Le rogationes per saturam prima della lex Caecilia Didia
Andrea Sanguinetti
Ricercatore confermato di diritto romano e diritti dell’antichità,
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Le rogationes per saturam prima della lex Caecilia Didia
Sommario: - 1. Impostazione dell’indagine. - 2. La nozione di lex satura nelle fonti antiche. - 3. La prassi delle rogationes per saturam. - 3.1. Le leges Liciniae Sextiae. - 3.2. La lex Aquilia. - 3.3. La lex epigrafica sulle province orientali. - 3.4. Altri provvedimenti. - 4. Conclusioni.
1. Impostazione dell’indagine*
La presente ricerca si propone di indagare un tema che, sebbene non sconosciuto alla dottrina, non è stato mai – per quanto io ne sappia – fatto oggetto di una trattazione specifica. Si tratta del tema delle cc.dd. rogationes per saturam. Cosa fosse una rogatio per saturam è cosa nota, sicché sarà appena il caso di richiamare questa nozione: si trattava di una proposta di legge comiziale nella quale il magistrato proponente cumulava diverse disposizioni, tra loro eterogenee, che l’assemblea popolare avebbe dovuto approvare o rigettare en bloc, cioè con un voto unico[1].
Lo scopo di un siffatto modus agendi da parte dei magistrati era, naturalmente, quello di impedire al popolo di tenere distinte questioni tra loro diverse, senza poter differenziare il voto. Ciò consentiva a magistrati che volessero far approvare misure scomode, oppure sgradite a una parte consistente della popolazione, oppure sulle quali si concentrava l’opposizione degli avversari politici, di mescolarle con misure nei confronti delle quali la popolazione era invece sicuramente ben disposta (si poteva trattare ad esempio di misure di tipo demagogico, quali frumentationes e altre concessioni o agevolazioni), che avrebbero facilitato l’approvazione della legge nel suo complesso, ivi compresa, dunque, la misura sgradita al popolo, la quale avrebbe finito per passare alla stregua di un sacrificio spiacevole, ma necessario per ottenere un beneficio.
Naturalmente un comportamento di questo tipo da parte dei magistrati, è facile intuirlo, dovette essere utilizzato come arma politica specialmente nei periodi di maggiore tensione, e poiché di fatto privava il popolo della possibilità di esprimersi con il voto su ognuna delle diverse questioni contenute nella rogatio, integrava una condotta che possiamo senz’altro definire come scorretta e sleale nei confronti dell’assemblea popolare. È dunque del tutto naturale che ad un certo punto tale prassi sia stata avvertita come inopportuna, e si sia cercato in vario modo di limitarla e ostacolarla.
Questa ricerca si propone di indagare in che misura la prassi delle rogationes per saturam sia stata utilizzata. Rimarrà ai margini della ricerca – rappresentandone per così dire il punto di arrivo – la lex Caecilia Didia, che nel 98 a.C. vietò il ricorso a tale modalità di presentazione delle proposte legislative[2]. Si tratta del resto dell’aspetto sul quale si è di preferenza, per non dire quasi esclusivamente, concentrata sinora la dottrina romanistica. Tra l’altro le fonti che ci tramandano le notizie più chiare sulla lex Caecilia Didia non forniscono, rispetto a quelle di cui si parlerà nel paragrafo seguente, alcun sussidio per identificare più chiaramente in che cosa consistesse esattamente una rogatio per saturam, né consentono di valutare la prassi delle rogationes per saturam delle epoche precedenti[3].
2. La nozione di lex satura nelle fonti antiche
I passi[4] che conservano informazioni dirette sulla nozione di lex satura (e su quella, evidentemente ad essa intimamente connessa, di rogatio per saturam) concordano strettamente l’uno con l’altro dal punto di vista contenutistico. Iniziando dalla testimonianza più antica abbiamo:
Fest. s.v. Satura (L 416): Satura, et cibi genus ex variis rebus conditum est, et lex <mul>tis alis legibus conferta.
confermato dall’excerptum tratto dall’epitome di Paolo Diacono, ove si aggiunge il riferimento anche al genere letterario che porta lo stesso nome:
Satura et cibi genus ex variis rebus conditum, et lex multis aliis conferta legibus, et genus carminis, ubi de multis rebus disputatur.
Festo sottolinea la varietà di materie presente nella rogatio per saturam, accostando la nozione a quella di lanx satura, piatto ricolmo di primizie di vario genere offerte agli dèi. In entrambi i casi si sottolinea la ricchezza di materiale: l’aggettivo confertus vale letteralmente “ricolmo, strapieno”. La stessa cosa si può dire, naturalmente, del genere letterario cui fa riferimento l’excerptum paolino, dato che la satira prese proprio il nome dall’aggettivo satura, a causa del fatto che si trattava di una forma artistica mista, con presenza di poesia, musica e danza.
Alla testimonianza di Festo possiamo aggiungerne altre più tarde, ma che sostanzialmente, come si diceva, concordano con essa. Partiamo da un passo tratto dal III libro della Ars grammatica di Diomede grammatico, vissuto forse nella seconda parte del IV sec. d.C., il quale, soffermandosi sull’origine del nome della satira letteraria, ricorda una serie di ipotesi diverse[5]:
Diom., Ars gramm.: 485 Satira autem dicta sive a Satyris, quod similiter in hoc carmine ridiculae res pudendaeque dicuntur, quae velut a Satyris proferuntur et fiunt: sive satura a lance quae referta variis multisque primitiis in sacro apud priscos 486 dis inferebatur et a copia ac saturitate rei satura vocabatur; cuius generis lancium et Vergilius in georgicis meminit, cum hoc modo dicit, “lancibus et pandis fumantia reddimus exta” et “lancesque et liba feremus”: sive a quodam genere farciminis, quod multis rebus refertum saturam dicit Varro vocitatum. est autem hoc positum in secundo libro Plautinarum quaestionum, “satura est uva passa et polenta et nuclei pini ex mulso consparsi”. ad haec alii addunt et de malo punico grana. alii autem dictam putant a lege satura, quae uno rogatu multa simul conprehendat, quod scilicet et satura carmine multa simul poemata conprehenduntur.
La successione di ipotesi formulate da Diomede è la seguente: il nome del genere letterario ‘satira’ deriverebbe o dal nome dei Satyri, poiché nella satira si dicevano battute di spirito e cose licenziose, come quelle che erano soliti dire e fare i satiri; oppure discenderebbe dalla satura lanx, piatto ricolmo di molte e varie primizie che veniva anticamente offerto agli dèi, e veniva così chiamato a causa della sovrabbondanza di prodotti contenuti. A tale proposito il grammatico ricorda che di tale piatto è menzione anche nelle Georgiche di Virgilio. Una ulteriore ipotesi è che il nome deriverebbe da un tipo di salsiccia ripiena di parecchi ingredienti, della quale Varrone afferma che il nome corrente sarebbe appunto satura. Di tale specialità gastronomica Diomede riporta poi anche la lista degli ingredienti che si trova attestata da Varrone nelle Quaestiones plautinae. Ma l’ipotesi che ci interessa è, ovviamente, l’ultima, secondo la quale il nome del genere letterario trarrebbe origine dalla lex satura, atto normativo che racchiudeva assieme contemporaneamente, in una sola rogatio, molte proposte diverse. L’osservazione finale costituisce la giustificazione di quest’ultima ipotesi: come infatti la lex satura è piena di tante disposizioni diverse, così nella poesia satirica sono contenuti molti componimenti poetici contemporaneamente.
La testimonianza di Diomede, benché più ricca ed articolata di quella festina, si colloca sostanzialmente nella stessa linea. Con l’ultima testimonianza ci spostiamo ancora avanti nel tempo, e giungiamo alle Etymologiae di Isidoro di Siviglia, che il teologo spagnolo redasse verso la fine della propria vita, quindi all’inizio del VII secolo d.C.:
Isid. Etym., 5.16: De lege satvra. Satura vero lex est quae de pluribus simul rebus eloquitur, dicta a copia rerum et quasi a saturitate; unde et saturas scribere est poemata varia condere, ut Horatii, Iuvenalis et Persii.
Isidoro sottolinea che la lex satura era così chiamata poiché si occupava di più argomenti insieme, e riceveva dunque la propria denominazione dalla sovrabbondanza delle disposizioni in essa contenute. Anche Isidoro, come già Festo e Diomede, riprende poi l’analogia con l’omonimo genere letterario, con il quale la lex satura condivide la varietà di contenuti.
Questo significato di lex satura è attestato anche, sebbene indirettamente, da una fonte più tarda, e cioè uno degli Scholia Bobiensiaalla Pro Milone di Cicerone. Commentando il passo dell’orazione (6.14) in cui il retore afferma “Divisa sententia est, postulante nescio quo”, lo scoliaste afferma (117) che tale sententiae divisio “solebat accidere, cum videbatur aliquis per saturam de multis rebus unam sententiam dixisse”. Anche qui, sebbene in campo retorico e non giuridico, la qualifica di sententia per saturam dicta dipende dalla moltitudine di argomenti diversi di cui era infarcito un unico discorso.
La locuzione per saturam si sviluppò dunque, precisamente, a partire dal significato di “combinazione, miscuglio”, e venne a designare la prassi, che poteva verificarsi in diversi ambiti, di affastellare in un’unica operazione diversi argomenti o materie tra loro eterogenei.
3. La prassi delle rogationes per saturam
Se, come visto, è relativamente facile comprendere il significato delle espressioni rogatio per saturam e lex satura, non altrettanto facile è determinare quali fossero i casi in cui una proposta di legge poteva concretamente essere qualificata per saturam, e di conseguenza non è facile determinare quali possano essere stati concreti esempi di leges saturae. Poiché la reazione alla prassi delle leges saturae si manifestò soprattutto in un periodo di forti tensioni politiche quale fu l’ultimo secolo dell’età repubblicana, si può intuire che non doveva essere semplice stabilire se una legge fosse effettivamente satura oppure no, anche perché non risulta che sia mai stato stabilito chiaramente e dettagliatamente quando una legge contenente una pluralità di disposizioni doveva essere considerata satura. Esempi di leggi comiziali contenenti più disposizioni ne conosciamo diversi; ma quasi mai le fonti a noi pervenute testimoniano con sicurezza che esse furono considerate problematiche sotto il profilo che qui interessa. Credo comunque che possa essere adottato un criterio di buon senso, almeno ai fini di un censimento tra le leggi a noi note: una legge comiziale contenente più disposizioni può essere considerata satura quando le sue singole disposizioni, indipendentemente dal fatto che riguardino materie oggettivamente diverse oppure no, potrebbero reggersi anche indipendentemente l’una dall’altra senza stravolgere l’intenzione del legislatore e senza divenire, di fatto, inutili. In tale caso è lecito pensare che esse avrebbero potuto essere sottoposte a differenti procedimenti di voto senza che ciò ne inficiasse l’efficacia.
In ogni caso, come vedremo, anche questo criterio non permette di risolvere con sicurezza tutti i casi dubbi; infatti la precisa individuazione delle leges saturae romane è ostacolata da una serie di difficoltà non di rado insuperabili: innanzi tutto ci è giunta notizia di un numero limitato di leges publicae, e molte, forse, rimangono ignote; secondariamente, anche di quelle conosciute non è sempre – in particolare la presente osservazione vale per le più risalenti – possibile determinare con sicurezza il contenuto, perché talvolta non è sicuro se due o più disposizioni siano state votate separatamente, e costituissero quindi una pluralità di leggi, oppure siano state votate assieme, e quindi costituissero soltanto disposizioni diverse di un’unica legge; infine la qualifica di una lex come satura potrebbe dipendere da un fattore entro certi limiti soggettivo; infatti il magistrato proponente avrebbe potuto sostenere che il suo progetto doveva necessariamente prevedere l’approvazione in blocco di tutti gli ‘articoli’ della norma, mancando anche uno solo dei quali la legge sarebbe stata, almeno nelle sue intenzioni, totalmente o parzialmente inefficace.
Ciò premesso, le leggi comiziali della storia romana promulgate prima della lex Caecilia Didia per le quali sia stata avanzata in dottrina, in genere piuttosto sbrigativamente, l’ipotesi che si trattasse di leges saturae sono le seguenti[6].
3.1. Le leges Liciniae Sextiae
Si tratta, come è noto, delle disposizioni che nel 367 a.C. i tribuni della plebe G. Licinio Stolone e L. Sestio Laterano promossero nel quadro della lotta tra il patriziato e la plebe, ed in seguito all’approvazione delle quali si compì un passo decisivo sulla via della parificazione tra i due ordini. Normalmente si parla – e del resto nemmeno qui si viene meno a questa consuetudine – di leggi al plurale; in realtà il racconto liviano, al quale dobbiamo le notizie più puntuali su questo importante momento della storia di Roma, è, proprio su questo punto, di interpretazione tutt’altro che agevole e scontata, non foss’altro che per le incongruenze che rivela. Si può dire che sono pochi i dettagli della narrazione di Livio che non siano stati messi in discussione, tanto che l’autenticità stessa delle leggi è stata revocata in dubbio da studiosi autorevoli. La letteratura in argomento è vastissima, e naturalmente esula dai limiti del presente studio la possibilità di discutere dettagliatamente le ipotesi formulate[7]. La possibilità di considerare storiche le leggi sembrerebbe rappresentare un prius indispensabile rispetto a quella di parlare di leges saturae; e tuttavia anche su questo punto possiamo fare qualche precisazione. E’ ovvio che se ci riferiamo al termine lex nel senso più rigoroso di delibera del popolo riunito in assemblea comiziale su una proposta formalmente e ritualmente presentata da un magistrato dotato di ius agendi cum populo, le pesanti ombre gettate da più di una voce sulla possibilità che effettivamente le proposte di Licinio e Sestio siano state portate al voto dinanzi al comizio centuriato sembrerebbero inficiare ab origine le chances di discutere di rogationes per saturam o di leges saturae. Una parte consistente, forse quella maggioritaria, della dottrina inclina oggi, e non da poco tempo, a ravvisare nelle novità costituzionali narrate da Livio come frutto degli avvenimenti del 367 a.C., più il risultato di un compromesso tra il patriziato e la parte più elevata, almeno economicamente, del ceto plebeo, che non come l’esito di un procedimento legislativo andato a buon fine[8]. Se ne potrebbe dunque dedurre che manchi il presupposto fondamentale – cioè una proposta legislativa sottoposta al voto dell’assemblea popolare – per porsi il problema di qualificare le proposte di Licinio e Sestio in termini di rogationes per saturam. Se non che, va aggiunto che una parte non trascurabile di quella stessa dottrina la quale nega la storicità delle leges Liciniae Sextiae in quanto tali, non è affatto restia a ritenere che il compromesso fu raggiunto sulla base di proposte fatte votare dai due tribuni nel concilium plebis, quindi sulla base di uno o più plebisciti[9]. Ora, è vero che nel 367 a.C. i plebisciti non erano ancora stati completamente equiparati alle leggi comiziali – cosa che sarebbe avvenuta, com’è noto, soltanto nel 287 a.C. per mezzo della lex Hortensia – ma ciò non impedirebbe a mio avviso di parlare comunque di rogationes, dato che, a parte la portata del provvedimento, una delibera della plebe era, per il resto – dal punto di vista procedurale, intendo dire – analoga a quella di tutto quanto il popolo. In altre parole, se si accetta, come pare sia possibile fare, che Licinio e Sestio presentarono le tre proposte all’assemblea dei soli plebei, prima di raggiungere un’intesa con i patrizi, è allora possibile porsi il problema di una presentazione unitaria o separata delle tre rogationes, indipendentemente dal fatto che non tutto il popolo fu chiamato a deliberare, ma soltanto la componente plebea.
In limine alla trattazione del punto che qui interessa, non sarà inutile ricordare che dubbi particolarmente consistenti gravano sulla storicità, in particolare, della rogatio de modo agri[10]. L’esistenza di tradizioni che si discostano notevolmente da quella liviana e la presenza nel racconto di Livio di alcune incongruenze rendono difficile credere alla storicità di un provvedimento che, in pieno IV secolo a.C., avrebbe fissato un limite così alto, dal punto di vista quantitativo, alla possessio di ager publicus, mentre un provvedimento del genere sarebbe comprensibile se collocato in un momento successivo all’assoggettamento di tutto il territorio italico, come parrebbe doversi fare seguendo l’altra tradizione che ci tramanda la notizia di una legge de modo agri precedente quella di T. Gracco. Se non che, anche se si accetta che Livio abbia frainteso le notizie di cui disponeva, o che abbia seguito su questo punto una tradizione già inquinata, nulla vieta di ritenere che al 367 vada comunque attribuito un provvedimento in materia di limiti nel possesso di ager publicus, provvedimento il cui contenuto certo sarebbe diverso, in dettagli più o meno significativi, rispetto a quello ricordato da Livio[11].
Fatte queste premesse, per affrontare nel modo più chiaro possibile il problema delle leges Liciniae Sextiae come possibile esempio di lex satura, o almeno di rogatio per saturam, conviene forse ripercorrere gli avvenimenti principali che caratterizzarono la vicenda secondo il racconto di Tito Livio, che costituisce la fonte che più diffusamente delle altre[12] si sofferma sull’episodio, e che è anche l’unica a sollecitare la nostra attenzione dal particolare angolo visuale da cui prende le mosse questo studio. Le vicende che ci interessano sono narrate nella parte finale del sesto libro ab urbe condita dello storico patavino, in particolare nel tratto 6.35-42. Si tratta di avvenimenti assai noti; ma non sarà inutile ripercorrerli brevemente, poiché si tratta qui di sottolineare quei momenti e quegli snodi che possono fare luce sul particolare aspetto che qui ci interessa. Riporteremo di volta in volta i brani che presentano il maggiore interesse nell’ottica della nostra ricerca.
Stando al racconto di Liv. 6.35.4-5, nel 377 a.C. i due tribuni della plebe avrebbero presentato tre proposte di legge riguardanti importanti aspetti economici e politici nel quadro delle rivendicazioni plebee:
Liv. 6.35.4 Creatique tribuni C. Licinius et L. Sextius promulgavere leges… unam de aere alieno… 5 alteram de modo agrorum… tertiam, ne tribunorum militum comitia fierent consulumque utique alter ex plebe crearetur.
Le tribù vennero chiamate al voto, ma la intercessio dei tribuni della plebe colleghi di Licinio e Sestio impedì che si svolgesse, non che la votazione, nemmeno la recitatio o qualsivoglia altra formalità preparatoria del voto:
Liv. 6.35.7 …ubi tribus ad suffragium ineundum citari a Licinio Sextioque viderunt, stipati patrum praesidiis nec recitari rogationes nec sollemne quicquam aliud ad sciscendum plebi fieri passi sunt.
Licinio e Sestio ripagarono i colleghi della medesima moneta, e opposero la propria intercessio ai comizi elettorali, impedendo che si svolgessero le regolari elezioni. Il persistere di Licinio e Sestio in questo atteggiamento avrebbe provocato un periodo di cinque anni di vacanza delle magistrature (eccettuati il tribunato della plebe e l’edilità plebea), che Livio qualifica significativamente come tempo di solitudo magistratuum (Liv. 6.35.8-10)[13].
Dopo cinque anni i due tribuni desistettero dal loro atteggiamento di pervicace opposizione, e permisero che venissero eletti i tribuni militari, che allora reggevano la città, per condurre le operazioni contro i coloni di Velletri, i quali avevano compiuto scorrerie nell’agro romano e avevano cinto d’assedio Tuscolo (Liv. 6.36.1-6).
In città, intanto, Licinio e Sestio persistevano nella loro attività di promotori della legge, e pure il patrizio Marco Fabio Ambusto, suocero di Stolone e tribuno militare, che era stato ispiratore (auctor) di quelle proposte, ne era diventato acceso sostenitore (suasor:Liv. 6.36.7). I colleghi nel tribunato che sino a quel momento avevano avversato con la propria intercessio le rogationes di Licinio e Sestio erano scesi da otto a cinque, mentre i due promotori delle proposte provocavano in pubblici dibattiti i più autorevoli patrizi perorando contemporaneamente davanti alla plebe la causa delle proprie rogationes (Liv. 6.36.8-37.11). Si era intanto giunti, non bisogna trascurare questo particolare, al 369 a.C.: erano cioè passati ben otto anni da quando i due tribuni avevano presentato per la prima volta le loro rogationes; e in questo periodo essi, stando almeno al racconto di Livio, erano sempre, ininterrottamente, stati rieletti al tribunato.
Licinio e Sestio, vedendo che i loro discorsi facevano presa sulla popolazione, decisero di avanzare una nuova proposta, ma rimandarono il voto al rientro dell’esercito da Velletri:
Liv. 6.37.12-38.1 Huius generis orationes ubi accipi videre, novam rogationem promulgant, ut pro duumviris sacris faciundis decemviri creentur ita ut pars ex plebe, pars ex patribus fiat; omniumque earum rogationum comitia in adventum eius exercitus differunt qui Velitras obsidebat. 1 Prius circumactus est annus quam a Velitris reducerentur legiones; ita suspensa de legibus res ad novos tribunos militum dilata.
La rogatio, è bene sottolinearlo, riguardava un aspetto che era strettamente collegato con la rivendicazione di un posto nel consolato, poiché metteva in discussione – chiedendo che anche i plebei potessero essere reclutati nel collegio dei sacerdoti sacris faciundis – il principio consolidato secondo il quale i plebei non erano capaci di sumere auspicia. Ed è altrettanto importante notare che la nuova rogatio, almeno nel racconto di Livio, è considerata ormai un tutt’uno con le altre, tanto che il voto di tutte è rimandato: omniumque earum rogationum… suspensa de legibus res…
Nei primi giorni del nuovo anno – e siamo così al 368 a.C. – sembrò finalmente giunto il momento di votare; ma ancora una volta le cose non andarono a finire come Licinio e Sestio avrebbero voluto:
Liv. 6.38.3 …et cum tribus vocarentur nec intercessio collegarum latoribus obstaret, trepidi patres ad duo ultima auxilia, summum imperium summumque ad civem decurrunt. 4 Dictatorem dici placet; dicitur M. Furius Camillus... Legum quoque latores... concilioque plebis indicto tribus ad suffragium vocant. 5 … et ‘uti rogas’ primae tribus dicerent, tum Camillus… inquit… 7 ‘Si C. Licinius et L. Sextius intercessioni collegarum cedunt, nihil patricium magistratum inseram concilio plebis; si adversus intercessionem... leges imponere tendent, vim tribuniciam a se ipsa dissolvi non patiar’. 8 Adversus ea cum contemptim tribuni plebis rem nihilo segnius peragerent, tum percitus ira Camillus lictores qui de medio plebem emoverent misit et addidit minas, si pergerent, sacramento omnes iuniores adacturum exercitumque extemplo ex urbe educturum.
Dunque vennero chiamate al voto le tribù, e i patres reagirono – considerando evidentemente ormai impraticabile la intercessio da parte di tribuni compiacenti – ricorrendo alla nomina di un dittatore nella persona di Marco Furio Camillo. I latores legum non si lasciarono intimidire e chiamarono le tribù plebee al voto. Le tribù iniziarono a votare, e a quanto pare le cose stavano andando nel senso auspicato dai due promotori. A questo punto Furio Camillo affermò che se Licinio e Sestio avessero persistito nel loro ostinato atteggiamento egli non avrebbe tollerato che la vis tribunicia fosse messa in discussione a se ipsa. Poiché però i due tribuni parvero non darsene per intesi, il dittatore inviò i littori a disperdere la plebe, e minacciò che, se avessero insistito nella loro ostinazione, avrebbe costretto i giovani a prestare giuramento e li avrebbe fatti partire con l’esercito verso qualche località lontana dalla città. Dunque le procedure di voto furono iniziate, ma a quanto pare, sebbene Livio non lo dica espressamente, non furono portate a termine.
Subito dopo, inopinatamente, Furio Camillo abbandonò la carica. E Livio stesso ricorda che vi erano versioni discordanti sul motivo che aveva indotto il dittatore a compiere quel gesto (Liv. 6.38.9-13).
Ma è dopo la deposizione della dittatura da parte di Furio Camillo che ebbero luogo gli eventi più significativi nell’ottica della presente ricerca, anche se si tratta di un episodio di non facile interpretazione:
Liv. 6.39.1 Inter priorem dictaturam abdicatam novamque a Manlio initam ab tribunis velut per interregnum concilio plebis habito apparuit quae ex promulgatis plebi, quae latoribus gratiora essent. 2 Nam de fenore atque agro rogationes iubebant, de plebeio consule antiquabant; et perfecta utraque res esset, ni tribuni se in omnia simul consulere plebem dixissent.
Licinio e Sestio approfittarono di una sorta di interregno tra le due dittature di Furio Camillo e di Manlio Licinio per convocare il concilio plebeo; nella riunione dell’assemblea si manifestarono per la prima volta differenze di vedute tra i tribuni proponenti e la massa dei plebei. Qui non si capisce bene se si giunse effettivamente al voto oppure no: l’uso dei verbi iubere e antiquare, usati di solito per indicare tecnicamente il voto favorevole e quello contrario, lascia pensare che le tribù plebee abbiano effettivamente votato. Ma, come vedremo, non pochi accenni presenti nel seguito del racconto lasciano intendere che in quella riunione il voto non sia stato espresso, almeno non completamente[14]. Fatto sta che Livio conclude la narrazione dell’episodio dicendo che le cose sarebbero andate a finire secondo le intenzioni della massa plebea – cioè con approvazione delle rogationes de aere alieno e de modo agrorum e con rigetto di quella de consule plebeio – se Licinio e Sestio non avessero affermato se in omnia simul consulere plebem, cioè che essi intendevano sottoporre al voto della plebe tutte le questioni contemporaneamente: in sostanza volevano un voto unico su tutte e tre le proposte. Qui compare il primo accenno ad una rogatio per saturam. E’ interessante notare che qui della rogatio de decemviris sacris faciundis, la quale poco prima era stata descritta ormai come parte integrante del disegno politico dei due tribuni, non vi è alcuna traccia.
Dopo la nomina di Manlio Licinio come dittatore, Licinio e Sestio approfittarono dei comizi elettorali per tenere alla plebe un discorso nel quale perorarono ancora una volta la propria causa (Liv. 6.39.3-10). Essi terminarono questo discorso ponendo alla plebe un vero e proprio aut aut:
Liv. 6.39.11 Si coniuncte ferre ab se promulgatas rogationes vellent, esse quod eosdem reficerent tribunos plebis; perlaturos enim quae promulgaverint: 12 sin quod cuique privatim opus sit id modo accipi velint, opus esse nihil invidiosa continuatione honoris; nec se tribunatum nec illos ea quae promulgata sint habituros.
La plebe avrebbe dovuto scegliere se rieleggere Licinio e Sestio, ma a condizione di approvare poi tutte le proposte en bloc, oppure scegliersi altri candidati al tribunato. Se essa avesse optato per questa seconda soluzione, sostennero i due tribuni, essi non avrebbero iterato la loro carica, ma la plebe non avrebbe ottenuto i vantaggi derivanti dalle proposte che erano già state presentate. Nessuno, insomma, avrebbe ottenuto ciò che sperava. Nel discorso dei due tribuni è presente una forte sfumatura di ricatto morale: essi infatti affermano che se i plebei avessero optato per la seconda possibilità ciò avrebbe rappresentato la prova che essi perseguivano interessi privati e non il bene della plebe.
Dopo i due tribuni prese la parola il senatore Appio Claudio Crasso, nipote del decemviro, il quale tenne un lungo discorso a sua volta (Liv. 6.40-41). Alcune parti di questo discorso meritano di essere ricordate perché, per bocca di Appio, Livio torna insistentemente sul tema della rogatio per saturam:
Liv. 6.40.6 Si Claudiae familiae non sim… sed unus Quiritium quilibet… 7 reticere possim L. illum Sextium et C. Licinium… tantum licentiae… sumpsisse, ut vobis negent potestatem liberam suffragii non in comitiis, non in legibus iubendis se permissuros esse? … 9 Sed quae tandem ista merces est qua vos semper tribunos plebis habeamus? “ut rogationes” inquit, “nostras, seu placent seu displicent, seu utiles seu inutiles sunt, omnes coniunctim accipiatis”. 10 Obsecro vos, Tarquinii tribuni plebis, putate me ex media contione unum civem succlamare “bona venia vestra liceat ex his rogationibus legere quas salubres nobis censemus esse, antiquare alias.” 11 “non” inquit, “licebit... aut omnia accipe, aut nihil fero”; 12 ut si quis ei quem urgeat fames venenum ponat cum cibo et aut abstinere eo quod vitale sit iubeat aut mortiferum vitali admisceat… 13 Illud si quis patricius, si quis, quod illi volunt invidiosius esse, Claudius diceret “aut omnia accipite, aut nihil fero”, quis vestrum, Quirites, ferret?
Il senatore batté insistentemente sulla scorrettezza dei due tribuni, che pretendendo la votazione accorpata di tutte le proposte privavano di fatto la plebe della libertà di voto ponendola di fronte ad un vero e proprio ricatto.
La lunga perorazione di Crasso si concluse con un invito quanto mai significativo:
Liv. 6.41.12 Omnium rerum causa vobis antiquandas censeo istas rogationes. Quod faxitis deos velim fortunare.
Appio affermò chiaramente che, a suo avviso, i plebei avrebbero dovuto rigettare tutte quante le proposte dei due tribuni. E ciò lascia intendere, evidentemente, che la votazione disgiunta di cui sembra esservi traccia in Liv. 6.39.1-2 o non aveva avuto luogo, o quanto meno non era andata a buon fine.
Subito dopo lo storico ricorda che il discorso del senatore non raggiunse il proprio scopo:
Liv. 6.42.1 Oratio Appi ad id modo valuit ut tempus rogationum iubendarum proferretur. 2 Refecti decumum iidem tribuni, Sextius et Licinius, de decemviris sacrorum ex parte de plebe creandis legem pertulere. Creati quinque patrum, quinque plebis; graduque eo iam via facta ad consulatum videbatur. 3 Hac victoria contenta plebes cessit patribus ut in praesentia consulum mentione omissa tribuni militum crearentur.
Essa valse soltanto a ottenere una ulteriore dilazione del voto. Licinio e Sestio vennero rieletti per la decima volta al tribunato, e fecero approvare la rogatio relativa ai decemviri sacris faciundis: ne furono quindi creati cinque patrizi e cinque plebei. Sembrava dunque dischiudersi, una volta caduta la pregiudiziale legata alla impossibilità di sumere auspicia, la possibilità per i plebei di accedere al consolato. La plebe, paga per il momento di questo risultato, concesse ai patres che anche per quell’anno si procedesse all’elezione dei tribuni militum lasciando cadere per il momento la questione relativa al consolato.
Dopo l’elezione dei tribuni militari Roma fu occupata, oltre che dall’assedio di Velletri (azione destinata al successo, dice Livio, ma che procedeva più lentamente del dovuto), anche da una guerra contro i Galli, in vista della quale fu nominato dittatore per la quinta volta M. Furio Camillo. Il dittatore condusse in breve a vittoria l’esercito romano e gli fu decretato il trionfo (Liv. 6.42.4-8). Ma in patria – e siamo ormai al 367 a.C. – lo attendeva una battaglia non meno dura:
Liv. 6.42.9 Vixdum perfunctum eum bello atrocior domi seditio excepit, et per ingentia certamina dictator senatusque victus, ut rogationes tribuniciae acciperentur; et comitia consulum adversa nobilitate habita, quibus L. Sextius de plebe primus consul factus.
Il dittatore e il senato uscirono sconfitti nell’ultima battaglia sulle rogationes tribunizie, che alla fine furono accolte. E nei comizi per l’elezione dei consoli Lucio Sestio fu eletto primo console plebeo. Ciò che Livio non dice è quali furono esattamente le proposte accolte (senz’altro, parrebbe, quella de consule plebeio; ma non sappiamo se siano state presentate e accolte entrambe le altre, cioè quella de aere alieno e quella de modo agrorum[15], oppure una sola di esse), né in quale modo esse furono presentate, cioè se disgiuntamente o congiuntamente, anche se il tenore del discorso pronunciato da Licinio e Sestio ai comizi elettorali dell’anno precedente lascia intendere che, essendo essi stati rieletti, la plebe avesse finito per piegare il capo dinanzi al loro aut aut.
I contrasti, per altro, non erano finiti: i patres affermarono che non avrebbero mai concesso l’auctoritas all’elezione di Sestio. Di fronte ad una minaccia di secessione della plebe si riuscì comunque a raggiungere un accordo grazie alla mediazione di Furio Camillo: i patrizi riconobbero l’elezione del console plebeo, ed ottennero in cambio, in esclusiva, la nuova carica del pretore qui ius in urbe diceret. La concordia finalmente raggiunta dopo scontri così accesi fu festeggiata con ludi maximi decretati dal senato. Gli edili plebei rifiutarono tuttavia di sobbarcarsi il relativo onere, mentre i giovani patrizi dichiararono che si sarebbero volentieri assunto quel compito. I patrizi vennero ringraziati, e il senato stabilì che il dittatore presentasse una proposta di legge per la creazione di due edili patrizi. Inoltre i patres concessero l’auctoritas a tutte le delibere comiziali di quell’anno (Liv. 6.42.10-14)[16].
Sin qui il racconto di Livio. Di questo racconto, si è già accennato, sono state sottolineate le tante incongruenze che valgono a mettere in discussione la sua credibilità[17]. Della discordanza tra la tradizione liviana e quella di Diodoro sulla durata della vacanza delle magistrature abbiamo detto; abbiamo pure menzionato i dubbi che riguardano in particolare la rogatio de modo agrorum. Così come abbiamo già accennato al fatto che soltanto in Liv. 6.39 compare inaspettatamente una frattura tra i due tribuni, interessati soprattutto all’approvazione della rogatio de consule plebeio, e la massa plebea, la quale, interessata più che altro alle rivendicazioni di tipo economico, avversava invece la richiesta di riservare un posto ai plebei nella suprema carica. Né prima né dopo compaiono indizi di questa frattura; anzi, alcuni accenni lasciano intendere che la plebe fosse positivamente interessata a tutte quante le proposte.
A diversi studiosipaiono poi poco credibili altri particolari: che i due tribuni siano riusciti a farsi rieleggere per ben dieci anni consecutivamente; che la vacanza quinquennale delle magistrature, da loro provocata, non abbia avuto alcuna conseguenza negativa sulla loro carriera; che i loro colleghi prezzolati dai patrizi al fine di ostacolare con l’intercessio il progetto di Licinio e Sestio siano anch’essi riusciti a farsi rieleggere per più anni consecutivamente senza che la plebe facesse loro pagare l’atteggiamento ostruzionistico. Vi è poi chi ha fatto notare che mentre secondo Livio le rogationes sarebbero state approvate nel 367, secondo Plut., Cam., 39.5, la rogatio agraria sarebbe stata approvata, da sola, nel 368[18]. In particolare, per quanto riguarda l’iter di approvazione delle leggi, pare ad alcuni costruita ad arte tutta la serie di rinvii, riproposizioni e tentativi andati a vuoto, che avrebbe come finalità principale quella di colmare un lasso di tempo – dieci anni! – che appare in effetti esageratamente dilatato[19]. Inoltre il racconto si mostra confuso poiché, come si è avuto già occasione di notare, mentre in Liv. 6.39 le proposte sembrerebbero essere state effettivamente votate (in particolare due approvate e una respinta), diversi accenni contenuti nel prosieguo del racconto lasciano chiaramente capire che esse dovevano ancora essere sottoposte ad approvazione. Abbiamo visto anche che della rogatio de decemviris sacris faciundis, che ad un certo punto viene mostrata come parte integrante del progetto tribunizio, si perdono le tracce, tanto che di essa non si fa alcuna menzione in Liv. 6.39. Essa ricompare poi, ma staccata dal resto del progetto, in Liv. 6.42.2, quando venne ripresentata da sola.
Questa non trascurabile serie di incongruenze porterebbe a concludere che il racconto liviano non possa essere considerato nella sua totalità credibile, almeno per quanto riguarda i particolari. E del resto lo stesso Livio, almeno in una occasione, sembra ammettere l’incertezza di alcune delle sue fonti[20].
Per quanto riguarda in particolare il punto relativo alla qualifica delle proposte di Licinio e Sestio come rogationes per saturam, gli studiosi che si sono soffermati su questo punto, di solito nell’ambito di ricerche su altri aspetti della vicenda, sono in genere dell’avviso che non sia esistita una lex satura[21]. Ma a me pare che, anche se effettivamente non sembri esservi spazio per concludere con sicurezza che sia effettivamente esistita una delibera che si possa qualificare come lex satura, si debba comunque riconoscere che, nel quadro della vicenda che occupa gli anni 377-367 a.C., “spalmata” sull’arco di 7 paragrafi e mezzo del sesto libro ab urbe condita, il tema della rogatio per saturam occupi uno spazio francamente troppo ampio e di spicco per essere liquidato con una semplice risposta negativa. Se ne parla in 6.39.1-2; poi di nuovo in 6.39.11-12; e ancora tutta la prima parte del lungo discorso di Appio Claudio Crasso (6.40.6-13) ha come leit-motiv quello della rogatio per saturam. Va detto che Livio non aveva alcun motivo per ‘retrodatare’ l’avversione per le rogationes per saturam facendola risalire ad epoca lontana: quello delle proposte di legge cumulative era problema, all’epoca di Livio, risolto da tempo. Infatti la lex Caecilia Didia, che definitivamente aveva vietato la prassi delle rogationes per saturam, era stata approvata nel 98 a.C.; e non si capisce, francamente, che interesse avrebbe avuto Livio, che scriveva diversi decenni dopo tale data, a far risalire ad epoca così lontana la notizia di una chiara avversione per le rogationes per saturam se egli non avesse effettivamente avuto informazioni chiare e sicure al riguardo. Ciò non significa, naturalmente, che tutti i particolari della narrazione su questo punto siano veri; ma credo si possa ritenere con un certo grado di probabilità che effettivamente Licinio e Sestio abbiano tentato di realizzare le proprie aspirazioni al consolato unendo le tre proposte in una sola. Che poi l’operazione non sia andata a buon fine in questi termini è possibile. Ma rimane a mio avviso significativo che si possa – se l’ipotesi qui formulata è attendibile – far risalire al IV secolo a.C. la prassi di presentare al popolo (più esattamente alla plebe, in quella occasione) proposte di delibere che cumulavano materie disparate con lo scopo di far passare, insieme a quelle gradite al popolo, anche quelle ad esso ‘indigeste’, ma funzionali agli interessi dei proponenti. Ed è anche significativo che l’atteggiamento del popolo e degli avversari politici fosse, sin da allora, chiaramente sfavorevole a tale prassi, con argomenti e motivazioni che non sono in definitiva molto diversi da quelli ricordati da Cicerone quando ci parla della lex Caecilia Didia[22].
3.2. La lex Aquilia
Secondo le fonti giunte sino a noi, la lex Aquilia era un plebiscito composto di tre capita, ciascuno dei quali disciplinava una diversa fattispecie sanzionando atti che, in vario modo, si risolvevano in un pregiudizio recato all’altrui patrimonio[23]. La ricostruzione delle fattispecie non è agevole, soprattutto perché le fonti non sono del tutto concordi sul contenuto dei tre capita[24]. Il secondo caput, poi, appare ai più fortemente eterogeneo rispetto agli altri, tanto che si è formata quella che potremmo chiamare una sorta di communis opinio la quale lo reputa un “corpo estraneo”[25] rispetto al resto del provvedimento legislativo. Le difficoltà relative alla ricostruzione della portata originaria della legge, unite anche a quello che sembra un problema quasi insolubile, e cioè quello della sua datazione, ha fatto sì che alcuni autori abbiano escluso la formazione contestuale dei tre capita, e abbiano proposto l’idea di una formazione “stratificata” del plebiscito.
D. Daube[26], ad esempio, ha ipotizzato che inizialmente sia stata emanata una norma sulla fattispecie più rilevante, cioè l’uccisione di uno schiavo o di un animale; si sarebbe trattato della lex alia quae fuit menzionata da Ulpiano in D. 9.2.1 pr. Secondo l’autore tedesco essa potrebbe essere stata pubblicata, in una con il provvedimento relativo alla adstipulatio, come lex satura. Più avanti sarebbe stata promulgata la lex Aquilia, la quale avrebbe modificato la disciplina riguardante le uccisioni e introdotto la norma sui ferimenti e le lesioni. Nella nuova disciplina così risultante, però, la nuova norma non sarebbe stata inserita dopo il primo caput, come forse sarebbe stato lecito attendersi dal punto di vista sistematico, e la disposizione sulla adstipulatio rimase al secondo posto.
Secondo F. Pringsheim[27] la lex Aquilia sarebbe stata soltanto la definita formulazione di leggi precedenti seguite dall’aggiunta di un provvedimento generale. Sarebbero individuabili cinque diversi strati susseguitisi l’uno all’altro. La lex Aquilia non avrebbe fatto altro che riassemblare i provvedimenti precedenti senza abrogarli.
Secondo A. Guarino il plebiscitoAquilio sarebbe risultato dall’assemblaggio del terzo caput con gli altri due in epoca notevolmente posteriore «in modo da formare una sorta di ‘testo unico’»[28]; e sarebbe forse stato votato nel 286 a.C., costituendo una lex satura[29].
Anche M. F. Cursi[30] propende, se pur con cautela, per una formazione stratificata della legge Aquilia: secondo la studiosa una serie di indizi contenuti nelle Istituzioni e nel commento all’editto provinciale di Gaio consentirebbe di ipotizzare che inizialmente sia stata emanata una disposizione che prevedeva soltanto le fattispecie dei primi due capita, e che soltanto in seguito si sarebbe aggiunta la previsione del terzo caput, introdotta da una nuova e più recente disposizione.
Ma per quanto i sostenitori della formazione stratificata del plebiscito[31] si siano adoperati per dare credibilità alla loro ipotesi, questa rimane ad oggi, sostanzialmente, non provata[32]. E del resto si è visto che anche l’ipotesi della formazione stratificata non escluderebbe in toto la possibilità che uno dei provvedimenti fosse una lex satura.
Se dunque bisogna ammettere – o quanto meno non si può escludere – la natura di provvedimento unico della lex Aquilia[33], bisogna allora domandarsi se essa risponda ad un progetto normativo coerente, quantunque articolato in diverse disposizioni, o non rappresenti piuttosto l’accostamento di disposizioni almeno in parte eterogenee nel contenuto e nelle finalità perseguite, sì che se ne possa dedurre la natura di lex satura del plebiscito. Come si è detto, oggi c’è una tendenza alquanto diffusa in dottrina a ritenere il secondo caput una sorta di intruso nel tessuto del plebiscito, sicché se non si accetta la congettura relativa alla formazione progressiva di esso (che non eliminerebbe comunque ogni problema, da questo punto di vista), si dovrebbe logicamente concludere che esso era effettivamente una lex satura. Se non che, anche questa conclusione non è così pacifica e scontata come si potrebbe pensare. Proprio recentemente è stata proposta da S. Galeotti[34] una ricostruzione del dettato e della finalità del plebiscito aquiliano – in particolare del secondo e del terzo caput – che permetterebbe di ravvisare nelle sue tre disposizioni un intento unitario, perseguito con completezza e coerenza dal rogante.
Per quanto riguarda il secondo caput, esso disciplina una fattispecie, che, almeno prima facie, appare piuttosto distante da quelle prese in considerazione nel primo e nel terzo. Infatti mentre le altre due norme appaiono dirette a proteggere la proprietà di beni punendo condotte idonee a causarne la rovina materiale, il secondo caput tutela un credito, bene che oggi definiremmo “immateriale”. E se si ammette che la finalità della legge fosse la tutela della proprietà contro atti che potevano causare la rovina dell’oggetto di essa, indubbiamente il secondo caput appare non indispensabile al raggiungimento di questa finalità.
Tuttavia le cose possono essere considerate anche sotto un diverso angolo visuale, il quale consentirebbe di eliminare, o almeno ridurre ai minimi termini, il problema della eterogeneità del secondo caput. Partendo da una riflessione sui termini pecunia e fraus presenti nella parafrasi che della disposizione dà Gaio nelle sue Institutiones, se si ammette che la disposizione tutelasse non tanto il credito dello stipulator «nella dimensione astratta di diritto, ma in quella assai concreta di ‘complesso di beni/utilità patrimoniali’ dovuti dallo sponsor», allora si potrebbe ritenere che la pecunia dovuta e fraudolentemente accepta facta dall’adstipulator fosse, in origine, «un debito di res individuate nel genere, anziché... una somma di denaro». L’idea è che la disposizione avrebbe preso in considerazione «res che sarebbero appartenute al dominus se la condotta fraudolenta dell’adstipulator non ne avesse procurato la perdita»[35]. Il secondo caput avrebbe allora avuto lo scopo di tutelare il dominus dalla perdita per opera dell’adstipulator della pecunia, concretamente considerata, dovutagli dal promittente. Questa fattispecie, analogamente a quella sanzionata nel primo caput, sarebbe dunque consistita «nella perdita irreversibile di una cosa (pecunia obligata) conseguente a una condotta tipica (acceptilatio)»[36].
Per quanto riguarda invece il terzo caput del plebiscito, il problema della sua eterogeneità rispetto al primo caput è certo meno assillante,in quanto esso condivide indubbiamente la finalità di tutelare il diritto di proprietà contro atti che fossero idonei a causare la rovina della cosa (con il termine rovina intendo qui indicare tanto il semplice deterioramento quanto la distruzione della cosa). Qualche perplessità in ordine alla sua omogeneità con l’altra disposizione sorgerebbe se si accettasse l’idea che esso avrebbe avuto lo scopo di proteggere (anche) contro atti che causavano non la perdita, bensì il semplice deterioramento della res, come sembrerebbe potersi desumere da quanto Gaio dice in 3.217 affermando che tale caput “de omni cetero damno cavetur”. Rispetto a questa posizione, vi è allora chi – per tentare di armonizzare la ratio del primo e del terzo caput – ha ipotizzato che il terzo caput fosse stato concepito come un completamento del primo, sanzionando le condotte che portavano alla completa o parziale distruzione delle ceterae res, in aggiunta alle fattispecie di lesione non distruttiva delle cose già prese in considerazione dal primo caput. Sicché primo e terzo caput insieme avrebbero avuto la finalità di tutelare il dominus rispetto alle perdite patrimoniali dipendenti dal detrimento di una cosa di evidente rilevanza economica[37]. Ma vi è un’ulteriore possibilità di ricostruire il contenuto del terzo caput, la quale in modo anche più completo permetterebbe di intravedere una finalità comune di tutte le disposizioni della legge, la quale non potrebbe dunque essere più considerata una lex satura. Mi riferisco a quella proposta da S. Galeotti[38], la quale presenta una ricostruzione del terzo caput secondo cui esso avrebbe disciplinato i casi di condotta distruttiva (poiché «il bruciare, il rompere, il fare a pezzi un bene implica ... eliminarlo o renderlo del tutto inidoneo a funzionare, con il conseguente obbligo, per il dominus, di sostituirlo»[39]). Questa ricostruzione conduce la Galeotti a dichiarare che la finalità della lex Aquilia apparirebbe «unitaria e coerente nei tria capita»[40], e si configurerebbe come quella di tutelare il dominus nei confronti di atti idonei a causare la distruzione, o quanto meno la pratica inutilizzabilità, della cosa. Ciò, continua la studiosa, confermerebbe anche che non è necessario ipotizzare una formazione stratificata del plebiscito aquiliano forzando obiettivamente il dettato delle fonti. E, aggiungerei io, consentirebbe anche di concludere – come a me pare tutto sommato abbastanza probabile – che non si possa parlare, nel caso di specie, di una lex satura. Ma riconosco anche che la complessità dei problemi che emergono dall’analisi delle testimonianze in materia di lex Aquilia consiglia comunque una conclusione prudente.
Un aiuto alla soluzione del problema qui affrontato – e cioè se sia possibile considerare la lex Aquilia una lex satura – verrebbe forse dalla possibilità di datare con precisione il provvedimento: in questo caso, infatti, sarebbe possibile capire in che clima esso fu proposto e votato, e sarebbe anche più agevole ricostruire la reale intenzione del magistrato proponente. Sfortunatamente, però, i tentativi sinora fatti di datare il plebiscito non hanno consentito di raggiungere risultati certi, tanto che ancora oggi alla datazione ‘tradizionale’ del 286 a.C., pur sostenuta da diversi studiosi, altri contrappongono diverse ipotesi più o meno distanti. Si può dire che si va da una datazione assai risalente – grosso modo a ridosso della legislazione decemvirale – sino a una datazione alquanto ‘bassa’ verso la metà del II secolo a.C[41]. In particolare l’ipotesi di Serrao, che data la legge nell’ultimo ventennio del III sec. a.C., e sostiene che la sua promulgazione fu suggerita e ispirata da ragioni politiche connesse agli interessi economici dell’emergente ceto equestre[42], consentirebbe di intravedere motivazioni che avrebbero forse giustificato il ricorso ad una rogatio per saturam. Tuttavia l’ipotesi è destinata a rimanere tale, poiché «non possediamo fonti sul processo di composizione della legge, né informazioni certe sulla sua datazione»[43].
3.3. La lex epigrafica sulle province orientali
Si tratta di una legge nota da tempo grazie a una epigrafe in lingua greca scoperta a Delfi tra il 1893 e il 1896, ed edita nel 1921 da H. Pomtow[44], la cui conoscenza è stata accresciuta in modo decisivo grazie alla scoperta, avvenuta negli anni ’70 del secolo scorso, di un’altra epigrafe, sempre in lingua greca, a Cnido, che fu poi pubblicata in editio princeps nel 1974[45]. Gli studiosi, dopo incertezze iniziali, hanno da tempo raggiunto la convinzione che le due iscrizioni riportino due traduzioni, con alcune differenze, della medesima legge[46]. Grazie alla iscrizione di Cnido la datazione del provvedimento ha potuto essere definitivamente precisata tra la fine del II e l’inizio del I sec. a.C.; si tratta di una datazione oggi generalmente accettata, pur con oscillazioni sull’anno esatto di promulgazione[47]. Un punto sul quale la dottrina è ancora oggi divisa è quello della effettiva portata della legge. Mentre sino alla scoperta della epigrafe di Cnido si dava per scontato che essa avesse come oggetto se non esclusivo almeno principale quello della lotta alla pirateria che infestava alcune zone del Mediterraneo orientale (la legge era infatti nota come lex de piratis persequendis), negli ultimi decenni non pochi autori ritengono che anche i provvedimenti contro la pirateria vadano inseriti in un più ampio disegno di riassetto delle province pretorie orientali, e preferiscono dunque considerare la legge in questione una vera e propria legge sulle province, che alcuni qualificano ulteriormente come legge sulle province pretorie, mentre altri, più genericamente, sulle province orientali[48].
Nel complesso la legge di cui ci stiamo occupando contiene i seguenti provvedimenti[49]:
- prescrizione ai consoli di revocare l’invio di truppe in Macedonia;
- prescrizione, sempre ai consoli, di annullare il rendiconto al senato sulle frumentationes a favore dell’esercito stanziato in Macedonia;
- proibizione a tutti i magistrati e promagistrati, nonché ai loro subalterni, di condurre un esercito fuori dalla provincia di competenza;
- conferma dei diritti di amici e alleati di Roma sui loro sudditi;
- concessione al governatore d’Asia di mantenere la Licaonia quale parte della sua provincia;
- ordine al consul prior di inviare a tutti gli amici e alleati di Roma lettere sulla sicurezza della navigazione;
- notizia che, al fine di assicurare una navigazione sicura, la Cilicia è stata costituita come provincia pretoria;
- misure affinché il consul prior ottenga la collaborazione dei re di Cipro, Egitto, Cirene e Siria al fine di garantire la sicurezza della navigazione nel Mediterraneo orientale, impedendo che i pirati possano trovare rifugio e ospitalità nei porti di quelle terre al fine di ivi preparare le loro scorribande;
- imposizione al consul prior di fare rapporto al senato riguardo alle richieste degli ambasciatori inviati a Roma, e di convocare una riunione del senato;
- obbligo per il senato di concedere udienza ai rappresentanti degli alleati; particolarmente si impone al senato di dare udienza extra ordinem ai delegati di Rodi;
- ordine al governatore d’Asia di notificare agli amici e alleati l’invito a collaborare;
- una serie di misure per assicurare la più larga diffusione e divulgazione della legge;
- concessione al governatore di Macedonia, Chersoneso tracico e Caenica del diritto di percepire le rendite pubbliche;
- una serie di ordini impartiti al governatore di Macedonia sulla buona amministrazione della sua provincia;
- ingiunzione al quaestor o proquaestor di Asia o di Macedonia di occuparsi della riscossione di denaro pubblico, unitamente al potere di irrogare multe e fare tutto ciò che la legge prescrive fino al suo rientro a Roma.
Le misure contenute nella legge sono indubbiamente numerose, ed è davvero difficile pensare che, quale che fosse l’intenzione del proponente, tutte le clausole ora elencate dovessero per forza essere sottoposte ad un unico procedimento di approvazione pena il rischio di vanificare il disegno del magistrato rogante. La ratio comune di alcune delle disposizioni è quasi sicuramente l’urgenza di contrastare in modo rapido ed efficace la pirateria; ma come si è visto tale finalità non è l’unica del provvedimento.
Certamente su questo punto ci si potrebbe formare un’idea più chiara se si conoscessero con sicurezza l’identità del proponente e il progetto politico che egli intendeva perseguire. Ma proprio su questi punti decisivi la dottrina è ancor oggi divisa. Infatti, non soltanto è ignota l’identità del magistrato che propose la legge, ma la legge stessa contiene provvedimenti per così dire ‘contraddittorî’, nel senso che per alcuni versi essa sembra comprimere e limitare le prerogative dei magistrati e soprattutto del senato, mentre per altri versi essa sembra ribadire e rafforzare i poteri del senato stesso. Sicché in dottrina vi è chi – e si tratta, va detto, della maggioranza – ha ravvisato nella nostra legge un provvedimento di parte popolare, ispirato probabilmente dai maggiori esponenti di questa fazione (forse L. Appuleio Saturnino?); mentre altri non hanno esitato a interpretare la legge come una iniziativa degli optimates[50]. Stando così le cose, il compito di stabilire se la legge possa essere qualificata come satura, già di per sé arduo, appare ulteriormente complicato, anche se bisogna ammettere che è particolarmente seducente l’ipotesi di chi ha voluto intravedere in Servilio Glaucia il promotore della nostra legge[51].
Personalmente, pur con tutte le cautele che un caso del genere richiede, data la obiettiva eterogeneità e quantità delle clausole normative, propenderei per qualificare la lex come satura[52]. A tale proposito merita di essere almeno ricordata una vecchia congettura di A. Passerini[53], il quale muoveva dalla considerazione che nell’epigrafe di Delfi (fr. B, ll. 28 ss.)[54] si prevede l’invio di un successore a T. Didio, che aveva conquistato il Chersoneso e la Cenica, territori annessi alla provincia di Macedonia; in forza di ciò Passerini vedeva nel provvedimento un chiaro indizio dell’atteggiamento settario del legislatore, mosso dall’intento di colpire un uomo – T. Didio appunto – caro alla nobilitas con la quale i populares, che lo studioso considerava i promotori della legge, dovevano evidentemente regolare dei conti[55]. E collegava a questi fatti la circostanza che, poco dopo la promulgazione della legge sulle province orientali, e cioè nel 98 a.C., proprio T. Didio, eletto per quell’anno al consolato assieme al collega Q. C. Metello nepos, sarebbe stato promotore della famosa lex Caecilia Didia, la quale vietò le rogationes per saturam. Secondo questa congettura, dunque, la legge sulle province orientali sarebbe stata la occasio concreta che avrebbe suggerito a Didio e al collega Metello la presentazione della rogatio che poi, approvata dai comizi, sarebbe passata alla storia con il loro nome.
3.4. Altri provvedimenti
Oltre alle leggi citate, delle quali si hanno nelle fonti notizie caratterizzate, a prescindere dalla loro affidabilità, da un certo grado di chiarezza e completezza, siamo a conoscenza di alcune altre delibere le quali avrebbero avuto le caratteristiche di leges saturae; si tratta però di delibere delle quali apprendiamo attraverso fonti che dicono poco o pochissimo, e quindi non permettono di fare completa luce sulla natura e/o sulla portata dei provvedimenti.
Partiamo dalla testimonianza più elusiva. Nel passo di Diomede grammatico che abbiamo sopra riportato, proprio al punto in cui avevamo arrestato la lettura, l’autore prosegue dicendo:
Cuius saturae legis Lucilius meminit in primo, «per sat<u>ram aedilem factum qui legibus solvat».
Il passo è catalogato al v. 48 del I libro nel classico lavoro di F. Marx[56]. Data la esiguità del frammento è davvero difficile esprimere un parere sulla vicenda cui esso si riferisce (che potrebbe essere, naturalmente, anche una vicenda di fantasia, dato il genere letterario cui la fonte appartiene). Secondo una prima ed elementare lettura, parrebbe parlarsi di un edile creato per saturam con poteri di sciogliere dai vincoli delle leggi. Ma obiettivamente bisogna ri
Sanguinetti Andrea
Download:
Sanguinetti.pdf