Lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, oggi: il consolidamento del principio della reciproca collaborazione (art. 1 accordo di revisione concordatar
Fabiano Di Prima
Ricercatore di Diritto canonico ed ecclesiastico all’Università degli Studi di Palermo
Marco Dell’Oglio
Docente di Diritto ecclesiastico all’Università degli Studi di Palermo
Lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, oggi: il consolidamento del principio della reciproca collaborazione (art. 1 Accordo di revisione concordataria). Il paradigma delle fabbricerie*
SOMMARIO : 1. I discorsi ufficiali del Santo Padre e del Presidente Mattarella del 10 giugno 2017: “miniera” di spunti sull’affermazione del principio della reciproca collaborazione (art.1 Accordo di Villa Madama). - 2. I giovevoli riflessi di questo consolidamento, in vista del bene comune del Paese. L’esempio dell’azione a difesa del patrimonio culturale chiesastico. il paradigma delle fabbricerie (e del loro regime). – 2.1. Controprove storico-giuridiche: a) i fraintendimenti ideologici e le contraddizioni della stagione liberale (della ‘non collaborazione’). – 2.2. b) la Conciliazione e i perduranti fraintendimenti insiti nelle nuove soluzioni ‘di compromesso’ (la stagione della ‘collaborazione non effettivamente ricercata’). – 2.3. c) la “consacrazione” nel 1984 del principio di collaborazione (già “emergente” dalla Costituzione repubblicana), il suo consolidamento nel tempo e il conseguente diradamento dei fraintendimenti (e delle remore) del passato. – 3. Una ricapitolazione conclusiva: il ‘nuovo modo di guardarsi’ tra Stato e Chiesa; la cooperazione effettivamente ricercata; il ‘nuovo’ spirito della disciplina delle fabbricerie.
1. I discorsi ufficiali del Santo Padre e del Presidente Mattarella del 10 giugno 2017: “miniera” di spunti sull’affermazione del principio della reciproca collaborazione (art.1 Accordo di Villa Madama)
Non è passato inosservato alla pubblicistica (come s’evince fin dalle prime note d’agenzia[1]) il clima di peculiare “sintonia” che ha connotato, lo scorso 10 giugno, la visita ufficiale del Santo Padre al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: per averne riscontro, del resto, sarebbe bastato (già solo) dare una scorsa alle trascrizioni dei discorsi tenuti dalle due Autorità[2], dov’è facilmente rintracciabile una singolare convergenza di toni, registro e – in alcuni passaggi, finanche di - contenuti[3]. Così, riguardo a questi ultimi, ad es., diversi organi di stampa hanno colto la consonante messa in evidenza di un (basilare) dato “fattuale”, qual è la proficuità del sostegno reciproco che Stato e Chiesa seguitano a darsi nel Paese, a fronte di crescenti urgenze/istanze spirituali e materiali, puntualmente esemplificate.
In pochi, tuttavia, a tale ultimo riguardo, hanno colto l’ulteriore consonanza dell’esigenza, avvertita da entrambi, di porre in luce la ragionegiuridica principe alla base di questo fruttuoso mutuo sostegno, ovverosia l’Accordo di Villa Madama. Quale che sia la ragione della mancata annotazione[4] (forse un automatismo, consono alla c.d. stagione della “post-verità”[5], di promozione dei dati anzitutto “emozionali”), quel che rileva è l’occasione perduta di registrare, immediatamente dopo, una singolare dissomiglianza tra i due testi. Infatti, mentre Papa Francesco avverte altresì l’esigenza di specificare che l’Accordo richiede espressamente questo mutuo contegno, con un’apposita previsione, i.e. l’art.1, che impegna lo Stato e la Chiesa a collaborare, nel rispetto della “distinzione degli ordini” di cui all’art. 7, I co., Cost., per la «promozione dell’uomo» ed il «bene del Paese»; il Presidente Mattarella, invece, appresso al richiamo fatto al ruolo del Concordato, quale “prezioso quadro di collaborazione”, passa direttamente a rimarcare l’importanza della presenza della Chiesa “a fianco delle Istituzioni” (già in generale nei frangenti più difficili della vita nazionale, e in particolare) in occasione “dell’emergenza del terremoto che ha colpito” nel 2016 il Centro Italia. Spunto, questo (dell’indicata dissomiglianza fra i testi), che laddove colto, avrebbe probabilmente condotto a prestare maggiore attenzione non solo ai temi scaturenti dalla puntualizzazione fatta dal Pontefice e dal differente rilievo ad hoc posto dal Presidente Mattarella; ma anche ad ulteriori argomenti-chiave, non esplicitati ma comunque avvertibili – specialmente dagli “addetti ai lavori” – sottesi al tema della collaborazione crescente tra i due Ordini, in vista del “bene comune”.
Una prima dimostrazione, in tal senso, si ha vagliando i passaggi del discorso del Papa che precedono la precisazione in parola. Ad emergere, anzitutto, sono gli argomenti posti in tutta evidenza, come quello dell’ascendenza “tutta ecclesiale” della formula della collaborazione inserita nell’art.1 Conc.: atto a “consacrare”, come dice testualmente Papa Francesco, - un noto insegnamento del Vaticano II, i.e. quello per cui il «servizio a vantaggio di tutti» offerto «a titolo diverso» dalla Chiesa e dalla comunità politica (cost. Gaudium et Spes, par. 76) è «tanto più efficace» quanto meglio accompagnato da una «sana collaborazione» (avente di mira “le stesse persone umane”)[6]. Dallo stesso vaglio, poi, appare con relativa nitidezza il dato della lungimiranza della scelta fatta nell’’84, d’imperniare l’Accordo su una formula tanto “densa” di potenzialità: non sembrando un caso – anzi – che la precisazione sull’art.1 Conc. giunga appresso a puntuali rimandi fatti dal Pontefice a campi di collaborazione attiva, costante e virtuosa tra la Chiesa e la Repubblica (specie riguardo all’accoglienza dei “numerosi profughi che sbarcano” sulle coste italiane[7]), che danno modo di visualizzare non solo l’importanza di detta previsione (già solo) “ai fini dell’incidenza nella realtà concreta”[8], ma anche – per l’appunto - l’implicito plauso al legislatore pattizio, per avere deciso di farne un cardine dell’architettura “neo-concordataria”. Ma, a ben guardare, specie all’occhio dei più avvertiti, quest’indicazione implicita ne sottende un’altra, più profonda. Elogiare, ancorché implicitamente, questa scelta alla luce dei giovevoli risultati ottenuti, infatti, non solo significa elogiare, logicamente, il “motore propulsivo” della scelta medesima, individuabile – com’è noto agli “addetti ai lavori” - nell’episcopato italiano[9]; ma altresì, alla luce dei vasti compiti d’interlocuzione con la Repubblica[10] affidati a quest’ultimo dall’Accordo (consonanti col disegno d’una cooperazione “a molti livelli di fonti normative ed intese amministrative”[11]), significa porre in luce che a determinare gli ottimi risultati descritti sta, ovviamente, l’azione apicale dell’Ente che sigla l’Accordo, i.e. la Santa Sede[12], ma anche l’operato della C.E.I., cui (è spettato e) spetta pattiziamente, su diversi fronti[13], dare concreta ed “efficiente” applicazione al canone della collaborazione, nel dialogo (anche “informale”[14]) con le autorità civili: un plauso “in controluce”, questo fatto dal Pontefice, che rispecchia quello fatto apertis verbis tre anni prima, nel primo incontro con l’episcopato italiano, sottolineando la difficoltà del compito di confrontarsi con le istituzioni politiche, culturali e sociali, ma al contempo esortando a procedere nettamente verso questa direzione[15].
Un’altra dimostrazione (della presenza “in filigrana” di argomenti “tecnici” a sostegno d’una crescente collaborazione Stato/Chiesa) si riscontra nel passaggio immediatamente successivo a quello appena esaminato, dove Papa Francesco correla l’art. 1 Conc. al principio di laicità dello Stato: osservando, segnatamente, come il primo “esprima” il secondo, e l’abbia anche – al contempo - “promosso”, condividendone sia il verso, cooperativo, “amichevole” e “anti-conflittuale”, sia il presupposto, della “rigorosa distinzione” degli Ordini, delle rispettive Istituzioni, e delle loro competenze. Anche qui non manca, anzitutto, la focalizzazione dello specifico contributo portato – a monte - dalla Chiesa, e “veicolato” attraverso la stesura dell’art.1 Conc: e cioè la delineazione in esso d’un modello di laicità consono (anche) col surriferito insegnamento conciliare (Gaudium et Spes, par. 76)[16], che già figura una cooperazione tra realtà autonome, in un’accezione costruttiva, dialogica, e di confronto a viso aperto posta particolarmente in luce nel magistero - richiamato da Papa Francesco - di Benedetto XVI, quale “laicità positiva”, imperniata sulla distinzione dei poteri ma che lascia “spazio al contributo che la Chiesa può̀ offrire alla costruzione della società”[17]. Anche in questo caso, poi, non si fatica a scorgere un’ulteriore sottolineatura del pregio della scelta dell’84, evidenziandosi come il predetto art. 1 Conc. abbia favorito (per molti versi) l’opera della Consulta nel disvelamento del principio supremo di laicità (racchiuso nella Costituzione ma non “esplicitato formalmente”[18]): agevolando, segnatamente, la delineazione sempre più netta, col passare degli anni, del suo contenuto dinamico/promozionale[19], e quasi “anti-separatista”, nel suo sintetizzare insieme la distinzione degli ordini di cui all’art. 7, I co. Cost., con altri, pertinenti, principi costituzionali[20], tra cui – per l’appunto - la collaborazione con le Confessioni prevista dagli artt. 7 e 8[21]. Così che, se cinque anni dopo la sigla dell’Accordo, la Consulta principia a figurare il “nucleo” dell’indicata sintesi, i.e. un’innovativa «attitudine laica dello Stato-comunità»scevra da «postulati ideologizzati ed astratti di estraneità [o]ostilità», e ponentesi «al servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini» (sent. 203/1989)[22]; nel tempo (la medesima Corte) mette sempre più a fuoco l’implicazione sottesa a quest’attitudine “di servizio” della Repubblica, cioè il suo logico declinare verso (concertazioni potenzialmente foriere del)la sigla di “accordi bilaterali”, deputati a soddisfare specifiche istanze confessionali (sent. 235/1997); sino a visualizzare integralmente[23], di recente, l’irrinunciabile “cifra“ caratteristica di detta attitudine – colta da Papa Francesco – dichiarando ufficialmente[24] la piena compatibilità con la laicità statale di questo (suo) verso “cooperativo”, nel prefigurare (la stesura di) quel “regime pattizio” di garanzia voluto dal Costituente a pro dello ‘specifico religioso’[25], onde confermare ed “amplificare” la garanzia di base della libertà religiosa, (diversa, giacché) offerta “a tutti senza distinzione”(sentt. 67/2017; 63/2016)[26].
Dalle sottolineature in parola, in ultima istanza, emerge la palese volontà di Papa Francesco di portare l’attenzione sul legame sussistente tra la scelta di partenza – in esame – fatta nell’’84, nel segno della collaborazione interordinamentale - le surriferite ascendenze culturali, ed - il disegno prefigurato dal Costituente rispetto alle dinamiche Stato/Chiesa a venire; mostrando come la prima scelta confermi ed esalti le potenzialità di tale disegno, “incarnando” – segnatamente - i tre presupposti che l’informano, e cioè: a) il ripudio dell’ideologico “esclusivismo sovrano” dello Stato[27], in consonanza con la visione dualistica cristiana[28] (alla base della formula – di cui al detto art. 7, I co. Cost. - della Chiesa indipendente e sovrana nel suo ordine[29], e della conseguente logica della bilateralità[30]); b) l’abbandono dell’ottica del sospetto[31], che insieme alla detta visione monistica, impediva al sistema concordatario del ’29 (definito di “non separazione”[32]) di scorgere l’orizzonte condiviso d’un “bene comune”; c) e infine, l’elevazione a principio generale della regola del previo accordo[33], in un’ottica "dialogico-cooperativa" e di propensione alla deroga a pro dello "specifico religioso", che suffraga il rilievo “capitale” dato dalla Carta alla bilateralità (di rango internazional-concordatario, con l’art. 7, II co., e a quella “analoga ma non identica”[34] propria delle intese con le Confessioni acattoliche, di cui all’art. 8, III co.).
Ma anche questo rilievo del Pontefice, una volta letto nel contesto complessivo del discorso, appare segnalare qualcos’altro. Specie ai “reggitori delle cose civili”, infatti, non può sfuggire che quando il Papa precisa – subito dopo - che è all’inverarsi di questa laicità che si deve l’eccellente “stato dei rapporti nella collaborazione tra Chiesa e Stato in Italia, con vantaggio per i singoli e l’intera comunità nazionale”, l’implicazione (pragmaticamente e giuridicamente) rilevante (sottesa) è che giova prima di tutto allo Stato, oltre che alla Chiesa, che le istituzioni civili seguitino a dare pieno ed effettivo seguito al precetto di cui all’art.1 Conc.. E ciò, prima ancora che in vista dei benefici scaturenti per i consociati, perché è soprattutto in gioco il rispetto, da parte di dette istituzioni, del principio supremo che esprime, in forma “sintetizzata”, il predetto disegno del Costituente repubblicano, i.e. quello di laicità: il quale – come visto – integrando, tra le sue componenti, la bilateralità pattizia, incentiva a fortiori l’osservanza di quest’ultima. Come a dire, in altre, parole, che laddove non fosse assolto, ex parte Status, l’impegno alla collaborazione, il problema preminente sarebbe quello d’un contegno dei pubblici poteri disallineato (non solo rispetto al canone “legale” rappresentato dalla l. 121 del 1985, esecutiva dell’Accordo di Villa Madama, e vieppiù a quello costituzionale che esige il rispetto degli impegni concordatari, ma anche) rispetto al canone supremo dell’ordinamento che sovrintende i rapporti Stato/Chiese[35], nel segno della distinzione ma anche della collaborazione, esattamente come rilevato da ultimo (v. supra) dalla Consulta[36].
A tal proposito, poi, l’annotazione di Papa Francesco aiuta, di riflesso, a segnalare la fallacia di quelle posizioni e/o teoriche, presenti nell’”arena pubblica”, che, ignorando del tutto questa dimensione dialogica della laicità italiana, adottano (talvolta anche inconsapevolmente) un modello “antagonista” alieno alla nostra esperienza, giacchè proprio della laïcité de combat[37], guardando perciò con trepidazione, quando non con aperta ostilità, all’idea di una cooperazione effettiva tra i due “ordini distinti”, ritenendo (sulla base di quell’”ottocentesco” modello) che ogni intervento confessionale, e segnatamente della Chiesa, nella vita sociale venga a rappresentare un’interferenza e/o un’invadenza (negli affari della società civile, ovvero) nell’ordine sovrano dello Stato[38]. E poiché, purtroppo, capita che queste (fallaci e obsolete) suggestioni incidano – nei modi e nei termini più diversi - sull’agire quotidiano della P.A.[39], specie riguardo a fattispecie che concernono la Chiesa cattolica e il suo agire nell’orbita civile, è ancor più utile rammentare che l’errore in cui cadono (dette suggestioni) è addirittura duplice. Esse, infatti, non solo abbracciano – incongruamente – “a monte” una laicità diversa da quella focalizzata dalla Consulta; ma vieppiù ignorano, “a valle”, la fondamentale clausola “esplicativa” dell’Accordo, posta dai previdenti redattori dello stesso, in ordine alla legittimità d’intervento della Chiesa nel ‘temporale’: e cioè la previsione contenuta nell’art. 2 Conc., che, anche in vista del moltiplicarsi delle occasioni di confronto (anzitutto per via della formula di cui all’art.1 Conc.), ha focalizzato quale sia dal punto di vista della Repubblica l'ordine proprio della Chiesa, delimitandone i margini legittimi d’azione concreta nell'ordine “profano”[40], coincidenti con quegli ambiti ove ritenga di dovere svolgere, in «piena libertà[41]…la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione». Una duplice “svista”, questa, che impedisce di scorgere – in altre parole – che l’ordinamento italiano, nell’individuare in partenza la “strada maestra” della cooperazione tra gli Ordini, ha nel caso della Chiesa cattolica segnato con chiarezza (mediante lo strumento normativo pattizio) i “bordi” di questa stessa strada elettiva, oltre che – come visto prima – la destinazione ultima, i.e. la promozione della persona e il bene del Paese. E a quest’ultimo proposito, deve rilevarsi che probabilmente l’art.1 Conc. è venuto a declinare in una prospettiva ecclesiasticistica un obiettivo già figurato, ancorché ellitticamente, dal Costituente: posto che un precetto della Carta non sempre tenuto nell’opportuna considerazione[42], qual è l’art. 4, II co., nell’individuare la finalità ultima dell’ordinamento repubblicano, parla d’un «progresso» [insieme] materiale e spirituale della società», confermando la centralità nella mens costituente dell’idea della cooperazione, quale percorso (reputato) principe per giungere a tale bene/valore[43].
Agli spunti appena posti in evidenza (sui fattori giuridici che sostengono e promuovono detta cooperazione), che derivano (anche indirettamente) dai riferimenti puntuali fatti dal Pontefice, si aggiungono quelli – non meno preziosi – ricavabili dal “corrispondente” passaggio del discorso del Presidente della Repubblica: dove, come s’è anticipato, si segue una falsariga diversa, con un richiamo “generico” all’Accordo (quale “quadro di collaborazione”, senza ulteriori specificazioni), al quale fa – immediatamente - seguito un’esemplificazione “plastica” di questo dinamismo cooperativo, ossia quello registratosi nel 2016, appresso ai disastri sismici nell’Italia centrale. Un rimando breve ma suggestivo, quest’ultimo, volto a sottolineare la crucialità di tale dinamismo sul fronte dell’assistenza prestata alle comunità colpite: dicendo della vividezza della “presenza” della Chiesa in un frangente così difficile della “vita nazionale”; del suo essersi “fortemente impegnata…a fianco delle Istituzioni, per alleviare la sofferenza” di tali comunità; e del suo averlo fatto “in tutte le sue espressioni, dalle organizzazioni di volontariato ai movimenti laicali”. Un’annotazione dal taglio “minimalista”, che pure, a dispetto delle apparenze, giova anch’essa - anzitutto - a dare contezza, pur se indirettamente, della particolare (e crescente) “forza giuridica” del principio di collaborazione: mostrandone, sotto diversi aspetti, l’ampia portata.
In primo luogo perché si pone in luce come detto principio trovi applicazione anche in campi socialmente rilevanti non rientranti in ambiti di disciplina bilateralmente convenuta[44], posto che l’area dell’assistenza (sociale), richiamata nell’esempio, non trova nell’Accordo del 1984 – a differenza di altre - un’apposita normativa-cornice. Come s’è detto prima, infatti, quel che importa è che la cooperazione si attui in un ambito d’azione ove la Chiesa agisce secondando una sua missione propria, giusta l’indicato art. 2 Conc.: cosa che accade nel caso in esame, dove si manifesta quella “caritativa”, che oltre a essere ricompresa nell’elenco contenuto in quest’ultima previsione, rientra notoriamente nell’orbita ecclesiale, per patenti ragioni storico-culturali[45]. E va detto che se l’esempio fatto al riguardo dal Presidente Mattarella brilla per particolare vividezza - non foss’altro che per la vicinanza temporale degli eventi occorsi - non mancano (altri) esempi d’iniziative encomiabili[46], altrettanto recenti, assunte dalla Chiesa nell’ambito assistenziale, sia a livello nazionale, sia a livello diocesano, di cooperazione con soggettività istituzionali, come pure (con quelle espressive) del c.d. ‘privato sociale’[47].
Quest’ultimo rilievo, poi, conduce all’altro profilo evidenziato dalle parole del Presidente, inerente all’estensione anche “orizzontale” che presenta la collaborazione prefigurata nell’Accordo. Il richiamo presidenziale alle diverse “espressioni” del mondo ecclesiale presenti “a fianco” delle Istituzioni, infatti, dà per assodato il superamento (operato nel 1984) della concezione “meramente verticale delle relazioni tra religione e potere politico”, presente nei Patti del ’29, fotografando una realtà dove (all’opposto) non è infrequente – specie innanzi alle emergenze – riscontrare una cooperazione tra società civile e società religiosa scaturente “dal basso”, tra soggettività non istituzionali ma “vitali”, comunque idonee a rappresentare in modo coerente le (rispettive)istanze ordinamentali[48]. Un’evenienza congruente, per molti versi, da una parte con l’assetto dei rapporti Chiesa-Stato post-conciliare, che, riportando l’“actuositas dei laici nelle cose temporali…alla economia dell’ecclesiasticità”, v’individua “una sorta di compito ecclesiastico, [per l’appunto, una] “missio Ecclesiae”)”[49]; e, dall’altra, con le ricadute che su ciascuno dei due ordinamenti ha avuto, e ancora ha – con i debiti distinguo - il principio di sussidiarietà: in quello canonico, rispetto alla sua potenziale fecondità, in ordine alla promozione della “corresponsabilità diretta e personale di tutti i fedeli nel perseguimento delle finalità primarie della Chiesa”[50]; e in quello italiano, col rinnovato ordito costituzionale del Titolo V, là dove (art. 118, IV co.) s’invitano – proprio in nome della “sussidiarietà orizzontale”[51] – i pubblici poteri a (proteggere e) rispettare, per citare il Consiglio di Stato, “lo sviluppo della società civile partendo dal basso,…dalla valorizzazione delle energie individuali, dal modo in cui coloro che ne fanno parte liberamente interpretano i bisogni collettivi emergenti dal «sociale» e s’impegnano direttamente per la realizzazione di…utilità collettive”[52]. Ed è in quest’ottica complessiva, del resto, che si delinea la normativa del “non profit”, con la recentissima conferma riscontrabile nel c.d. Codice del Terzo Settore, (dlgs. 117/2017)[53], votato esplicitamente a sostenere, anzitutto, l’«autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune» (art.1)[54].
Oltre a questi spunti (sulla portata del principio di cui all’art.1 Conc.), direttamente ricavabili dal richiamo fatto dal Presidente della Repubblica al sisma del 2016 e al contestuale slancio solidale di tante “anime” del mondo ecclesiale (attestato anche dai risultati egregi della colletta raccolta dalle parrocchie, su impulso della C.E.I., e della sua finalizzazione, curata dalla Caritas italiana[55]), ne appare – infine - “in penombra” un terzo – anche qui – non esplicitato. Quando, infatti, il Presidente, dopo aver evocato le macerie lasciate dal sisma anche nello “spirito” delle popolazioni, (citando Papa Francesco[56]) richiama la “comune responsabilità” che gravita sui pubblici poteri e sulle autorità ecclesiastiche per sovvenire alle “esigenze spirituali e materiali della comunità”, il pensiero corre ad un fronte particolare del dopo-sisma, ove si stagliano le prime esigenze, ma gravitano anche le seconde, ossia quello attinente alle lesioni (più o meno gravi)[57] patite da moltissime chiese cattoliche costituenti parte del “tesoro” storico-artistico nazionale” e (in quanto tali) funzionali in modo “distinto”, religioso-cultuale e culturale, al benessere spirituale dei cives-fideles; ma anche al prodursi di ricadute (socio)economicamente consistenti, legate, soprattutto, all’attrattività turistica (e al conseguente “indotto”)[58]: un fronte d’intervento, questo, immediatamente teso alla (messa in sicurezza e alla) riapertura di detti edifici alla fruizione pubblica, anzitutto cultuale[59], che ricade giuridicamente nell’orbita concordataria, giacché la materia dei beni culturali – a differenza di quella dell’assistenza – è stata contemplata dal legislatore pattizio, giusta le tre disposizioni raccolte nell’art. 12 dell’Accordo. Ebbene, alla luce dello sforzo interistituzionale particolarmente vivace (e articolato) registratosi (anche) su questo specifico crinale – di cui si dirà tra un attimo – non è poi così sorprendente riscontrare che la direttrice generale prevista nella prima di codeste tre disposizioni sia l’unica (nell’Accordo) ove trovi puntuale applicazione l’impegno a collaborare “nel rispettivo ordine” verso il “bene del Paese” di cui all’art.1 Conc.: rappresentando, ciò, infatti un’ulteriore (riprova e un’altra) sottolineatura della “forza giuridica” che connota quest’ultimo precetto - anche solo, come detto, sul piano dell’incidenza sulla realtà concreta - che non può non trovare, con questa “incorporazione” ad hoc, uno svolgimento particolarmente pieno nel settore considerato. La conferma, del resto, a tale ultimo proposito, si ha leggendo nella sua interezza l’art. 12 Conc. alla luce dei rilievi del Pontefice - dianzi esaminati - sui tratti distintivi dell’art.1 Conc.: avendo così modo di rilevare che questi ultimi tratti, non sorprendentemente, sono presenti anche nello stesso art. 12. Già solo guardando ai suoi due primi commi, infatti, si ha, da una parte, anche qui il superamento dell’indicata prospettiva concordataria del ’29, priva d’un orizzonte comune, visto che le Parti s’impegnano a tutelare tutto il patrimonio nazionale, e non solo quello ecclesiastico (art. 12, I co.); e dall’altra, un’emergente rispondenza in chiave “promozionale” alla laicità italiana, con una similare ricerca d’un confronto “continuo” senza commistioni di competenze (art.12, I co.) e nella logica della bilateralità, a presidio di specifiche esigenze religiose, qui rinvenibili in quelle connesse ai beni di appartenenza ecclesiastica, mediante norme “concordate” d’integrazione e attuazione della legislazione italiana (art.12, II co.[60]): con il “paradigma”, a tale ultimo proposito, rappresentato dall’Intesa siglata nel 2005 dal competente Ministro e dal Presidente della C.E.I.[61], ove, peraltro, è ribadita – all’art.6, V co. – la centralità, all’indomani di eventuali calamità naturali, del tema delle esigenze cultuali[62]; per non dire, poi, delle molte intese stipulate in materia a livello regionale, tra Regioni e Conferenze Episcopali Regionali[63]. E a proposito della C.E.I., è altrettanto suggestivo notare che trova (per molti versi) riscontro anche rispetto all’art.12 il tema della “preveggenza” dell’episcopato italiano (“segnalato” ellitticamente dal Pontefice rispetto all’art.1), se solo si consideri che già dieci anni prima della sigla dell’Accordo, le “Norme” per la “Tutela e conservazione del patrimonio storico artistico della Chiesa in Italia” (1974), dettate dalla stessa C.E.I., contengono il proposito di «promuovere una maggiore intesa con le autorità statali», indicando un doveroso «procedere in armoniosa intesa e mutua collaborazione», nel rispetto «delle rispettive sfere di competenza».
Di tutto ciò, come anticipato, s’è avuto (e si seguita ad avere) piena conferma sul predetto fronte del dopo-sisma, come dimostrano le contingenze della fase (delicatissima) propedeutica alla ricostruzione. Con quattro passaggi cruciali, tra tutti, che focalizzano e comprovano l’ossequio alla regola del previo accordo, nella prospettiva “rafforzata” di un’azione doverosamente “armonica” (delle Parti), e cioè: a) l’iniziativa dell’Esecutivo italiano che, nell’affrontare l’emergenza complessiva mediante decretazione d’urgenza (d.l. 189/2016), a ora di delineare la procedura per la programmazione ed il recupero dei beni del patrimonio culturale, prefigura – già ‘a monte’ – per la componente d’interesse religioso la promozione d’un apposito “Protocollo d’Intesa” con il “rappresentante delle Diocesi coinvolte”[64] al fine di “concordare” priorità, modalità e termini di detto recupero; b) la decisione delle Parti che siglano detto protocollo (nel dicembre del 2016) - i.e. il Presidente della C.E.I., il Ministro competente, e il Commissario Straordinario del Governo per la ricostruzione - d’istituire una “Consulta” ed un “Gruppo di lavoro tecnico permanente”, onde rendere “stabile e continuativa la consultazione e la collaborazione” tra le stesse Parti, e così “affrontare e risolvere concordemente i problemi” scaturenti da detto (specifico) recupero; c) la previsione legislativa posta in sede di conversione d’un susseguente decreto legge (8/2017)[65], che guardando al fine elettivo «di assicurare la continuità del culto», e in parziale deroga al regime posto dalla prima decretazione, consente direttamente agli stessi «proprietari, possessori o detentori delle chiese» interessate dal sisma, ovvero alle «competenti Diocesi», d’effettuare interventi provvisionali mirati a riaprire al pubblico le chiese medesime; d) da ultimo - chiudendosi il cerchio – la recente ordinanza del Commissario Straordinario[66] che, nel focalizzare “l’ulteriore aggravamento delle condizioni di vita delle popolazione colpite” che deriva dall’impossibilità di esercitare il culto, “anche in ragione del particolare significato e del riferimento identitario” rivestito da molti dei templi in questione, e onde far fronte a detto problema, approva (in primis) i criteri programmatici fissati dal (suddetto) gruppo di lavoro di composizione mista, rispetto agli interventi immediati da assumere onde “consentire la continuità del culto”, e (appresso) il primo programma d’interventi stilato dallo stesso[67].
Già solo questa scansione di azioni/decisioni assunte in sedi diverse dalle istituzioni dei due Ordini, in un’ottica cooperativa (e) di difesa d’un patrimonio insieme “ecclesiastico” e “nazionale” (e delle sottese istanze collettive basilari), nel mostrare quanto la collaborazione in parola estrinsechi paradigmaticamente quella per il bene del Paese (e per la promozione umana) di cui all’art.1 Conc., suffraga altresì la validità del pensiero per cui ad instaurarsi nel tempo, per via di questa “regola della collaborazione”, non è solo una sommatoria di contegni necessitati su più fronti in questo (senso e) verso; ma, più in generale, un clima di basilare e tendenziale sintonia, nel quadro d’una affermata cultura della collaborazione che “anche al di là di quanto espressamente prescritto”[68], induce le Parti a ricercare occasioni formali (e non) di disamina delle problematiche emergenti, nell’ottativa, costante ricerca d’una (possibile) soluzione condivisa, sempre nel rispetto rigoroso delle rispettive competenze e responsabilità. Un clima foriero di un’azione in concerto, che diventa decisiva quando si profilano “obiettivi e finalità che da soli” né l’ordinamento della Chiesa né l’ordinamento dello Stato sono in grado di conseguire autonomamente[69]; che si sviluppa anche a livello regionale, con interventi adottati (sovente su base pattizia), in collaborazione con le Conferenze episcopali regionali[70]; e che si apre, in ultima istanza, anche ad iniziative estemporanee di sostegno, in un’ottica prima di tutto di compenetrazione e di vicinanza, riscontrabili ad es. nell’attenzione mostrata dal Pontefice, durante le vicende drammatiche in commento, tradottasi tra l’altro nell’invio di alcune risorse tecniche dello Stato Città del Vaticano, dirette ad affiancare le corrispondenti italiane (segnatamente, un presidio fisso di due squadre di restauratori dei Musei Vaticani[71]; ed una squadra di vigili del fuoco[72]).
2. I giovevoli riflessi di questo consolidamento, in vista del bene comune del Paese. L’esempio dell’azione a difesa del patrimonio culturale chiesastico. il paradigma delle fabbricerie (e del loro regime)
Il fronte del dopo-sisma appena evocato fornisce (più di) un saggio della crucialità dell’inveramento del principio di collaborazione tra Stato e Chiesa per il “bene del Paese”, per i motivi suaccennati, e in generale perché dice d’una “traduzione in fatti” della responsabilità politico-giuridica assunta da entrambi con la posizione di questo stesso principio, profittando delle ampie “possibilità operative” consentite dalla nostra Costituzione[73], e soprattutto del fatto che – come visto – il principio cardine ivi “racchiuso” (ancorché non esplicitato), i.e. quello di laicità, favorisce e promuove - per i motivi prima esposti, a partire dai rilievi di Papa Francesco - lo svolgersi di questo stesso impegno. Un dinamismo politicamente e giuridicamente rilevante, questo, scaturente dall’ottica assunta dalle Parti con la sigla dell’Accordo del 1984, (ossia) da questo “nuovo modo di guardarsi” – evocato nel 2004 dal Segretario di Stato Card. P. Parolin[74] – che – come accennato – ha anche il pregio di tenere lontane le tendenze (mai sopite) a riproporre la “vecchia” ottica del ’29, di concordia solo apparente, ma in verità di reciproca diffidenza, tendente alla (persistente) politicizzazione del ‘religioso’ ex parte Status (con l’àncora, al più, del compromesso), e priva d’un comune orizzonte di sviluppo: tendenza che in materia di beni culturali ecclesiastici, incrociando quella alla politicizzazione in senso “statualista” della cultura (opportunamente respinta dall’art.9 Cost.[75]), nell’ignorare ideologicamente l’apporto cattolico (e così l’evidenza d’un campo ove l’accordo appare necessario[76]), approda ad un Concordato scevro, a differenza dell’attuale, d’una pertinente disciplina[77].
A tal proposito, un tema affiorato nella disamina appena svolta, ossia quello del “riferimento identitario/simbolico” rivestito da alcuni templi d’interesse storico-artistico, suggerisce la possibilità di avere un ulteriore specifico riscontro, stavolta in chiave diacronica, della crucialità dell’inveramento del principio di collaborazione. Un riscontro che può aversi a tal fine mettendo a fuoco i momenti salienti dello svolgersi, dall’Unificazione a oggi, delle vicende giuridiche d’un ente invero peculiare che – opera in questo ambito e - forse più di ogni altro appare costituire il paradigma dell’incontro tra i due Ordini, ossia la fabbriceria: nel suo plurisecolare “gravitare” tra di essi, sempre in connessione con la Chiesa (ancorché non inserito nella sua “costituzione gerarchica”), espletando un’azione preordinata alle finalità religioso-cultuali ma che rileva anche ex parte Status, votata alla conservazione (e al presidio) di consimili illustri edifici ecclesiastici. Una focalizzazione, questa che s’intende compiere, atta, in particolare, a porre in luce il ruolo determinante che – in questa specifica fattispecie - appare rivestire il consolidamento del principio di collaborazione, ossia quella di giovare a una lenta ma costante delimitazione dei margini d’ambiguità che (tradizionalmente) accompagna la delineazione in punto di diritto della natura e dei profili essenziali di quest’antica istituzione[78]: facendo emergere, in particolare, un possibile nesso, indiretto, tra l’avvento dell’Accordo di revisione, l’affermazione del cardine dinamico che lo regge (all’art.1) e il progressivo diradarsi di molte delle “pastoie interpretative”, delle perplessità e dei fraintendimenti registratisi riguardo a detta delineazione, frutto sovente di pregiudizi ideologici, nelle precedenti stagioni delle relazioni tra Stato e Chiesa in Italia.
2.1. Controprove storico-giuridiche: a) i fraintendimenti ideologici e le contraddizioni della stagione liberale (della ‘non collaborazione’)
Quanto all’epoca liberale, la radice di tutti i nodi sta nel disegno politico imperante in materia di enti ecclesiastici: disegno che segue, in sostanza, direttrici già conosciute dal Paese nella stagione napoleonica[79] (l’idea della religione come mero instrumentum regni[80]; il severo contenimento dell’incidenza della Chiesa nella società; un implementato e pervasivo esercizio dello ius inspicendi), e dove in particolare affiora, di tanto in tanto, il compiacimento per la radicale opzione allora adottata nella creazione d’un modello di ente civile di culto, la ‘fabbriceria’, destinato ad assorbire la (personalità giuridica e la rappresentanza della) parrocchia, con ampissime prerogative riconosciute sull’amministrazione del patrimonio ecclesiastico all’elemento laicale e all’autorità governativa. L’idea sottesa, a questo sottaciuto sentimento, è che questa “innovazione” (come capita con altre espressioni della modernità) segni addirittura una “rivoluzione”, indicando tratti lontanissimi dall’ideal-tipo (d’ente) ecclesiastico, ma ormai asseritamente “calzanti” alla fabbriceria.
Ma il vero è che, più semplicemente, s’è (solo) posto un modello del tutto alternativo – che in Italia rimane fortemente circoscritto[81] - a quello di origine assai più lontana, recante affine denominazione, che seguita a essere comunque predominante, e che scaturisce da un lunghissimo processo intraneo alla Chiesa. Un processo, segnatamente, che passa per la razionalizzazione dell’amministrazione delle sostanze ecclesiastiche (e in particolare, nel V secolo[82], per la quadripartizione delle rendite, con una portio devoluta alla fabbrica della chiesa; e la susseguente conversione della stessa portio in onus fabricae), e (più avanti) per l’implementazione dell’apporto dell’elemento laico, con offerte/lasciti anche consistenti erogati a pro del tempio[83], propedeutici alla formazione d’un patrimonio autonomo a sostegno della pertinente azione ecclesiale (di conservazione), amministrato – per l’appunto - da un consilium fabricae[84] a composizione tendenzialmente mista[85]. Quest’effettiva (complessiva) risultanza, tuttavia, non appare congeniale a una visione “monista” come quella che s’afferma nell’Italia unificata – per una serie di ben note contingenze storico-politiche - imperniata sui dogmi giuridici dell’esclusiva sovranità statale[86], dell’altrettanto esclusiva statualità del diritto e della illimitata potestà d’imperio dello Stato[87]. Una visione che appare curarsi poco perciò, ad es., della chiara indicazione che viene dai canoni tridentini[88], sull’indefettibile diritto di vigilanza dell’autorità ecclesiastica in ordine all’amministrazione delle fabricae ecclesiae[89]; o, ancora, ad es. del dato storico delle tensioni anche fortissime che l’intervento governativo (in deroga alla stretta dipendenza della fabrica dall’autorità ecclesiastica) non ha mancato di produrre, con vive proteste della Chiesa[90] e – talvolta - “delle popolazioni”[91]. E che, invece, propende per ricostruzioni (coerenti con un’ottica “esclusivista”), anche giurisprudenziali, ove le dette ‘fabbriche’ sono reputati ormai “fuori d’ogni contestazione…stabilimenti unicamente soggetti alla potestà e giurisdizione laicale”[92], in quanto “laicizzati” dal Potere civile[93]: con evidente spregio delle relative prerogative ecclesiali, (che invece restano, in effetti) logicamente e giuridicamente fondate. Il radicarsi di questi convincimenti - irrorati da un certo clima anticlericale - sortisce poi effetti particolarmente “polarizzanti” quando il tempio curato dalla fabbriceria è una chiesa cattedrale: ossia un bene che – come nel caso, ad es., del Duomo di Milano - molto spesso “esprime simbolicamente e materialmente il segno più riconoscibile d’una determinata comunità”[94]. In questi casi, infatti, non è insolito riscontrare l’insorgenza (addirittura) d’un ulteriore possibile fronte conflittuale, posto che tra le rivendicazioni contrapposte tra la componente statuale e quella ecclesiale, possono profilarsi eventuali aspettative (d’influenza sulla “governance”) da parte del Comune, che in quella chiesa trova identificazione, allegando anche (la memoria di) usi invalsi in passato: come accade, ad es., a Siena all’indomani dell’Unità d’Italia, dove nell’arco di quarant’anni, tra posizioni diametralmente opposte assunte sull’indole dell’Opera della Metropolitana, ora inquadrata come integralmente laicale e del tutto “dipendente” dallo Stato (così il “rettore” della stessa, in una memoria inviata al prefetto nel 1865), ora “essenzialmente religiosa”, alla stregua di un ente di culto (come riporta il parere steso dall’arcivescovo nel 1901 sulla bozza statutaria), fa capolino nel 1890 la decisione della giunta municipale di nominare un’apposita commissione per lo «studio della questione se l’Opera Metropolitana dipenda e per quali atti dal Comune di Siena»[95].
Guardando le cose da una prospettiva più ampia, va detto che il tendenziale irrigidimento che anima la descritta visione (nella difesa “dogmatica” delle prerogative statali), che informa (politicamente) un approccio riottoso all’ascolto della controparte ecclesiastica, e (giuridicamente) una generica propensione a prescindere dalla tradizione canonistica, nel caso specifico delle fabbricerie, proprio perché ideologicamente informato, (mostra tutti i suoi limiti e) s’infiacchisce quando si tratta di procedere in sede legislativa: emergendo l’evidenza dei fatti – segnalata da una dottrina d’inizio ‘900 – che “lo scopo che serve a qualificare l’ente è [comunque, indubitabilmente] d’indole ecclesiastica”[96]. Un “fiato corto” che si appalesa pienamente con l’altalenante e contraddittorio trattamento che le fabbricerie stesse conoscono sotto le leggi eversive: le quali, da una parte, infatti, a differenza di altri enti ecclesiastici secolari, non incontrano il triste destino della soppressione[97], in nome –anzitutto- delle esigenze cultuali a cui esse sono mediatamente serventi, e dunque di un’unilaterale valutazione ex parte Status della loro utilità sociale; d’altronde soggiacciono alla conversione forzosa dei beni in rendita pubblica[98] ed al pagamento della “quota di concorso”[99], come accade per tutti gli enti ecclesiastici: per paradosso, sempre per via della considerazione della predetta finalità (mediatamente) svolta, che – nell’inquadrarle adese alla Chiesa[100] - le fa ricadere comunque in quel novero. Contraddittori e singolari risultati, questi del legislatore liberale, che mostrano tutti i limiti del sentiero “unilateralista” che ha imbracciato, volgendo le spalle alla soluzione concordataria (che pure un filone di pensiero cattolico-liberale invece approva[101]), specie appresso al 1870-1871 (i.e. con la debellatio dello Stato pontificio e con la Legge delle Guarentigie, unilaterale snodo della Questione Romana mai accettato dalla S.Sede in quanto tale, cioè unilaterale, e in quanto privo d’un qualsiasi riconoscimento della sua sovranità[102]). Una soluzione pattizia, quella respinta anche solo in prospettazione, che - seppure in quel momento storico ancora priva dell’ampia portata dei pacta cooperationis a venire –, nel suddividere i rispettivi campi d'interesse (nelle c.d. materie miste), avrebbe giovato perlomeno, per mutuare le parole di Pio XII, a “sottrarre nel campo degli accordi presi le materie in esso regolate all’interpretazione unilaterale e legislativa dell’una e dell’altra parte”[103].
2.2. b) la Conciliazione e i perduranti fraintendimenti insiti nelle nuove soluzioni ‘di compromesso’ (la stagione della ‘collaborazione non effettivamente ricercata’)
Alla luce di quanto appena rilevato, sarebbe stato lecito attendersi dall’adozione d’una soluzione finalmente bilaterale lo scioglimento dei nodi che attengono alla materia in commento. Ma, com’è intuibile, la Conciliazione fa – per molti versi – storia a sé.
Quel che è singolare, è che non mancherebbero – a una prima, fuggevole vista – le premesse per un esito completamente diverso, alla luce di due grandi novità che nel decennio precedente sommuovono il quadro di partenza. La prima concerne l’attitudine mutata dell’Ordine civile, che s’apre progressivamente all’interlocuzione: con un primo – infruttuoso - tentativo di conciliazione negli ultimi anni dell’esperienza liberale[104]; e con la politica legislativa adottata (unilateralmente) dal Regime fascista a pro della Chiesa[105], che culmina con l’insediamento da parte del Guardasigilli Rocco d’una Commissione governativa (1925) in vista d’una riforma della “legislazione ecclesiastica”, che principia i lavori sottolineando (per bocca dello stesso Guardasigilli) il danno derivante all’Italia dal perdurare del conflitto Chiesa-Stato. La seconda novità riguarda l’ordinamento canonico, dotatosi nel 1917 d’un Codice sul modello di quelli più recenti statuali[106], che (già) in generale promuove – anche in ambiti profani – una più agevole presa di coscienza della normativa della Chiesa; e che, in particolare – per quel che interessa in questa sede – contempla espressamente le fabbricerie, destinandovi un’agile regolamentazione, diretta sopratutto a garantire la loro dipendenza dall’autorità vescovile - anche alla luce del suo esplicitato diritto di visita e controllo - e a circoscrivere il loro ambito di operatività[107], escludendo segnatamente ogni ingerenza “in ea omnia quae ad spirituale munus pertinent” (can. 1184). Due novità, quelle indicate, che sortiscono effetti – rispettivamente - tangibili, con la prima che fa da pedina di lancio verso le trattative concordatarie (giusta l’implicita indicazione di Pio XI, riportata negli Acta Apostolicae Sedis[108], nel senso della irricevibilità del predetto progetto unilaterale di riforma, in difetto di «convenienti trattative e legittimi accordi», anzitutto sul tema della “questione romana”); e la seconda che mostra quanto l’“arduo compito”[109] della codificazione canonica sortisca effetti giovevoli, di riflesso, in queste medesime trattative, nella specifica tematica qui in esame: segnatamente, nell’agevolare la parte ecclesiastica a presentare uno schema generale ove far pesare, rispetto alla tematica delle “chiese aperte al pubblico”, la normativa codiciale sulle fabbricerie; e addirittura a ipotizzare, in coerenza con l’indole “ordinatoria” che ispira ogni attività codificatoria, un “tipo unico” (ossia standardizzato) di statuto delle fabbricerie, “concordato tra le due Alte Parti”, da annettere al Concordato[110]. E il giovamento ultimo, per il vero, è percepibile anche appresso alla Conciliazione, con la cancellazione, per un verso, delle (surriferite) leggi eversive[111]; e, per altro verso, per la definitiva previsione concordataria sulle fabbricerie (art. 29, lett.a, cpv., Conc.), che pur se “meno ambiziosa” rispetto a quella “prefigurata” nell’anzidetto schema generale, mostra di tener conto del Codex:direttamente, nel riaffermare la regola della “non ingerenza” nei «servizi di culto»; e indirettamente, cogliendo lo sfavore ivi “sotteso” per gli interventi esterni nell’amministrazione dei templi, che, bilanciato col “differenziato retaggio delle tradizioni preunitarie”[112] (ossia delle riferite deroghe al principio della dipendenza dalla sola autorità ecclesiastica “tollerate” obtorto collo dalla Chiesa[113]), conduce al “compromesso” della nomina dei componenti “d’intesa con l’autorità ecclesiastica”.
Eppure, com’è già chiaro ai commentatori dell’epoca, l’assetto definitivo della materia che deriva dal descritto riordino non vale a sgombrare il campo da taluni equivoci di fondo. Ed il problema a monte è un “vizio di fondo” che grava in generale sul Concordato lateranense: quello cioè d’essere una normativa figlia d’un approccio ex parte Status che in realtà, a dispetto dell’intendimento declamato, del sorpasso della stagione pregressa, resta parimenti adeso al mito dell’esclusivismo statale, solo diversamente declinato nel senso “fideistico” – tracciato da Gentile - della statolatria[114]. Da qui, un approccio che (dunque) solo a parole professa la rinuncia «a qualsiasi gara di preminenza»[115], e la volontà d’instaurare un “regime di concordia e di collaborazione»[116], teso a una «feconda cooperazione»[117], verso il «fine comune [del] bene della popolazione»[118]. Quando il vero è, invece, che per chi tira (davvero) le fila della politica ecclesiastica fascista[119], i.e. il nazionalista Rocco, in quanto alfiere della statolatria[120] non v’è gara (sì, ma solo) nel senso che non può esservi, per la mancanza (ideologica) d’un vero competitore dello Stato, giacché seguita a scorgere nell’interlocutore, più che altro, un’organizzazione che si viene a sottoporre alla sovranità politica dello Stato; e dunque l’elettivo autentico fine del regime pattizio appare concentrarsi, per assurdo, nella sua stessa adozione, e non nel suo dispiegamento: (solo) come tappa necessaria ed inevitabile, cioè, del (duplice) baldanzoso disegno, che Rocco coltiva, d’una progressiva dominazione statale “su tutte le forze esistenti nel Paese”[121], e d’un esponenziale incremento (della forza e) del prestigio dell’Italia sulla scena internazionale[122]. Una strumentalizzazione/politicizzazione del Concordato, come in fondo dell’intera materia religiosa, che Mussolini condivide vieppiù (agognando di accreditarsi presso gli Italiani come amico della cattolicità[123]), e che traspare in sede di discussione dei d.d.l. per l’esecuzione degli accordi quando da una parte afferma che lo Stato italiano “deve essere e non può che essere cattolico”[124]; salvo poi, in un acceso discorso alla Camera (13 maggio 1929), esplicitare (il suo vero pensiero e cioè) che questo stesso Stato “è cattolico ma è fascista, anzi è soprattutto, esclusivamente, essenzialmente fascista”; soggiungendo – in perfetta linea col pensiero del Guardasigilli – che “nello Stato la Chiesa non è sovrana e non è nemmeno libera”[125].
Orbene, come anticipato, questo “vizio di fondo” del regime lateranense intacca anche – in particolare – la materia “degli istituti e della proprietà ecclesiastica”, nel senso che – com’è esplicitato chiaramente in sede parlamentare - le modifiche introdotte in senso parzialmente favorevole alla Chiesa costituiscono solo “un modo meno rigoroso di riguardare la Chiesa e gli istituti ecclesiastici”[126] (rispetto all’epoca liberale), senza che le stesse implichino il riconoscimento – a monte - d’un potere paritetico, o che individuino perlomeno, quanto agli “istituti”, un’autonoma categoria sottratta per davvero al diritto comune[127] (talché l’unica rilevante novità – quale tollerabile strappo alla nozione della dominanza statuale – è data dalla possibilità che entità non “direttamente dipendenti dallo Stato”[128]acquistino la personalità giuridica[129]).
Quest’indirizzo, determinando – a valle – un’assenza di compenetrazione delle istanze (connesse alle peculiarità) dell’ordinamento canonico, allorché traslato nello specifico della nuova previsione dianzi esaminata sulle fabbricerie (ossia l’art. 29, lett.a, cpv. Conc.), significa – in sostanza - che i vecchi convincimenti ex parte Status su tali istituzioni, a dispetto delle apparenze, non sono in effetti mutati: e che pertanto le innovazioni (presenti nella previsione) conformi al Codex del ’17 non intendono – in sostanza – rispecchiare davvero la ratio protettiva delle specifiche istanze ecclesiali che detto Codex ovviamente presuppone;quanto piuttosto – più blandamente, in chiave politica - stendere una normativa “conciliante”, temperando le asprezze della legislazione eversiva, perpetuandone, però, le idee (di fondo) sulla centralità esclusiva dell’orbita statale, e l’annessa propensione ad indulgere agli antichi schemi giurisdizionalisti[130]. Tant’è che quando si riunisce per la prima volta la Commissione mista chiamata a predisporre l’esecuzione del Concordato (11 aprile 1929), l’unico dibattito che si apre (in quella seduta) è – ancora una volta – (quello) sulla natura delle fabbricerie, ove riemergono –talvolta “aggiornati”[131] - i medesimi argomenti confliggenti riscontrati in epoca liberale, sulla loro indole ecclesiastica. Manco a dirlo, in questa come nelle successive sedute, spicca la ferma opinione di Rocco (che presiede la Commissione) il quale, ovviamente (alla luce di quanto detto prima), nega quell’indole, ritenendo – con dogmatica auto-convinzione – che le stesse “traggano origine unicamente dalle leggi civili”, e che addirittura latiti un pertinente “riferimento” alle leggi della Chiesa”[132]. Con l’inevitabile esito finale rispecchiato dagli artt. 15 e 16 della l. 848/1929: e cioè un’altra soluzione di compromesso, per cui si ribadisce il concetto cardine dell’art. 29 lett. a, cpv, estendendo – in più - la soluzione della “collaborazione bilaterale” tra le competenti autorità dei due ordini (oltre che alle nomine, altresì) al profilo delicatissimo della vigilanza e della tutela sull’amministrazione delle «chiese aventi una fabbriceria». E dell’incidenza delle valutazioni “perentorie” di Rocco (e del loro carico ideologico) se ne ha una probabile ulteriore conferma con quanto accade appresso, rispetto alla pertinente normativa d’esecuzione dell’anzidetta legge n. 848/1929: visto che la prima, esitata ‘a strettissimo giro’ (R.D. n. 2262/1929, artt. 33-49) - per l’“uniforme e organica” regolamentazione della “natura giuridica, [de]i compiti, e [del]l’ordinamento” delle fabbricerie – viene radicalmente riveduta nel giro d’appena un lustro, nel dicembre 1935, quando – si noti – son trascorsi solo quattro mesi dalla dipartita dell’ex Guardasigilli (già comunque da prima uscito di scena). Dove il fatto notevole sta nel motivo essenziale di questa revisione (di cui al R.D. 2032/1935), ossia, come rimarca una severa Circolare ministeriale[133], il problema dato dall’imprecisa formulazione e il contenuto ambiguo della precedente, fonte di “dubbi e incertezze” (ingenerati) in dottrina e in giurisprudenza tali da richiedere – per l’appunto – l’adozione di un nuovo regolamento. E la mitigazione che quest’ultimo riflette, delle ideologiche allegazioni “a senso unico” di Rocco, in ispecie a negare l’apporto canonistico, sta tutta nella precisazione del redattore della stessa Circolare, per cui il novellato articolo d’apertura (art.33), reca ora non solo una “netta” precisazione dei compiti degli enti in parola, ma soprattutto una riconduzione degli stessi “nei limiti fissati dalla tradizione millenaria e confermati dal Concordato”.
2.3. c) la “consacrazione” nel 1984 del principio di collaborazione (già “emergente” dalla Costituzione repubblicana), il suo consolidamento nel tempo e il conseguente diradamento dei fraintendimenti (e delle remore) del passato
Gli spunti sintetici appena forniti sul sostrato ideologico che muove la parte statale all’adozione del regime lateranense (nel segno d’una collaborazione “dichiarata” ma non ricercata; e d’un monismo che tollera autolimitazioni solo in chiave strumentale/politica), riflesso paradigmaticamente nell’approccio seguito in materia di enti, e, segnatamente, di fabbricerie (con una propensione agli schemi giurisdizionalistici, temperati per compromesso), confermano la già accennata distanza abissale che separa la “filosofia” di quelle norme pattizie dallo “spirito” vitale che anima mezzo secolo più tardi, le “nuove” (corrispondenti) direttrici. Uno spirito corroborato, come visto, da una prospettiva radicalmente innovata della dialettica Chiesa-Stato, che l’Accordo riflette nell’assumere quali principi ispiratori – nel Preambolo - quelli del Vaticano II, da un lato, e della Carta costituzionale, dall’altro: con l’ulteriore corroborazione data dalla singolare “convergenza” di detti principi[134], nel figurare i primi l’optimum d’una collaborazione tra due autorità autonome e indipendenti impegnate – a titolo diverso - a pro della persona umana e del bene comune, in una cornice atta a garantire pienamente la libertas Ecclesiae; e i secondi un’attitudine statale confacente a(d accedere a
Dell'Oglio Marco
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