Le parole del diritto e le parole della scienza: un difficile dialogo su questioni di prova penale
Marta Bertolino
Professore ordinario di Diritto penale, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Le parole del diritto e le parole della scienza: un difficile dialogo su questioni di prova penale***
Sommario: - 1. Scienza e diritto di fronte alla prova. - 2. La scienza del processo: criteri di scientificità a confronto. - 3. Questioni aperte e rilievi critici a proposito dei giudizi di scientificità e affidabilità scientifica del sapere esperto. - 4. Quale giudice per quale conoscenza specialistica.
1. Scienza e diritto di fronte alla prova
La scienza viene sempre più spesso invocata dal diritto sia in funzione ricostitutiva di categorie dommatiche più o meno tradizionali sia e soprattutto in funzione di sostegno probatorio in sede processuale. Da quest’ultimo punto di vista si solleva la questione, quanto mai attuale e comune ai diversi rami dell’ordinamento, su quale sia il ruolo da riconoscere al giurista e in particolare al giudice che si confronta con il sapere esperto.
L’interrogativo che si pone allora circa quali saperi per il giudice, nell’ambito penale si è presentato in primo luogo e in termini ineludibili con riferimento al concetto di causa penalmente rilevante e al relativo accertamento. Possiamo dire che è proprio su tali problematiche causali[1] che in Italia il discorso giuridico post-moderno si intreccia indissolubilmente con quello delle scienze empiriche, dando vita ad una svolta decisiva e di non ritorno a favore di un approccio interdisciplinare, che subito va oltre la materia della causalità.
Questo approccio si insinua e dà struttura in particolare allo sforzo di fondare il diritto penale delle garanzie costituzionali. È la stessa Corte costituzionale a riconoscerlo, allorché attribuisce un rilievo, anzi una funzione, giuridico-costituzionale alla scienza e ai dati da essa prodotti[2]. Da questo approccio emerge l’esigenza di accertamenti probatori, e quelli causali ne sono un esempio significativo, ancorati a un metodo rigorosamente scientifico e l’inaccettabilità di facili, semplicistiche, spiegazioni probabilistiche. Come scrive attenta dottrina penalistica, «ai tribunali e alle giurie non è permesso pronunciare una sentenza per la quale l’accusato ha commesso probabilmente il reato»[3].
Ciò che occorre è una probabilità altamente qualificata, per il cui conseguimento è necessario affidarsi alla scienza competente e al metodo scientifico. Questo modello probabilistico è quello che viene rivendicato anche per l’accertamento della causalità nella responsabilità civile. Nel ripercorrere lo sviluppo dialettico dottrinale e giurisprudenziale in proposito, la dottrina conclude che «il guadagno consentito dal dibattito sulla causalità, … non va conseguito con il tentativo di imbrigliare con standard arbitrari il libero convincimento, bensì di nutrirlo il più possibile di consapevolezza scientifica perché sia massimamente controllabile»[4]. Questo è il punto d’incontro della causalità civile e della causalità penale, che va al di là della questione delle formule di accertamento di essa, quella dell’“oltre il ragionevole dubbio” in sede penale, quella del “più probabile che no” in sede civile. Formula, quest’ultima, che viene tuttavia contestata da chi non accetta il processo di allontanamento degli elementi della fattispecie della responsabilità civile da quelli della responsabilità penale anche con riferimento all’elemento della causa rilevante. Se, infatti, tutte le leggi scientifiche debbono essere considerate probabilistiche[5], la causalità risponde a un unitario «giudizio probabilistico nel quale la causalità da risultanza naturalistica o di esperienza …, scade a mera valutazione assistita dal riferimento statistico»[6]. Conseguentemente, sarebbe da scartare l’idea che il processo di sussunzione sotto leggi causali di copertura possa portare al riconoscimento della sussistenza di tale nesso in base ad un diverso standard di prova[7], ossia di un grado di conferma probatoria dell’ipotesi esplicativa, quando sia superata la soglia dell’oltre il ragionevole dubbio per la responsabilità penale e invece quella del “più probabile che no” per la responsabilità civile[8]. Lasciate, insomma, le rive sicure e comuni della causalità naturalistica del positivismo scientifico, il modello moderno della causalità probabilistica non autorizzerebbe comunque un approccio meno rigoroso di accertamento causale quando si tratta della responsabilità civile, in ragione di una discutibile diversità strutturale e funzionale di quest’ultima rispetto alla responsabilità penale. Anche per la causalità in sede civile, una volta assimilata a quella penale, si rivendica dunque una serietà di accertamento che solo la formula della condicio sine qua non, applicata con rigore e metodo scientifico, sembra potere assicurare. È infatti proprio «la sussunzione in leggi scientifiche» che «innerva» il libero convincimento del giudice «di saperi che, seppure non possono sostituire l’esperto al giudice nel compito della decisione, non consentono tuttavia a quest’ultimo di ignorare le spiegazioni approntate dal primo»[9].
Si tratta di una prospettiva che rimanda ad una più generale dimensione interdisciplinare del diritto, che chiede aiuto ai diversi saperi scientifici e, fra questi, anche a quelli della filosofia della scienza e dell’epistemologia, da quella classica a quella storiografica. È, infatti, quest’ultimo sapere che fornisce al giudice le conoscenze di metodo e di consapevolezza scientifica, necessarie per svolgere corrette valutazioni probatorie e poter così fare affidamento su una scienza nel processo e del processo, che sia veramente “scienza” e non scienza-spazzatura. Si teorizza dunque una costruzione giuridica della scienza[10], che rappresenti per l’organo giudicante la bussola verso decisioni effettivamente al di là di ogni ragionevole dubbio, fondate cioè su prove scientificamente affidabili, al punto che «il dato probatorio acquisito lasci(a) fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili “in rerum natura”, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana»[11]. Ma, pur con queste precisazioni che dovrebbero chiarire che cosa significhi per la prassi accertamento di responsabilità penale “al di là di ogni ragionevole dubbio”, controverso rimane ancora cosa si debba intendere per prova scientifica o scientificamente affidabile[12].
2. La scienza del processo: criteri di scientificità a confronto
Per comprendere meglio il dibattito tuttora in corso sul concetto sostanziale e processuale di prova scientifica sembra utile volgere lo sguardo, oltre che alla prassi italiana, all’esperienza americana, dove da anni il confronto sulla scientificità della prova continua ad essere all’ordine del giorno dell’agenda della ricerca, ma anche di quella dei giudici, che con la prova si confrontano quotidianamente, e che, come anche in Italia, si interrogano su quale debba essere la loro posizione di fronte alla scienza che entra nel processo[13]. Sul punto una risposta sembra ormai unanime: ad essi non si chiede di essere scienziati, ma “custodi del metodo scientifico”[14], e cioè attenti verificatori e consumatori di leggi e di conoscenze scientifiche[15].
Il riconoscimento in questi termini del ruolo del giudice è presente anche nella giurisprudenza italiana; cosa che rende più certa l’idea che questo si possa annoverare fra le acquisizioni della modernità. D’altra parte, è la più recente Cassazione ad ammettere che la nozione del giudice “peritus peritorum” è «ormai obsoleta e di assai dubbia credibilità. In effetti, l’antico brocardo esprime un modello culturale non più attuale e, anzi, decisamente anacronistico, quanto meno nella misura in cui pretenda di assegnare al giudice reale capacità di governare il flusso di conoscenze scientifiche che le parti riversino nel processo, ove invece una più realistica impostazione lo vuole del tutto ignaro di quei contributi, che sono il frutto di un sapere scientifico che non gli appartiene e non può – né deve – appartenergli»[16]. Ma, prosegue la Corte, la presa d’atto di questa «legittima ignoranza» del giudice non significa «acritico affidamento», che comporterebbe «sostanziale rinuncia al proprio ruolo, mediante fideistica accettazione del contributo peritale, cui delegare la soluzione del giudizio e, dunque, la responsabilità della decisione». Ciò premesso, i giudici di legittimità, riconosciuto che «non esiste una sola scienza, portatrice di verità assolute ed immutabili nel tempo, ma tante scienze o pseudoscienze …», concludono affidando al giudice il compito di controllore della prova scientifica, quale garante di un risultato che possa essere considerato attendibile. A tal fine, si chiede al giudice di verificare proprio la «scientificità del metodo adoperato», oltre al margine di errore, all’obiettiva valenza ed attendibilità del risultato conseguito e all’attendibilità soggettiva di chi sostenga tale risultato. In breve, il giudice deve assumere il ruolo di custode: egli «scrutina e, se del caso, recepisce le informazioni rese da un esperto in giudizio sotto la sorveglianza di altri esperti»[17].
In queste affermazioni riecheggiano le parole del diritto dei giudici americani delle note sentenze Daubert, Kuhmo, Joiner[18]. In particolare, com’è noto, è con la sentenza Daubert del 1993 che si affronta in maniera sistematica e razionale la questione della validità scientifica delle prove presentate sotto forma di pareri di esperti, da sottoporre alla giuria per la decisione finale sulla responsabilità o meno dell’autore. È in tale occasione che si riconosce al giudice il compito di controllore e di custode dell’affidabilità scientifica di tali saperi, di c.d. gatekeeper, compito che egli può e deve esercitare utilizzando i seguenti e ormai famosi criteri di scientificità[19]: la verificabilità e falsificabilità della teoria; la c.d. peer review, cioè la pubblicazione e diffusione delle ricerche e delle teorie che si vogliono accreditare all’interno del processo; la conoscenza del tasso, del margine di errore della teoria da impiegare; e, infine, la generale accettazione della teoria da parte della relativa comunità scientifica, il Frye test introdotto nel 1923[20]. La decisione Joiner del 1997 rappresenta una delle prime applicazioni di tali criteri per scrutinare, in maniera indipendente e senza atteggiamenti deferenziali verso l’esperto che lo ha redatto, l’affidabilità del parere specialistico, mentre la sentenza Kuhmo di qualche anno successiva estende l’ambito di operatività dei criteri a tutte le discipline tecniche[21].
Da queste sentenze derivano i criteri di scientificità che anche in Italia sono al centro del dibattito dottrinale e che la giurisprudenza italiana ha accolto in importanti sentenze precedenti a quella del 2015 appena richiamata, come la già ricordata sentenza Cozzini del 2010[22] o la più recente sentenza Cantore del 2013[23]; ma vale la pena ricordare anche la sentenza Raso, a Sezioni unite del 2005[24], in tema di imputabilità. In esse leggiamo significative “istruzioni” metodologiche su come il giudice debba confrontarsi con il sapere esperto[25].
È, peraltro, nella decisione del 2010 che troviamo, com’è noto, un esplicito rinvio ai criteri Daubert e una integrazione degli stessi per risolvere situazioni in cui «vi siano tesi in irrisolto conflitto». Nella consapevolezza dell’immanenza in tali situazioni del rischio per il giudice di rifugiarsi in argomentazioni sorrette da un uso retorico della scienza, i giudici di legittimità invitano la prassi che si accosta al sapere scientifico ad “ancorare” le decisioni a sicure “bitte”, che per la Corte sono costituite da alcuni criteri irrinunciabili. Secondo la Corte infatti «per valutare l’attendibilità di una teoria occorre esaminare gli studi che la sorreggono. Le basi fattuali sulle quali essi sono condotti. L’ampiezza, la rigorosità, l’oggettività della ricerca. Il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi. La discussione critica che ha accompagnato l’elaborazione dello studio, focalizzata sia sui fatti che mettono in discussione l’ipotesi sia sulle diverse opinioni che nel corso della discussione si sono formate. L’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica. Ancora, rileva il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Infine, dal punto di vista del giudice, che risolve casi ed esamina conflitti aspri, è di preminente rilievo l’identità, l’autorità indiscussa, l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove». E, si conclude: «D’altra parte, in questo come in tutti gli altri casi critici, si registra comunque una varietà di teorie in opposizione. Il problema è, allora, che, dopo aver valutato l’affidabilità metodologica e l’integrità delle intenzioni, occorre infine tirare le fila e valutare se esista una teoria sufficientemente affidabile ed in grado di fornire concrete, significative ed attendibili informazioni idonee a sorreggere l’argomentazione probatoria inerente allo specifico caso esaminato. In breve, una teoria sulla quale si registra un preponderante, condiviso consenso. Naturalmente, il giudice di merito non dispone delle conoscenze e delle competenze per esperire un’indagine siffatta: le informazioni di cui si parla relative alle differenti teorie, alle diverse scuole di pensiero, dovranno essere veicolate nel processo dagli esperti»[26].
È proprio nella sentenza appena esaminata che la giurisprudenza italiana sembra voler mettere compiutamente a frutto gli insegnamenti della prassi americana, integrandoli, per risolvere complesse questioni probatorie. E, fra quelli accolti, il criterio che risulta trovare maggiore successo e al quale sembra riconoscersi una particolare forza persuasiva anche fra i giudici italiani rimane ancora quello del preponderante, condiviso consenso della comunità scientifica[27]. è, questo, d’altra parte, il criterio che per anni, a partire dalla decisione Frye, ha fatto da guida ai giudici americani e che non viene dunque messo da parte, ma affiancato da nuove regole metodologiche di giudizio che, alla fine, dovrebbero confortarlo, nel senso di confermare l’affidabilità scientifica di un sapere che già “circola” e ha trovato accoglimento nella comunità scientifica.
Interessanti anche le “istruzioni” della sentenza Cantore. In essa, ricordando la qualificata giurisprudenza della Suprema corte (il riferimento è alla sentenza Cozzini), i giudici di legittimità denunciano apertamente «i pericoli che incombono» nel campo della valutazione giuridica delle informazioni scientifiche nei seguenti termini: «la mancanza di cultura scientifica dei giudici, gli interessi che talvolta stanno dietro le opinioni degli esperti, le negoziazioni informali oppure occulte tra i membri di una comunità scientifica; la provvisorietà e mutabilità delle opinioni scientifiche; addirittura, in qualche caso, la manipolazione dei dati; la presenza di pseudoscienza in realtà priva dei necessari connotati di rigore; gli interessi dei committenti delle ricerche. Tale situazione rende chiaro che il giudice non può certamente assumere un ruolo passivo di fronte allo scenario del sapere scientifico, ma deve svolgere un penetrante ruolo critico, divenendo (come è stato suggestivamente affermato) custode del metodo scientifico». Ciò significa per la Corte che, sotto il profilo metodologico, «il giudice, con l’aiuto degli esperti, individua il sapere accreditato che può orientare la decisione e ne fa uso oculato, metabolizzando la complessità e pervenendo ad una spiegazione degli eventi che risulti comprensibile da chiunque, conforme a ragione ed umanamente plausibile: il più alto ed impegnativo compito conferitogli dalla professione di tecnico del giudizio»[28].
Un approccio metodologico di tal genere era peraltro già stato accreditato e fatto proprio, e forse per la prima volta in termini così chiari e decisi, dalle Sezioni unite del 2005, che, nell’affrontare la spinosa e controversa questione del concetto di infermità ai fini dell’esclusione o diminuzione della capacità di intendere e di volere, raccomandavano al giudice di «fare riferimento alle acquisizioni scientifiche che, per un verso, siano quelle più aggiornate e, per altro verso, siano quelle più generalmente accettate, più condivise, finendo col costituire generalizzata (anche se non unica, unanime) prassi applicativa dei relativi protocolli scientifici: e tanto va considerato senza coinvolgere, d’altra parte, e più in generale, ulteriori riflessioni, di portata filosofica oltre che scientifica, circa il giudizio di relatività che oggi viene assegnato, anche dalla comunità scientifica, alle scienze in genere, anche a quelle una volta considerate assolutamente “esatte”, del tutto pacifiche e condivise (nel tramonto “dell’ideale classico della scienza come sistema compiuto di verità necessarie o per evidenza o per dimostrazione”, come è stato autorevolmente scritto), vieppiù tanto rilevando nel campo del sapere medico».
3. Questioni aperte e rilievi critici a proposito dei giudizi di scientificità e affidabilità scientifica del sapere esperto
Tuttavia, anche i criteri di scientificità richiamati dalle Corti sembrano vacillare e rivelarsi inadeguati a fornire il sostegno necessario al giudice per lo svolgimento del ruolo di fruitore di sapere scientifico. «Detto altrimenti: resta il dubbio che un compito così impegnativo sia gestibile da un giudice pur consapevole e attento»[29]. E, infatti, lo statuto epistemologico originato dalla sentenza Daubert in realtà presta il fianco a critiche anche di segno opposto e mostrerebbe tutta la sua debolezza proprio là dove di esso il giudice sembrerebbe avere più bisogno e cioè nei casi di incertezza scientifica insuperabile[30]. Specie in tali casi, giustamente, si dubita che possa «chiarire il processo ciò che la scienza non riesce a fare al suo interno», e i noti criteri epistemologici si rivelano inutilizzabili al fine di aiutare l’organo giudicante a vagliare il sapere scientifico, che comunque «rimane una preziosa risorsa da utilizzare con vaglio critico accresciuto, ma pur sempre nel rispetto dei principi di garanzia e delle regole di giudizio»[31]; con la conseguenza che, quando «la scienza è divisa a metà o si è in presenza di un sapere scientifico ancora pioneristico e controverso non c’è modo di approdare, nel processo, a una certezza logico-razionale idonea a reggere il peso morale di una condanna penale»[32].
Di questo sembra prendere atto recente giurisprudenza di merito che, a proposito della questione fortemente controversa a livello scientifico delle cause delle morti per esposizione a polveri di amianto, afferma che, quando allo stato attuale della conoscenza non esiste una legge scientifica in grado di spiegare il decorso causale tipico, risulta «impossibile giungere ad una spiegazione della causalità individuale dell’evento tumore concretamente considerato. Gli attuali modelli scientifici costituiscono modelli matematici che valgono in relazione alla mortalità generale ma sono inidonei per l’indagine individuale sulla causalità di un reato di evento»[33]. In questi difficili contesti probatori, dunque, si ammette che nemmeno i criteri epistemologici elaborati dalla prassi sia americana che italiana sono in grado di condurre il giudice a superare la soglia del ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato. Questa conclusione lascia però insoddisfatta altra parte della giurisprudenza, che, di fronte alla gravità degli eventi imputati, fa un uso strumentale dei criteri epistemologici determinati nella sentenza Cozzini, proprio al fine di negare il dubbio scientifico. Si contrabbanda così per verità scientifica quella che al massimo si può definire verità giurisprudenziale o scientismo giuridico, al fine di giustificare una sentenza di condanna[34].
Anche se su altro fronte, il dibattito sulla “scienza Daubert” nel processo non è peraltro meno acceso negli Stati Uniti d’America, dove, come apertamente riconosciuto dalla dottrina, «il sistema legale ha sempre trovato la testimonianza esperta problematica»[35]. In questo Paese, la denuncia della inadeguatezza dei criteri Daubert a fornire al giudice una conoscenza scientifica tale da garantire decisioni di condanna che superino lo standard probatorio dell’oltre il ragionevole dubbio è chiara e puntuale. Essa arriva, prima di tutto, da un fronte particolarmente qualificato, quello di filosofi della scienza come Susan Haack[36]. A chi si occupa di epistemologia e di filosofia della scienza infatti lo stesso modello Daubert proposto dalla Corte suprema americana nel 1993 è apparso «come una proposta confusa e alquanto imbarazzante», che «nasce da alcuni errori e fraintendimenti, dati anzitutto da una mescolanza di piani»[37]. Così, per la Haack la Daubert Rule sarebbe insufficiente, se non addirittura inaffidabile, se si considera che, ad esempio, il criterio del consenso generalizzato in un campo «è un indicatore di attendibilità tanto meno robusto quanto più il campo in questione è debole»; che chiedere ai giudici di vagliare l’attendibilità di qualsivoglia tipo di conoscenza specialistica, tecnica o abilità impone loro un onere per cui sono mal equipaggiati e che comunque, essendo troppi i campi di expertise potenzialmente rilevanti sotto il profilo giuridico, non vi sarebbe «modo di far essere … i giudici al passo con ogni tipo di testimonianza esperta con cui potrebbero confrontarsi»; che nella sentenza Daubert si fa confusione fra attendibile e scientifico, e ciò avrebbe sviato l’attenzione delle corti da quello che avrebbe dovuto essere un fatto ovvio: «non tutti gli esperti scientifici sono attendibili – alcuni sono onestamente in errore, altri incompetenti, altri si ingannano da soli e probabilmente alcuni sono disonesti; e non solo i periti scientifici sono attendibili». In breve: «non tutta la testimonianza scientifica esperta è attendibile, né tutta la testimonianza attendibile è scientifica»; che, infine, suggerendo «che una testimonianza esperta è resa scientifica dall’uso del “metodo scientifico” per arrivare alle proprie conclusioni, Daubert ha generato una preoccupazione sterile e a volte risibile per la “metodologia”»[38].
La Corte di Daubert, nel tentativo di rintracciare una metodologia scientifica capace di garantire, se rispettata, risultati affidabili, si sarebbe così «collocata su un instabile amalgama degli approcci molto diversi di Popper e Hempel, nessuno dei quali, tuttavia, è in grado di soddisfare la richiesta»[39]. Questa combinazione delle tesi verificazioniste, della conferma, di Hempel, con quelle falsificazioniste, della smentita, di Popper avrebbe generato «un serio malinteso sul ruolo delle scienze nella ricerca in generale, rivelato dall’identificazione operata dalla corte fra “scientifico” e affidabile»[40]. In altre parole, il primo dei fattori, che sarebbe il risultato della sfortunata confusione del giudice Blackmun (autore dell’opinione di maggioranza dei giudici in Daubert) fra “affidabile” e “scientifico”, rifletterebbe una parziale incomprensione o meglio un malinteso su cosa si debba intendere per metodo scientifico; il secondo criterio rifletterebbe l’idea sbagliata che la pubblicazione sottoposta al giudizio dei pari sia un indice della diffusa accettazione del quarto criterio della vecchia regola Frye. Il terzo, se pure può apparire utile per risolvere alcune questioni, come ad esempio quella delle prognosi di pericolosità, sarebbe significativamente muto sulla percentuale di tasso di errore conosciuto o potenziale in grado di rendere la testimonianza esperta troppo inaffidabile per essere ammessa[41].
Insomma, non esisterebbe un “metodo scientifico” nel senso assoluto della Corte: non ci sarebbe «un unico modo razionale di inferire o una procedura di ricerca usata da tutti gli scienziati e solo dagli scienziati”». Non solo, ma la valutazione di “non scientifico”, precisa ulteriormente la Haack, implicherebbe «una critica epistemica tanto generica quanto è generico un apprezzamento epistemico quale “scientifico”»[42]. In conclusione, «la filosofia della scienza della corte di Daubert è confusa”, né le decisioni successive della Corte suprema, Joiner e Kumo, avrebbero chiarito le cose»[43]. Anzi, a queste ultime andrebbe rimproverato di aver portato avanti un’opera di decostruzione del decalogo epistemologico introdotto dalla decisione del 1993; con la conseguenza che il giudice, quando deve verificare la credibilità di un parere esperto, si imbatte nello stesso tempo in una molteplicità di problemi, trovandosi di fronte a «a perfect epistemological storm»[44].
Forse una ragione di tale confusione potrebbe essere rintracciata nel fatto che la prospettiva epistemologica in realtà si è trasformata in una vera e propria “epistemologia giudiziaria”, elaborata dalle Corti americane con il principale obiettivo di mettere i giudici in grado di affrontare e meglio controllare i casi loro sottoposti[45], in particolare quelli in cui la giustizia penale si confronta con «verità fattuali – verità fattuali che, sempre più spesso, le Corti possono scoprire solo affidandosi alla scienza»[46]. In tale prospettiva, l’epistemologia giudiziaria assicura al giudice «l’uso degli strumenti della teoria della conoscenza finalizzato alla soluzione dei problemi della prova giudiziaria. In altre parole: trattazione della natura, delle forme, delle fonti, dei metodi e dei requisiti di correttezza della ricognizione processuale dei fatti giuridicamente rilevanti»[47].
Ma la debolezza del modello epistemologico delle corti americane emerge anche se si considera che, diversamente dall’opinione comune, la Daubert Rule rappresenterebbe in vero una liberalizzazione dello standard di ammissibilità della prova scientifica rispetto alla regola Frye, fino ad allora in vigore, della generale accettazione della teoria da parte della comunità scientifica. La Corte Daubert, come evidenzia ancora una parte della dottrina statunitense[48], avrebbe in realtà indicato una serie di fattori in sé non decisivi, che possono essere, anche separatamente, presi in considerazione dal giudice per accertare la validità scientifica del parere esperto. Questi fattori, però, non solo non avrebbero lo scopo di rendere più rigoroso il giudizio sulla scientific evidence, ma non sarebbero da considerare né definitivi né un test di ammissibilità. Essi dovrebbero semplicemente orientare per un’indagine sui principi e sulla metodologia e non sulle conclusioni. In estrema sintesi, occorrerebbe abbandonare la visione mitologica e divenuta popolare che la Daubert Rule abbia trasformato il giudice nel ruolo di controllore, di gatekeeper della prova esperta, in grado di escludere dal processo la c.d. scienza-spazzatura o pseudo-scienza, la junk science[49]. Anzi, la Corte avrebbe fallito nel compito di delineare un chiaro standard di accettazione della prova in quanto scientifica[50].
Insomma, il panorama giudiziale americano post-Daubert «sarebbe stato contaminato da decisioni sull’ammissibilità dei pareri esperti inconsistenti e carenti sotto il profilo delle argomentazioni». Il risultato finale sarebbe un regime della prova esperta, i cui criteri «sono difficili da prevedere, essi variano da corte a corte, da giudice a giudice, e in essa è possibile escludere pareri che meriterebbero di essere presentati alla giuria e ammetterne invece altri che non lo meriterebbero».[51]
E la ricerca empirica sembrerebbe confermare questa conclusione, se è vero che i suoi risultati indicherebbero una notevole disparità sul modo di percepire e di applicare i criteri Daubert da parte dei giudici americani, i quali, tra l’altro, non sarebbero nemmeno riusciti a mettersi d’accordo se tali criteri impongano un regime probatorio più restrittivo rispetto a quello della decisione Frey[52]. Sotto quest’ultimo profilo, tali studi empirici concorderebbero sul fatto che, se per un verso lo statuto della sentenza Daubert avrebbe in vero innalzato lo standard di giudizio dell’ammissibilità di una prova in quanto scientifica, almeno per quanto riguarda in particolare le cause civili, per altro verso i giudici non utilizzerebbero spesso i fattori di affidabilità suggeriti dalla decisione. In breve, i giudici del dopo Daubert sarebbero più consapevoli del loro ruolo di gatekeepers, essendo più scrupolosi nella valutazione probatoria, ma la svolgerebbero sulla base di propri, personali criteri di ammissibilità. E ciò a causa del fatto che molti giudici non hanno ben compreso lo statuto epistemologico della decisione del 1993 e non sono quindi in grado di applicarlo per distinguere l’evidenza ammissibile da quella inammissibile. L’effettivo rapporto fra i fattori epistemologici e l’effetto di un innalzamento del livello di ammissibilità nel singolo caso rimane quindi ancora da chiarire, anche se alla sentenza Daubert andrebbe comunque riconosciuto il merito di aver “educato” le corti ad una maggiore acribia probatoria[53].
Ciò che invece è chiaro è il disorientamento delle corti americane sulla percezione della sentenza Daubert. Dai risultati delle indagini empiriche emerge infatti che il 32% dei giudici intervistati crede che i criteri epistemologici di Daubert abbiano innalzato gli standard di valutazione delle prove scientifiche, mentre il 23% ritiene esattamente il contrario. Il 36%, poi, dichiara invece che nulla è cambiato, e il rimanente 11% afferma di non essere ancora in grado di stabilire quale sia stato l’impatto della sentenza Daubert[54]. Non solo, ma secondo altri studi non sussisterebbero ormai dubbi circa il fatto che l’introduzione della regola della necessaria affidabilità del parere esperto avrebbe fatto ricadere sui giudici «un compito scoraggiante, poiché ora sarebbero costretti a decidere complesse questioni di prova esperta»[55]. Un compito di ricerca della verità che sarebbe stato reso ancora più difficile dal fatto che la Corte Daubert ha sottolineato la flessibilità dei criteri di scientificità da essa elaborati. Con la conseguenza di un’applicazione di essi secondo modalità differenti in ragione del tipo di prova richiesto e di una scelta del criterio da utilizzare nel caso di specie strettamente correlata alla percezione da parte del singolo giudice che alcuni tipi di prove sono più scientifici di altri. A tale proposito si richiamano diversi studi dai quali sarebbero risultate le seguenti differenze nell’applicazione dei criteri Daubert: di questi criteri il più menzionato è quello della generale accettazione[56], seguito da quello della falsificabilità e della peer review e pubblicazioni; ai criteri Daubert si farebbe appello con più frequenza nei processi civili per danni tossicologici; in questi processi i fattori di giudizio della falsificabilità e della peer review e pubblicazione sarebbero utilizzati in misura doppia rispetto alle cause in cui si tratta di questioni psicologiche, psichiatriche o di risarcimento; in queste ultime i criteri maggiormente utilizzati sarebbero quelli del tasso di errore e della generale accettazione; infine, rispetto alle altre cause, in quelle di natura psicologica o psichiatrica i fattori Daubert non sarebbero frequentemente richiamati e, quando lo sono, la preferenza va al criterio della generale accettazione[57].
Queste risultanze empiriche confermano dunque le affermazioni di attenta e competente dottrina, secondo le quali l’invito della sentenza Daubert rivolto ai giudici, ma anche agli avvocati, di diventare «more sophisticated consumers of science» sarebbe in realtà rimasto largamente insoddisfatto. Questi protagonisti del processo continuerebbero ad essere, in media, ampiamente a digiuno di nozioni matematiche, oltre ad avere una scarsa conoscenza delle caratteristiche basilari del metodo scientifico[58].
Constatato tutto ciò, la conclusione che si dovrebbe trarre è che la costruzione scientifica della decisione Daubert non si fonderebbe su regole tratte dall’epistemologia scientifica, ma sarebbe piuttosto il risultato di un processo di giurisdizionalizzazione della scienza, in cui le sfide fondamentali sorte dall’utilizzo dei dati scientifici per le decisioni giudiziali sono rimaste irrisolte, e la trasposizione di questi ultimi nel processo resterebbe una questione confusa e aggrovigliata, in attesa ancora di essere districata. Un esempio di tale confusione viene tratto dalla giurisprudenza americana in tema di accertamenti causali. A proposito di essi, rileva competente dottrina, viene utilizzato il concetto di «eziologia differenziale» per descrivere l’approccio metodologico che dovrebbe caratterizzare questo tipo di accertamento e che dovrebbe portare a distinguere, differenziare, appunto, la causa penalmente rilevante dalle altre cause o condizioni alternative scartate nel caso di specie. Ma quella di «eziologia differenziale», pur valida in sé, è una espressione coniata dalle corti che non trova riscontro, come il concetto ad essa sottostante di causa, fra gli scienziati e che postula una metodologia ancora da spiegare[59].
Ma il modello epistemologico elaborato dalla prassi americana si esporrebbe anche alla critica di non offrire uno specifico criterio per aiutare il giudice nel difficile compito del passaggio dal piano della valutazione generale ed astratta della scientificità della spiegazione esperta all’applicazione di essa al caso concreto. Si tratta della problematica questione della traslazione dalla generalizzazione alla individualizzazione e viceversa secondo un procedimento fondato su verifiche, come la scienza esige che sia, tenendo conto delle particolarità del fatto da giudicare, come è accaduto soprattutto in materia di accertamenti causali e in special modo là dove si discute di responsabilità medica[60]. Questa annosa e controversa questione rimanda dunque a questioni di metodo. Quello della scienza è infatti un procedere sperimentale che va dalla base empirica oggetto di sperimentazione alla formulazione della teoria a carattere generalizzante, poiché scopo della scienza è di capire i fenomeni associandoli per categorie generalizzanti. Quello del diritto parte invece dalla regola generale, la norma, che deve, con l’apporto, ove necessario, del sapere esperto, inverarsi nel caso individuale e concreto. Ma perché questo apporto sia valido occorre che anche l’esperto applichi e sia in grado di applicare la sua teorica al caso concreto. Infatti, «la verifica di affidabilità e di attendibilità scientifica della prova non è un giudizio generale ed astratto, bensì orientato in funzione delle concrete esigenze probatorie dettate dalla realtà dei fatti oggetto di indagine»[61]. Questa «fondamentale sconnessione fra il modo in cui lo scienziato si accosta al mondo empirico e il modo in cui lo fanno le corti»[62] e i rischi ad essa collegati sono peraltro ben presenti anche a quella dottrina statunitense che ricorda come, se gli scienziati sono impegnati a raccogliere dati, studiando gruppi, campioni di soggetti, per arrivare ad affermazioni generali, queste generalizzazioni siano utilizzate dai giudici per fare affermazioni particolaristiche, sui singoli casi. Questa divergenza metodologica o «basic tension» fra orientamento scientifico al raggruppamento di dati empirici e il decision making delle corti viene chiamato il G2i problem[63]. Esso rende ancora più complessa la traduzione dei dati scientifici nel linguaggio del diritto in vista della decisione.
D’altra parte, anche nella diversità di linguaggio è stata individuata una fonte di reali difficoltà di comprensione, di comunicazione fra scienza giuridica e scienza specialistica, come emerge dal fatto che, ad esempio, «certi concetti sono utilizzati dalle scienze empirico-sociali in termini empirico-descrittivi, mentre nel linguaggio giuridico assumono un significato, a torto o a ragione, puramente normativo»[64] oppure, ancora, dal fatto che «standard legali come “capacità volitiva” e “impulso irresistibile” sono per uno scienziato neurocognitivo privi in sé di qualsiasi significato»[65]. Come lo sono, d’altra parte, per il giurista, e per il giudice in particolare, molti dei concetti e delle definizioni di saperi specialistici. Per far fronte a queste difficoltà e poter così instaurare un proficuo dialogo si propone l’introduzione di una «“lingua franca”, che rappresenti un ponte sull’abisso concettuale che esiste fra le diverse discipline»[66].
4. Quale giudice per quale conoscenza specialistica
Se pure sconfortanti, anche queste conclusioni dovrebbero comunque fare parte dei saperi del giudice, soprattutto se si considera che sempre più spesso chi giudica ha bisogno dell’aiuto dell’esperto per il moltiplicarsi di questioni tecnico-scientifiche che entrano nel processo penale[67]. Si pensi, per fare ancora un esempio, a quella da ultimo sollevata circa la affidabilità del testimone c.d. oculare, dalle cui affermazioni spesso dipendono le sorti dell’imputato. Ebbene, le scienze sociali e cognitive hanno ormai da tempo evidenziato, grazie alla elaborazione di una teorica dei numerosi errori, in particolare cognitivi e di memorizzazione, in cui possono incorrere i testimoni oculari, come tale testimonianza sia tutt’altro che affidabile. Se a questa teorica si riconosce lo statuto di scientificità, come ha fatto di recente anche la Corte suprema dell’Illinois nel 2016, anche quella relativa all’attendibilità della identificazione del colpevole attraverso la prova dichiarativa diventa una questione tecnico-scientifica di competenza del sapere esperto. L’expert testimony diventa dunque ammissibile anche in questa materia, poiché ora il giudice sembra poter fare affidamento su una teoria che viene riconosciuta in grado di spiegare scientificamente perché la prova dichiarativa oculare può non essere affidabile[68]. Cosa che senza quella teoria si poteva solo presumere, ma non asseverare. Se tale apertura significa riconoscere la validità scientifica del sapere esperto anche in siffatta materia, allora anche questo dovrebbe fare parte del bagaglio culturale del giudice, nel senso quantomeno di conoscenza dei possibili rischi di una condanna ingiusta sulla base della sola testimonianza oculare di identificazione dell’autore del reato.
Tuttavia, se guardiamo ancora all’esperienza americana, ma non solo ad essa, ci rendiamo subito conto anche di come il giudice possa facilmente trovarsi in difficoltà quando si confronta con il sapere specialistico, anche perché, come denuncia ancora attenta dottrina epistemologica[69], gli esperti troppo spesso, «piuttosto che far luce sulle questioni fattuali oggetto del caso», le confondono od oscurano. Il giudice deve dunque essere attrezzato. Attrezzato per uscire vincitore dalla “guerra” fra gli esperti, che sorge per la presenza di testimonianze esperte fra loro in competizione, e che quasi sempre si accende nel processo, allorché emergono questioni tecnico-scientifiche complesse o incerte; attrezzato per districarsi nella giungla della ormai grande varietà di materie che possono essere oggetto di pareri esperti. A tale proposito, è ancora la stessa dottrina a rilevare come il ruolo che questi esperti svolgono nel processo possa essere anche «travolgente», e come sia possibile trovare «di fatto, esperti in praticamente tutto, da far venire l’imbarazzo della scelta»[70]. Così, nei processi americani si rintracciano «esperti in asbestosi, ricostruzione di incidente, progettazione di automobili, autenticazione di opere d’arte, macchie di sangue, segni di morso …, violenza domestica, adesivi dentali …, pericolosità futura …, progettazione di sedie da giardino pieghevoli ecc.». Ebbene, nel «sistema della giustizia penale incontriamo non solo analisti del DNA, esaminatori di impronte digitali, specialisti in documenti e calligrafia, esperti di segni lasciati da strumenti ecc., ma anche (tra molti, molti altri) psichiatri che depongono circa la sindrome da stress post-traumatico, la sindrome della donna maltrattata, la sindrome del trauma da stupro, la sindrome della gestione dell’abuso sessuale su minore, ecc., e psicologi che depongono sulle debolezze della testimonianza oculare e della memoria»[71].
La situazione si presenta negli stessi termini in Italia? Sarà questo anche il nostro destino? Forse il nostro sistema processuale penale, in cui il giudice mantiene ancora un importante ruolo da protagonista, potrà fungere da provvidenziale rimedio contro un destino di inadeguatezza delle parole del diritto nel confronto con quelle della scienza che entra nel processo.
Ma, come può allora il giudice districarsi nella selva della scienza con l’aiuto della scienza, se è emerso che quello della generale accettazione può essere di poco o nessun aiuto come criterio di affidabilità di una spiegazione scientifica quando la comunità di riferimento è essa stessa debole, ristretta, fortemente divisa al suo interno e proiettata alla realizzazione dei propri interessi? Se è emerso che far ricadere sui giudici il compito di verificare l’affidabilità di qualsivoglia conoscenza o tecnica specialistica significa imporre loro un compito per il quale essi sono “mal equipaggiati”? Se è emerso che, data la infinita varietà dei campi specialistici, le linee-guida di affidabilità di cui il giudice dispone non sono altro che formule certo plausibili, ma che alla fine si risolvono in un vuoto invito per il giudice “a fare la cosa giusta”?[72]. Per far fronte a tale situazione, è la stessa dottrina che l’ha denunciata a fare una proposta, fra le altre, che appare particolarmente interessante. E cioè quella di cercare soluzioni per rinforzare, migliorare la pratica della scienza forense, prima che essa valichi la soglia dei tribunali, anziché cercare di controllare l’ammissibilità del parere esperto o di andare alla ricerca di errori o infedeltà del parere una volta che esso è entrato nel processo. Dunque, un tentativo di miglioramento alla fonte, che non è rinvenibile nei criteri Daubert, né nelle sentenze successive[73].
Su questa posizione sembra convergere la dottrina italiana, che indica come strada da proseguire quella «del miglioramento qualitativo delle consulenze che fanno ingresso nel processo penale»[74]. Pur con specifico riferimento alla scienza medico-legale e al problema della causalità, questa dottrina, alla luce dell’importanza crescente della consulenza tecnica ai fini del ragionamento probatorio, pone «la produzione e l’ingresso nel procedimento penale soltanto di evidenze di qualità» fra le premesse indispensabili di tale ragionamento e chiarisce che, perché tali evidenze siano di qualità, occorre che «l’evidenza sia oggettiva, ripetibile e falsificabile». Affinché ciò si realizzi, secondo questo indirizzo, «il contributo in questo momento più importante e delicato al recupero delle garanzie penalistiche … proviene proprio dal lavoro di non penalisti, ed in particolare da chi, nell’ambito della medicina legale, sta cercando in modo sistematico (seguendo un preciso progetto culturale) non solo di raccomandare, ma di fissare fattivamente le condizioni o comunque di avviare un discorso strutturato sul metodo per fare della medicina legale una scienza “forte”»[75]. In tale contesto, occorre prendere atto che i fattori Daubert e gli indici ad essi collegati della sentenza Cozzini finirebbero con l’occupare ormai le retrovie del sistema probatorio. Quelle appena riportate sarebbero infatti da considerare «indicazioni operative» che, «oggettivizzando il sapere medico legale, rendendolo riproducibile e quindi controllabile, sopravanzerebbero le indicazioni della già evocata sentenza Cozzini, che, sulla scia della Daubert … raccomanda al giudice una valutazione critica quanto all’ingresso delle consulenze nel processo», e aiuterebbero a contenere il rischio, «oggi molto concreto, che il richiamo a questo leading case … si risolva in un esercizio di sterile retorica giudiziaria»[76]. In via generale, ciò che si invoca sarebbe dunque «una cultura scientifica autenticamente protesa alla ricerca di standard e metodologie condivise»[77]. Mentre, con particolare riferimento alla psichiatria, se per un verso si riconosce lo sforzo per l’«adozione di un approccio scientifico che utilizza procedure standardizzate e riproducibili al fine di ottenere dati il più possibile oggettivi che possano contribuire al processo diagnostico e all’iter clinico», per altro verso, con specifico riguardo al «campo della psichiatria forense», si sottolinea che «suddetto approccio potrà consentire di ridurre la grande discrezionalità soggettiva alla quale si assiste molto spesso in ambito peritale»[78].
Ma, prima di ciò, perché i rimedi proposti siano efficaci occorrono giudici preparati, in particolare quando si tratta di confrontarsi con saperi di scienze emergenti, dalle quali possono scaturire nuove prove o nuove tecniche, come ad esempio quelle neuroscientifiche. Come quelle causali, le prove neuroscientifiche sono attualmente al centro di un coinvolgente e difficile dibattito, non solo perché al sapere neuroscientifico si deve il riaccendersi del confronto sulla capacità di autoderminazione dell’uomo e dunque sulla libertà d’azione come fondamento della responsabilità penale[79], ma anche perché tali scienze hanno offerto nuove chiavi di lettura del comportamento umano, come fenomeno complesso che si sottrae a comode semplificazioni.
Nel panorama italiano il sapere neuroscientifico irrompe con ritardo e con ritardo entra nelle aule giudiziarie, come testimoniano alcune note vicende in particolare in tema di imputabilità penale[80]. Per confrontarsi anche con tale sapere, che sulla scena statunitense è da anni invece presente e fatto proprio dalle corti, i giudici devono essere formati e devono poter disporre degli strumenti cognitivi e metodologici appropriati, senza lasciarsi abbagliare dal fascino che la prova neuroscientifica può esercitare sul laico per la sua intrinseca oggettività. Attraverso tecniche, come ad esempio quella di neuro-immagine, l’esperto, infatti, è in grado di presentare al giudice immagini del cervello e delle sue patologie strutturali e funzionali. Ma queste immagini da sole non spiegano le ragioni del comportamento criminale, che è il risultato di una complessa attività mentale che fino ad ora nessuna fotografia del cervello è riuscita a fissare. Perché nessuna tecnica neuroscientifica è capace di “leggere la mente” e di offrire accesso diretto alle funzioni cognitive[81]. Se problematica rimane dunque ancora la forza probatoria di tali tipi di prove, sulla cui ammissibilità si continua peraltro a controvertere[82], nemmeno però si può ignorare l’importante contributo che esse possono comunque dare al giudice per l’accertamento di elementi del reato, come il dolo, la colpa, l’imputabilità, o per l’accertamento della veridicità della prova dichiarativa[83]. In questi ambiti probatori, nessuno è disposto a negare infatti il significativo contributo che le nuove prove scientifiche possono fornire al giudice; in termini però non assoluti ma relativi e integrativi. Nel senso che, come ormai concordemente riconosciuto, i dati neuroscientifici rimandano a realtà, cerebrale e genetica, che non possono essere ignorate ma che devono essere utilizzate «a integrazione, non certo a sostituzione della costruzione clinica e della valutazione forense»[84]. Si tratta di un approccio clinico integrato che trova ampio consenso nella comunità neuroscientifica. Esso si inserisce nel contesto più generale della relativizzazione della scienza e del suo contributo in ambito forense e consente agli stessi neuro-esperti di affermare che attualmente quello che le neuroscienze offrono «è la possibilità di rafforzare l’evidenza dell’esistenza di difetti di mente già dimostrati, fornendo un altro pezzo del puzzle, piuttosto che un’evidenza a sé stante, diventando, quindi, uno strumento importante nell’ambito etico e forense»[85].
Di tutto questo occorre essere ben consapevoli e deve esserlo in particolare il giudice, il quale deve essere prima di tutto formato al rispetto della conoscenza scientifica e del rigore del metodo scientifico[86]. Ma anche l’esperto deve essere “educato” a rispettare «il proprio ruolo di scienziato» che «aiuta il giudice nella decisione»[87]. Perché ciò avvenga, occorre prima di tutto abbandonare l’idea primitiva «dell’esperto-sciamano, nell’autorevolezza del quale il giudice vede la garanzia di scientificità della valutazione …»; pretendere che l’esperto forense affini «le proprie tecniche e il proprio sapere»[88] e risponda alle pretese del diritto con la consapevolezza dei presupposti ideologici e assiologici che le sorreggono; ritenere comunque irrinunciabile il rispetto del principio di autonomia e indipendenza, in particolare metodologica, del sapere esperto nel processo e per il processo. Tutto ciò per evitare che il confronto con un sapere altro, invece che essere un indispensabile ausilio, si risolva in un fallimento per la giustizia, e in particolare di quella penale, in un avallo dell’«angoscia nichilistica di un libero convincimento che sembra una mera “scatola vuota”»[89] e in ulteriore conferma dell’attuale assolutismo giudiziario, intorno al quale ruota l’universo penalistico della tarda modernità[90].*Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review
** Destinato agli Scritti in onore di Carlo Castronovo.
[1] Cfr. F. Stella, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano 1975, passim.
[2] V. S. Penasa, Il dato scientifico nella giurisprudenza della corte costituzionale: la ragionevolezza scientifica come sintesi tra dimensione scientifica e dimensione assiologica, in Pol. dir., 2 (2015), p. 271, e, da ultimo, E. Cheli, Scienza, tecnica e diritto: dal modello costituzionali agli indiritzzi della giurisprudenza costituzionale, in Aa. Vv., Giurisprudenza e scienza, Roma 2017, p. 63 e ss. In una prospettiva comparatistica v. F. Benatti, A. Gambaro, La nozione di scienza nei testi costituzionali e nella giurisprudenza delle corti supreme: un panorama globale, ivi, p. 15 e ss.
[3] F. Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano 2003, p. 339 e ss., spec. p. 371 s., per il quale l’unico criterio probabilistico praticabile per il giudice rimane quello della probabilità vicinissima a uno.
[4] C. Castronovo, Sentieri di responsabilità civile europea, in Europa dir. priv., (2008), p. 822.
[5] Cfr. F. Stella, Leggi scientifiche…, cit., p. 308.
[6] C. Castronovo, Sentieri di responsabilità civile europea, cit., p. 814.
[7] Sui diversi possibili standard probatori, v. M. Taruffo, La prova scientifica. Cenni generali, in Ragion pratica, (2016), p. 350 s. e ivi la bibliografia.
[8] In tal senso, invece, F. Stella, Giustizia e modernità…, cit., p. 371, secondo il quale «è la regola dell’oltre ragionevole dubbio il criterio di riferimentoindispensabile per capire a quali leggi scientifiche il giudice debba far riferimento nella spiegazione causale, nel processo penale; diversamente stanno le cose nel processo civile: qui il criterio di riferimento cambia, perché è costituito dalla regola del più probabile che no, regola che consente perfino il ricorso agli enunciati propri della epidemiologia e della causalità generale quando gli enunciati segnalino un aumento del rischio, nella popolazione, superiore al 50%».
[9] C. Castronovo, Sentieri di responsabilità civile europea, cit., p. 821 s. Dello stesso avviso sembra essere la giurisprudenza, quando afferma: «L’azione civile che viene esercitata nel processo penale è quella per il risarcimento del danno patrimoniale o non, cagionato dal reato, ai sensi dell’art. 185 cod. pen. e 74 cod. proc. pen; con la conseguenza che nella sede civile, coinvolta per effetto della presente pronunzia, la natura della domanda non muta. Si dovrà cioè valutare incidentalmente l’esistenza di un fatto di reato in tutte le sue componenti obiettive e subiettive, alla luce delle norme che regolano la responsabilità penale; prima tra tutte quella della causalità omissiva alla stregua dei principi espressi dalla giurisprudenza sopra richiamata», Cass. 17 marzo 2015, CED 262708 con riferimento alla questione del risarcimento dei danni per colpa medica; conf. Cass. 1 luglio 2016, CED 267730; Cass. 31 ottobre 2016, CED 268517, la quale in particolare ribadisce che «il giudice civile del rinvio è tenuto a valutare la sussistenza della responsabilità dell’imputato secondo i parametri del diritto penale e non facendo applicazione delle regole proprie del diritto civile».
[10] «Con un volo vertiginoso si può affermare che nell’ultimo decennio si è passati da una scientizzazione del processo penale (e cioè da un dominio della scienza sul processo) ad una processualizzazione del metodo scientifico. E tale evoluzione costituisce una ulteriore conferma di quella che potremmo definire valenza epistemologica universale del contraddittorio» (C. Conti, Iudex peritus peritorum e ruolo degli esperti nel processo penale, in Dir. pen. proc., (2008), p. 31).
[11] Cass., 29 luglio 2008, CED 240763; v, anche, Cass., 27 aprile 1995, CED 201152, che a proposito della utilizzabilità del criterio della verosimiglianza e delle massime di esperienza per la tenuta dell’ipotesi accusatoria afferma: «Nella valutazione probatoria giudiziaria – così come, secondo la più moderna epistemologia, in ogni procedimento di accertamento (scientifico, storico, etc.) – è corretto e legittimo fare ricorso alla verosimiglianza ed alle massime d’esperienza. È tuttavia necessario – affinché il giudizio di verosimiglianza sia logicamente e giuridicamente accettabile – che si possa escludere plausibilmente ogni alternativa spiegazione che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile. Allorché viene offerto di provare che ciò che appare simile al vero contrasta con il reale accadimento, quando cioè venga dedotta una prova avente ad oggetto proprio la falsificazione/validazione, nel caso concreto, della massima d’esperienza, la mancata ammissione della prova non consente di ritenere logicamente per vero ciò che appare solo verosimile … una conclusione può ritenersi per vera, solo se ha resistito alle spiegazioni alternative»; conf. Cass., 25 novembre 2014, CED 261220.
[12] Cfr. in proposito, fra la estesa letteratura, da ultimo, M. Taruffo, La prova scientifica…, cit., pp. 335 e ss. e ivi la bibliografia; anche G. Ubertis, Prova scientifica e giustizia penale, in Riv. it. dir. proc. pen., (2016), p. 1198 e s. Osserva da ultimo come la prova scientifica sia «destinata sempre più a svolgere un ruolo di straordinario rilievo nel ragionamento e nella decisione giudiziale, perché essa si rivela potenzialmente idonea ad accorciare i tempi e gli spazi dei “percorsi di verità” e a ridurre l’area del ragionevole dubbio» G. Canzio, Introduzione, in M. Bertolino, G. Ubertis (a cura di), Prova scientifica, ragionamento probatorio e decisione giudiziale, Napoli 2015, p. 16, il quale ricorda anche che le «coordinate del processo penale moderno sono, pertanto, le ipotesi, le prove, i fatti, la verità, il dubbio» (citazione di p. 16).
[13] Sull’importanza delle prove scientifiche che le scienze forensi possono fornire ai giudici al fine di prevenire il rischio di errori giudiziari, che un uso distorto di tali prove o la non affidabilità di esse può provocare, si sofferma anche Barack Obama, v. B. Obama, Commentary: The President’s Role in Advancing Criminal Justice Reform, in Harvard Law Review, 130 (2017), p. 660 e ss.
[14] Viene per la prima volta attribuita questa funzione al giudice nella nota sentenza Daubert v. Merrell Dow Pharmaceuticals, Inc., 509 U.S. 579 (1993), sulla quale v. postea nel testo, e in particolare il giudice Blackmun usa il temine gatekeeper. Ritiene che la sentenza Daubert abbia rappresentato inizialmente una modesta rivoluzione politica, ma che col tempo si sia trasformata in una rivoluzione scientifica e che quindi debba essere conosciuta «for the intellectual transformation it imposed on the law» D. Faigman, The Daubert Revolution and the Birth of Modernity: Managing Scientific Evidence in the Age of Science, in University of California Law Rev., 46 (2013), p. 895 s.
[15] Per aiutare i giudici in questo compito, negli USA, è stato redatto un importante manuale, che dovrebbe insegnare come affrontare le diverse questioni scientifiche; su di esso e in generale sulle soluzioni introdotte per la formazione ed educazione scientifica dei giudici americani si rinvia alla sintesi di S. Arcieri, Il giudice e la scienza. L’esempio degli Stati Uniti: il Reference Manual on Scientific Evidence, in Dir. pen. cont., 6 marzo 2017; Id, La National Commission on Forensic Science (NCFS). Il giudice e la scienza. L’esempio degli Stati Uniti – Parte II, ivi, 20 marzo 2017.
[16] Cass., 7 settembre 2015, CED 264863, pp. 33 s., imp. Knox e altri; mentre Cass., 13 dicembre 2010, CED 248943, imp. Cozzini e altri, non sembra voler rinunciare alla definizione del giudice come peritus peritorum, là dove afferma che «il giudice è effettivamente, nel senso più alto, peritus peritorum: custode e garante della scientificità della conoscenza fattuale espressa dal processo»; su tale esplicita determinazione del principio iudex peritus peritorum operata dalla Corte, v., da ultimo, G. Carlizzi, Iudex peritus peritorum. Un contributo alla teoria della prova specialistica, in Dir. pen. cont., 8 maggio 2017. In dottrina, sulla problematicità della tradizionale funzione del giudice come peritus peritorum, che rappresenta un paradosso, poiché «prima il giudice domanda il parere ad un esperto, perché riconosce di essere tecnicamente impreparato a risolvere un certo problema, ma quando si tratta di valutare se il parere fornitogli sia corretto, il giudice ritorna inspiegabilmente ad essere competente, anzi più competente di colui al qu
Bertolino Marta
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