Constitutional transitions beyond the State. Some juridical and conceptual reflections

Le transizioni costituzionali oltre lo Stato. Qualche riflessione giuridica e concettuale

31.01.2023

Paolo Costa*

 

Le transizioni costituzionali oltre lo Stato.

Qualche riflessione giuridica e concettuale**

 

English title: Constitutional transitions beyond the State. Some juridical and conceptual reflections

DOI: 10.26350/18277942_000103

 

«Oggi l’Alpe risfolgora, almeno per buona parte, nel sole, libera dai vecchi tiranni; è libero il mare, da Porto Said a La Valletta, da Panama a Gibilterra; e le terre anche loro son libere, salvo alcuni scampoli come le colonie francesi e inglesi, e il campicello di Monroe, chiuso da un leggiadro filo spinato»

(Carlo Emilio Gadda)

 

Sommario. 1. Il dibattito intorno alla nozione di transizione costituzionale, tra nova et vetera. –2.Il πλεμος nascosto. – 3. Transizioni praeter ius. – 4. L’attualità postmoderna di una dottrina moderna. – 5. Il confine.

 

1. Il dibattito intorno alla nozione di transizione costituzionale, tra nova et vetera

 

La letteratura giuridica in materia di transizioni costituzionali denota anzitutto un notevole sforzo definitorio[1].

In effetti, pare che per essa il principale problema sia stato anzitutto attribuire un significato giuridico ad una locuzione che con molta probabilità non è nata ab origine nel lessico del diritto costituzionale. Quella di transizione costituzionale appare piuttosto come una species di transizioni più ampie che la comprendono (si pensi all’«epoca di transizione» di cui parla Auguste Comte sviluppando la concezione storica di Saint-Simon[2]). Probabilmente, si è innanzi alla specificazione giuridica di un concetto sorto nell’ambito della (o almeno di una) filosofia della storia e fatto proprio dalle scienze sociali e politiche. Per conseguenza, queste ultime hanno spesso guardato alle costituzioni come all’epifenomeno giuridico di svolte sociali e politiche “epocali” (si parla – anche se nella declinazione di Verfassung e non di Konstitution – di costituzione romana, di costituzione del medioevo, di costituzioni rivoluzionarie, di costituzioni della società industriale, etc.)[3].    

A far data dalla Rivoluzione francese, nella dottrina costituzionalistica i fenomeni sottesi al concetto di transizione vengono usualmente ricondotti al quadro teorico della dottrina del potere costituente e conseguentemente sussunti sotto la relativa dogmatica. La transitorietà vi appare più che altro come un ancillare aspetto tecnico bisognoso di principi e regole che risolvano i problemi giuridici posti dall’interregno tra regimi politici che si susseguono. Nelle vicende dell’ordinamento repubblicano italiano, ad esempio, la transitorietà si rinviene, esplicitamente, nelle disposizioni transitorie e finali della Costituzione; nonché, implicitamente, nel problema teorico della continuità dello Stato e del suo ordinamento giuridico ed in quello, speculare, dell’incostituzionalità sopravvenuta. Studi specifici sono stati altresì dedicati al valore giuridico ed ermeneutico dell’ordinamento provvisorio[4].

Innanzi a questa prospettiva dogmatizzante, non stupisce che gli studi comparatistici, chiamati a comprendere e classificare esperienze di transizione assai eterogenee, abbiamo almeno parzialmente attinto anche all’empiria e al lessico della scienza politica[5]. Non stupisce poiché quella specifica dogmatica è anzitutto eurocentrica e legata all’epoca delle rivoluzioni borghesi, le quali teorizzavano la costituzione come prodotto della volontà di quella che giudicavano la valentior pars della società, il terzo stato, coincidente, in una sineddoche politico-giuridica, con la nazione stessa[6]. Non sempre, dunque, è una dogmatica che riesce utile per spiegare esperienze costituzionali di diversa derivazione storica e ideologica (quali quelle di ordinamenti non secolarizzati o di caratterizzazione non borghese)[7].

E tuttavia pare che per sfuggire all’angustia concettuale della dogmatica costituzionalistica si rischi, per converso, di fare riscorso ad una nozione troppo ampia e sfumata (come sembra testimoniare la vasta tassonomia che la interessa). Quella di transizione costituzionale potrebbe rivelarsi una nozione che fatica a farsi paradigmatica; che, altrimenti detto, fatica a distaccarsi dalla prasseologia descrittiva di fenomeni storici e ad approssimare un qualche tipo giuridico – weberianamente – ideale ed esprimente forza discretiva.

Tali difficoltà derivano dalla natura stessa delle fasi di transizione.

In esse riemerge in modo proteiforme il “politico” e la sua conflittualità. Di questa conflittualità è intrisa la consolidata concettualità teorico-statuale e teorico-costituzionale sorta nella modernità europea[8], la quale per conseguenza non ha avvertito alcun pudore lessicale in proposito. Essa nasce da subito come una concettualità “polemica”, fatta di parole intransigenti quali rivoluzione, potere, sovranità, dittatura, colpo di stato. 

In mancanza di tale concettualità, e in conseguenza di tali parole, molto del lavoro classificatorio fatica ad afferrare quel sostrato conflittuale che nelle fasi di transizione riemerge in modo carsico, mettendo in questione le forme giuridiche.

Innanzi a questa riemersione, un concetto come quello di transizione costituzionale esibisce una Wertneutralitæt (scientificamente ricercata, fino all’espressa teorizzazione di una vera e propria transitology[9]) che gli imprime una torsione irenica. Vi è quasi un parallelo con la qualificazione di intermédiaire che la storiografia giuridica assegna al droit compreso nella fase che va dal 1789 al 1799, con l’effetto (e forse l’intenzione) di svalorizzarne la portata rivoluzionaria[10].

Ma proprio in ragione di tale torsione irenica, il concetto di transizione costituzionale non riesce a cogliere fino in fondo la realtà del conflitto; realtà che d’altra parte non può ignorare, dacché, come si è detto, esso è costitutivo della sua essenza.

E così, da irenico che si vorrebbe, il concetto di transizione costituzionale, se non voleva smarrire ogni presa sulla realtà, non poteva non farsi a sua volta, e suo malgrado, un concetto anche polemico. Esso, in effetti, ha ormai assunto una declinazione tutt’altro che neutrale. Per transizione costituzionale si intende prevalentemente, in modo più o meno espresso, il passaggio da un regime politico giudicato autoritario ad un regime politico giudicato democratico e liberale: «l’evoluzione di un ordinamento che si affranca da un regime non democratico per produrre una democrazia diviene allora “la” transizione, in via antonomastica»[11]. Quasi sulla falsariga dell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, il concetto si è fatto finanche prescrittivo: in ultima analisi, sembra aversi transizione costituzionale solo laddove si affermino regimi politici in cui siano rinvenibili i tratti del costituzionalismo liberale. Le transizioni interessano solo, e selettivamente, la Konstitution e non la Verfassung.

Sul piano lessicale, vecchi termini vengono sostituiti da un nuovo termine decisamente più neutrale («transizione» non ha neppure lontanamente la carica polemico-politica, ad esempio, di «rivoluzione»). Sul piano contenutistico, tuttavia, tale neutralità viene meno.

Questa dialettica parzialmente contraddittoria tra significante e significato, e la conseguente ambivalenza del concetto di transizione costituzionale, è probabilmente il riflesso del sovrapporsi, nello svolgersi dei processi di transizione, di diversi spazi politici. 

 

2. Ilπλεμοςnascosto

 

Raramente le transizioni costituzionali si riferiscono ad un singolo Stato. Riguardo ad esse si parla comunemente di “ondate” (declinate in particolare come ondate di democratizzazione[12]). Normalmente coinvolgono più Stati collocabili in una medesima area geografica e politica di riferimento (si parla di transizioni a proposito dell’Europa orientale, dell’America latina, del Medio Oriente).

Tale contestualità non può certo essere considerata casuale. E tuttavia il fenomeno delle ondate di transizione sembra venire spiegato, anche solo implicitamente, come l’effetto di una diffusione di valori o – per usare un’espressione propria della comparazione giuridica – di una circolazione di modelli[13]. Ora, si tratta di spiegazioni che aspirano scientificamente e descrittivamente ad individuare regolarità giuridiche; ma che proprio per questo, forse, non sempre riescono a dare conto di realtà, per così dire, irregolari. Registrano esiti che le regolarità fanno apparire come scaturiti da processi deterministici, impersonali.

L’interrogativo è se ciò sia, oltre che senz’altro necessario, anche sufficiente. La risposta potrebbe essere negativa, proprio in ragione della dimensione territoriale delle transizioni.

Per dare conto di queste ultime, si continua a ricorrere più o meno esplicitamente a schemi volontaristici che trovano il proprio locus naturale nello spazio politico dello Stato nazionale (individuando ad esempio nelle élite nazionali piuttosto che nel popolo gli agenti della transizione[14]). Non sembra però che la riflessione giuridica si attardi molto nella ricerca di volontà che agiscano dal di fuori di tale spazio politico; essa si attesta piuttosto su comprensioni oggettivistiche (l’“ondata”, per l’appunto). Quando l’attenzione viene rivolta a soggetti terzi rispetto allo Stato nazionale, si riguarda essenzialmente alle funzioni esercitate dalle istituzioni internazionali e sovranazionali (secondo un approccio istituzionalistico alle relazioni internazionali)[15]. Sembra invece essere trascurato il ruolo esercitato ab externo dalle potenze nazionali (come richiederebbe invece un approccio anche realistico alle relazioni internazionali)[16].

Ma se di ondate si tratta, e di ondate politicamente e culturalmente omogenee e geograficamente circoscrivibili, allora è forse più appropriato collocarle entro la logica dei grandi spazi. È questa – com’è noto – una logica lato sensu geopolitica, che non cela il πόλεμος dei rapporti interstatali ed anzi si fonda su di esso e proprio in esso trova la propria regolarità ed infine (in una «prospettiva post-statuale» ma non anti-statuale, portatrice di un nomos imperiale[17]) la propria giuridicità.  

La sagoma dello Stato nazionale appare effettivamente troppo angusta e dogmatizzante per dare conto dei diffusi processi di transizione; troppo ampia ed indeterminata, invece, l’immagine dell’ondata. Di qui, probabilmente, la strutturale ambivalenza del concetto di transizione costituzionale di cui si diceva sopra.

Al netto della volontà formale delle istituzioni internazionali e sovranazionali, pare quasi che i fenomeni di transizione siano espressione di un qualche oggettivo spirito del mondo fatto poi proprio dalle volontà politiche nazionali. È questa tuttavia una forma di spersonalizzazione che istintivamente insospettisce il giurista[18], il quale per sua formazione vede agire nello spazio internazionale, su un piano di parità, personae publicae dotate di una propria Wille zur Macht, la quale, almeno a far data dalle prime grandi sistematizzazioni del diritto internazionale realizzate nel XVI secolo, trova fondamento e al contempo limite giuridico nello ius ad bellum e nello ius in bello. Laddove tale rappresentazione egualitaria dei rapporti internazionali venga messa in discussione prescindendo dalle forme giuridiche del diritto internazionale e appellandosi ad ireniche immagini del mondo (che narrano ad esempio di una storia giunta al suo compimento), allora è facile scorgere i segni – per usare una parola “discretiva” – dell’egemonia.

Non è del tutto persuasiva la strada di un qualche ossimorico determinismo spirituale. A fondamento delle aspirazioni universalistiche è frequente il richiamo all’ideale pace perpetua di Kant. Ma la comprensione odierna sembra piuttosto ispirata da una forma di immanentismo hegeliano. E per Hegel, occorre rammentarlo, lo spirito oggettivo non aleggia sulla storia ma nella storia, e nella concretezza nientedimeno di un popolo cosmostorico[19] (il quale, per bene intendersi, ai tempi in cui il filosofo scriveva i propri Grundlinien aveva edificato l’Europa liberale non senza avvalersi delle baionette napoleoniche).     

Simili letture oggettivistiche, allorquando si siano spinte oltre la constatazione del presente, spesso sono destinate ad essere smentite dalla storia stessa. Al principio del Novecento, in pochi avrebbero detto che l’Europa liberale sarebbe tornata a tremare «davanti ai fasci romani e al passo cadenzato delle legioni»[20], o che l’impero sovietico si sarebbe sfaldato in un torno di tempo tutto sommato breve[21]. E un ritorno di conflitto tra Occidente e Medioriente ha subito spento gli entusiasmi di chi celebrava la fine della storia[22].

Insomma, il diritto deve certo andare in cerca delle proprie regolarità, ma occorre prudenza nel seguire concezioni che sterilizzino allo sguardo scientifico il ruolo del potere (nella accezione prasseologica di Macht e non in quella giuridica di Herrschaft) e il suo agire occasionale, opportunistico: irregolare. Ciò affinché l’aspirazione all’empirismo descrittivo non esiti, oltre le intenzioni, in un irrealismo giuridico.  

La circolazione di modelli (nel caso delle transizioni, la circolazione di forme di Stato), del resto e per inciso, è un caso di isomorfismo organizzativo; e, come si è tentato di mostrare altrove[23], il fenomeno isomorfico poggia sempre su un Weltbild; e il Weltbild è sempre implicato con la legittimazione del potere.      

In questa diversa prospettiva occorre forse, allora, domandarsi quale agente sia il fattore di un’omogenea ondata di transizioni.

 

3. Transizioni praeter ius

 

Le transizioni possono essere guidate dalle istituzioni internazionali in funzione di pacificazione di una zona di conflitto[24]. La maggior formalità di tali processi non deve tuttavia indurre a pensare che in essi non abbia un peso determinante il ruolo delle potenze nazionali. Basti solo rammentare il riconoscimento del potere di veto in capo ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Sembrano più rilevanti, in effetti, fattori di transizione meno formali.

Questi possono essere ricondotti essenzialmente a due, e tra loro reciprocamente interferenti. Il primo è l’azione di condizionamento culturale (il celebre soft power) di Stati nazionali geopoliticamente egemoni. La propaganda e il “Kulturkampf” sono sempre attivi e, in tempi di comunicazione digitale, sempre più pervasivi. Il world wide web ha aperto un nuovo spazio (ancorché virtuale) di conquista politica, in cui si dispiegano sforzi contrapposti di creazione e di polarizzazione del consenso. Sono ormai di uso corrente le relative espressioni di conflitto: fake news, hate speech, etc. Il secondo e l’azione dei grandi attori privati, economici e tecnologici, del processo di integrazione globale (poggiante sull’irresistible empire dei consumi[25]). La disintermediazione indotta dalle grandi concentrazioni di potere economico nei settori della logistica e del digitale sono una realtà globale di cui ognuno fa esperienza quotidiana. Attraverso essa circolano stili di vita, bisogni e domande di consumo in grado di incidere sulle preesistenti identità culturali, decostruendo e ricostruendo conseguentemente i relativi ethos politici.

Sembra invece recessiva, ad oggi, l’ipotesi dell’intervento militare diretto. L’azione militare prende più spesso le forme dell’intervento indiretto del terzo interessato nell’altrui politica interna (lo scenario mediorientale, ma di certo non solo, ne è un plastico esempio).

Se dunque all’origine delle ondate di transizione non vi sono anzitutto istituzioni internazionali e sovranazionali, né gli Stati nazionali nelle forme del diritto internazionale classico, occorre prendere atto che le transizioni si muovono essenzialmente praeter ius. È allora necessario riguardarle attraverso la magmatica prospettiva della fatticità.

 

4. L’attualità postmoderna di una dottrina moderna

 

Ex facto ius oritur. L’antica massima esprime l’insopprimibile fatticità del diritto, che nel fatto ha la sua origine e al fatto deve tornare, se vuole riuscire a plasmare in qualche misura la realtà su cui insiste[26].

In proposito si sono sviluppate molte e importanti teorie già tra Ottocento e Novecento (basti rammentare le opere di François Gény e Gustav Radbruch, che hanno tematizzato la rilevanza ermeneutica della «natura della cosa»; o quella di Georg Jellinek, che ha teorizzato la normative Karft des Faktischen). In piena epoca attuale, tale fatticità è stata scorta, sullo sfondo di una lettura postmoderna non priva di affascinanti suggestioni neomedieviste, nel cosiddetto diritto della globalizzazione[27]. Quanto ai rapporti internazionali, è innegabile che essi, al netto delle condivisibili tensioni ideali che vi si oppongono, siano gravati dal peso determinante dei sottesi rapporti di forza. Nel corso del Novecento vi è chi è giunto persino a condizionare l’intero diritto internazionale pattizio alla clausola rebus sic stantibus[28]

Ora, tornando alle transizioni costituzionali, come si diceva in apertura le non secondarie difficoltà definitorie che incontra la scienza giuridica derivano dal carattere fatalmente dogmatico di questa, che l’ha infine indotta ad avvalersi dell’idealtipo rappresentato dalla nozione di costituzione in senso prescrittivo. Ciò che precede il momento epifenomenico della formalizzazione dei testi costituzionali sembra invece poter essere colto al più attraverso una tassonomia empirica di realtà a questo punto solo fattuali.

Forse un simile esito scientifico era almeno in parte preconizzabile attingendo allo sviluppo novecentesco della stessa dottrina del potere costituente, in particolare nella paradigmatica riformulazione di Raymond Carré de Malberg. Il maestro francese, nella propria teoria dell’organo e sullo sfondo di un approccio complessivamente positivistico del diritto, non esita a liquidare come «illogique»[29] la primigenia formulazione della dottrina del potere costituente, quella risalente a Sièyes, poiché non si darebbe un diritto «antérieur à l’État», e per conseguenza «la formation initiale del l’État, comme aussi sa première organisation, ne peuvent ètre considérées que comme un pur fait, qui n’est susceptible d’être classé dans aucune catégorie juridique, car ce fait n’est point gouverné par des principes de droit»[30]. È qui tracciato un confine invalicabile alla scienza giuridica: «il n'y a point de place dans la science du droit public pour un chapitre consacré à une théorie juridique des coups d'Etat ou des révolutions et de leurs effets»[31].

La fatticità del momento che precede la formale procedura costituente escluderebbe la possibilità di una classificazione secondo categorie giuridiche. Una diversa comprensione rischierebbe di essere considerata un anacronismo giusnaturalistico (poiché sono proprio il giusnaturalismo razionalista e il relativo contrattualismo a fare da premessa teorica alla dottrina classica del potere costituente).

Sicché, in ultima analisi, la dogmatica giuridica appare inservibile. Si presenta così nuovamente il problema di rinvenire regolarità empiriche (con il conseguente effetto oggettivante ed impersonale di cui si diceva sopra) per tentare di dare una forma, o almeno un nome, all’informe “fatto” che sembra abbracciare il momento della transizione.

Ma se così stanno le cose, se ne trae che forse la fatticità delle transizioni andrebbe analizzata anche dai giuristi con maggiore spregiudicatezza critica e audacia concettuale e sistematica. La storia della scienza giuridica, del resto, è anche una storia di grandi sistematizzazioni scientifiche operate non di rado nel vacuum dei formanti legislativi. Il rischio, altrimenti, è quello di indulgere ad una sorta di “fallacia empirista”, che registra i rapporti di forza e ne fa già in qualche misura il nuovo diritto. Per questa via, lo sforzo di dare un senso giuridico al concetto di transizione costituzionale rischierebbe di risolversi in danno dello stesso concetto di costituzione, esponendo la costituzione giuridica al pericolo di degradare a Stück Papier innanzi ai rapporti di forza reali, smarrendo ogni forza normativa[32].

Va da sé che per non tornare al problema di partenza (la contraddizione – propria della nozione di transizione costituzionale – tra un significante neutrale e un significato polemico), ogni transizione costituzionale va considerata nella concretezza del proprio ordinamento particolare, dacché il diritto è per sua essenza un universale concreto. E ogni ordinamento, in quanto esperienza storica concreta, per sua natura oppone resistenza sia teorica sia pratica al πόλεμος insito nell’universale astratto. Di questa opposizione e dei suoi esiti costituzionali la scienza giuridica deve dare conto[33].

 

5. Il confine

 

La questione principale della politica internazionale, oggi ma di certo non da oggi, sembrerebbe essere la contrapposizione tra sovranismi e mondialismi. Occorre tuttavia non lasciarsi sedurre da semplificazioni spesso troppo retoriche ed interessate. Per la scienza giuridica, la questione principale appare piuttosto quella del “confine”, sia territoriale sia concettuale, in mancanza del quale viene meno la stessa pensabilità del diritto (quantomeno di quello occidentale)[34]. Per quanto sfidato e sfidabile, il confine non è eludibile neppure al tempo della globalizzazione[35].

È esattamente in questo confine che va cercato il limite all’anomia del potere sconfinato. Il potere si nutre di interessi e di valori; ma deve trovare poi il suo limes nelle parole, nei concetti e negli istituti del diritto[36]. La parola “transizione” evoca invece l’evanescenza di un confine, che nel caso delle transizioni costituzionali è un confine concettuale (quello tra la vecchia e la nuova forma di Stato) e territoriale (l’ondata transnazionale).

Forse un ritorno al lessico classico del diritto costituzionale e del diritto internazionale (il lessico di quello jus publicum europaeum prototipico del moderno ordine giuridico internazionale) consentirebbe di chiamare la realtà con nomi più discretivi; e soprattutto più rivelativi della nudità di re e di imperatori: ai quali il diritto in generale, e quello costituzionale in particolare, è chiamato a dare il vero e visibile abito della forma giuridica[37]

 

 

Abstract (ENG): The juridical concept of constitutional transition aspires to achieve a certain scientific neutrality which, however, risks to cloak of irenism the transition processes themselves, in which instead political conflict re-emerges. The classical concepts of constitutional law and international law grasped this conflict more effectively and defined it more more stringently. The essay therefore suggests not to abandon the classical lexicon of constitutional and international sciences, in order not to weaken the capacity for analysis (including the critical one) of the transition processes.

Keyword (ENG): constitutional transitions; political conflict; concepts of constitutional law; concepts of international law; juridical criticism.

* Università degli Studi di Padova (paolo.costa.2@unipd.it).

** Il contributo è stato sottoposto a double blind review.

[1] Si vedano, tra i molti contributi, A. Spadaro, La transizione costituzionale. Ambiguità e polivalenza di un’importante nozione di teoria generale, in Le “trasformazioni” costituzionali nell’età della transizione, a cura di A. Spadaro, Torino, 1999; L. Mezzetti, Teoria e prassi delle transizioni costituzionali e del consolidamento democratico agli inizi del nuovo millennio, in Derecho PUCP, 56 (2003), pp. 29 s.; V. Teotonico, Riflessioni sulle transizioni. Contributo allo studio delle mutazioni costituzionali, in Rivista AIC, 3 (2014), pp. 1 s.

[2]«La contrapposizione tra l'antico e il nuovo sistema sociale si trasforma in uno schema triadico di successione, in virtù dell'inserimento di un sistema privo di una propria finalità autonoma, che rappresenta la dissoluzione del primo e la preparazione del secondo» (P. Rossi, «Positivismo e neopositivismo», in Enciclopedia delle scienze sociali, Ed. Enc. it. 1996, consultabile all’indirizzo https://www.treccani.it, (9 gennaio 2023).

[3] Si veda A. Sandri, Struttura costituzionale ed epoche dell’economia. Indagine sull’evoluzione eterogenea della costituzione politica, Napoli, 2018.

[4] A. Reposo, La forma repubblicana secondo l’art. 139 della Costituzione, Padova, 1972.

[5] Cfr. A. Barbera, Prefazione a G. De Vergottini, Le transizioni costituzionali, Bologna, 1988, p. 8.

[6] «È sufficiente aver dimostrato che la pretesa utilità di un Ordine privilegiato per il servizio pubblico è solo una chimera. Che, anzi, tutto ciò che vi è di ingrato in tali servizi è adempiuto dal Terzo, che senza di esso le cariche superiori sarebbero ricoperte in modo infinitamente migliore, che tali cariche dovrebbero essere il premio e la ricompensa naturali dei talenti e dei servizi resi, e che, se i privilegiati sono riusciti ad usurpare tutti i posti lucrativi ed onorifici, ciò rappresenta nello stesso tempo un’odiosa iniquità per la generalità dei cittadini, ed un tradimento per la cosa pubblica” […] “Quale accordo si può sperare fra l’energia dell’oppresso e la rabbia degli oppressori? Essi hanno osato pronunciare il nome scissione. Ne hanno fatto minaccia al Re e al popolo. Ah! Dio mio! Come sarebbe felice la Nazione, se questa scissione tanto auspicabile venisse finalmente attuata! Come sarebbe facile fare a meno dei privilegiati! Come sarà difficile condurli ad essere dei cittadini!» (J.E. Sieyès, Opere e testimonianze politiche, t. 1, v. 1, Scritti editi, a cura di G. Troisi Spagnoli, Milano, 1993, pp. 211 e 267).

[7]Del resto, e più in generale, essa patisce altresì la temperie post-dogmatica in cui da diverso tempo sono immerse le scienze giuridiche in generale e quella costituzionalistica in particolare (rinvio in proposito a P. Costa, Teoria dell’istituto giuridico e metodo del diritto costituzionale, Torino, 2021). Non ogni sensibilità dogmatica intorno al concetto di potere costituente è tuttavia tramontata: tra le opere recenti, può vedersi J. Colón-Ríos, Constituent power and the law, Oxford, 2020.

[8]Si possono consultare in proposito i saggi di O. Kirchheimer, raccolti e tradotti a cura di A. Scalone, Potere e conflitto. Saggi sulla Costituzione di Weimar, Modena, 2017.

[9] Sul punto, con richiami alle principali opere teoriche e con rilievi critici, L. Mezzetti, op. cit., p. 33.

[10]Su tale svalorizzazione, E. de Mari, Le droit intermédiaire. Posture juridique, imposture politique et vacuité d'une convention, in La Révolution française - Cahiers de l’Institut d’histoire de la Révolution française, 5 (2011).

[11] L. Mezzetti, op. cit., p. 33.

[12] È classica in proposito l’opera di S.P. Huntington, The Third Wave: Democratization in the Late Twentieth Century, Norman, 1991. Sulla portata transnazionale dei processi di democratizzazione, cfr. anche C. Tilly, La democrazia, tr. it., Bologna, 2009, p. 265.

[13] G. De Vergottini, Le transizioni costituzionali, cit., p. 157.

[14] Si vedano le classificazioni tipologiche ricostruite da L. Mezzetti, op. cit., pp. 36 e ss. 

[15] G. De Vergottini, Le transizioni costituzionali, cit., 158.

[16] Sui deversi approcci metodologici alle relazioni internazionali, e in particolare sulla differenza tra realismo e istituzionalismo liberale, i contributi di J. M. Grieco e di J. S. Duffield in G. J. Ikenberry-V. E. Parsi (a cura di), Teorie e metodi delle relazioni internazionali, Roma-Bari, 2009.

[17] A. Scalone, La teoria schmittiana del grande spazio: una prospettiva post-statuale?, in Id., Percorsi schmittiani. Studi di storia costituzionale, Milano, 2020.

[18] Rinvio a P. Costa, L'anomia dell'impersonale. Sicurezza e tecnica nell'ordine internazionale, in F. Pizzolato - P. Costa (a cura di), Sicurezza e tecnologia, Milano, 2017.

[19] Grundlinien der Philosophie des Rechts, Berlino, 1820, §§ 346 e ss.

[20]«Se trent’anni fa», scriveva Carl Gustav Jung nel 1936, «qualcuno avesse osato predire che il nostro sviluppo psicologico tendeva ad una reviviscenza delle persecuzioni medievali degli ebrei, che l’Europa avrebbe di nuovo tremato davanti ai fasci romani e al passo cadenzato delle legioni, che le persone ancora una volta avrebbero fatto il saluto romano come duemila anni fa, e che un’arcaica svastica, invece della croce cristiana, avrebbe attratto milioni di guerrieri pronti a morire, ebbene sarebbe stato accolto come un mistico folle», (Il concetto d’inconscio collettivo, in Id.,L’analisi dei sogni, Gli archetipi dell’inconscio, La sincronicità, Torino, 2011, p. 161).

[21]Nel 1937, il giurista Karl Loewenstein constata che il socialismo «rules the empire of the Czar». E ciò perché, a suo giurdizio, «socialism was an idea, perhaps the strongest idea since 1789; and history teaches the deathlessness of ideas» (K. Loewenstein, Militant democracy and fundamental rights, in The American Political Science Review, 3 (1937), p. 432).

[22] Secondo la celebre tesi di F. Fukuyama, The End of History and the Last Man, New York, 1992.

[23] P. Costa, Dal corpo politico alla corporate governance. Organizzazione pubblica e immagine giuridica del mondo, in Jus-Online. Rivista di Scienze giuridiche a cura della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università cattolica di Milano, 5 (2020), pp. 256 s.

[24] G. De Vergottini, Le transizioni costituzionali, cit., 164.

[25] Sul punto si richiama l’importante studio storico di V. De Grazia, Irresistible Empire. America’s advance through twentieth-tentury Europe, Cambridge, 2006.

[26]«Un percorso conoscitivo doppio», scrive Umberto Vincenti, «affidato a parole correttamente trascelte tra le molte a disposizione, un’andata fuori dalla realtà e un ritorno a questa stessa: come il gesto delle mani del filosofo Zenone, una mano che si apre lentamente e si richiude a formare un pugno avvolto dall’altra mano per poi riaprirsi e restituire al reale quel che si era serrato dentro il pugno. Una metafora dei processi conoscitivi realizzati a mezzo del linguaggio: si sceglie e si definisce quel frammento del reale che interessa e questo frammento — a cui le parole hanno dato nuova forma — viene reimmesso nella realtà che, seppur così conformata, lo deve includere e riconoscere (e, prima, farsi riconoscere)» (U. Vincenti, «Linguaggio normativo», in Enciclopedia del diritto, VII, Milano, 2014, p. 684).

[27] P. Grossi, Sulla odierna fattualità del diritto, in Id., Ritorno al diritto, Roma-Bari, 2014, pp. 33 e ss.

[28] E. Kaufmann, Das Wesen des Völkerrechts und die clausula rebus sic stantibus, Tubinga, 1911.

[29] R. Carré de Malberg, Contribution à la Théorie générale de l'Etat, Parigi, 1929, II, p. 490.

[30] R. Carré de Malberg, op. cit., pp. 490-491.

[31] R. Carré de Malberg, op. cit., p. 497.

[32] K. Hesse, La forza normativa della costituzione, tr. It. Seregno, 2007, pp. 11 e ss.

[33] C. McCrudden-B. O’Leary, Courts and consociations. Human rights vs. power sharing, Oxford, 2013, pp. 130 e ss., in cui si tematizza, ad esempio, l’opposizione, registrabile a livello di giurisprudenza sovranazionale, tra «civic models» ed «ethnics models», dando conto della non necessaria neutralità dei primi. Sulla dimensione giuspubblicistica della dialettica tra particolare e universale, anche A. Pin, Where the Streets Have No Name. Immigrants, National Identities, and the Consequences of a Narrow Universalism, 2013 (consultabile all’indirizzo https://ssrn.com/abstract=2212066 (9 gennaio 2023)).

[34] U. Vincenti, in M. Frare - U. Vincenti - G. Zanon, Inclusione. La contemporaneità dentro il diritto romano, Napoli, 2019, p. IX.

[35]In proposito, la riflessione di H. Lindahl, Fault Lines of Globalization. Legal Order and the Politics of A-Legality, Oxford, 2013.

[36] Come ha colto, sull’orma dell’insegnamento di Savigny, M. Fioravanti, Il dibattito sul metodo e la costruzione della teoria giuridica dello Stato, in Id., La scienza del diritto pubblico, Milano, 2001, p. 37.

[37] È questa del resto la vocazione della scienza giuridica: il tentativo, per taluni tanto ostinato ed eroico quanto fallimentare, di «ridurre il rapporto politico a rapporto giuridico» (G. Miglio, Le categorie del “politico”, in Id., Le regolarità della politica, Milano, 1988, p. 597).

Costa Paolo



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