. 85: Cognoscis ex particula parva scelerum et crudelitatis tuae genus universum.

 

Cic. Pis. 86: Quid avaritiae, quae criminibus infinitis implicata est, summam nunc explicem?

 

Nel primo è rimarcato il nesso diretto tra i crimini commessi da Pisone nel governo della provincia di Macedonia (§ 83 s.) e la sua crudeltà, denunciata perciò come movente di azioni delittuose e abusi gravi contro i provinciali. Si tratta di soluzioni generali che venivano consigliate dalla precettistica retorica all’accusator in una causa publica per gettare discredito sull’imputato[140] e che appaiono riadattate da Cicerone alle esigenze dell’invettiva politica.

Il precetto generale che connetteva il movente del reato innanzitutto con la personalità malvagia e la moralità aberrante del colpevole è ben illustrato in un notissimo testo del De inventione ciceroniano, in tema di adtributa personis: … Nam causa facti parum firmitudinis habet, nisi animus eius, qui insimulatur, in eam suspicionem adducitur, uti a tali culpa non videatur abhorruisse. Ut enim animum alicuius inprobare nihil attinet, cum causa, quare peccaret, non intercessit, sic causam peccati intercedere leve est, si animus nulli minus honestae rationi affinis ostenditur … 33. … Quantum enim de honestate et auctoritate eius, qui arguitur, detractum est, tantundem de facultate [eius] totius est defensionis deminutum …, Cic. inv. 2.32-33.

In questa prospettiva, si spiega la presenza nella Pisoniana di diversi decaloghi dei vitia animi, che connotavano nell’ottica dell’oratore l’indole malvagia dell’avversario. Ecco i principali:

 

Cic. Pis. frg. 6: Quid enim illo inertius, quid sordidius, quid nequius, quid enervatius, quid stultius, quid abstrusius?

 

Cic. Pis. 66: … Nam quod vobis iste tantum modo improbus, crudelis, olim furunculus, nunc vero etiam rapax, quod sordidus, quod contumax, quod superbus, quod fallax, quod perfidiosus, quod impudens, quod audax esse videatur, nihil scitote esse luxuriosius, nihil libidinosius, nihil posterius, nihil nequius[141].

 

L’elevato numero delle componenti e la loro elencazione senza soluzione di continuità realizzano l’amplificatio della spregevole e inaudita immoralità del personaggio (tua lutulenta vitia, Cic. Pis. 1; egestas animi, Pis. 24), con l’effetto di sollevare nel pubblico lo sdegno e la riprovazione nei suoi confronti. Il discredito della personalità è così totale, da rendere persuasiva la commissione dei tanti crimini e delle tante iniquità gravi che l’oratore imputa a Pisone nel corso dell’arringa.

Questi decaloghi di vitia animi non rappresentano una caratteristica esclusiva dell’in Pisonem, perché ricorrono in molti altri casi contro i nemici di fazione, presentati secondo il modello del delinquente-nato altamente pericoloso per la comunità. L’espediente si ritrova nell’oratoria giudiziaria: ricordo l’elencazione ricorrente di difettosità d’animo che Cicerone denuncia per l’accusato nelle Verrinae, dove il dissoluto governatore di Sicilia è descritto come individuo di incredibilis avaritia singularisque audacia (Cic. Verr. 2.1.87), di singularis nequitia atque improbissima cupiditas (Verr. 2.1.76), di singularis impudentia (Verr. 2.2.18) o tanta impudentia[142](Verr. 2.2.52), di incredibilis importunitas et audacia (Verr. 2.2.74), di tanta crudelitas inhumanitasque (Verr. 2.5.115), di nefaria immanitas (Verr. 2.5.123). Di Verre Cicerone ricorda costantemente nel corso delle sette orazioni la superbia, la crudelitas, l’importunitas, l’acerbitas, l’audacia, l’impudentia, l’avaritia, l’iniuria, la luxuria, la libido et voluptas, lo scelus, la cupiditas, l’improbitas, l’iniquitas, l’inertia, la nequitia, l’insolentia, la contumacia, l’indignitas, la temeritas, l’adrogantia. Così tante mende, ripetute ininterrottamente, insinuano nei lettori la persuasione che Verre avesse una natura malvagia, un’innata propensione al crimine grave e alla ricaduta nel male, che fosse senz’altro colpevole rispetto agli abusi, alle scelleratezze e ai reati che l’oratore gli attribuisce (più o meno fondatamente).

A completare il quadro delle perverse inclinazioni d’animo del rivale nella Pisoniana, si possono ricordare definizioni che rivelano le dissolute e immonde consuetudini di vita di Pisone, avvezzo a frequentare taverne, portato ad eccessi nel cibo e nell’attività sessuale (adulter, ganeo, helluo)[143]. Trascrivo a questo proposito un solo passaggio particolarmente significativo,

 

Cic. Pis. frg. 11: Putavi austerum hominem, putavi tristem, putavi gravem, sed video adulterum, video ganeonem, video parietum praesidio, video amicorum sordibus, video tenebris occultantem libidines suas[144].

 

Quanto all’accusa di audacia, “la più generica e meno precisa che gli oratori si curano di utilizzare” secondo Classen[145], essa indica nelle invettive agli avversari la temerarietà nel crimine, nella frode, nella scelleratezza, nell’iniquità. Come visto sopra, anche Pisone non va esente da quest’addebito, che anzi viene amplificato da Cicerone mediante il ricordo della sua coscienza imbarazzata e oppressa dal rimorso per le proprie colpe.

 

7. Altri tratti caratteristici della personalità di Pisone.

 

Secondo il Lombroso[146], nei delinquenti l’intelligenza presenta “notevoli anomalie”: la lentezza e il ritardo sono la norma nei criminali e la potenza intellettuale è in loro di una media inferiore al normale[147].

Ebbene, altri aspetti caratteristici della perversa indole di Pisone, che vengono direttamente connessi con la propensione del personaggio alla frode, all’iniquità, al delitto, sono in particolare la sua empietà e ostilità agli dèi, da un lato, la sua debolezza di ingegno, dall’altro. Anche queste caratteristiche sono usuali nelle orazioni politiche e giudiziarie di Cicerone, e rappresentano una componente importante dell’immagine aberrante degli altri grandi avversari di fazione dell’oratore, come in particolar modo Catilina, Clodio, Marco Antonio, ma anche Verre e Oppianico pater nell’oratoria forense[148]. In due luoghi della Pisoniana è denunciata l’infirmitas o tarditas ingenii di Pisone[149], per sottolineare - accanto all’incontinenza emotiva (furor)[150], alla rozzezza e carenza di cultura[151] – i fattori che amplificano la sua malvagia personalità: non contenuto dall’educazione e dalle doti di ingegno, egli vive le proprie passioni con estrema smoderatezza, senza limiti di ragionevolezza umana[152]. Come si evince in particolare dal § 68 dell’orazione, Cicerone rimarca in siffatta caratteristica una sorta di menda ingenita, manifestatasi già durante l’adulescentia di Pisone.

 Quanto all’accusa di sacrilega irreligiosità del rivale, l’Arpinate lo definisce innanzitutto proditor templorum omnium (Cic. Pis. 11)[153], per sottolinearne appunto l’elevata pericolosità criminale; quindi sacrilegus (Pis. 38); e infine impius et consceleratus (Pis. 46). E, come visto sopra, vi sono alcuni facinora fra i tanti imputati a Pisone nel corso dell’arringa, che vengono ricondotti dall’oratore all’indole empia e sacrilega del personaggio. Come ha sostenuto Delacy[154], Cicerone potrebbe aver attinto questo motivo dell’invettiva contro Pisone dagli argomenti generali della polemica antiepicurea, insieme con altri temi volti a denigrare il rivale come epicureo.

L’essere moralmente criminale del delinquente-nato nel senso inteso dal Lombroso, in associazione cioè con l’essere tipo craniometricamente e fisiognomicamente criminale, non trova ovviamente alcun riscontro in Cicerone e nelle finalità del genere retorico. Tuttavia, nella figura di Pisone si trova un’interessante sintesi tra l’individuo moralmente delinquente e la manifestazione della sua criminosità (e pericolosità sociale) per fattori morali e intellettuali ingeniti. La debolezza di ingegno e la stupidità del rivale non rappresentano un tratto originale della Pisoniana,ripetendosi per altri oppositori che l’oratore raffigura alla stregua di pericolosi criminali, come in particolar modo Verre[155] e Marco Antonio[156]. Queste caratteristiche sono il riflesso di una personalità sregolata, incapace di vivere le proprie passioni entro limiti di ragionevolezza umana, che agisce perciò sotto la spinta dell’incontinenza emotiva e del furore criminale esattamente come i delinquenti-nati, che il Lombroso equiparava ai pazzi morali, in ossequio all’idea che vi fosse identità tra criminalità e follia morale[157].

 

8. Conclusioni.

 

Cicerone accusa Pisone di gravissimi delitti e ne argomenta la responsabilità più dall’indole malvagia e dalla naturale inclinazione alla frode, all’inganno, al crimine, che dall’illustrazione delle circostanze e dei fatti di reato (per i singoli facinora che imputa all’avversario). La dimostrazione di un’immoralità straordinaria, quasi prodigiosa e senz’altro incorreggibile nel personaggio, è elemento centrale della strategia di accusa scelta per le invettive della Pisoniana, in quanto offre di costruire un’immagine aberrante del rivale e di suscitare nell’uditorio riprovazione per il suo aspetto, per la sua personalità, per la sua condotta di vita, per l’azione politica. Le soluzioni offerte dalla precettistica retorica all’accusator di un processo criminale per argomentare la colpevolezza dell’imputato forniscono elementi utilissimi a delineare in Pisone un delinquente innato, altamente pericoloso per i singoli e per lo stato.

Nell’esigenza di addurre e provare nell’accusato l’esistenza di vitia animi e di altre difettosità fisiche o caratteriali, che connotano nel pensiero retorico del tempo l’uomo per natura propenso alla frode e al delitto, non si possono non vedere i primordi di un’idea di criminosità ingenita in date tipologie di individui, percepiti come delinquenti-nati e come tali incorreggibili. In un interessante passaggio delle Verrinae, l’oratore denuncia la potenza devastante che rispetto alla capacità a delinquere possono avere i vizi congeniti del reo, altrettanto quanto le sue cattive abitudini di vita: … Ita serpit illud insitum in natura malum consuetudine peccandi libera, finem ut audaciae statuere ipse non possit, Cic. Verr. 2.3.177. L’idea di innata propensione al crimine, per un’indole particolarmente malvagia, spiega le soluzioni estreme auspicate dall’Arpinate per i suoi nemici di fazione rappresentati come criminali pericolosi, ovvero il supplizio e l’esilio. E anche su questo fronte è possibile evidenziare un’assonanza con il pensiero del Lombroso, il quale parlando di incorreggibilità dei rei propugnava la perpetua detenzione e fin anche la pena capitale (per i recidivi) come risposte all’istanza di “maggiore sicurezza sociale”[158].

La concezione di Cicerone sopra delineata certamente offriva una componente importante a quella strategia, sperimentata dall’oratore in tante arringhe sia criminali che politiche (inclusa l’in Pisonem), che consisteva nel presentare in modo persuasivo il nemico di parte come hostis rei publicae e inimicus communis, sottolineandone quelle perversioni d’animo che - come la crudeltà, l’avidità, l’irascibilità e la violenza - potevano giustificare il metus nei boni cives per la propria vita e i propri beni[159]. Segnalato all’ostilità dell’uditorio per la sua pericolosità delinquenziale e per il sostegno all’azione di individui posti ai margini della società, che vivevano dei proventi dei propri delitti (come i piratae i praedones i gladiatores i latrones e i fures), l’avversario veniva così raffigurato come calamitas et tempestas per la comunità intera, come pestis et labes rei publicae, come belua o bestia, come prodigium vel portentum: insomma, come un essere che di umano non possedeva nulla se non la forma e che per la sua irrecuperabilità agli stili di vita onesta andava destinato inevitabilmente alla tortura e al supplizio.

Valga per tutti il richiamo alla figura di Sassia nella pro Cluentio. Della donna Cicerone enumera, amplificandone la gravità a fini retorici, le azioni criminose e scellerate commesse nei confronti dei figli e dei più stretti familiari[160]; descrive una personalità eccezionalmente perversa e naturalmente incline al male (nefaria mulier), caratterizzata da totale incontenibilità delle passioni umane, da furor[161] e da straordinaria crudeltà[162]; mostra l’immagine di un essere che di umano ha solo l’aspetto, mentre per il resto è un monstrum e portentum: … eo iam denique adducta est, uti sibi praeter formam nihil ad similitudinem hominis reservarit, Cluent. 199; Quod hoc portentum, di immortales! quod tantum monstrum in ullis locis, quod tam infestum scelus et immane aut unde natum esse dicamus?, Cic. Cluent. 188[163]. Nel completo stravolgimento della natura umana (che Sassia possiede solo nella forma)è insita l’idea di criminosità ingenita, che viene connessa perciò con una mostruosità morale e psichica originarie. L’individuo sotto la spinta di una passionalità sfrenata non è in grado di controllare le proprie azioni e delinque ripetutamene e gravemente[164].

Nella Pisoniana invece l’umile origine e la fisiognomica del personaggio offrono elementi ulteriori per la raffigurazione negativa del vituperato console: diversi, come visto, sono i tratti fisici indicati dall’oratore per il fatto di denotare in Pisone propensione all’inganno e alla frode, così come la circostanza di avere per avo un mercator e praeco, figure emblematiche nell’immaginario antico di spregiudicata disonestà.

La criminosità grave e l’elevata pericolosità sociale enunciate nell’orazione inducono Cicerone a presentare Pisone come importuna belua o bestia, monstrum vel portentum o prodigium. Ma l’indice più forte della perniciosità del rivale viene dal raffronto con il modello retorico della pestis atque labes[165], della vorago scopulusque rei publicae[166], della Poena et Furia sociorum[167]. A queste componenti dell’immagine retoricamente orientata di Pisone, l’oratore connette l’odium dei tanti ceti sociali, dei cittadini e dei provinciali, dei soldati[168], che motiva nell’ottica degli antichi il rischio di esposizione dell’avversario all’esilio o alla pena di morte[169].

Le inferenze presentate dal Lombroso in L’uomo delinquente rievocano, sia pure inconsapevolmente, spunti importanti che si traggono dalla rappresentazione dei nemici di fazione come criminali ingeniti socialmente pericolosi, nell’oratoria tardorepubblicana. Nelle arringhe dell’Arpinate spicca la figura del delinquente-nato propenso per indole alla ricaduta nel male, di bestiale mostruosità morale, talvolta dalla fisiognomica aberrante: l’oratore ne crea i tratti topici utili ad esporre gli avversari politici alla riprovazione e all’avversione dell’uditorio. E soprattutto i concetti di criminosità ingenita e di incorreggibilità del reo nell’oratoria ciceroniana non si circoscrivono a un dato ceto sociale, ma si adattano ad avversari di rango consolare. Ciò esclude per l’esperienza di Roma antica, che avesse portata assoluta l’assunto di una diversa incidenza del crimine tra classi ricche e povere[170], come nell’opera del Lombroso, il quale affermava che «non esiste una classe da cui discendono esclusivamente i criminali»[171].

Nel delineare la pericolosità delinquenziale di oppositori come Pisone, l’attenzione di Cicerone è piuttosto spostata sulla dimostrazione della personalità perversa del delinquente, che non sulla prova dei fatti di reato e della loro riconduzione al comportamento dell’avversario. La ragione di questa caratteristica è soltanto retorica e consiste nella circostanza che ricostruire in ogni caso esattamente i fatti dei crimini imputati dall’oratore a Pisone e provare la responsabilità di quest’ultimo rispetto a ciascuno di essi non era agevole. La soluzione di puntare sull’indole malvagia del personaggio e sulle sue difettosità morali e psichiche consentiva all’Arpinate di fare subito presa sulle emozioni del pubblico e di gettare facile discredito sul destinatario delle sue invettive. È una soluzione che, con gli opportuni adattamenti, ricorre per l’oratoria giudiziaria in particolare nelle Verrinae contro il corrotto governatore di Sicilia Gaio Licinio Verre, portato con gravi imputazioni nel 70 dinanzi alla quaestio de repetundis.

La visione dell’Arpinate spostata sul delinquente e sulla sua indole perversa emerge ancora da altri due fattori: il rilievo dato nelle sue arringhe alla mera ideazione del crimine; l’enfasi posta sui tentativi di reato rispetto alla consumazione vera e propria della singola fattispecie criminosa. Questi elementi si spiegano ancora una volta con le finalità retoriche delle sue affermazioni e con l’esigenza di perseguire l’amplificatio dei tratti caratteriali aberranti dell’avversario che, di volta in volta, sono messi in luce nella strategia accusatoria della singola arringa o nel contesto dell’invettiva politica.

Quanto fin qui detto porta a concludere che nella prospettiva retorica di Cicerone prevale decisamente sul determinismo ambientale quello biopsichico, nella valutazione della criminosità che egli imputa ai propri oppositori. Emerge così per il pensiero retorico antico una concezione innata della delinquenza individuale, in quanto connessa con l’indole malvagia del criminale. A differenza della teoria del Lombroso, però, nella visione dell’Arpinate la figura del delinquente ingenito non è costruita sulla fisionomia o sulla configurazione anatomo-cranica e anatomopatologica dell’avversario, quanto prevalentemente sui suoi caratteri morali e psicologici, che ampio spazio avevano comunque anche nell’indagine lombrosiana. A proposito della “sensibilità affettiva”, ad esempio, il Lombroso[172] osservava che è generale nei criminali l’insensibilità morale, la quale spiega anche la crudeltà del delinquente e la mancanza di compassione verso le vittime. Siffatta caratteristica è una costante nella rappresentazione ciceroniana dei nemici di fazione, per i quali l’oratore può denunciare crimini efferati e un’inusitata pericolosità delinquenziale: si pensi solo all’immagine di Verre nella De suppliciis oppure a quella di Dolabella, raffigurato come spietato criminale assetato del sangue dei cittadini per la ferina uccisione del cesaricida Trebonio, nell’undicesima Philippica[173].

Tra gli affetti e le passioni dei delinquenti il Lombroso indicava l’orgoglio, la vanità, la temerarietà e audacia nel delitto, l’inclinazione alla vendetta per futili motivi, la crudeltà e violenza, la propensione all’alcol, al gioco, all’eccesso nel cibo[174]. Questi tratti psichici, morali e comportamentali sono costanti nelle figure dei nemici di fazione dell’oratoria ciceroniana, al pari della propensione alla ricaduta nel male, vista anche dall’autore ottocentesco come indice di una “indole congenita criminosa”[175]. Così ad esempio se nell’intossicazione da alcol il Lombroso[176] vedeva un importante fattore di individuazione dell’uomo delinquente, nell’in Pisonem dell’avversario si denuncia ripetutamente sia la straordinaria criminosità, sia la propensione all’alcolismo e alla frequentazione di taverne e crapuloni[177].

Sono soprattutto i vitia animi e la sregolatezza con cui questi vengono vissuti, a distinguere figure come Verre, Oppianico senior, Catilina, Clodio, Pisone, Marco Antonio, dall’uomo normale che condivide il sistema valoriale del bonus vir: l’oratore così può accostarli a beluae e monstra vel portenta, a tiranni feroci e corsari spietati, a nemici e traditori della patria, destinati a essere allontanati per la loro pericolosità sociale dal territorio dell’urbe. In questo modo essi vengono esposti all’ostilità dell’uditorio, sollecitato in emozioni forti all’epoca nei ceti egemoni: come, la paura per la minaccia criminale in città; il timore di poteri personali straordinari fondati sulla lotta armata; la preoccupazione per l’imperversare nel confronto politico di un’aggressività che superava i limiti del lecito nell’assetto repubblicano, pur nel tempestoso agone politico e sociale della Roma di fine secolo.

 

 

Abstract: In Cicero’s rhetorical perspective, the biopsychic determinism prevails on the environmental determinism in the evaluation of criminality of his opponents. Differently from Lombroso’s theory, in the vision of Cicero the figure of innate delinquent it is not built on the physiognomy or on the anatomo-cranial and anatomopathological configuration of the opponent, but it’s built predominantly on the moral and psychological characteristics, which were also relevant in research of the nineteenth-century anthropologist. My paper does not assume immediate connections between the inferences of Lombroso and the rhetorical models of classical antiquity. It wants to highlight that the concepts of innate delinquent and congenital criminal nature – which are key ideas of the investigation of Lombroso – are not strangers to ancient thought and to cultural horizon of the ruling classes in republican Rome. Those two fundamental concepts appear widely used both in the judicial oratory, against dangerous offenders involved in trials with a great social impact, and in the political invective, where they are used to discredit the opponent as enemy of the state.

 

Key words: evil disposition, civis perniciosus, adtributa personis, social dangerousness, hostis rei publicae, vitia animi, congenital criminal nature.


 

* Università degli Studi di Milano (nunzia.donadio@unimi.it).

** Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] La pericolosità delinquenziale degli avversari di fazione nell’invettiva tardorepubblicana è definita rispetto a dati fattori della capacità criminale e a determinate caratteristiche dei delitti che vengono imputati dall’oratore a fini retorici. Tra queste ultime rileva soprattutto la circostanza che il civis perniciosus - per ciò stesso destinato alla pena capitale o esilio - è innanzitutto l’individuo a cui si possono imputare crimini contro i sui (familiari, propinqui, concittadini), cioè l’intera cerchia familiare e sociale entro cui il cittadino, in condizioni di normalità, godeva di protezione e tutela. La sua perniciosità sociale è data proprio dalla propensione a distruggere i legami familiari, parentali e con la comunità civile di appartenenza. Su ciò rinvio al mio Da avversario di fazione a criminale pericoloso: percorsi di una strategia accusatoria dalla Pro Roscio Amerino alle Filippiche, in Iura, 69 (2021), p. 221 ss.

[2] L’idea che il cittadino pericoloso, per una criminosità eversiva contro l’ordine costituito o per una criminosità comune grave contro le vite e i patrimoni dei cives, fosse irrecuperabile alla società civile e perciò destinato necessariamente alla morte (o all’esilio) percorre la produzione retorica di Cicerone, che impiega questo principio contro gli avversari di fazione (su ciò v. infra nel testo). Al riguardo segnalo in part. Cic. Verr. 2.1.40: … Non enim potest ea natura quae tantum facinus commiserit hoc uno scelere esse contenta: necesse est semper aliquid eius modi moliatur, necesse est in simili audacia perfidiaque versetur. Ma il concetto è insito già nel ricorso alla locuzione iure caesus: su quest’uso in contesti politici in Cicerone e sui precedenti nella tradizione filosenatoria repubblicana v., tra gli altri, G. Mosconi, Iure caesus. Storia politica di una formula giuridica, da Scipione Emiliano a Cicerone, da Cicerone a Svetonio, in Rivista di Cultura Classica e Medievale, 49 (2007), p. 49 ss.; e C. Gabrielli, Violenza e giustificazione del delitto politico a partire dai Gracchi, in Klio, 100 (2018), spec. p. 848 ss., con altra bibl. Una storia dell’espressione dalle origini al principato è anche in E. Narducci, Cesare iure caesus: per la storia di una formulazione (da Cicerone a Svetonio), e un passo del De beneficiis di Seneca, in Athenaeum, 95 (2007), p. 119 ss. Sull’idea che la stessa esprime (liceità di uccidere i nemici, gli aggressori, i tiranni) v. inoltre I. Ramelli, Il concetto di iure caesus e la sua corrispondenza con quello di bellum iustum, in Guerra e diritto nel mondo greco e romano, a cura di M. Sordi, Milano, 2002, p. 13 ss.

[3] Tra i riferimenti di Cicerone alla perversa personalità dell’avversario nelle Verrinae cfr. spec. Cic. Verr. 2.1.8 (immanis atque importuna natura); Verr. 2.1.40, su cui v. nt. precedente; Verr. 2.1.48 (homo improbissimus atque amentissimus); Verr. 2.2.52 (Qua re appellentur sane ista Verria, quae non ex nomine sed ex manibus naturaque tua constituta esse videantur).

[4] Su ciò v. infra nel testo (§ 4).

[5] È quanto accade ad esempio contro Catilina, Clodio, Marco Antonio e i fratelli. I riferimenti alla natura e al carattere dell’individuo sono frequenti già negli autori greci e riguardano anche il vizio innato. Su ciò v. K.J. Dover, La morale popolare greca all’epoca di Platone e di Aristotele, trad. it. a cura di L. Rossetti, Brescia, 1983, p. 175 e 176 ss. con fonti [ed. orig. Greek Popular Morality in the Time of Plato and Aristotle, Oxford, 1974], che rileva il peso dato anche all’educazione. Quest’ultimo elemento comunque non manca in Cicerone, come ad esempio quando rimprovera a Verre di indurre il figlio verso cattive frequentazioni e abitudini di vita.

[6] Cfr. C. Lombroso, L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla giurisprudenza e alle discipline carcerarie. I. Delinquente nato e pazzo morale, 4a ed., I, Torino, 1889.

[7] C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., passim.

[8] Sul ricorso alla metafora del praedo/pirata e latro nel lessico politico tardorepubblicano, v. spec. Ch. Schwameis, Verres als Pirat: zum Einsatz des Piratenmotivs und der Piratengefahr in Ciceros Reden gegen Verres, in Gymnasium,126/I (2019), p. 19 ss.; A. Tarwacka, The Term ‛Pirate’ as a Form of Political Invective in Republican Rome and its Legal Implications, in Latrocinium maris. Fenomenologia e repressione della pirateria nell’esperienza romana e oltre, a cura di I.G. Mastrorosa, Roma, 2018, p. 53 ss.; Th. Grünewald, Bandits in the Roman Empire. Myth and Reality, trans. by J.F. Drinkwater, London - New York, 2004, p. 73 ss.; Th.N. Habinek, Cicero and the Bandits, in The Politics of Latin Literature: Writing, Identity, and Empire in Ancient Rome, ed. by Th.N. Habinek, Princeton, 1998, p. 69 ss.;M. Clavel-Lévêque, Brigandage et piraterie: représentations idéologiques et pratiques impérialistes au dernier siècle de la République, in Dialogues d’Histoire Ancienne, 4 (1978), p. 17 ss.; e naturalmente B.D. Shaw, Bandits in the Roman Empire, ora in Studies in Ancient Greek and Roman Society, ed. by R. Osborne, Cambridge, 2004, p. 326 ss., con ricognizione aggiornata al 2004 della copiosa letteratura in tema di brigantaggio e pirateria nel mondo romano. Sul significato di qualificazioni come latro praedo pirata e sulla differenza con hostis rinvio anche per ulteriore bibl. ad A. Maiuri, Hostis, hospes, extraneus. Divagazioni etimo-antropologiche sul senso dell’alterità nella civiltà romana, in La storia delle religioni e la sfida dei pluralismi. Atti del Convegno della Società Italiana di Storia delle Religioni, Roma, Sapienza 8-9 aprile 2016, a cura di S. Botta - M. Ferrara - A. Saggioro, Brescia, 2017, p. 463 s.; R. Ortu, Schiavi e mercanti di schiavi in Roma antica, Torino, 2012, p. 50 ss., la quale si sofferma in particolare sulla valenza giuridica dei lemmi e sulle condotte criminose riferibili a ciascuna figura.

[9] Sull’impiego della figura del gladiator e del lanista in Cicerone v. in part. A.A. Imholtz jr., Gladiatorial Metaphors in Cicero’s Pro Sex. Roscio Amerino, in CW, 65 (1972), p. 228 ss.; nonché H. Fertik, Sex, Love, and Leadership in Cicero’s Philippics 1 and 2, in Arethusa, 50 (2017), p. 83. V. anche infra ntt. 11 e 24. Del loro uso come Schimpfwörter contro gli avversari politici, sempre nell’oratoria ciceroniana, cfr. in part. P.M. Martin, L'insulte gladiateur dans les discours cicéroniens, inStylus: la parole dans ses formes. Mélanges en l'honneur du Professeur Jacqueline Dangel, a cura di M. Baratin et Al., Paris, 2010, p. 131 ss.

[10]Sul valore della locuzione parricida patriae e di definizioni analoge (come proditor patriae) in fonti storiografiche e oratorie di età repubblicana torna, da ultima, F. Tuccillo, Catilinari parricidae rei publicae, in Index, 49 (2021), p. 501 ss., alla quale rinvio per l’ampia bibl. in argomento.

[11] Sulle tipologie umane dei latrones, piratae, gladiatores e sulla relativa condizione giuridica c’è una vastissima letteratura. Qui mi limito a rinviare anche per un primo importante orientamento bibliografico a F. Reduzzi Merola, I luoghi della dipendenza dei gladiatores: dal ludus all’arena, in Los espacios de la esclavitud y la dependencia desde la antigüedad. Actas del XXXVo Coloquio del GIREA. Homenaje a Domingo Plácido, Besançon, 2015, p. 395 ss., la quale si sofferma in particolare sulla circostanza che tra i gladiatori vi erano anche diversi liberi che, oberati di debiti, si riducevano a vivere dei combattimenti nell’arena.

[12] C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., spec. p. 135-282.

[13] Come si desume dall’assimilazione dei nemici di fazione ai piratae e praedones. V. infra nt. 63.

[14] Cfr. rispettivamente Cic., Rosc. Am. 146, per Crisogono; Cluent. 195, per Sassia; Cluent. 44, per Oppianico pater; Verr. 2.5.139, per Verre, su cui v. anche supra nt. 3.

[15] Sulla datazione dell’arringa cfr. R.G.M. Nisbet, M. Tulli Ciceronis in L. Calpurnium Pisonem oratio, Oxford, 1961,p. 199 ss.; A. Marshall, The Date of Delivery of Cicero’s In Pisonem, in CQ, n.s. 25 (1975), p. 88 ss., che pensa a una pubblicazione “early in August, 55 B.C.”, argomentando dall’identificazione di questa data con lo svolgimento dei giochi fatti allestire da Pompeo in occasione della celebrazione di apertura per il suo teatro marmoreo a Roma; A. Cavarzere, Note alla In Pisonem di Cicerone, in MD, 33 (1994), p. 157 ss. (con bibl.), che svolge osservazioni molto critiche sulla proposta di Marshall e ritiene che la soluzione più attendibile sia quella di Nisbet, di porre l’invettiva tra il luglio e il settembre del 55 a.C., e al più al settembre dello stesso anno.

[16] Per la prosopografia del personaggio v.: T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, II, New York, 1952, p. 541 ss. e Suppl. 13 (quaest. 70, aed. 64, praet. 61, cos. 58, procos. della Macedonia 57-55, cens. 50, legat. 43). Sulla vita e la carriera politica cfr. in part. R.G.M. Nisbet, M. Tulli Ciceronis in L. Calpurnium Pisonem oratio, cit.,p. 172 ss.; C. Heredia Chimeno, La naturaleza del poder triunviral en Macedonia: el proconsulado de Lucio Calpurnio Pisόn, in Karanos, 2 (2019), p. 55 ss., con ampia bibl.; R. Cristofoli, Epicureo e politico: Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, in GIF, n.s. 3 (2012), p. 63 ss.; H. Bloch, L. Calpurnius Piso Caesoninus in Samothrace and Herculaneum, in AJA, 44 (1940), p. 485 ss.; R. Syme, The Roman Revolution, Oxford, 1939, p. 36 e 134 ss.; Fr. Münzer, s.v. L. Calpurnius Piso Caesoninus, nr. 90, in PWRE III/1, Stuttgart, 1897, col. 1387 ss.

[17] V. Cicéron, Contre L. Pison, texte établi et traduit par P. Grimal, Paris, «Les Belles Lettres», 1966, p. 63 ss.

[18] Cfr. per tutti J.G.F. Powell, Invective and the Orator: Ciceronian Theory and Practice, in Cicero on the Attack. Invective and Subversion in the Orations and beyond, ed. by J. Booth, Swansea, 2007, p. 3. I. Gildenhard, Greek Auxiliaries: Tragedy and Philosophy in Ciceronian Invective, in Cicero on the Attack, cit., p. 174; R. Syme, The Roman Revolution, cit., p. 149 ss.

[19] Su cui da tempo ha richiamato l’attenzione in particolare E. Cantarella, La ulciscendi libido e le nuove concezioni retributive della pena, in Index, 37 (2009), p. 131 ss. Sulla ultio come “reasonable source of a political prosecution” v. A. Lintott, Violence in Republican Rome, Oxford, 1968, p. 49 s.

[20] Cfr. E. Paratore, Il linguaggio dell’aggressività nella Pisoniana e nella seconda Filippica, in Atti dell’VIII Colloquium Tullianum, New York, 6-9 maggio 1991. Ciceroniana, VIII (1994), p. 27 ss. Sullo stile della Pisoniana v. del medesimo autore: Osservazioni sullo stile dell’orazione ciceroniana In Pisonem, in Atti del I Congresso internazionale di studi ciceroniani, “Centro di studi ciceroniani”, Roma, 1961, p. 9 ss. Interessanti considerazioni si possono trovare, tra gli altri, anche in S. Gozzoli, La in Pisonem di Cicerone: un esempio di polemica politica, in Athenaeum, 68 (1990), spec. p. 453, 456, 460, secondo cui nell’orazione vi è una mistura di topoi letterari e linguaggio popolare, e sono presenti situazioni, scene e figure tipiche della commedia. Quanto allo stile e alle scelte di carattere strutturale dell’arringa segnalo in part. J. Dugan, How to Make (and Break) a Cicero: Epideixis, Textuality, and Self-fashioning in the Pro Archia and In Pisonem, in ClAnt, 20 (2001), spec. p. 61 ss.

[21] Così V. Arena, Roman Oratorical Invective, in A Companion to Roman Rhetoric, ed. by W. Dominik - J. Hall, Oxford - Malden (Mass.), 2007, p. 152 s.

[22] Rhet. Her. 3.6.10: Nunc ad demonstrativum genus causae transeamus. Quoniam haec causa dividitur in laudem et vituperationem, quibus ex rebus laudem constituerimus, ex contrariis rebus erit vituperatio conparanda.

[23] Su questi v. segnatamente I. Opelt, Die lateinischen Schimpfwörter und verwandte Erscheinungen: Eine Typologie, Heidelberg, 1965, su cui v. la recensione di R.G.M. Nisbet, in Gnomon, 39 (1967), p. 67 ss. In merito alla metafora del gladiatore nell’oratoria ciceroniana v. supra nt. 9. Sul valore degli insulti nell’economia della Pisoniana e sul linguaggio di scherno e ludibrio utilizzato dall’oratore contro l’acerrimo avversario v. fondamentalmente E. Paratore, Il linguaggio dell’aggressività nella Pisoniana, cit., p. 27 ss.

[24] V. Cic. inv. 1.34-36, 2.177; Rhet. Her. 3.6.10.

[25] Su queste tre categorie generali cfr. adesso Ch. Craig, Audience Expectations, Invective, and Proof, in Cicero the Advocate, ed. by J. Powell - J. Paterson, Oxford, 2004, p. 189 con bibl. Una breve lista di questi loci è in Cic. part. orat. 82, ma v. anche sopra nel testo. Ampia in realtà è la discussione sull’esatta individuazione dei motivi dell’invettiva ciceroniana. Per la letteratura più recente rinvio in part. a R.G.M. Nisbet, M. Tulli Ciceronis in L. Calpurnium Pisonem Oratio, cit., p. 192 ss.; V. Arena, Roman Oratorical Invective, cit., p. 149 ss.; A.Ph. Corbeill, O singulare prodigium! Ciceronian Invective as Religious Expiation, in Cicero’s Philippics: History, Rhetoric and Ideology, ed. by T. Stevenson - M. Wilson, Auckland, 2008, spec. p. 244 s., sul locus della mostruosità dell’avversario; Ch. Craig, Audience Expectations, cit.,p. 188 ss. con nt. 6 per la letteratura precedente, che offre un elenco dei motivi dell’invettiva nella Pisoniana (p. 190 s.); I. Gildenhard, Greek Auxiliaries, cit., p. 149 ss., spec. p. 149 con altra lett.; E.A. Gallego Cebollada, Retratística de la sospecha: los adtributa y los argumenta de las personas como medio para la descripciόn de personajes literarios, in EClás, 5 (2019), p. 29 ss. (con ampia bibl.), secondo cui gli argumenta a persona impiegati nell’oratoria forense sarebbero stati assunti tra le tecniche della narrazione letteraria per la descrizione dei personaggi; L. Calboli Montefusco, Die adtributa personis und die adtributa negotiis als loci der Argumentation, in Topik und Rhetorik: ein interdisziplinäres Symposium, hrsg. von T. Schirren - G. Ueding, Tübingen, 2000, p. 37 ss., che concentra l’analisi dei luoghi argomentativi con specifico riferimento agli adtributa personis; Ead., Omnis autem argumentatio … aut probabilis aut necessaria esse debebit (Cic. inv. 1.44), in Rhetorica, 16 (1998), p. 1 ss., dove si analizzano in particolare gli argumenta in rapporto alla teoria retorica greca; M.C. Leff, The Topics of Argumentative Invention in Latin Rhetorical Theory from Cicero to Boethius, in Rhetorica,1 (1983), p. 23 ss., il quale discute i topoi associati alla persona e all’azione nella teoria retorica latina, per il ruolo centrale che essi assumono rispetto ai principi dell’argomentazione. Sul locus dell’aspirazione alla tirannide resta fondamentale J.R. Dunkle, The Greek Tyrant and Roman Political Invective of the Late Republic, in TAPhA, 98 (1967), p. 151 ss. e J.R. Dunkle, The Rhetorical Tyrant in Roman Historiography: Sallust, Livy and Tacitus, in CW, 65 (1971), p. 12 ss. Sulla menzione o meno del nome degli avversari nell’invettiva politica v. in part. C. Steel, Name and Shame? Invective against Clodius and Others in the Post-Exile Speeches, in  Cicero on the Attack, cit., p. 105 ss., la quale contesta l’approccio all’invettiva come catalogo di temi e tecniche e ricorda l’importanza del contesto entro cui ogni tattica di aggressione verbale si inserisce.

[26] Cfr. A.Ph. Corbeill, Ciceronian Invective, in Brill’s Companion to Cicero: Oratory and Rhetoric, ed. by J.M. May, Leiden - Boston, 2002, p. 197 ss.

[27] L’invettiva era utilizzata però anche nell’oratoria forense, sia nelle causae publicae che in quelle civili e qui poteva anche servire ad attaccare i testimoni della controparte. Su questi usi dell’invettiva rinvio alla dettagliata analisi casistica di J.G.F. Powell, Invective and the Orator, cit., p. 8 ss.

[28] Così A.Ph. Corbeill, Ciceronian Invective, cit., p. 198.

[29] Cfr. J.G.F. Powell, Invective and the Orator, cit., p. 2 s.

[30] V. Arena, Roman Oratorical Invective, cit., p. 149 ss., spec. p. 154, 158 (con bibl. precedente).

[31] Quanto a Verre, ricordo in part. Cic. Verr. 2.3.119 e 2.3.208. Cfr. inoltre Cic. Verr. 2.1.8 (… singularem quandam poenam istius immanis atque importuna natura desiderat); Verr. 2.2.40 (… quod supplicium dignum libidine eius invenias?); Verr. 2.3.217 (… quicumque hoc fecit, supplicio dignus est). L’eliminazione definitiva dell’individuo pericoloso dal territorio cittadino è ribadita in altri luoghi delle Verrinae: v. ad es. Cic. Verr. 2.1.40; Verr.2.1.42; Verr. 2.2.109; Verr. 2.2.111; Verr. 2.3.144. Contro Catilina e i congiurati è di particolare valore il riferimento di Cic. Cat. 3.22. Di Oppianico Cicerone dice che tutti lo rifuggivano come belva feroce e funesta, che, per gli atroci crimini commessi, si era rivelata degna di ogni supplizio (Cic. Cluent. 29). Per Pisone v. ancora supra nel testo.

[32] Cic. Pis. frg. 1 ed. Grimal; Pis. 31.

[33] V. segnatamente: Cic. Verr. 2.1.40 e 2.2.79, per Verre; Cic. Cluent. 188, per Sassia; Cic. Mil. 63, per Catilina; Cic. Pis. 9 e dom. 47, per Clodio; Cic. Phil. 13.49 e 14.8, per Antonio e i fratelli. Sull’immagine retorica del monstrum vel portentum nelle orazioni di Cicerone v. adesso N. Donadio, Verre e la figura del ‘mostro criminale’ nell’invettiva ciceroniana, in BStudLat, 52 (2022), p. 421 ss. ed ivi bibl. precedente.

[34] Cfr. A.Ph. Corbeill, O singulare prodigium!, cit., p. 240 ss., spec. p. 253.

[35] Così A.Ph. Corbeill, O singulare prodigium!, cit., p. 241. Un’indagine lessicale e semantica di insieme sulla terminologia del mostruoso nella letteratura latinasi può trovare in A. Maiuri, Il lessico latino del mostruoso, in Monstra. Costruzione e percezione delle entità ibride e mostruose nel Mediterraneo antico. II. L’Antichità Classica, “Religio. Collana di Studi del Museo delle Religioni Raffaele Pettazzoni”, Roma, 2013, p. 165 ss. (con bibl.). Sulle malformazioni neonatali e l’androginia specie nelle fonti giurisprudenziali, invece, v. almeno L.A. Graumann, Monstrous Births and Retrospective Diagnosis: The Case of Hermaphrodites in Antiquity, in Disabilities in Roman Antiquity. Disparate Bodies, a capite ad calcem, ed. by Ch. Laes - Ch.F. Goodey - M. Lynn Rose, Leiden - Boston (Mass.), 2013, p. 182 ss.; A. Maiuri, Enorme monstrum: deformità e difformità nel mondo greco-romano, in Venuste noster. Scritti offerti a Leopoldo Gamberale, a cura di M. Passalacqua - M. De Nonno - A.M. Morelli - C. Giammona, Hildesheim – Zürich - New York, 2012, spec. p. 538 ss.; G. Crifò, Prodigium e diritto: il caso dell’ermafrodita, in Index, 27 (1999), p. 113 ss.; B. Cuny-Le Callet, Rome et ses monstres. Naissance d'un concept philosophique et rhétorique, Grenoble, 2005, p. 219 ss. Più in generale, sulla mostruosità nel pensiero filosofico e retorico romano, con particolare attenzione per la visione ciceroniana e le idee dello stoicismo sui rapporti tra natura, prodigiosità, malformazione, divinazione, cfr. ancora B. Cuny-Le Callet, Rome et ses monstres, cit., spec. p. 128 s., p. 130 ss.; Ead., Le monstre politique et la destruction de l'identité romaine dans les discours de Cicéron, in Identités romaines: conscience de soi et représentations de l'autre dans la Rome antique (IVe siècle av. J.-C. - VIIIe siècle apr. J.-C.), ed. by M. Simon, “Études de Littérature Ancienne, 18”, Paris, 2011, p. 73 ss.

[36] Cfr. S. Koster, Die Invective in der griechischen und römischen Literatur, Meisenheim am Glan, 1980, p. 212.

[37] Così A.Ph. Corbeill, O singulare prodigium!, cit., p. 242 (con altra bibl.). Sul rapporto tra la mostruosità e la bestialità dell’avversario nell’oratoria ciceroniana, ricordo inoltre C. Lévy, Rhétorique et philosophie: la monstruosité politique chez Cicéron, in REL, 76 (1998), p. 139 ss.; J.M. May, Cicero and the Beasts, in SyllClass, 7 (1996), p. 143 ss.; B. Cuny-Le Callet, Du bétail à la bête fauve. Monstruosité morale et figures de l’animalité chez Cicéron, in Anthropozoologica, 33-34 (2001), p. 131 ss.

[38] Cfr. B. Cuny-Le Callet, Du bétail à la bête fauve, cit., p. 131 ss.

[39] B. Cuny-Le Callet, Du bétail à la bête fauve, cit., p. 146. Cfr. ancora B. Cuny-Le Callet, Rome et ses monstres, cit., passim; Ead., Le monstre politique, cit., p. 73 ss.

[40] Cfr. Incitement to Violence in Late Republican Political Oratory, in Political Communication in the Roman World, ed. by C. Rosillo López, Leiden - Boston, 2017, p. 181 ss.

[41] In tal senso cito per tutti A.Ph. Corbeill, O singulare prodigium!, cit., p. 242; e rispetto specificamente all’in Pisonem J. Dugan, How to Make (and Break) a Cicero,cit., p. 37 ss., il quale osserva che “Cicero’s use of the epideictic mode stand sas an exemplary case of how a literary form could interact with Roman political reality to reveal the potentialities and limitations of attempts to shape politics through cultural means” (p. 36).

[42] Cfr. I. Gildenhard, Greek Auxiliaries, cit., p. 155.

[43] Cfr. I. Gildenhard, Greek Auxiliaries, cit., p. 149.

[44] V. nt. precedente. Sul ricorso di Cicerone al tema della punizione non corporale (lesione alla reputazione) come motivo della polemica antiepicurea cfr. Ph. Delacy, Cicero’s Invective against Piso, in TAPhA, 72 (1941), p. 54 s.

[45] L’invettiva imponeva l’autorità di un sistema di valori collettivi: su ciò cito per tutti V. Arena, Roman Oratorical Invective, cit., p. 157. La veridicità dell’immagine di corrotto magistrato della res publica restituita per Pisone da Cicerone è da sempre molto discussa, ma qui interessa il modello retorico piuttosto che il confronto con la realtà storica. Per quest’ultimo profilo v., segnatamente, la ricerca di E. Scuotto, Realtà umana e atteggiamenti politici e culturali di Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, in RAL, 47 (1972), p. 149 ss.; e più di recente lo studio di H. van der Blom, Fragmentary Speeches: The Oratory and Political Career of Piso Caesoninus, in Community and Communication: Oratory and Politics in Republican Rome, ed. by C. Steel - H. van der Blom, Oxford, 2013, p. 299 ss.

[46] V. Pis. 38.

[47] Pis. 38 e 83.

[48] V. ad es. Cic. Pis. 16 e Pis.38. Cfr. anche Cic. Pis. 83-84.

[49] Per la criminosità contro la religione nell’oratoria ciceroniana v. adesso I. Gildenhard, Greek Auxiliaries, cit., p. 150 ss.

[50] V. anche Cic. Pis. 85 (… Tua scelera di immortales in nostros milites expiaverunt …).

[51] Cic. Pis. 56.

[52] Cic. Pis. 15. Più in genere v. Pis. 25 (… de corpore rei publicae tuorum scelerum tela revellere).

[53] Cic. Pis. 26 e 64

[54] Spec. Cic. Pis. 17-18.

[55] Per tutti v. Cic. Pis. 86, dove l’oratore enumera una serie dei crimina infinita,che imputa all’avaritia di Pisone; Pis. 87 (Tantum locum aliquem cum mihi notum esse senseris, tecum ipse licebit quot in eo genere et quanta sint crimina recordere); Pis. 83, dove lo accusa di strages nella sua provincia; Pis. 90, su cui supra nel testo (§ 3). Sulla veridicità delle imputazioni contro Pisone rispetto alla prassi governativa provinciale del tempo, v. adesso C. Heredia Chimeno, La naturaleza del poder triunviral en Macedonia, cit., spec. p. 65 s.

[56] Cfr. per tutti A. Lintott, Violence in Republican Rome, cit., p. 83. La propensione a commettere i più gravi crimini contro l’incolumità pubblica e la proprietà privata nei partecipanti ai gruppi di pressione politica, che fiancheggiavano l’azione d’individui perniciosi come Clodio, viene argomentata dall’oratore anche muovendo dall’estrazione sociale dei suoi partigiani e seguaci, che almeno in parte erano schiavi rurali, liberti o ingenui tratti dalla plebs urbana, individui oberati di debiti. Tra i luoghi più significativi ricordo Cic. dom. 2, 6, 24, 46, 55, 58, 61, 67-68. In argomento cfr. in part. J.-M. Flambard, Clodius, les collèges, la plèbe et les esclaves. Recherches sur la politique populaire au milieu du Ier siècle, in MEFRA, 89 (1977), p. 115 ss.; M. Galentino, Guerriglia per le strade di Roma: i collegia clodiani negli anni Cinquanta del I sec. a.C., in MStudStor, 16 (2009-2010), p. 103 ss., che esamina la testimonianza ciceroniana sull’organizzazione di corpi di combattenti al seguito di Clodio; L. Fezzi, La legislazione tribunizia di Publio Clodio Pulcro (58 a.C.) e la ricerca del consenso a Roma, in SCO, 47 (1999), p. 274 ss., che, come Flambard, si sofferma sul nesso fra i collegia e le bande armate che sostenevano l’azione del tribuno. La propensione dei clodiani verso crimini contro la quiete pubblica e l’incolumità generale (come rapine, incendi di interi quartieri della città, stragi, massacri, saccheggi), com’è noto, è denunciata ripetutamente nelle orazioni di Cicerone: ricordo, ad es., Cic. dom. 6, dove i seguaci di Clodio di più infima condizione sono detti ad bonorum caedem parati; dom. 17-18; dom.67; dom.68, dove l’oratore ricorda come bande finalizzate al massacro quelle al seguito di Clodio; Mil.95, dov’è un accenno alla plebs et infima multitudo che minacciava le sostanze dei boni cives.

[57] Domestici hostes sono detti ad es. i catilinari (Cic. Cat. 3.28) e dux di un bellum domesticum è Catilina in Cic. Cat. 2.1.1.

[58] Sull’elemento commissivo del reato nella formulazione della lex Iulia repetundarum del 59 a.C., rispetto alla testimonianza ciceroniana dell’in Pisonem, v. per tutti C. Venturini, Studi sul crimen repetundarum nell’età repubblicana, Milano, 1979, p. 471 ss.; Id., Ob sententiam in senatu … dicendam pecuniam accipere: divagazioni su senatori e lex Iulia repetundarum, in Studi in onore di Remo Martini, III, Milano, 2009, p. 891 ss. (= Scritti di diritto penale romano, I, Padova, 2015, spec. p. 609 ss.).

[59] Cfr. Pis. frg. 3, 11, 25, 26, 27, 31, 32, 38, 39, 44, 46, 56 (dove esso indica piuttosto malvagità), 57, 75, 76, 82, 83, 85, 95, 98.

[60] Cic. Pis. 12, 42, 94.

[61] Cfr. Cic. Pis. 46 e 91.

[62] Cic. Pis. 87.

[63] Cic. Pis. 74 e 89.

[64] Cic. Pis. 46.

[65] Cic. Pis. 28.

[66] Sulla celebre definizione ciceroniana di praedones e piratae come communes hostes omnium contenuta in Cic. off. 3.107, v. in part. K.H. Ziegler, Pirata communis hostis omnium, in De iustitia et iure. Festgabe für Ulrich von Lübtow zum 80. Geburtstag, Berlin, 1980, p. 93 ss. eP. Catalano, Cic. de off. 3.108 e il così detto diritto internazionale antico, in Synteleia Vincenzo Arangio-Ruiz, a cura di A. Guarino - L. Labruna, I, Napoli, 1964, p. 373 ss.; R. Ortu, Schiavi e mercanti di schiavi, cit., p. 53 e p. 54 ss. (con altra bibl.). Essa trova riscontro in una definizione di segno analogo in Cic. Verr. 2.4.21 (Fecisti item ut praedones solent; qui cum hostes communes sunt omnium …). Interessante è anche Cic. Verr. 2.5.76, dove un capopirata catturato da Verre e da questi sottratto con la carcerazione privata all’esecuzione capitale è definito communis hostis gentium nationumque omnium, per segnalare la portata generale della pericolosità sociale di un uomo tra i più terribili e accaniti nemici di Roma, che lo poneva al di fuori di qualsiasi consorzio umano. Questo profilo permane in autori successivi, che evidenziano nel pirata l’universale perniciosità, mentre viene meno la strumentalizzazione della metafora nello scontro politico con l’avversario di fazione: cfr. su ciò A. Tarwacka, The Term ‛pirate’, cit.,p. 68. Al contributo di M. Fiorentini, Reale e immaginario piratesco nel diritto romano. Storici, giuristi, legislatori, in Latrocinium maris, cit., p. 193 ss., rinvio per la fonte della definizione racchiusa in Cic. off. 3.107. Sulla fortuna della definitio ciceroniana di pirata nella riflessione giuridica di primo Novecento, v. l’ampio saggio di F. Ruschi, Communis hostis omnium. La pirateria in Carl Schmitt, in Quaderni Fiorentini per la Storia del Pensiero Giuridico Moderno,38 (2009), p. 1215 ss. con altra lett.

[67] V. per praedo, Cic. Pis. 24, 57 (amentissimus praedo) e 96; per latro, Pis 24.

[68] Sulla tendenza ad ascrivere l’avversario politico al novero dei nemici della civitas Romanorum, quale espediente per escluderlo dalla cittadinanza con le sue prerogative, v. il fondamentale articolo di P. Jal, Hostis (publicus) dans la littérature latine de la fin de la République, in REA, 65 (1963), spec. p. 79.

[69] Cfr. A.Ph. Corbeill, O singulare prodigium!, cit., p. 242.

[70] Su ciò cfr. N. Donadio, Da avversario di fazione a criminale pericoloso, cit., p. 221 ss.

[71] Per l’assimilazione all’hostis, v. Cic. Pis. 24, 31, 45, 78, 80, 96; per quella al proditor,cfr. Cic. Pis. 24, 31, 78.

[72] V. spec. C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., p. 586 s.

[73] Già presso i Greci un comportamento moralmente indecente, portato ai limiti anormali, poteva essere addotto come prova di demenza: così segnatamente K.J. Dover, La morale popolare greca, cit., 234.

[74] Così C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., p. 594.

[75] C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., p. 614.

[76] Cic. Verr. 2.1.32.

[77] Cfr. C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., p. 619.

[78] Ricorda il caso come esempio dell’effettivo grado di rilevanza che era attribuita in concreto all’inviolabilità di un civis Romanus in provincia, V. Marotta, St. Paul’s Death: Roman Citizenship and summa supplicia, in The Last Years of Paul. Essays from the Tarragona Conference, June 2013, ed. by A. Puig I Tàrrech - J.M.G. Barclay - J. Frey, Tübingen, 2015, p. 254 s. Sull’esecuzione di Gavio in genere v. J. Carcopino, Observations sur le De suppliciis, in RIDA, 3 (1950), p. 260 ss.; W. Kunkel, Die Funktion des Konsiliums in der magistratischen Strafjustiz und im Kaisergericht, in ZSS, 84 (1967), p. 235 ss.; U. Laffi, Cittadini romani di fronte ai tribunali di comunità alleate o libere dell’Oriente greco in età repubblicana, in La repressione criminale nella Roma repubblicana fra norma e persuasione, a cura di B. Santalucia, Pavia, 2009, p. 152. Sulla sommarietà dell’esecuzione di Gavio da parte di Verre cfr. principalmente P. Garnsey, The Criminal Jurisdiction of Governors, in JRS, 58 (1968), p. 56. Considerazioni sul rapporto tra retorica e diritto nel racconto ciceroniano delle vicende di Gavio sono in N. Donadio, Retorica e diritto criminale nell’oratoria ciceroniana, in Index, 49 (2021), p. 454 ss.

[79] La sua immanis atque importuna natura (Cic. Verr. 2.1.8, su cui v. supra nt. 3) si alimenta di follia e crimine. Su ciò rinvio anche per l’indicazione dei testi a N. Donadio, Verre e la figura del ‘mostro criminale’, cit., 421 ss.

[80] Di Sassia Cicerone denuncia l’importunitas matris e dunque una contrarietà alla natura muliebre caratterizzata dall’istinto materno. In connessione con la sua assenza di misura e con la sua totale immoralità, che ne inducono i crimini più efferati verso figli e congiunti, l’oratore le imputa anche furor e amentia quali moventi dei suoi atroci delitti. V. Cic. Cluent. 15 (cupiditas et furor; amentia); Cluent.191 (amentia e furor); Cluent. 194 (furor atque crudelitas). Oppianico, rappresentato come vir dissolutissimus (Cic. Cluent. 175) e di immanis acerbaque natura (Cluent. 44), non è esente nella prospettiva dell’oratore da imputazione di amentia infesta: v. Cic. Cluent. 44.

[81] Sull’uso dell’invettiva da parte di Cicerone nell’oratoria forense v. adesso Ch. Craig, Audience Expectations, cit., p. 187 ss., che assume come campo di indagine la pro Milone. Secondo J.G.F. Powell, Invective and the Orator, cit., p. 15, non si noterebbero differenze evidenti tra l’invettiva nelle cause penali e quella nelle cause private.

[82] V. segnatamente Verre (Cic. Verr. 2.1.6 e 2.5.113) e Clodio. Su l’ultimo rinvio per quest’aspetto in part. a F.R. Berno, La Furia di Clodio in Cicerone, in BStudLat, 37 (2007), p. 69 ss. (con indicazione di testi), la quale ha ben messo in luce come delittuosità e furor, in connessione con l’immaginario delle Furie vendicatrici, connotino figure emblematiche di nemici politici dell’oratoria ciceroniana, quale appunto Clodio.

[83] L’accusa di follia a Pisone è interpretata in rapporto a elementi del dramma antico da D.P. Kubiak, Piso’s Madness (Cic. in Pis. 21 and 47), in AJPh, 110 (1989), p. 237 ss., che mette in luce interessanti connessioni con riferimenti nella tragedia romana arcaica. Sulla valenza di furor (e simili) più in generale nell’oratoria ciceroniana, a esprimere la manifestazione violenta della passione, v. adesso G. Rizzelli, Modelli di ‘follia’ nella cultura dei giuristi romani, Lecce, 2014,p.18 s. (con bibl.); e F.R. Berno, La Furia di Clodio in Cicerone, cit., p. 69 ss. Sempre sul valore dei riferimenti a furor, amentia, dementia, insania, vaecordia in Cicerone ricordo in part.: R. Seager, The (Re/De)construction of Clodius in Cicero’s Speeches, in CQ, 64 (2014), p. 228 s., riguardo alla figura di Clodio; Ch. Guérin, La construction de la figure de l’adversaire dans le De signis de Cicéron, in Vita Latina, 179 (2008), p. 51 s.; Y. Benferhat, Vita rustica: un idéal politique et moral? Réflexions sur le Pro Roscio Amerino, in Caesarodunum, 37-38 (2003-2004), p. 284 s.; S. Citroni Marchetti, Lo spazio straniato. Percorsi psicologici e percezione del tribunale nelle orazioni di Cicerone pro Fonteio, pro Q. Roscio comoedo, pro Cluentio (I), in MD, 35 (1995), p. 35 con nt. 34 sul binomio audacia-amentia; A. Taldone, Su insania e furor in Cicerone, in BStudLat, 23 (1993), p. 3 ss. Un recente tentativo di spiegare il complesso lessico della follia nelle fonti letterarie, retoriche e giuridiche si può trovare in G. Rizzelli, Intelletto, volontà e crimine nella cultura giuridica romana del principato, in Rivista di Diritto Romano, 20 (2020), p. 73 ss.; Id., Modelli di ‘follia’, cit., passim; e A. McClintock, Contributi allo studio della follia in diritto romano, I, Napoli, 2020, passim. A questi autori rinvio per ulteriore bibl.

[84] Sull’accusa di petulantia nell’attacco all’avversario nell’oratoria ciceroniana v. in part. Ch. Guérin, Frangere adversarium: usages et limites de la violence oratoire dans la rhétorique cicéronienne, in Le mot qui tue. Une histoire des violences intellectuelles de l’Antiquité à nos jours, ed. by V. Azoulay - P. Boucheron, Paris, 2009, p. 235 s.

[85] C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., spec. p. 419 ss.

[86] Si tratta di motivi ricorrenti anche nell’oratoria demostenica (Dem. in Mid. 109) e ancora in altre orazioni di Cicerone (v. in part. Cic. Verr. 2.3.195).

[87] C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., p. 419.

[88] C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., p. 420.

[89] C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., p. 422.

[90] Cfr. su ciò per tutti Ch. Craig, Audience Expectations, cit., p. 191.

[91] Cito spec. J.J. Hughes, Invective and Comedic Allusion: Cicero, In Pisonem, fragment 9 (Nisbet), in Latomus, 57 (1998), p. 570 ss., il quale analizza in part. il frg. 9 ed. Nisbet, rinvenendone l’ispirazione comica in figure, elementi linguistici e profili di trame tipici della commedia romana; C. Renda, ‘Pïsonis supercilium’: tratti e ritratti nella Pro Sestio di Cicerone, in BStudLat, 32 (2002), p. 395 ss., che approfondisce il ritratto di Pisone anche in relazione alle maschere del teatro comico; e V. Bonsangue, Il cipiglio del console: allusioni e riscritture comiche nell’in Pisonem di Cicerone, in Pan, 22 (2004), spec. p. 210 s., dove il tema è affrontato riguardo specificamente alla Pisoniana e dove si può trovare ulteriore bibl. L’autrice rinviene diversi spunti comici nell’orazione, da motti, locuzioni e situazioni comiche tipiche, a motivi e tratti fisiognomici del personaggio. Tra i lavori recenti di portata più generale inoltre, ricordo soprattutto G. Petrone, Incrocio di fabulae nell’orazione contro Pisone, in Lo spettacolo della giustizia: le orazioni di Cicerone, a cura di G. Petrone - A. Casamento, Palermo, 2007, p. 165 ss., che evidenzia nell’in Pisonem intrecci di reminiscenze plautine, da un lato, acciane ed enniane, dall’altro: Petrone in particolare individua taluni aspetti (descrizione di personaggi, scelte lessicali), che consentono di cogliere punti di contatto tra l’orazione e luoghi teatrali comici, specie plautini. Più in generale ricordo che elementi della commedia nelle orazioni di Cicerone sono discussi da: L. Gamberale, Quaeramus seria ludo: la Pro Caelio fra tragedia e mimo, in Oratoria, retorica, cultura: contributi alla figura di Cicerone. Atti del II Simposio ciceroniano in memoria di Emanuele Narducci. Arpino, 15 maggio 2009, a cura di P. De Paolis,Cassino, 2011, p. 19 ss., che se ne occupa relativamente alla pro Caelio; B. Harries, Acting the Part: Techniques of the Comic Stage in Cicero’s Early Speeches, in Cicero on the Attack, cit., p. 129 ss.; C. Beltrão da Rosa, Elementos da comédia na oratória ciceroniana, in Classica, 20/I (2007), p. 30 ss., che approfondisce l’uso della commedia in alcune arringhe giudiziarie di Cicerone; G. Moretti, Lo spettacolo della Pro Caelio: oggetti di scena, teatro e personaggi allegorici nel processo contro Marco Celio, in Lo spettacolo della giustizia, cit., p. 139 ss., che discute della presentazione di oggetti tra scena comica e scena retorica; M. Leigh, The Pro Caelio and Comedy, in CPh, 99 (2004), p. 300 ss. Per l’utilizzazione retorica in Cicerone di motivi della commedia antica rinvio inoltre a J.-C. Dumont, Cicéron et le théâtre, in Actes du IXe Congrès d’Association Guillaume Budé. Rome, 13-18 avril 1973,Paris, 1975, p. 424 ss.

[92] Cfr. Cic. Pis. frg. 12 (… Immo ingenui hominis ac liberi? Qui colore ipso patriam aspernaris, oratione genus, moribus nomen); Pis. 1 (Nemo queritur Syrum nescio quem de grege noviciorum factum esse consulem. Non enim nos color iste servilis, non pilosae genae, non dentes putridi deceperunt).

[93] Cfr. S. Koster, Die Invective, cit., p. 218.

[94] Così spec. Cic. Pis. frg. 9, frg. 12, frg. 13, Pis. 1, 14, 34, 53, 62, 67. Sul tema v. almeno J.J. Hughes, Invective and Comedie Allusion, cit., p. 570 ss., che riconduce l’accenno alla professione dell’avo materno di Pisone a figure tratte dalla commedia romana, come appunto il mercator e il praeco; V. Bonsangue, Il cipiglio del console, cit., p. 211 ss.

[95] Su quest’attacco a Pisone rinvio in part. a J.J. Hughes, Invective and Comedie Allusion, cit., p. 570 ss., secondo cui questi motivi dell’invettiva ricalcano i prologhi e le scene della commedia romana, nonché personaggi e trame. A suo avviso, perciò, Cicerone si avvarrebbe volutamente di elementi del teatro comico per utilizzare a fini retorici l’ascendenza di Pisone (v. J.J. Hughes, Invective and Comedie Allusion, cit., spec. p. 577).

[96] Su ciò v. per tutti Th. Mommsen, Le tavolette pompeiane. Quietanze a L. Cecilio Giocondo, trad. it. a cura di D. Bertolini (riveduta dallo stesso Mommsen), in Giornale degli scavi di Pompei, n.s. 4 (1878), col. 79: “… essi [i praecones] non si presentano come dipendenti e clienti dei singoli auctionatori, ma sempre così nel nome come nella posizione ci appariscono essenzialmente eguali agli apparitori dei magistrati d’infimo grado”.

[97] Su ciò rinvio spec. a R. Ortu, ‘Qui venaliciariam vitam exercebat’: ruolo sociale e qualificazione giuridica dei venditori di schiavi, in Ius Antiquum,1 (9) (2002), p. 3 ss. [= in Diritto e storia,1 (2002), p. 87 ss.]; Ead., Schiavi e mercanti di schiavi, cit., p. 87 (rispetto in particolare ai trafficanti di schiavi).

[98] Pisone è espressamente definito sordidus in Cic. Pis. frg. 6 e Pis. 66; fallax e perfidiosus in Cic. Pis. 66.

[99] Cfr. su ciò K.J. Dover, La morale popolare greca, cit., p. 172.

[100] Cfr. spec. Rhet. Her. 3.7.13.

[101] V. Cic. Phil. 13.32, ma anche Phil 3.15, dove Antonio è detto sia barbarus sia rudis. L’uso ingiurioso di barbarus, che indica per il contesto anche l’ostilità alla civitas Romanorum, ricorre com’è noto per altri avversari dell’Arpinate: v. ad es., per Clodio, Cic. dom. 140 (praedo tam barbarus atque immanis, dove l’associazione tra praedo e barbarus denota l’ostilità del facinoroso tribuno alla res publica e ad ogni società umana).

[102] Sull’uso di quest’argomento nell’in Pisonem mi limito qui a rinviare, anche per altra bibl., a V. Bonsangue, Il cipiglio del console, cit., p. 211 ss. Per il reale peso politico della famiglia di Pisone all’interno dell’oligarchia dominante e per la sua personalità pubblica rinvio, per uno sguardo di sintesi, a E.S. Gruen, The Last Generation of the Roman Republic, Berkeley - Los Angeles - London, 1974, p. 143 s., al quale rinvio anche per il problema dell’effettiva incidenza che l’invettiva di Cicerone avrebbe avuto sulla carriera politica di Pisone. Su quest’aspetto cfr. ancora almeno J. Dugan, How to Make (and Break) a Cicero, cit., p. 70.

[103] Cfr. I. Opelt, Die lateinischen Schimpfwörter, cit., p. 59 ss., spec. p. 59 con nt. 3 per altra bibl., e p. 78. Su questi e altri insulti nell’invettiva ciceroniana v. anche S. Koster, Die Invective, cit., p. 113 ss.

[104] Su quest’aspetto rinvio fondamentalmente a E. Fraenkel, Elementi plautini in Plauto, trad. it. a cura di F. Munari, Firenze, 1960, spec. p. 17 e 157.

[105] Cfr. R.G.M. Nisbet, Recensione a I. Opelt, Die lateinischen Schimpfwörter, cit., in Gnomon, 39 (1967), p. 69, con lett. L’insulto carnifex è utilizzato anche nell’oratoria giudiziaria contro l’accusato in un processo criminale. Così in Cic. Verr. 2.5.129, contro Verre esso serve a sintetizzare, in un commovente passaggio della De suppliciis, l’irragionevole crudeltà del corrotto governatore nella repressione criminale in Sicilia durante la sua propretura.

[106] Cic. in Pis. 68. Sull’espressione v. però W.S. Watt, Notes on Cicero, in Pisonem, in RhM, 129 (1986), p. 271, che propone di leggere adstricta fronte (cfr. Martial. 11.39.13, Sen. Ep. 106.5, Quint. inst. 11.3.160).

[107] V. Cic. Pis. 20 (frontis tuae nubecula); Pis. 53 (Habes reditum meum; confer nunc vicissim tuum, quando quidem, amisso exercitu, nihil incolume domum praeter os illud tuum pristinum rettulisti); Pis.63 (Neque vero contempsisti, sis licet Themista sapientior, sed os tuum ferreum senatus convicio verberari noluisti).

[108] Cic. Pis. 14: … respondes, altero ad frontem sublato, altero ad mentum depresso supercilio, crudelitatem tibi non placere.

[109] Sul cipiglio di Pisone cfr. inoltre Cic. Pis. 1, 14, 20. In questo motivo è stato visto l’uso di maschere della commedia romana come il senex iratus o il leno: sul tema rinvio per tutti alla discussione di J.J. Hughes, Piso’s Eyebrows, in Mnemosyne, 45 (1992), p. 234 ss., con lett. precedente.

[110] Sul valore del volto nell’eloquentia corporis v. spec. Cic. de orat. 2.148 e leg. 1.17.

[111] Cfr. Cic. Pis. 1.

[112] Cic. Pis. 13.

[113] C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., p. XI-XII.

[114] In argomento v. infra nel testo (§ 6).

[115] Cfr. L’uomo delinquente4, I, cit., p. 431

[116] Cfr. C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., p. 384 ss.

[117] Sul punto v. per tutti V. Arena, Roman Oratorical Invective, cit., p. 155; e Ch. Craig, Audience Expectations, cit., p. 192 ss.

[118] Su ciò mi permetto di rinviare a due miei recenti contributi: N. Donadio, Da avversario di fazione a criminale pericoloso, cit., p. 221; Ead., La ‘pericolosità criminale’ nella riflessione retorica e giuridica di Roma antica, in corso di pubblicazione.

[119] L’immagine del monstrum vel portentum (o prodigium), commista a quella di bestia belua o animal, è associata alla criminosità e pericolosità sociale di avversari come Gaio Licinio Verre nelle Verrinae, Oppianico pater e Sassia nella pro Cluentio, Catilina nelle Catilinariae, Clodio nella De domo e nella pro Milone, Marco Antonio e i fratelli nelle Philippicae. Cfr. segnatamente: 1) per Verre, Cic. Verr. 2.1.40 (o scelus, o portentum in ultimas terras exportandum!), Verr. 2.1.42 (tam perfidiosum tam importunum animal); 2) per Oppianico e Sassia, Cic. Cluent. 41 (immanis ac perniciosa bestia pestisque), Cluent. 188 (dove Sassia è detta portentum); 3) per Clodio, Cic. Pis. 21 (funestum animal), dom. 47 (caenum, portentum, scelus), Mil. 32 (tam audax, tam nefaria belua), Mil. 40 e 85 (illa belua), Pis. 9 (fatale portentum prodigiumque rei publicae); 4) per Marco Antonio, Cic. Phil. 6.7 (importunissima belua), Phil. 7.27 (taetra et pestifera belua), Phil. 8.13 (belua), Phil. 3.28 (taeterrima belua), Phil. 4.12 (immanis tetraque belua), Phil. 13.22 (importunissima belua), Phil. 2.67 (animal unum); 5) Per Antonio e Dolabella, Cic. Phil. 13.5 (immanes beluae); 6) per i fratelli Antonii, Cic. Phil. 13.49 (monstra et portenta e prodigia rei publicae); 7) per Lucio Antonio, Cic. Phil. 14.8 (propudium e portentum). Per Pisone v. più avanti nel testo. Sulla bestialità del nemico di fazione nell’oratoria repubblicana cfr. in part. C. Lévy, Rhétorique et philosophie, cit., p. 139 ss.; J.M. May, Cicero and the Beasts, cit., p. 143 ss.; B. Cuny-Le Callet, Du bétail à la bête fauve, cit., p. 131 ss.; Ead., Le monstre politique, cit., p. 73 ss. Per la figura del mostro di bestiale criminosità nell’invettiva politica e forense ciceroniana v. N. Donadio, Verre e la figura del ‘mostro criminale’, cit., p. 421 ss.

[120] Cfr. J. Dugan, How to Make (and Break) a Cicero, cit., p. 61.

[121] R.G.M. Nisbet, M. Tulli Ciceronis in L. Calpurnium Pisonem oratio, cit.,p. 196.

[122] “Bestia” (θηρίον) è un termine spregiativo di uso corrente già negli oratori attici: cfr. K.J. Dover, La morale popolare greca, cit., p. 156.

[123] Per l’associazione dell’espressione ai maiali, a preferenza di tutti gli altri animali, rinvio a T.E.V. Pearce, Notes on Cicero, in Pisonem, in CQ, 20 (1970), p. 311.

[124] Sulla coniectura cfr. spec. Cic. inv. 2.14 e Quint. inst. 7.2.1 ss.

[125] La locuzione si rinviene in particolare in Cic. Verr. 2.3.146, ma sulla sua ricorrenza nelle fonti retoriche di età imperiale cfr. A.D. Manfredini, De ante acta vita, in Per il 70. compleanno di Pierpaolo Zamorani. Scritti offerti dagli amici e dai colleghi di Facoltà, a cura di L. Desanti - P. Ferretti - A.D. Manfredini, Milano, 2009, p. 269.

[126] Sui rapporti tra la drammaturgia antica e l’actio nell’oratoria romana c’è una letteratura vastissima. Qui rinvio in part. a M.S. Celentano, Performance oratoria e spazio comico: il punto di vista di Cicerone e Quintiliano, in Papers on Rhetoric XII, ed. by L. Calboli Montefusco - M.S. Celentano, Perugia, 2014, p. 19 ss.; J. Hall, Cicero’s Use of Judicial Theater, Ann Arbor, 2014, passim, che indaga sulle modalità di introduzione degli elementi teatrali nelle orazioni giudiziarie di Cicerone; A. Cavarzere, Gli arcani dell’oratore. Alcuni appunti sull’actio dei Romani, Padova, 2011; Id., Le voci delle emozioni (Cic. de orat. 3,216-219), in Atti e Memorie dell’Accademia Nazionale Virgiliana di Scienze Lettere ed Arti, 76 (2008), p. 45 ss. Per le interferenze fra tecniche teatrali e metodi dell’actio dell’oratore, in particolare nella trattatistica retorica, v. la sintesi di E. Fantham, Orator and/et Actor, in Greek and Roman Actors: Aspects of an Ancient Profession, ed. by P. Easterling - E. Hall, Cambridge, 2002, p. 362 ss. (ora in E. Fantham, Roman Readings: Roman Response to Greek Literature from Plautus to Statius and Quintilian, Berlin - New York, 2011, p. 285 ss.). Più in generale sulla relazione tra retorica e teatro, tra azione teatrale e oratoria, sull’importanza della dimensione spettacolare in Cicerone, sull’equilibrio fra teatralità dell’oratoria antica e decoro dell’orator, importanti riflessioni si possono trovare nei contributi raccolti in Lo spettacolo della giustizia, cit., passim.

[127]  Cfr. Cic. inv. 2.32 ss. Sulle forme di impiego del fondamentale espediente retorico consistente nel richiamo ai trascorsi di vita dell’imputato, visti in relazione all’incidenza che essi avevano sulla valutazione prudenziale di colpevolezza del reo rimessa al giudice nei diversi sistemi penali succedutisi a Roma, cfr. spec. V. Giuffrè, De vita anteacta, in Labeo, 44 (1998), p. 98 ss.; A.D. Manfredini, De ante acta vita, cit.,  p. 269 ss., che analizza il persistere nella tradizione retorica latina del richiamo all’anteacta vita come elemento dell’eloquentia non verbale, utile alla mozione degli affectus e al movere lacrimas rivolto ai giudicanti; C. Russo Ruggeri, La rilevanza dell’anteacta vita nell’esperienza processuale romana, in AUPA, 60 (2017), p. 119 ss. (con lett.), la quale evidenzia attraverso un’interessante casistica la consuetudine, invalsa per i casi di assenza di elementi certi di giudizio sia nel processo penale che in quello civile, di deliberare in favore della parte che potesse comprovare abitudini di vita e condotte pregresse irreprensibili (a prescindere dalla sua effettiva responsabilità nel giudizio in corso). Il rilievo dato ai profili morali dei concreti comportamenti e costumi di vita delle parti nella valutazione a confronto rimessa al giudice, in particolare nei iudicia privata, è ben messo in luce per il lessico latino della media repubblica da G. Falcone, L’attribuzione della qualifica vir bonus nella prassi giudiziaria d’età repubblicana (a proposito di Cato, or. frg. 186 Sblend.=206 Malc.). Con un’Appendice su optimus, probus, fortis, in Vir bonus. Un modello ermeneutico della riflessione giuridica antica. Incontro di studio, Trani, 28-29 ottobre 2011, a cura di A. Lovato, Bari, 2013, p. 39 ss.

[128] Cfr. Quint. inst. 5.10.28: … Spectantur ante acta dictaque; ex praeteritis enim aestimari solent praesentia.

[129] Rhet. ad Her. 2.3.5.

[130] Per gli elementi concernenti la persona, che rilevavano nella prova argomentativa, v. Quint. inst. 5.10.23 ss. In inst. 5.10.27, ad esempio, Quintiliano ricorda singoli tratti della natura animi che potevano rilevare ai fini del giudizio di reità o di assoluzione dell’imputato, come l’avaritia, l’iracundia, la misericordia, la crudelitas, la severitas.

[131] Cfr. ThlL., voce ‛maleficus’ (subst.), VIII, col. 177. Nel significato insieme di stregone e delinquente socialmente pericoloso, il lemma ricorre in CTh. 9.16.6; ma su valore e uso di maleficus nel linguaggio giuridico del IV sec. d.C. cfr. adesso V. Neri, Costantino e i maghi: CTh. 9,16,3 nel contesto della storia della repressione penale della magia, in Koinonia, 35 (2011), p. 109 ss. Sul significato di maleficus in relazione al sostantivo magus nella legislazione tardoantica rinvio, segnatamente, a J.B. Rives, Magic, Religion, and Law: The Case of the lex Cornelia de sicariis et veneficiis, in Religion and Law in Classical and Christian Rome, ed. by C. Ando - J. Rüpke, Stuttgart, 2006, spec. p. 66.

[132] Cfr. Quint. inst. 7.2.31. L’osservazione è svolta dal retore nel contesto di un riferimento alla colpevolezza per crimini caratterizzati da particolare atrocitas.

[133] Cfr. Cic. Pis. 17 e 18 (dove si definisce Pisone tiranno in terra di barbari); Pis. 24 (tyrannus).

[134] Cfr. J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire latin des relations et des partis politiques sous la République2, Paris, 1972, p. 562, al quale rinvio per il rapporto tra tirannia e libido; e J.R. Dunkle, The Greek Tyrant, cit., p. 151 ss. Sempre su tali loci v. adesso V. Arena, Roman Oratorical Invective, cit., p. 149 ss., con ampia bibl. Quanto alla nozione di libido, essa è molto articolata in Cicerone. In Cic. tusc. 4.6.12, ad esempio, è definita come volontà non controllata dalla ragione (cupiditas effrenata) e tale che in omnibus stultis invenitur; nell’invettiva oratoria indica l’impulso passionale che spinge al delitto; nelle arringhe in cui è impiegata la tematica sessuale, la libido appare contrapposta a pudicitia: v. in part. Cic. Verr. 2.1.63 (libidines flagitiosae); Verr. 2.1.78; Cluent. 15: … Perfregit ac prostravit omnia cupiditate ac furore; vicit pudorem libido, timorem audacia, rationem amentia. Sul significato del lemma libido nel lessico ciceroniano rinvio segnatamente a S. Citroni Marchetti, Lo spazio straniato (I), cit., p. 13 ss. Del contrasto tra libido e ingiustizia sempre in Cicerone (spec. nella pro Roscio Amerino) si occupa Y. Benferhat, Vita rustica, cit., p. 280 s. Su libido nell’invettiva politica ciceroniana come arbitrario capriccio del governante, contrapposto a lex, cfr. in termini generali J.R. Dunkle, The Greek Tyrant,cit., p. 168. Per l’uso di libido quale effrenata cupiditas nella costruzione dell’immagine di Verre, in particolare nella De signis, rinvio a C. Guérin, La construction de la figure de l’adversaire, cit., p. 52. Come contrario di continentia o temperantia nella caratterizzazione dell’uomo politico tardorepubblicano v. J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire latin2, cit., p. 259 s.

[135] Cfr. segnatamente Cic. Pis. 11 (crudelissime); Pis. 15 (dove si definiscono Clodio, Gabinio e Pisone più crudeli verso la patria dei catilinari); Pis. 18 (dove si dice che la crudelitas dell’avversario era non ferenda); Pis. 31 (scelus et crudelitas); Pis. 38 (dove gli imputa, nel governo dei territori a lui assegnati, inaudita perfidia e immanitas); Pis. 66 (crudelis); Pis. 84 (dove accusa Pisone di aver mosso contro i Denseleti, popolazione della Tracia rimasta fedele a Roma, un nefarium bellum et crudele); Pis. 85 (dove gli imputa crudelitas).

[136] V. Cic. Pis. 39 (temeritas atque audacia), Pis.46 (audacia), Pis.66 e 70 (audax).

[137] Cic. Pis. 86 (avaritia) e Pis. 37 (cupiditas). Sullo scarto tra avaritia e cupiditas cfr. Cic. inv. 1.32. Sul tema in genere v. S. Gozzoli, L’accusa di avaritia fra realtà e polemica politica, in Athenaeum, 95 (2007), p. 755 ss.; J.R. Dunkle, The Rhetorical Tyrant, cit., p. 15 e 19. Per la ricognizione delle ricorrenze del lemma avaritia nelle orazioni di Cicerone rinvio ad A. Bragova, Cicero on Vices, in Studia Antiqua et Archaeologica, 24 (2018), p. 257 ss.

[138] V., rispettivamente, Cic. Pis. 70 e Pis. 37; nonché Pis.89 per l’addebito di intemperantia.

[139] Cfr. Pis. 27 (improbitas), Cic. Pis. 66 e 70 (improbus).

[140] V. in part. Cic. inv. 2.32.

[141] V. ancora Cic. Pis. 24, 27, 31 (furor petulantiaque), Pis.38 (perfidia e immanitas; fur, sacrilegus e sicarius).

[142] Sull’accusa di impudentia in Cicerone cfr. segnatamente I. Giaquinta, Oltre la vituperatio: l’accusa di impudentia in Cicerone e il suo valore retorico-politico, in RPL, 20 (2017), p. 211 ss. (con bibl.), la quale mostra che l’accusa di impudentia, nell’ambito della strategia retorica di Cicerone, non caratterizza solo il momento dell’invettiva, ma denuncia un vitium che costituisce un autentico pericolo sociale per il fatto di contrapporsi al sistema valoriale condiviso, fondato sulla dignitas e sul decorum.

[143] Altri riferimenti alle riprovevoli consuetudini di vita di Pisone si trovano in part. in Cic. Pis. 42, 69, 94. È stato rilevato che il motivo dell’ubriachezza del personaggio è un topos del teatro comico: cfr. V. Bonsangue, Il cipiglio del console, cit., p. 215. Esso del resto è topico anche nella raffigurazione dell’avversario come delinquente d’indole nell’invettiva ciceroniana: su ciò v. infra nt. 175.

[144] V. ancora Cic. Pis.13, 18, 22, 42, 66-67, 70, 89.                       

[145] Cfr. C.J. Classen, Diritto, retorica, politica. La strategia retorica di Cicerone, trad. it. a cura di P. Landi, Bologna, 1998 (ed. orig. Recht-Rhetorik-Politik. Untersuchungen zu Ciceros rhetorischer Strategie, Darmstadt, 1985), p. 54 e p. 56 ss.

[146] Cfr. C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., p. 442 ss.

[147] C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., p. 442 e 443.

[148] Su ciò rinvio a due miei contributi: N. Donadio, Da avversario di fazione a criminale pericoloso, cit., p. 221 ss. e Verre e la figura del ‘mostro criminale’, cit., p. 421 ss.

[149] Cic. Pis. 1 (tarditas ingeni) e 24 (infirmitas ingeni). Cfr. ancora Cic. Pis. frg. 12 (quod minimum specimen in te ingenii) e Pis.68 (non acriter intellegens).

[150] Su cui v. supra nel testo (§ 4).

[151] In Cic. Pis. 58, l’avversario è definito ironicamente doctus homo ed eruditus; in Pis. 59, ancora una volta Cicerone qualifica con sarcasmo Pisone politus ex schola; in Pis. 62, sempre con ironia a proposito dell’atteggiamento del rivale verso il trionfo, egli afferma: … Tu eruditior quam Piso, prudentior quam Cotta, abundantior consilio, ingenio, sapientia quam Crassus, ea contemnis quae illi idiotae, ut tu appellas, praeclara duxerunt?; in Pis. 73, Pisone è detto asinus. Per la rozzezza v. ad es. Cic. Pis. 67: Nihil apud hunc lautum, nihil elegans, nihil exquisitum.

[152] La nozione di intelligenza (σοφός) come capacità di controllo sulla propria natura si incontra già in autori greci: cfr. K.J. Dover, La morale popolare greca, cit., p. 224.

[153] Un’espressione analoga ricorre nella De domo contro Clodio, che viene definito omnium templorum atque tectorum totiusque urbis praedo: cfr. Cic. dom. 140.

[154] Ph. Delacy, Cicero’s Invective against Piso, cit., p. 51 s.

[155] Cfr. in part. Cic. Verr. 2.3.8, dove si denuncia la singularis stultitia atque inhumanitas di Verre; Verr. 2.1.47 (… Si in pueritia non iis artibus ac disciplinis institutus eras ut ea quae litteris mandata sunt disceres atque cognosceres, ne postea quidem, cum in ea ipsa loca venisti, potuisti accipere id quod est proditum memoria ac litteris?); Verr. 2.4.98, dove dell’avversario si dice che è sine ulla bona arte, privo di raffinata cultura, d’ingegno e di studi letterari. Più in generale sull’ignoranza del personaggio v. Cic. Verr. 2.4.4, Verr. 2.4.33 e Verr. 2.4.127.

[156] V. in part. Cic. Phil. 2.19 (stultitia); Phil. 2.29 (omnium stultissimus); Phil. 2.30 (… sit in verbis tuis hic stupor); Phil. 2.68 (… quamvis enim sine mente, sine sensu sis, ut es, tamen et te et tua et tuos nosti); Phil. 2.80 (incredibilis stupiditas hominis); Phil. 2.81 (… Verum implicata inscientia impudentia est: nec scit quod augurem nec facit quod pudentem decet). Cfr. ancora Cic. Phil. 3.22, dove il rivale è definito stupidus.

[157] Sul rapporto tra queste due tipologie di delinquenti nel pensiero dell’antropologo ottocentesco v. C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., p. 586 ss., che sostiene “l’identità del pazzo morale col criminale nato”.

[158] C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., p. XVI, v. anche p. XXXVIII. Sull’incorreggibilità dei delinquenti-nati v. p. XXXIV.

[159] Sul ruolo e la funzione di spes e metus nell’impostazione retorica del dibattito forense v. adesso A. Garcea, Due passioni dell’incertezza: paura e speranza nelle orazioni ciceroniane, in Lo spettacolo della giustizia, cit., p. 199 ss.

[160] Cfr. ad es. Cic. Cluent. 12, dove si parla di singulare scelus nel denunciare la brama di Sassia per la morte del figlio; Cluent. 15 (mulieris scelus incredibile); Cluent. 16 (tantae iniuriae ac tantum scelus matris); Cluent. 189, dove si accusa Sassia di avere istigato tutti gli scellerati crimini commessi da Oppianico pater (su cui spec. Cluent. 125). Reiterata è l’accusa di ostilità ai figli: v. spec. Cic. Cluent. 18, dove la pericolosità criminale di Sassia è ascritta alla nozione di calamitas.

[161] V. Cic. Cluent. 15 (cupiditas et furor; amentia); Cluent. 191 (amentia e furor); Cluent. 194 (furor atque crudelitas).

[162] V. segnatamente Cic. Cluent. 12 (mulieris importunae nefaria libido); Cluent. 15 (libido effrenata et indomita; audacia singularis); Cluent. 18 (mulier audax, pecuniosa, crudelis); Cluent. 42 (crudelis et huic infesta mater); Cluent. 177 (crudelis atque importuna mulier); Cluent. 181 (crudelissima mulier); Cluent. 195 (matris crudelitas). Sulla figura di Sassia in generale rinvio, anche per ulteriore bibl., a S. Citroni Marchetti, Lo spazio straniato. Percorsi psicologici e percezione del tribunale nelle orazioni di Cicerone pro Fonteio, pro Q. Roscio comoedo, pro Cluentio (II), in MD, 36 (1996), p. 33 ss., spec. p. 43 s.; S. Ige, Rhetoric and the Feminine Character: Cicero’s Portrayal of Sassia, Clodia and Fulvia, in Akroterion, 48 (2003), p. 45 ss., che esamina il metodo utilizzato da Cicerone nel costruire l’immagine di madre crudele di Sassia, in contrapposizione al modello positivo di mater nella cultura romana; V.M. Patimo, Sassia: un’amante elegiaca ante litteram nella Pro Cluentio?, in EClás, 135 (2009), p. 30 ss.; J.T. Kirby, The Rhetoric of Cicero’s pro Cluentio, Amsterdam, 1990, p. 41 ss. Interessanti riflessioni sugli espedienti stilistici impiegati da Cicerone nella descrizione di Sassia sono in C.J. Classen, Diritto, cit., p. 48 ss.

[163] Il binomio hominis figura e immanitas beluae, ricorrente nel pensiero di Cicerone (v. ad esempio Cic. off. 3.82, rep. 2.48 e off. 3.32 per il tiranno), è impiegata per molte altre figure di monstra morali della sua produzione oratoria: cfr. su ciò in part. B. Cuny-Le Callet, Du bétail à la bête fauve, cit., p. 140 (con indicazione di fonti).

[164] Il nesso tra passione (impulsio) e azione delittuosa è topica nella visione retorica della responsabilità criminale: su ciò v. in part. Y-P. Tomas, Acte, Agent, Société. Sur l’homme coupable dans la pensée juridique romaine, in Archives de Philosophie du Droit, 22 (1977), p. 73.

[165] V. Cic. Pis. 3 e 56.

[166] Cic. Pis. 41.

[167] Cic. Pis. 91.

[168] V. spec. Cic. Pis. frg. 2, dove l’oratore fa riferimento all’odio dei senatori verso Pisone, che si vorrebbe morto tra torture e annegamento nei flutti; Pis. 33, dove Cicerone rinfaccia all’avversario di essere odiato da tutti al punto da dover desiderare l’esilio; Pis. 45, dove si ricorda l’odio di tutti gli ordini e della cittadinanza intera per Gabinio e Pisone. La concordia tra ordini nell’avversione a Pisone è ribadita in Cic. Pis. 65 (Fac huius odi tanti ac tam universi periculum si audes); e in Pis. 93, dove è descritta una scena di intolleranza grave dei soldati contro Pisone a Durazzo.

[169] In Cic. Pis. 42, l’oratore ricorda che lo scempio della reputazione di Gabinio e Pisone gli dà pari soddisfazione che il vederli crocefissi; in Pis. 44 egli augura al rivale per la sua condotta i supplizi più atroci; in Pis. 98 il destinatario delle invettive è definito omni cruciatu dignissimus. V. anche supra nel testo (§ 2) e in nt. 31. Sull’importanza e il valore del riferimento alla pena criminale nella strategia della Pisoniana cfr. adesso I. Gildenhard, Greek Auxiliaries, cit., spec. p. 155 ss.

[170] V. in part. Rhet. Her. 2.20.32. Sul nesso tra uomo criminale (homo improbus, perditus, facinorosus) e povertà nella visione ciceroniana v. in part. F. Pina Polo, Cupiditas pecuniae: Wealth and Power in Cicero, in Money and Power in the Roman Republic, ed. by H. Beck - M. Jehne - J. Serrati, Bruxelles, 2016, p. 169. La convinzione che lo stato d’indigenza fosse un movente del delitto risale già al pensiero greco: cfr. K.J. Dover, La morale popolare greca, cit., p. 207 ss. con indicazione di fonti, che sottolinea su altro versante come fosse pur presente nel mondo greco l’idea che i ricchi sono disposti a tutto per accumulare sempre più ricchezze (K.J. Dover, op.ult.cit., p. 211).

[171] Cfr. C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., p. XLV.

[172] C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., p. 367 e p. 372.

[173]Sul ruolo che la narrazione dell’esecuzione di Trebonio assume complessivamente nella strategia dell’undicesima Philippica e sul linguaggio della vituperatio contro Dolabella, analoga a quella di Antonio e dei seguaci, v. R. Palmieri, La digressione dell’XI Philippica, in Aufidus, 13.37 (1999), p. 45 ss.; T. Dawes, Strategies of Persuasion in Philippics 10 and 11, in CQ, 64 (2014), spec. p. 246 ss.; F. Rohr Vio, Publio Cornelio Dolabella, ultor Caesaris primus. L’assassinio di Gaio Trebonio nella polemica politica del post cesaricidio, in Aevum, 80 (2006), p. 105 ss.

[174] V. supra nt. 113.

[175] C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., p. 407 ss., spec. p. 409: “L’indole congenita criminale appare nei recidivi dal fatto della loro precocità …”.

[176] C. Lombroso, L’uomo delinquente4, I, cit., spec. p. XLVII.

[177] Cic. Pis. 13, 18, 22, 42, 67. Questo profilo dell’avversario raffigurato come delinquente d’indole ricorre ampiamente anche in altre orazioni dell’Arpinate. Ricordo, per tutti, il caso di Marco Antonio nelle Philippicae: cfr. segnatamente Cic. Phil. 2.30 e 31; Phil. 2.42; Phil. 2.62-63; Phil. 2.65; Phil. 2.67; Phil. 2.74; Phil. 2.76; Phil. 2.77; Phil. 2.81; Phil. 2.84; Phil. 2.101; Phil. 2.104; Phil. 3.12; Phil. 3.20; Phil. 3.31; Phil. 5.24; Phil. 6.4; Phil. 12.26; Phil. 12.26; Phil. 13.4; Phil. 13.11.

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