Le misure di sostegno al reddito tra vecchie e nuove povertà
Francesca Nugnes
Professore aggregato di Diritto pubblico per il servizio sociale
Università di Pisa
Le misure di sostegno al reddito tra vecchie e nuove povertà*
English title: Income support measures between old and new poverty
DOI: 10.26350/18277942_000053
Sommario: 1. L’attuale contesto di povertà in Italia. 2 L’evoluzione verso un universalismo selettivo delle misure di sostegno al reddito. 3. segue. Le principali tappe evolutive: dal Reddito minimo di inserimento al Reddito di inclusione. 4. Il Reddito di cittadinanza. Le implicazioni di uno strumento ibrido dalle molteplici finalità. 5. La condizionalità per i beneficiari e la congruità dell’offerta. 6. Il Rdc come misura di contrasto alla povertà non raggiunge i ‘nuovi’ poveri. Il requisito del permesso di lungo soggiorno per gli immigrati. 7. segue. L’esclusione delle persone senza fissa dimora. 8. segue. La penalizzazione delle famiglie con minori. 9. La lotta alla povertà delle donne: una sfida nuova per una questione remota. 10. Il problema dei working poor e la prospettiva del salario minimo legale. 11. La lotta alla povertà oltre la logica meramente redistributiva.
- L’attuale contesto di povertà in Italia
Il fenomeno della povertà, per effetto della pandemia Sars-Cov2, ha acuito il suo carattere pluridimensionale ponendo nuove sfide che vanno ad aggiungersi a quelle ancora in corso[1]. Il problema della povertà si è aggravato sia per grado di intensità con cui affligge persone già sulla soglia di povertà, sia per ampiezza estendendosi ad un numero maggiore di persone, donne e minori in particolare.
Secondo l’ultimo rapporto Istat la povertà assoluta in Italia è aumentata raggiungendo oltre cinque milioni di persone (pari al 9,4 per cento) nel 2020[2]. In particolare, si acuisce la povertà per alcune tipologie di persone quali gli stranieri (oltre un milione e 500 mila sono in povertà assoluta, pari al 29,3 per cento), le famiglie con minori (oltre 767 mila solo in povertà assoluta) [3], le donne (oltre due milioni, pari all’8 per cento già nel 2017[4]) e le persone che pur lavorando restano sotto la soglia di povertà, i c.d. working poor (in Italia sono al 1,5 milioni, aumentati dell’84 per cento in dieci anni)[5].
Si tratta di dati che richiedono una risposta articolata di politiche ed interventi (in ambito sanitario, sociale, previdenziale, di edilizia residenziale pubblica etc.), secondo l’originaria ambizione del welfare State, di seguire lo sviluppo della persona “dalla culla alla tomba”[6].
In ragione della natura multidimensionale della povertà, infatti, le sole misure di sostegno economico, non riescono ad esplicare appieno la loro potenzialità e non possono costituire una adeguata risposta al problema.
Questo limite è rilevabile come si vedrà, in tutte le misure di sostegno al reddito adottate nel nostro ordinamento, compreso il Reddito di cittadinanza (Rdc)[7], la cui “doppia anima” di politica attiva del lavoro, da un lato e di contrasto alla povertà dall’altro, accentua la sua debolezza[8].
Si avrà modo di rilevare come l’assenza di un approccio multidimensionale nella lotta alla povertà, rischi di lasciar perdurare i vuoti di tutela, specie con riguardo alle tipologie più fragili.
Il riferimento è in particolare alle persone immigrate, alle persone senza fissa dimora, alle famiglie con figli, il cui disagio non è efficacemente intercettato dalle disposizioni sul Rdc. Nell’ambito di queste tipologie di persone povere è sembrato necessario approfondire la riflessione su due ‘nuove’ emergenze quali la crescente povertà delle donne e l’aumento dei lavoratori poveri.
Senza anticipare quanto si dirà nelle conclusioni, l’obiettivo è dimostrare la necessità di un cambiamento nella lotta alla povertà, un cambiamento che coinvolga l’individuo non solo come passivo beneficiario ma come attivo partecipe della comunità, secondo un welfare non più meramente redistributivo, ma effettivamente generativo, finalizzato, attraverso la rimozione degli ostacoli economici e sociali che impediscono il pieno sviluppo della persona, alla realizzazione del progetto di trasformazione sociale che la Costituzione affida ai pubblici poteri (artt. 2 e 3 Cost.).
- L’evoluzione verso un universalismo selettivo delle misure di sostegno al reddito
I dati sopra osservati sono manifestazione di emergenze che sviliscono il principio personalistico (art. 2 Cost.) e il principio di eguaglianza sostanziale, (art. 3, 2 comma Cost) anche nella sua accezione intergenerazionale, funzionale allo sviluppo della persona e della comunità di cui fa parte[9].
Sono dati che inevitabilmente si riflettono sulla tenuta del principio democratico (art. 1 Cost.), posto che uno Stato “non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana”[10].
In questo senso il contrasto alla povertà, mirando alla realizzazione della pari dignità sociale, dell’eguaglianza sostanziale e dell’effettivo riconoscimento dei diritti dell’uomo (art. 2), è funzionale anche all’inveramento del principio democratico che si realizza attraverso la piena partecipazione della persona alla vita sociale. Partecipazione che per essere effettiva non può subire limitazioni derivanti dalle condizioni di povertà, ma deve fondarsi sulla libertà dal bisogno, sulla garanzia di un’esistenza dignitosa[11].
Dunque, il principio personalista di cui all’art. 2 Cost. impone quale principale obiettivo dello Stato la tutela dello sviluppo della persona, uno sviluppo che deve avvenire nel tessuto sociale in cui la persona è ‘situata’, un tessuto indispensabile alla sua realizzazione: l’individuo, infatti, non può realizzarsi autonomamente ma si realizza “socialmente” attraverso un processo di cui è egli stesso il risultato[12].
Ne deriva che la coerenza con il principio democratico sussiste nella misura in cui lo sviluppo della persona umana, l’inveramento del principio personalistico, si intreccia con lo sviluppo organico ed inclusivo della società[13]. A tale compito sono chiamati i pubblici poteri: a salvaguardare il diritto ad un’esistenza dignitosa, attraverso l’adozione di misure di contrasto alla povertà, adeguate al contesto socio economico, in coerenza con i principi di eguaglianza e di solidarietà politica, economica e sociale[14].
La lotta alla povertà si è avvalsa negli ultimi decenni di misure di sostegno al reddito, sebbene il nostro Paese sia tra gli ultimi in Europa ad aver introdotto con il d.l. n. 4/2019, convertito dalla legge n. 26/2019 una misura di reddito minimo garantito già presente, in diverse forme, in altri Stati europei[15].
La lunga maturazione che ha condotto all’adozione di questa misura è stata caratterizzata in Italia da ostacoli di diversa natura, culturale e politica, che hanno avuto modo di radicarsi in una interpretazione restrittiva delle disposizioni costituzionali, specie dell’art. 38 Cost., che relegava il diritto all’assistenza all’inabilità al lavoro del beneficiario e alla insussistenza dei mezzi per vivere[16].
Si tratta di una convinzione diffusa, quella della connessione tra il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale con l’inabilità al lavoro e l’assenza di mezzi, una convinzione che emerge chiaramente dai lavori dell’Assemblea costituente relativi ai principi di cui agli artt.1-4 e in particolare alla disposizione dell’art. 38 Cost. A quest’ultimo, in forza del suddetto legame, è stata attribuita dalle interpretazioni maggioritarie una impronta “selettiva,” prevalente rispetto a quella inclusiva di cui pure vi era stata manifestazione nell’ambito del dibattito[17].
Si è venuto così a consolidare un’architettura dello Stato sociale italiano basato su un modello assicurativo in cui l’intervento di protezione sociale avveniva secondo un criterio “meritocratico”[18].
Certo, la disposizione di cui al primo comma dell’art. 38 Cost., era espressione di un’idea posta a fondamento dell’ordinamento costituzionale (art. 1 Cost.) in cui il lavoro, costituiva lo strumento per garantire a tutti un’esistenza libera e dignitosa, per realizzare la premessa della cittadinanza democratica (art. 3 Cost, 2 comma). Il lavoro è nel progetto costituzionale il pilastro che regge la costruzione della vita democratica che non potrebbe realizzarsi senza un’emancipazione sociale e politica che identifica in esso il suo strumento principale.
In quest’ottica l’assistenza non può che ricoprire un ruolo residuale, riservato a coloro che per un impedimento fisico o mentale fossero inabili al lavoro e meritevole di assistenza.
Tuttavia, come è stato osservato, “queste premesse di valore sulla assoluta centralità del principio lavorista, ponte ideale tra quello democratico e personalista, non avrebbero di per sé autorizzato le letture selettive dell’art. 38 Cost.” che costituiscono piuttosto il “precipitato, esso stesso instabile e contraddittorio, (...) di complessi processi storici e politici, nei quali si sono a ragione individuati gli aspetti che hanno maggiormente caratterizzato la storia dei partiti” [19].
E d’altro canto nella lunga evoluzione che ha poi portato ad un’apertura verso una prospettiva universalistica avvenuta intorno alla metà degli anni Novanta, non sono mancate interpretazioni in tal senso già a partire dai primi decenni successivi alla Costituzione. Sulla base del combinato disposto degli artt.4 e 38 della Costituzione autorevole dottrina riconosceva un vero e proprio diritto al risarcimento del lavoratore non occupato senza sua colpa, al quale la Repubblica non aveva garantito un lavoro e con esso i mezzi per una vita dignitosa e libera dal bisogno[20].
Ciononostante, il sistema di protezione sociale italiano, relativamente agli strumenti e alle modalità per garantire una vita dignitosa, ha seguito lungo tutto il suo sviluppo un approccio categoriale neo-corporativo dal quale restavano esclusi tutti coloro che non erano riconducibili alla categoria di lavoratori inabili. Questo approccio, ad eccezione di alcune aperture nell’ambito della letteratura giuslavorista e previdenziale che già negli anni Sessanta[21] ha offerto interpretazioni universalistiche basate sulla lettura combinata degli artt.2, 3 e 38 della Costituzione, è rimasto inalterato e al riparo dalle influenze del diritto comunitario, come accennato, fino agli anni novanta. Solo in seguito alle raccomandazioni europee del 1992[22] in Italia è iniziato un dibattito sulle misure di contrasto al disagio economico basate non su un approccio categoriale, ma su una visione di universalismo selettivo; approccio che è stato il cuore del rapporto della Commissione Onofri del 1997 sulla cui base è stata avviata la prima sperimentazione del Reddito minimo di inserimento (Rmi)[23].
- segue. Le principali tappe evolutive: dal Reddito minimo di inserimento al Reddito di inclusione
Il reddito minimo di inserimento (Rmi) è stata una sperimentazione che con la legge 328/2000 (art. 23) si è tentato di estendere oltre i 39 comuni nei quali era stata adottata, riconducendo questa misura all’alveo della garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni a sostegno delle persone a rischio di esclusione sociale[24].
L’istituto era strutturato sul modello del Revenu Minimum d’Insertion introdotto in Francia alla fine degli anni Ottanta ed era costituito da due elementi: un beneficio monetario e un programma di attivazione finalizzato al recupero e al reinserimento sociale lavorativo[25].
Lo strumento era incentrato sull’attivazione del beneficiario al quale veniva offerta l’opportunità di liberarsi dal disagio a condizione di una sua partecipazione finalizzata all’inserimento nel mercato del lavoro. Questa impostazione si coglie non solo nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989 (art. 10), ma anche nel c.d. Pilastro europeo dei diritti sociali del 2017 (art. 14): in essi l’introduzione del reddito minimo garantito è collegata alla persona esclusa dal mercato del lavoro, il cui disagio potrà essere contrastato attraverso un sostegno economico che incentivi e consenta l’accesso al mercato del lavoro. In effetti, l’attivazione del destinatario finalizzata all’inserimento in società, partendo dal mercato del lavoro, è il tratto comune a tutte le misure di contrasto alla povertà adottate nei principali Paesi europei e che riscontriamo anche lungo l’evoluzione delle misure introdotte nel nostro ordinamento fino all’attuale Reddito di cittadinanza.
Ed infatti la si coglie anche nel Reddito di ultima istanza (Rui) che avrebbe dovuto sostituire il Reddito minimo di inserimento, evitando di incorrere nelle criticità che erano emerse nella sua breve vita[26].
Introdotto con la legge finanziaria per il 2004 (l.n. 350/2003, art. 3, comma 1), sulla base di un accordo tra Governo e parti sociali, il c.d. Patto per l’Italia, il Rui era rimesso all’iniziativa delle Regioni che avrebbero potuto contare su un cofinanziamento dello Stato (Fondo nazionale per le politiche sociali). Tuttavia, la misura fu dichiarata incostituzionale prima della sua effettiva applicazione. Su ricorso di alcune Regioni, infatti, la Corte costituzionale, con sentenza n. 423/2004, ne rilevò la violazione con l’art. 117 Cost. poiché il legislatore nazionale non aveva adottato le “norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale il godimento delle prestazioni garantite senza” consentire al legislatore regionale di “limitarle o condizionarle”, ma anzi, rimettendo all’iniziativa legislativa delle Regioni l’attivazione del Reddito di ultima istanza, “ponendo talune condizioni di accesso alla prestazione che le Regioni stesse avrebbero dovuto rispettare nel disciplinare l’istituto”. Il che configurava una illegittima ingerenza nella sfera di competenza esclusiva delle regioni, relativamente alla materia dei servizi di assistenza sociale[27].
Ne è derivata una fase di stallo in cui all’inerzia del legislatore nazionale hanno sopperito le Regioni con l’avvio di misure di contrasto alla povertà che al sostegno economico accompagnavano condizioni di attivazione del beneficiario[28].
A parte l’esperienza regionale, peraltro molto eterogenea, a livello nazionale il percorso verso l’introduzione di una misura di contrasto alla povertà mediante l’attribuzione di un sostegno al reddito è stato ripreso con la legge n. 133 del 2008 di introduzione della discutibile misura della Carta acquisti, la c.d. social card. Paradossalmente con l’introduzione della social card, si riprende la lotta alla povertà, ma in considerazione della logica caritatevole dell’istituto, ben diversa dal riconoscimento del diritto soggettivo ad un minimo vitale, si finisce con ledere proprio la dignità dei beneficiari[29]. Si trattava di un esiguo sostegno economico (pari a circa 40 euro mensili), erogato ai cittadini italiani residenti e in stato di bisogno[30]. Questa modalità è stata riproposta con vari aggiustamenti dai diversi governi che si sono avvicendati in seguito, fino a raggiungere una configurazione più organica e coerente con i valori costituzionali con l’introduzione del Sostegno di inclusione attiva (Sia)[31].
Quest’ultima era articolata in un sostegno economico, assegnato al beneficiario tramite la Carta acquisti, al quale si aggiungeva l’attivazione degli stessi destinatari mediante la partecipazione del nucleo familiare ad un progetto finalizzato al reinserimento lavorativo e all’inclusione sociale.
Con il Sia dunque la componente caritatevole e paternalistica appare parzialmente attenuata proprio dalla previsione della necessaria attivazione del beneficiario, attivazione che costituisce l’elemento di continuità sia del successivo Reddito di inclusione che dell’attuale Reddito di cittadinanza.
In particolare, il reddito di inclusione, introdotto dal d.lgs. n. 147/2017, di attuazione della legge delega n. 33/2017, costituisce forse il primo strumento di lotta alla povertà dal carattere universalistico, sebbene non fosse scevro da categorizzazioni. Anzi, nella sua versione antecedente alle modifiche apportate dalla legge n. 205/2017 (art. 1, commi 191-192), destinatari del Rei erano nuclei familiari svantaggiati con alcuni requisiti di disagio come la presenza di figli minori o con gravi disabilità, oppure erano donne disagiate in stato di gravidanza, oppure ancora persone di oltre 55 anni di età disoccupati da un lungo periodo. Dopo le modifiche apportate dalla legge n. 205/2017, il Rei acquisisce il carattere universalistico della misura di contrasto alla povertà che si possono individuare già nella legge n. 328/2000 e che, come accennato, sono andate scemando nel tortuoso percorso realizzato finora.
In questo senso il Rei, sebbene abbia avuto una vita molto breve costituisce un passaggio importante verso l’adozione di un approccio di universalismo selettivo, nel cui rispetto l’erogazione del sostegno economico era condizionato alla prova dei mezzi e alla partecipazione ad un “progetto personalizzato di attivazione e inclusione sociale e lavorativa finalizzato all’affrancamento dalle condizioni di povertà” (art. 2, d.lgs. n. 147/2017)[32].
Si tratta di un approccio integrato tra sostegno economico e servizi, ispirato alla teoria secondo cui la partecipazione dei beneficiari ad un progetto personalizzato di reinserimento è il presupposto per la loro stessa realizzazione[33].
Approccio che, insieme ad altre caratteristiche del Rei, costituiscono elementi anche del Reddito di cittadinanza (Rdc).
- Il Reddito di cittadinanza. Le implicazioni di uno strumento ibrido dalle molteplici finalità
A partire dal 1 aprile 2019, come accennato, il Rei è stato sostituito dal Reddito di cittadinanza (Rdc), definito come “misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro”(art. 1 decreto legge n. 4/2019, convertito in legge n. 26/2019).
La formula è decisamente sovraccarica e prefigura una capacità dell’istituto di rispondere a molteplici obiettivi collegati tra loro, ma riconducibili a politiche diverse e ad oggi non efficacemente coordinate.
Su questo punto ci si soffermerà più avanti, poiché occorre preliminarmente sgomberare il campo da un equivoco lessicale indotto dallo stesso legislatore che definisce Rdc una misura che in realtà è un Reddito minimo garantito.
Il Reddito di cittadinanza, reddito di base (basic income), o reddito universale, può essere inteso come “un trasferimento monetario, finanziato dalla collettività attraverso le imposte, e volto ad assicurare a tutti uno zoccolo di reddito, liberamente spendibile sulla base delle preferenze dei beneficiari, senza vincoli di destinazione”[34].
Si tratta di uno strumento di universalismo puro, finalizzato alla garanzia di una vita libera e dignitosa delle persone in stato di bisogno, senza alcuna condizionalità[35].
Diversamente, il Reddito minimo garantito è una misura di universalismo selettivo, consistente in un sostegno economico la cui erogazione è subordinata all’accertamento dello stato di bisogno, c.d. prova dei mezzi, e alla disponibilità del destinatario di aderire a programmi di formazione o all’accettazione di offerte di lavoro. Si tratta di una misura adottata, con diverse formule, in tutti i paesi europei con parziale eccezione della Finlandia che nel biennio 2017-2018 ha introdotto, in via sperimentale, il reddito di base[36]; i positivi esiti della sperimentazione hanno stimolato un dibattito ancora in corso sull’opportunità di attuare misure di sostegno al reddito non condizionate dall’attivazione del destinatario[37].
Nonostante sia acclarato l’equivoco lessicale che induce erroneamente a ritenere che il sostegno economico introdotto dal d.l. n. 4/2019 spetti universalmente ai cittadini italiani, pare condivisibile l’osservazione di chi ha preferito porre l’accento non tanto sull’ “inganno lessicale”[38], quanto sulla storia e finalità che accomunano i due istituti, evidenziando che in fondo anche il Reddito minimo garantito costituisce una “prestazione resa a favore della “cittadinanza” pur selezionando quella “bisognosa” e in difficoltà” [39].
Si tratta di capire pertanto, al di là delle definizioni, quali sono le reali finalità dell’istituto.
A tal fine una prima indicazione può evincersi dallo stesso art. 1, che nel definire il RDC consente di individuare due principali finalità quali: la garanzia del diritto al lavoro, attraverso politiche attive, da un lato, e la lotta alla povertà, dall’altro.
Entrambe le finalità sono funzionali e complementari a molti altri obiettivi, compresi quelli di eguaglianza, di inclusione sociale, di garanzia del diritto all’informazione e così via[40].
Sebbene il decreto legge non offra una esatta indicazione delle finalità del RDC, appare pacifico che la sua natura di istituto di politica attiva del lavoro lo configuri come uno strumento di contrasto alla povertà orientato prioritariamente al reinserimento della persona nel mercato del lavoro. La logica sottesa al RDC e che emerge soprattutto guardando ai beneficiari della misura e alla condizionalità è, come accennato, comune a quella europea della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori e 1989 e del c.d. “Pilastro europeo dei diritti sociali” del 2017, nei quali il reddito minimo garantito (art. 10 Carta comunitaria e art. 14 nel Pilastro) è concepito come misura di lotta ad una povertà derivante dall’esclusione dal mercato del lavoro. Il che comporta accanto all’erogazione di un sostegno economico teso a garantire risorse sufficienti o comunque una vita dignitosa, l’adozione di misure volte al reinserimento nel mercato del lavoro del soggetto escluso. Si tratta di una logica lavoristica che non poteva non influenzare il nostro legislatore, sebbene una mitigazione di tale logica si coglie già nel sostegno economico per le persone anziane, (Pensione di cittadinanza), alla quale ovviamente non corrispondono obblighi di attivazione.
Ciononostante, permane una visione limitata della povertà, come condizione di disagio riconducibili allo stato di disoccupazione o di inoccupazione[41]. Una logica diffusa nei Paesi europei secondo cui la lotta alla povertà e all’esclusione sociale non appare prioritariamente improntata alla tutela del diritto all’assistenza costituzionalmente garantito, di cui è lo Stato, la Repubblica, a dover essere principale parte attiva; la normativa e gli interventi di lotta alla povertà appaiono sbilanciate sull’incentivazione, sull’attivazione del cittadino che deve responsabilizzarsi e uscire dalla situazione di disagio[42]. È pacifico che la lotta alla povertà attraverso misure di sostegno economico appaiono coerenti con la prospettiva personalistica di cui all’art. 2 e 3 Cost., nella misura in cui siano completate da disposizioni mirate a garantire la partecipazione attiva del beneficiario alla società di cui fa parte, sia mediante il lavoro, sia mediante attività o funzioni che concorrano “al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4 Cost.). In questa ottica il sostegno economico dovrebbe essere erogato a fronte di un’“attività di cura della comunità (...) una forma possibile di lotta all’esclusione sociale (...) che può pure riguardarsi come attuativo del principio di sussidiarietà orizzontale” di cui all’art. 118 Cost.
Tuttavia, nell’impianto del Rdc, il concorso dell’individuo al progresso della società appare essere concepito principalmente come prestazione lavorativa, trascurando la portata più ampia dell’art. 4, 2 comma Cost[43]. D’altro canto, questo dato è coerente con l’anima prevalente del Rdc, quale strumento di politica attiva prima che strumento di contrasto della povertà ed è un dato riscontrabile sia rispetto al sistema di condizionalità e sanzioni, sia rispetto ai requisiti necessari per accedere al beneficio.
- La condizionalità per i beneficiari e la congruità dell’offerta
La condizionalità, oltre all’insieme dei requisiti necessari all’accesso al Rdc, evidenzia la vocazione di strumento di politica attiva del lavoro di questo istituto, secondo una prospettiva di workfare che risente peraltro delle influenze dei modelli di flexicurity di derivazione europea.
Le disposizioni del Rdc relative agli obblighi e condizioni di attivazione del beneficiario, infatti, sono combinate con le disposizioni dei d.lgs. n. 22/2015, n. 148/2015 e n. 150/2015, attuativi della legge delega n. 183/2014, c.d. Jobs Act, che sono intervenuti in materia di strumenti di sostegno al reddito per i disoccupati e di ammortizzatori sociali per i lavoratori occupati, riorganizzando i servizi per il lavoro e le politiche attive.
Il Rdc pertanto si inserisce in un quadro normativo in cui l’attivazione della persona al lavoro avviene attraverso due principali istituti: la Dichiarazione di immediata disponibilità e il Patto per il servizio personalizzato riservato ai beneficiari di misure di sostegno al reddito quali la Nuova assicurazione sociale per l’impiego (Naspi), l’Indennità di disoccupazione per i collaboratori (Dis-coll) ed altri ammortizzatori sociali previsti in costanza di rapporto purché siano rispettate determinate condizioni.
In particolare, il d.lgs n. 150/2015, dispone che la persona disoccupata venga profilata presso i centri dell’impiego e stipuli un patto di servizio personalizzato il cui contenuto minimo preveda: un responsabile delle attività; la definizione del profilo personale di occupabilità; la definizione degli atti di ricerca attiva da compiere e i tempi previsti; la frequenza con cui va contattato il responsabile delle attività e le modalità con cui la ricerca attiva di lavoro è dimostrata al responsabile delle attività. Inoltre, il Patto di servizio deve riportare la disponibilità del richiedente a partecipare ad iniziative per il rafforzamento delle competenze nella ricerca attiva di lavoro, ad iniziative formative o di riqualificazione o altre di politica attiva del lavoro ed inoltre deve riportare la disponibilità ad accettare offerte di lavoro “congrue” (artt. 20 e 25).
Le disposizioni vengono sostanzialmente recepite dalla d.l. n. 4/2019, che prevede per i componenti maggiorenni del nucleo familiare che non siano già impegnati in un corso di studi o di formazione, la condizione dell’immediata disponibilità al lavoro e all’adesione ad un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale volto all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale. L’obbligo non si estende ai membri della famiglia che abbiano carichi di cura familiare, limitatamente ai componenti minori di tre anni, o con disabilità grave o non autosufficienza[44].
I beneficiari del Rdc, dopo aver reso una dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro, sono convocati dai centri per l’impiego per la stipula di un Patto per il lavoro (art. 4, comma 7, d.l. n. 4/2019) la cui equivalenza al Patto di servizio è riconosciuta dallo stesso d.l. n. 4/2019 (art. 4, comma 7)[45].
La normativa prevede che nel caso in cui sussistano all’interno del nucleo familiare “particolari criticità” per l’avvio di un percorso di inserimento al lavoro, il personale del centro dell’impiego ne dia comunicazione ai Comuni affinché i servizi per il contrasto alla povertà, da coordinarsi a livello di ambito territoriale, possano convocarli per una valutazione multidimensionale svolta dagli operatori sociali. Valutata la complessità e multidimensionalità del disagio, si richiede alla persona beneficiaria del Rdc di sottoscrivere un Patto per l’inclusione sociale. Quest’ultimo riprende gli elementi del progetto personalizzato già previsto dalla normativa introduttiva del Rei, e deve indicare gli obiettivi, le attività di sostegno previste e gli impegni che saranno assunti dai componenti del nucleo familiare[46]. In esso sono presenti, pertanto, gli interventi necessari all’inserimento al lavoro ed anche quelli di contrasto alla povertà, già previsti dall’art. 7 del d.lgs. n. 147/2017.
Volendo schematizzare, si delineano tre categorie di beneficiari. Un prima categoria è costituita da persone esonerate da qualunque adempimento; una seconda comprende coloro che per particolari criticità relative ad un loro inserimento lavorativo, sono affidate ai servizi sociali per la stipulazione del patto di inclusione; nella terza categoria rientrano le persone che stipuleranno un Patto per il lavoro con le relative misure di politica attiva del lavoro[47].
Fatte salve le analogie con la normativa relativa al Rei va osservato un’alterazione del rapporto tra l’obiettivo di lotta alla povertà ed inclusione sociale rispetto all’obiettivo di politica attiva del lavoro.
Nella precedente normativa prevista per il Rei, la preminenza dell’obiettivo di lotta alla povertà era testimoniata da un ruolo primario svolto a livello territoriale dai servizi sociali i quali svolgevano la valutazione multidimensionale del disagio in via prioritaria e non in via residuale come ora previsto dal legislatore.
All’opposto, il legislatore del 2019 affida prioritariamente ai Centri per l’impiego, il compito di selezionare della platea dei potenziali beneficiari, all’esito della quale categorizzare e indirizzare i richiedenti sui diversi percorsi; i servizi sociali intervengono solo in via secondaria ed eventuale.
Si tratta di un’alterazione organizzativa destinata a ripercuotersi negativamente sull’adeguata valutazione multidimensionale e successivo avviamento ai percorsi di inserimento lavorativo e sociale. I centri per l’impiego, infatti, restano strutture di politica attiva del lavoro e appaiono non idonee a svolgere compiti propri del servizio di assistenza sociale, quale è quello della valutazione del disagio.
Peraltro, la valutazione che conduce ad una prima catalogazione dei soggetti richiedenti, avviene in base a elementi che non riescono a dare conto dell’effettivo disagio, il che ha l’effetto di offrire risposte non sempre adeguate e ciò, a livello territoriale, richiederà ai diversi servizi “uno sforzo per sopperire a questa criticità del disegno del Rdc, rafforzando il loro coordinamento, così da agevolare il più possibile i passaggi dell’utenza dall’uno all’altro e incrementare l’appropriatezza delle risposte”[48].
Da questa angolazione si comprende quanto sia fondamentale un’interazione saldamente coordinata tra i Centri per l’impiego e i servizi sociali dei Comuni, analogamente a quanto accade nel modello tedesco dal quale il legislatore sembra abbia voluto trarre ispirazione[49].
La prevalenza della natura di strumento di politica attiva del Rdc emerge anche da come è congegnato l’obbligo di accettare, dopo la sottoscrizione del Patto per il lavoro o del patto per il servizio, almeno una delle offerte di lavoro congrue (ex art. 25, d.lgs. n. 150 /2015). Si dispone, peraltro, che nel caso in cui venga rinnovato il beneficio l’accettazione della prima offerta di lavoro congrua utile è obbligatoria a pena di decadenza (art. 4, comma 8 d.l. n. 4/2019).
La congruità dell’offerta emerge con riferimento ad alcuni parametri, tra cui il tempo di fruizione del Rdc e la mobilità richiesta per raggiungere il luogo di lavoro[50]. Su quest’ultimo punto, rispetto alla precedente normativa relativa al Rei occorre evidenziare un maggior rigore che si coglie nella richiesta di un’ampia disponibilità a spostarsi su distanze che si allungano all’aumentare del periodo di fruizione[51].
Soprattutto, appaiono di secondaria importanza ai fini della congruità, la capacità professionale e le attitudini della persona beneficiaria il cui inserimento lavorativo resta prioritario rispetto alla realizzazione che la stessa può conseguire proprio attraverso il lavoro. Si realizza un paradosso ancor più evidente alla luce del principio personalista e solidarista, di quello lavorista e di eguaglianza sostanziale, posti a fondamento dello Stato sociale ed inclusivo. In esso, il lavoro è funzionale non solo all’attuazione del principio personalista, ma rappresenta anche la modalità attraverso cui ciascun individuo partecipa con il proprio contributo di attività alla formazione di una società coerente con i principi di eguaglianza e solidarietà (artt.3 e 2 Cost.)[52]. È infatti sul lavoro che si fonda la Repubblica (art. 1 Cost.) proprio in ragione del contributo che ciascuno “è chiamato a dare alla costruzione cooperativa della convivenza”[53].
L’individuo ha dunque il diritto-dovere di partecipare “all’organizzazione economica e sociale del paese” (art. 3, comma 2 Cost.) e può essere positivamente stimolato da elementi di condizionalità finalizzati prioritariamente alla sua inclusione sociale e alla sua autodeterminazione che può raggiungere attraverso la propria attività[54].
Tuttavia, tale condizionalità conserva la sua conformità ai valori costituzionali nella misura in cui non degeneri in una forzatura che di fatto obblighi il beneficiario ad una prestazione lavorativa in cambio del sostegno economico ricevuto. Sebbene il contributo di ciascun individuo al Paese sia anche un dovere, ex art. 4, comma 2, Cost., tale dovere non si traduce necessariamente in una prestazione lavorativa, ben potendo concretizzarsi in attività di tipo spirituale, intellettuale, o in una funzione, ma comunque “secondo le proprie possibilità e la propria scelta”[55].
In questa prospettiva, l’impronta workfaristica che sembra emergere dalle condizioni poste per la fruizione del Rdc e che induce il beneficiario ad accettare proposte lavorative anche incongrue rispetto alle sue possibilità e alla sua scelta (realmente libera), non appare pienamente coerente con il progetto sociale delineato in Costituzione[56].
Appare invece coerente con la tendenza oramai conclamata di una mercificazione del lavoro in cui la persona viene posta in secondo piano rispetto al valore della prestazione lavorativa; di fatto, la preminenza della dimensione oggettiva della prestazione rispetto alla dimensione soggettiva del lavoratore è andata sempre più accentuandosi a partire dagli anni Ottanta[57]. Il lavoro è divenuto progressivamente una merce di scambio, con un proprio valore sul mercato, indipendente dal soggetto, dalla persona del lavoratore[58].
Si tratta di un’evoluzione che riflette la reazione che gli ordinamenti europei, compreso il nostro, hanno avuto di fronte ai cambiamenti indotti dalla globalizzazione, dallo sviluppo tecnologico e soprattutto dalla crisi finanziaria ed economica del 2008. La combinazione di questi elementi ha indotto a ritenere che la soluzione fosse la flessibilità in luogo della rigidità che fino ad allora aveva caratterizzato il rapporto di lavoro[59].
Ma in quella rigidità erosa a vantaggio della flessibilità del lavoro, trovavano riparo diritti dei lavoratori sul piano normativo, salariale e sindacale. Diritti che diventano sempre più sfumati e cedevoli in un contesto di “business community internazionale” in cui gli Stati non riescono a fronteggiare “i parametri imposti dalle imprese globalizzate”, ampliando il divario esistente tra le garanzie e le tutele sancite costituzionalmente e la loro effettività[60].
In questa stessa ottica sembrano collocarsi le disposizioni relative al complesso di sanzioni che corredano la condizionalità di accesso al Rdc, acuendone il rigore. Si tratta di sanzioni che nel loro insieme risultano più severe di quelle già vigenti per i disoccupati ed anche di quelle previste precedentemente per il Rei[61]. L’apparato sanzionatorio si avvale della sospensione, della revoca, della perdita del beneficio, e giunge a prevedere pene detentive, per i delitti di falso commessi dai beneficiari del RdC (art. 7, 1° comma, D.l.4/2019). La durezza delle sanzioni si coglie anche solo considerando che il mancato assolvimento degli obblighi previsti dal Patto per il lavoro e per l’inclusione sociale, comporta l’immediata perdita del beneficio[62]; la norma non contempla alcuna discrezionalità per l’operatore di valutare le ragioni del mancato adempimento e di intervenire offrendo soluzioni alternative[63].
Viene a delinearsi un sistema di condizionalità, completato da un apparato sanzionatorio, che indirettamente crea una torsione della garanzia del diritto all’esistenza. Non si tratta certo di una novità, dato che elementi di condizionalità sono da molto tempo stati introdotti in ambito giuslavoristico, limitatamente alla fruizione di benefici che riguardano lo stato di disoccupazione (d.lgs. n. 81/2000; l. n. 92/2012, art. 4, commi 33 e 41-43; d.lgs. n. 150/2015). Tuttavia, come è stato osservato, il punto di maggior criticità risiede nell’applicazione di tali condizionalità al godimento del diritto all’esistenza libera e dignitosa[64], il che degrada lo ius existantiae.
- Il Rdc come misura di contrasto alla povertà non raggiunge i ‘nuovi’ poveri. Il requisito del permesso di lungo soggiorno per gli immigrati
Le osservazioni sopra svolte circa la configurazione del Rdc come uno strumento prioritariamente di politica attiva del lavoro e solo di riflesso come misura di contrasto alla povertà, si coglie guardando alla platea dei beneficiari, o meglio di coloro che ne risultano esclusi. Il sistema di requisiti previsti dalla norma per l’accesso al beneficio è tale da penalizzare proprio le nuove tipologie di poveri quali: immigrati, persone senza fissa dimora e famiglie con minori.
Rispetto ai primi, l’art. 1, del d.l. n. 4/2019 si riferisce a “soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro”, soggetti che secondo l’art. 2, comma 1 lett. a) potranno essere destinatari del Rdc se in possesso di determinati requisiti di cittadinanza, residenza e soggiorno. In particolare, il destinatario del Rdc deve essere residente in Italia da almeno 10 anni, gli ultimi due in modo continuativo e deve essere in possesso della cittadinanza italiana o di uno stato membro dell’Unione, oppure suo familiare. Inoltre, è necessario che sia titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero cittadino di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo[65].
La disposizione individua in questo modo una platea di beneficiari, al cui interno sono comprese categorie di non cittadini, ma le condizioni di accesso sono tali da escludere la maggior parte degli stranieri dal beneficio.
Va considerato che il requisito del permesso Ue per soggiornanti di lungo periodo, unitamente alla richiesta di residenza decennale sul territorio e alle difficoltà legate alle procedure amministrative per ottenere la certificazione dello stato reddituale e patrimoniale, ha limitato molto l’accesso di queste persone al Rdc, e precedentemente anche al Rei[66].
Tale esclusione, in riferimento al Rdc non solo come strumento di politica attiva, ma anche come strumento di lotta alla povertà, desta qualche perplessità sulla coerenza della disposizione rispetto ai principi di dignità e solidarietà ex art. 2 Cost. ed eguaglianza e ragionevolezza ex art. 3 Cost., soprattutto considerando che il Rdc è qualificato come “livello essenziale delle prestazioni”, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett.m), Cost. da garantire in modo uniforme sul territorio nazionale.
Il problema si colloca nell’ampia e dibattuta questione del riconoscimento agli stranieri dei diritti costituzionali, compresi quelli corrispondenti a prestazioni sociali riconosciute ai cittadini, questione che con riferimento al precedente Rei era stata posta innanzi alla Corte costituzionale[67].
In particolare, nell’ordinanza di remissione si sosteneva che il Reddito di inclusione fosse una “prestazione essenziale diretta a soddisfare “bisogni primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana”; ragion per cui sarebbe incostituzionale qualsiasi discriminazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti (ord. 1 agosto 2019, n. 107 del Tribunale di Bergamo). D’altro canto la stessa Corte costituzionale aveva precedentemente chiarito che per l’accesso alle “provvidenze destinate al sostentamento della persona nonché alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili per il contesto familiare (…) – qualsiasi discrimine fra cittadini e stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi da quelli previsti per la generalità dei soggetti, finisce per risultare in contrasto con il principio di non discriminazione di cui all’art. 14 della CEDU, avuto riguardo alla interpretazione rigorosa che di tale norma è stata offerta dalla giurisprudenza della Corte europea”(sent. n. 40/2013).
Ora, sembrerebbe indubbio che l’accesso al Rdc, in quanto compreso nei livelli essenziali delle prestazioni, non potrebbe essere subordinato a limitazioni solo per determinate categorie di persone, come invece avviene, ad esempio, attraverso il requisito del permesso di soggiorno di lungo periodo che sortisce l’effetto di escludere anche gli stranieri con permesso di soggiorno per motivi di lavoro o per altri motivi.
A riguardo, peraltro, la Corte costituzionale ha più volte ribadito la legittimità delle scelte legislative che impongono condizioni per l’accesso soltanto nei casi di prestazioni che eccedano i bisogni primari e purché tali condizioni non siano manifestamente irragionevoli[68].
La riflessione circa la coerenza della disposizione con i principi costituzionali può svolgersi su due versanti: il primo riguarda la natura del Rdc, se possa essere qualificato o meno come prestazione relativa a bisogni primari della persona; il secondo riguarda la ragionevolezza dei criteri di accesso.
Sotto il primo profilo, il Rdc, secondo quanto dichiarato dallo stesso art. 1 del d.l. n. 4/2019 è una misura che mirando a combattere la povertà e l’esclusione sociale, mira a tutelare la dignità della persona e dunque risponde ad un suo bisogno primario a prescindere dallo status di cittadino o di straniero[69]. Peraltro, con riferimento ad un precedente strumento di lotta alla povertà, la c.d. social card, la stessa Corte (sent.10/2010) aveva riconosciuto proprio nella tutela della dignità delle persone in stato di particolare bisogno il suo fondamento costituzionale, “un diritto fondamentalissimo” da tutelare in modo uniforme sull’intero territorio nazionale[70].
Emerge così un contrasto con i principi di solidarietà ed uguaglianza che si accentua se si considera, sotto il profilo della ragionevolezza, la difficile connessione tra le finalità del Rdc e i requisiti richiesti.
Sotto il secondo profilo, riguardante la ragionevolezza dei criteri di accesso, infatti, la Corte sempre limitatamente alle misure eccedenti i bisogni primari, ha ribadito la legittimità delle scelte legislative che impongono condizioni per l’accesso a tali prestazioni assistenziali “purché tali condizioni non siano manifestamente irragionevoli né intrinsecamente discriminatorie” (sent.50/2019). Già precedentemente la Consulta aveva stabilito che la limitazione nell’accesso a determinate prestazioni debba essere “giustificata da una ragionevole correlazione tra la condizione a cui è subordinata l’attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio” (sent.107/2018).
Tale correlazione non è stata riscontrata, ad esempio, nel caso delle prestazioni dirette a soddisfare i bisogni abitativi primari di persone in condizioni di povertà, il cui accesso prevedeva un discrimine irragionevole per gli stranieri, rappresentato dal radicamento territoriale di lunga durata (Corte Cost., sent. 166/2018 e 44/2020).
Analogamente, nel caso del Rdc, il requisito del permesso di lungo soggiorno appare irragionevole perché non è correlato con la finalità di combattere la povertà e l’esclusione sociale, anzi penalizza proprio categorie di poveri più fragili. I cittadini extracomunitari che non riescono a chiedere il permesso lungo di soggiorno sono infatti coloro che hanno un reddito annuo inferiore a quello prescritto dalla normativa, pari a 5.824 euro (art. 9 T.U. immigrazione), dunque più poveri di quelli che ne sono in possesso.
Il paradosso si accentua se si considera che per ottenere il permesso di lungo soggiorno, oltre al requisito di un reddito, della permanenza sul territorio italiano per 5 anni e della conoscenza della lingua italiana sia necessario anche un alloggio in linea con i requisiti di legge. Dunque, per l’erogazione di una misura di contrasto alla povertà si prevede l’esistenza di elementi che dimostrino un disagio relativo e non una povertà assoluta.
L’illogicità della disposizione si evidenzia maggiormente in considerazione di un altro requisito per l’accesso al Rdc: quello della residenza ultradecennale che si aggiunge al permesso di lungo soggiorno e sortisce l’effetto di escludere persone in povertà che pure avrebbero gli altri requisiti previsti per l’accesso.
Si tratta di un requisito che, come è stato osservato, appare in contrasto con il diritto dell’Unione sia con riferimento ai cittadini di Paesi Terzi per i quali si dispone che lo status di soggiornanti di lungo periodo è conferito dopo cinque anni di residenza legale ed ininterrotta (dir. 2003/109/CE; art. 4); sia con riferimento ai cittadini europei per i qualilo stesso periodo di cinque anni è sufficiente per acquisire lo status di soggiornante permanente, da cui consegue la parità di trattamento nell’accesso alle prestazioni sociali dello Stato ospitante (dir. n. 2004/38/CE, art. 24; regolamento n. 883/2004)[71]. Si evidenzia una sproporzione che pone fortemente in dubbio la conformità della disposizione alla Costituzione, specie considerando che il Rdc, come sopra accennato è una misura di contrasto alla povertà non qualificabile come eccedente i bisogni primari, ma anzi rientrante secondo quanto disposto dallo stesso decreto legge n. 4/2019 (art. 1, comma 1 e art. 4, comma 14) nei “livelli essenziali delle prestazioni” ex art. 117, coma 2, lett. m) Cost.
È indubbio che il legislatore abbia dovuto conciliare gli obiettivi di contrasto alla povertà con i principi di una finanza pubblica sana che impongono una sostenibilità economica che condiziona finanziariamente i diritti, sulla quale ci si soffermerà nelle conclusioni di questo lavoro.
Tuttavia, pur considerando l’imperativo di rispettare una sostenibilità economica che ha indotto il legislatore a porre limiti eccessivamente stringenti, questi rivelano un approccio di corto respiro concentrata sul risparmio di breve periodo, senza considerare il maggior utile in termini di inclusione e coesione sociale, che potrebbe invece derivare, nel lungo periodo, dal coinvolgimento di queste persone in progetti a vantaggio della collettività che lo stesso d.l. 4/2019, art. 4 prevede per tutti i beneficiari[72]. A mancare è la capacità di scelte innovative in grado di cogliere l’effetto moltiplicatore di sviluppo per la società che potrebbe derivare da un investimento di risorse contro la povertà[73].
- segue. L’esclusione delle persone senza fissa dimora
L’altra categoria di poveri che il Rdc non riesce a raggiungere sono le persone senza fissa dimora. Si tratta di una tipologia di difficile quantificazione, ‘invisibili’, che secondo un’indagine Istat, già nel 2015 contava oltre 50 mila persone; cifra che verosimilmente è aumentata in seguito all’intensificarsi della crisi migratoria e dell’attuale crisi pandemica[74]. La loro condizione di disagio è caratterizzata non solo dalla privazione di beni materiali, ma anche dalla debolezza, talvolta assenza, dei legami con parenti e amici.
Questa tipologia di persone povere, senza dimora o senza una dimora fissa, per effetto dei requisiti indicati dall’art. 2, comma 1, lett. a) del d.l. n. 4/2019, son escluse dall’accesso al Rdc. Secondo un’interpretazione letterale della disposizione, è questo l’effetto dovuto al requisito della residenza decennale e continuativa nell’ultimo biennio.
Si tratta di un requisito che ostacola in modo insormontabile l’accesso al Rdc per le persone che vivendo in condizioni di estrema precarietà, non sono in grado di sostenere i costi di una casa e non sono in grado di dichiarare un domicilio stabile e continuativo, necessario all’iscrizione anagrafica del Comune[75].
Il che contraddice la ratio dell’istituto, volto a contrastare la povertà, a maggior ragione la povertà estrema caratterizzata dalla mancanza di una dimora dove vivere. A riguardo il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, cercando di sopperire a questa grave contraddizione è intervenuto prima con una nota del 19 febbraio del 2020 e successivamente con un’altra del 14 aprile 2020.
Entrambe le note mirano a fornire un’interpretazione volta a superare gli ostacoli che si radicano sul piano formale nel concetto di residenza.
In particolare, nella prima nota, richiamando la legge 1228/1954, relativamente alle disposizioni sull’iscrizione anagrafica delle persone senza fissa dimora, si chiarisce che nel caso in cui “una persona senza dimora intendesse presentare la richiesta di accesso al Rdc, ma non risultasse iscritta nei registri anagrafici” spetterà al Comune, previo accertamento che confermi la presenza abituale del soggetto sul territorio comunale, riconoscerne l’iscrizione nei registri anagrafici.
Inoltre, si ricorda come nelle note illustrative della legge anagrafica del 1954 e del regolamento D.P.R. n. 223 del 30 maggio 1989, già si suggeriva “l'istituzione, in ogni comune, di una sezione speciale "non territoriale" nella quale elencare e censire come residenti tutti i "senza fissa dimora" e i "senza tetto" che avessero eletto domicilio nel relativo territorio al fine di ottenere residenza anagrafica, individuando allo scopo una via territorialmente non esistente ma conosciuta con un nome convenzionale dato dall'ufficio anagrafe.
Purtroppo, la soluzione di una “residenza fittizia”, si scontra con la realtà attuale che rivela come poco più di 200 comuni abbiano istituito la suddetta sezione non territoriale, il che impedisce alla persona richiedente anche di presentare un’autodichiarazione utile all’iscrizione anagrafica (così come previsto dall’art. 5 del d.l. 9 febbraio 2012, n. 5)[76]. L’altra soluzione offerta dal nostro ordinamento prevede di stabilire la residenza nel luogo del proprio domicilio ovvero nel Comune in cui la persona vive di fatto e, in mancanza di questo, nel Comune di nascita (D.P.R. 223 del 30 maggio 1989).
In questa prospettiva, al fine di superare gli impedimenti di ordine formale, legati al concetto di residenza anagrafica, la seconda nota del Ministero del lavoro e delle politiche sociali offre un’interpretazione coerente con la ratio della norma chiarendo che il requisito di residenza decennale può ritenersi soddisfatto quando “mediante oggettivi ed univoci elementi di riscontro” sia dimostrata la sussistenza della “residenza effettiva”.
Il ricorso al concetto di residenza effettiva avviene anche sulla scorta di una consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione ed anche amministrativa, da cui è possibile ricavare come la persona interessata provando la sua effettiva presenza sul territorio può superare gli ostacoli connessi alla formale attestazione risultante dai registri anagrafici. La residenza legale, infatti, nella succitata giurisprudenza costituisce una mera presunzione del luogo di residenza che ben può essere smentita o confermata con i mezzi di prova previsti dall’ordinamento[77].
Pertanto, ricorrendo al concetto della residenza di fatto, alternativa a quella anagrafica, il requisito d’accesso può essere soddisfatto anche dalle persone senza fissa dimora che riescano a provare una permanenza decennale, e per due anni continuativa, in un comune italiano in cui abbiano svolto la prevalente parte delle loro attività e rapporti sociali.
In questo modo si offre un’interpretazione conforme ad una delle sue principali finalità, quale è il contrasto alla povertà, che rischierebbe di essere contraddetto dall’applicazione di limiti eccessivamente stringenti e scollegati dallo scopo della norma (Corte Cost. n. 44/2020).
Dunque, se da un lato la prospettazione offerta dal Ministero appare convincente per la coerenza con la ratio della norma, oltre che con i principi e la giurisprudenza costituzionale, dall’altro pone in luce la contraddizione in cui cade il legislatore nell’imporre un requisito tanto stringente, la cui difficoltà di soddisfacimento è riconducibile principalmente al disagio abitativo caratterizzante le povertà estreme.
E’ statisticamente dimostrato che “dove sia presente un disagio abitativo, sia assai frequente riscontrare la presenza di molti se non tutti gli indicatori di disagio che contraddistinguono le diverse definizioni di povertà estrema. Le persone senza dimora possono quindi essere considerate, sotto questo profilo, la “punta di un iceberg” di un disagio sociale ben più ampio e profondo, che ne suggerisce allo sguardo, nella sua forma più estrema, la natura e le dimensioni” [78].
Il complessivo sistema con cui è stato costruito il Rdc non sembra in grado di alleviare in modo significativo il disagio, anzi, paradossalmente acuisce la povertà abitativa configurando l’esclusione di alcune tipologie di persone. Oltre ad escludere gli immigrati, i senza fissa dimora e i senza dimora, come sopra accennato, restano esclusi dal beneficio anche tutti gli inquilini che non siano in possesso di un regolare contratto di affitto, il che esclude automaticamente non solo gli affittuari in nero ma anche gli occupanti abusivi e gli abitanti delle c.d. baraccopoli, perpetuando la loro condizione di marginalità.
Questo aspetto pone in luce un punto debole del Rdc: la mancanza di una distinzione di fondo tra persone povere e persone che vivono ai margini della società ed è una distinzione che in riferimento al disagio abitativo incide significativamente sull’efficacia dello strumento nella sua funzione di contrasto alla povertà ed inclusione sociale.
A fronte di tali criticità va positivamente rilevata la previsione, accanto all’integrazione del reddito familiare, anche di un’integrazione per gli oneri di locazione o per il pagamento del mutuo (pari a circa 280 euro): i costi legati all’abitare possono essi stessi indurre alla povertà, in un circolo vizioso difficile da risolvere[79]. Tuttavia, si tratta di un sostegno destinato strettamente all’affitto, senza alcuna considerazione per “le articolazioni che permetterebbero di modulare il sostegno e di prendere in considerazione condizioni critiche nelle dinamiche della povertà: età dei residenti (presenza di anziani in particolare), invalidità, numero di bambini e di altre persone a carico, area di residenza ecc”[80].
In effetti, come si dirà nelle conclusioni, la persistenza del disagio abitativo che il Rdc non riesce efficacemente ad intercettare, richiede una risposta di politica abitativa basata non solo su sostegni economici, ma anche su interventi misure di edilizia sociale, sulla predisposizione di strutture di accoglienza, sulla previsione di affitti accessibili[81]; tutte misure che vanno ricomposte secondo un welfare in cui la lotta alla povertà può avere il suo pilastro centrale nella garanzia del diritto all’abitazione[82].
Benché non espressamente previsto dalla Costituzione, tale diritto deve ritenersi incluso nel catalogo dei diritti inviolabili (...) e il suo oggetto, l’abitazione, deve considerarsi “bene di primaria importanza” (Corte Cost., sent. n. 44/2020 n. 3 cons. dir.); esso “rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione” ed è compito dello Stato garantirlo, contribuendo così “a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana (Corte Cost., sent. n. 217 del 1988).
- segue. La penalizzazione delle famiglie con minori
Infine, tra le categorie di poveri che il Rdc non riesce a raggiungere in modo efficace, anzi penalizza, ci sono le famiglie con minori.
Per accedere al Rdc, infatti, sono necessari non solo i requisiti di cittadinanza, residenza e soggiorno, ma ciascun nucleo familiare deve possedere anche requisiti reddituali, parametrati sull’Isee (art. 2, comma 1, lett.b) d.l.n. 4/2019). In particolare, per il nucleo familiare richiedente il valore dell’Indicatore della situazione economica equivalente deve essere inferiore a 9.360 euro; il valore del patrimonio immobiliare, esclusa la casa di abitazione, non deve superare i 30.000 euro; il valore mobiliare, definito ai fini Isee, non può essere superiore alla soglia di 6000 euro che potrà essere aumentata a seconda del numero dei componenti del nucleo familiare, della presenza di figli e disabili; infine, il valore del reddito familiare deve essere inferiore a 6000 euro annui, da moltiplicare per il corrispondente parametro della scala di equivalenza (ex art. 2, comma 4) ed aumentato a 9360 euro nel caso in cui il nucleo familiare non abiti in una casa di proprietà[83]. A questi requisiti si aggiungono limitazioni nel godimento di beni durevoli (art. 2, comma 1, lett. c).
Sulla base di questi valori verrà determinato il sostegno economico articolato in due elementi: “una componente ad integrazione del reddito familiare (...) fino alla soglia di euro 6000 annui; b) una componente, ad integrazione del reddito dei nuclei familiari residenti in abitazione in locazione, pari all’ammontare del canone annuo previsto nel contratto di locazione, come dichiarato ai fini Isee, fino ad un massimo di 3.360 euro annui”. Le osservazioni relative ai suddetti requisiti di accesso sono molteplici.
La prima riguarda il beneficiario della misura: questi, così come era già previsto per il Reddito di inclusione e come si prevede nella maggior parte dei Paesi europei, non coincide con il singolo individuo, ma con l’intero nucleo familiare. Sul punto vale la pena di ricordare che la Carta di Nizza offre indicazioni per l’applicazione di una misura di tipo individuale che avrebbe potuto essere forse recepita dal legislatore mediante una ripartizione del sostegno economico per ciascun componente della famiglia[84].
Sul piano pratico, inoltre, l’aver identificato nel nucleo familiare il beneficiario della misura ha dei risvolti penalizzanti poiché ciascun componente della famiglia è tenuto a rispettare le condizioni previste dal decreto legge n. 4/2019, sottoscrivendo un patto per il lavoro o un patto per l’inclusione sociale. Ne consegue che, in contraddizione rispetto al principio di responsabilità personale, l’inottemperanza anche da parte di uno solo dei componenti agli obblighi derivanti dai patti comporta sanzioni che travolgono l’intero nucleo familiare con effetti negativi specialmente per i minori.
Una seconda osservazione riguarda la scala di equivalenza utilizzata per determinare, in considerazione dei componenti del nucleo familiare, la soglia di reddito entro la quale è previsto l’accesso al Rdc. È questo l’aspetto più critico relativo all’accesso delle famiglie al Rdc, poiché la scala di equivalenza è congegnata in modo da sortire un effetto negativo duplice: a svantaggio delle famiglie più numerose da un lato e, cosa ancor più grave, a svantaggio dei minori che nella scala di equivalenza sono valutati la metà degli adulti, dall’altro[85].
Gli effetti della scala di equivalenza sono tali da lasciare quasi inalterato il disagio delle famiglie numerose monoreddito[86], specie nei casi di occupazione precaria e con bassi salari; questa è la tipologia di famiglia prevalente in Italia e che spesso coincide con situazioni di monogenitorialità (principalmente madri sole, pari all’8,2 per cento delle famiglie italiane)[87]; queste ultime hanno visto un aumento della loro povertà nel 2020 (da 8,9 per cento a 11, 7 per cento)[88].
Si configura una penalizzazione delle famiglie povere con minori che desta forti perplessità soprattutto in considerazione delle ripercussioni sulla povertà minorile e sull’effetto moltiplicatore rispetto alle generazioni future e in generale sulla costruzione della futura società[89].
A riguardo la letteratura ha ampiamente dimostrato che crescere in condizioni di povertà pregiudica le future opportunità nella vita e condiziona il percorso futuro dei minori poveri che sono più esposti al rischio di restare poveri anche da adulti, il che ha conseguenza in termini di costi sociali ed economici anche per la collettività[90]. In Italia il 13, 5 per cento dei minori pari a oltre un milione, vive oggi in povertà assoluta[91], dato che è stato certamente acuito dalla pandemia in corso ma che risente di un welfare eccessivamente sbilanciato nella redistribuzione di risorse nel sistema pensionistico, con poca attenzione alle politiche di sostegno alla famiglia, dei giovani e dei minori[92].
Nello specifico, inoltre, gli interventi adottati a sostegno delle famiglie con minori hanno avuto finora carattere frammentario e non universale essendo limitate ai soli lavoratori dipendenti e non anche ai lavoratori autonomi e i titolari di contratti atipici[93].
Si tratta di un’annosa questione rispetto alla quale è apprezzabile la recente approvazione della legge delega 1 aprile 2021 n. 46 per il riordino, la semplificazione e il potenziamento delle misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’assegno unico e universale[94].
La nuova misura è improntata, secondo l’art. 1, della l. n. 46/2021, al principio di universalità e progressività, in ragione del quale una parte del sostegno è assegnata a tutti i nuclei familiari, universalmente, mentre un’altra parte si aggiunge in misura variabile in rapporto alla condizione economica del nucleo familiare, come indicata dall’Isee o dalle sue componenti.
Il nuovo assegno unico, ed è questo un aspetto problematico, è compatibile con il Rdc, ma la legge delega non offre ulteriori indicazioni limitandosi a prevedere che “nella determinazione dell’ammontare complessivo (dell’assegno) si tiene eventualmente conto della quota del beneficio economico del RDC attribuibile ai componenti di minore età presenti nelnucleo familiare”. In questo modo la disposizione lascia aperta la possibilità che si configurino diverse ipotesi di rapporto/interazione tra le due misure che i decreti legislativi dovranno disciplinare. Il che comporta la necessità di porre in sistema i due istituti al fine di evitare l’insorgere di iniquità che possono derivare, ad esempio, dall’integrazione dell’assegno unico nel reddito familiare, circostanza che potrebbe comportare la riduzione del Rdc per i nuclei familiari con minori. Analoghe osservazioni riguardano il rischio che l’inserimento dell’assegno unico nel reddito familiare e nell’Isee complichi l’accesso ad altre misure che si riferiscono a questo indicatore per determinare l’accesso[95]. Sono aspetti delicati, per i quali la soluzione più cauta appare certamente quella di escludere l’assegno unico dal calcolo Isee, il che consentirebbe una sovrapposizione delle due misure che potrebbe “eventualmente” essere corretta, in coerenza con i principi e criteri di universalità e selettività posti a base dell’istituto[96].
L’assetto definitivo del sistema dipenderà ovviamente dalle modalità con cui i decreti di attuazione riusciranno a garantire l’universalità e la progressività attraverso un efficace controllo della situazione economica del nucleo familiare poiché oltre al valore Isee, si potrebbero utilizzare anche differenti soglie su reddito e patrimonio, analogamente a come si procede per il Rdc[97].
Il dibattito parlamentare a riguardo è ancora in corso[98] e sebbene si tratti di un passo in avanti nella politica di sostegno alle famiglie, anche in questo caso si avverte l’isolamento di una misura che resta collocata in un sistema di welfare che fino ad oggi non sembra aver colto la necessità di un approccio organico alle misure di sostegno della famiglia, un approccio fondato su molteplici strumenti riconducibili da un lato alle politiche di sostegno per l’infanzia e dall’altro alle politiche conciliative dei tempi di lavoro e vita privata, senza trascurare, anzi valorizzando, il peso che l’occupazione della madre ha nello sviluppo del nucleo familiare.
E’ stato dimostrato, infatti, come un dato cruciale nel contrasto alla povertà delle famiglie con minori e dunque alla povertà infantile, è costituito dall’occupazione delle madri: “quando le madri lavorano, il rischio di povertà dei bambini si riduce di 3 o 4 volte”[99].
Si tratta di un tema centrale nella lotta alla povertà come funzionale alla costruzione di una società più equa ed inclusiva, un tema sul quale occorre brevemente soffermarsi.
- La lotta alla povertà delle donne: una sfida nuova per una questione remota
In seguito all’emergenza sanitaria indotta dalla pandemia da Covid-19, nella partecipazione al mercato del lavoro è stato registrato, rispetto al 2019, un aumento del gap di genere che nel secondo trimestre del 2020 ha raggiunto i 18,2 punti percentuali; in particolare il tasso di occupazione femminile è sceso al 48,4 per cento contro il 66,6 per cento di quello maschile, registrando un calo superiore a quello degli uomini di 2,2 punti contro 1,6 punti[100]. Questi dati hanno particolare importanza perché la forma più diffusa di povertà femminile è determinata dallo stato di disoccupazione e/o dalle condizioni, intensità e qualità del lavoro[101]; il rischio di povertà o esclusione sociale aumenta nel caso in cui le madri siano le prime responsabili per le spese dei figli o di altre persone a carico: in questi casi la povertà delle donne si trasmette a quella dei minori e dunque probabilmente alle generazioni future[102].
Certo, come è stato precedentemente osservato, il lavoro non è una condizione sufficiente contro il rischio di povertà, tuttavia la partecipazione al mercato del lavoro resta uno strumento valido per ridurre la probabilità di scivolare al di sotto della soglia di povertà.
In questo contesto, il punto di partenza per tracciare un percorso di riforme rivolto alla rimozione di quegli ostacoli che inducono le donne ad una condizione di maggiore vulnerabilità rispetto agli uomini è costituito non solo dal principio di eguaglianza sostanziale ex art. 3 Cost., ma più specificamente dall’art. 37 della Costituzione che riconosce uguaglianza di diritti alle donne lavoratrici e allo stesso tempo una protezione speciale, legata alla “essenziale funzione familiare”.
Dunque un nodo cruciale risiede nel bilanciare la parità dei diritti delle donne lavoratrici con la protezione delle funzioni legate alla vita familiare, in coerenza con il secondo comma dell’art. 3 Cost., per cui l’eguaglianza sostanziale si realizza anche “attraverso il riconoscimento dell’eventuale condizione di svantaggio e il rispetto delle esigenze particolari; spetta pertanto allo Stato di porre in essere tutte le condizioni, giuridiche e materiali, necessarie “perché siano le donne, libere da condizionamenti, a decidere se subordinare la propria attività lavorativa agli impegni familiari, eventualmente rinunciando al lavoro in favore della famiglia”[103].
A riguardo molti progressi sono stati compiuti, prioritariamente rispetto alla parità dei diritti e successivamente rispetto alla protezione della funzione familiare della donna. Non occorre in questa sede ripercorrere le singole tappe della suddetta evoluzione legislativa, limitandoci ad evidenziare che a partire dagli anni novanta, ed in particolar modo dagli anni duemila, sono stati molteplici gli interventi legislativi volti non solo a combattere la discriminazione, ma anche a promuovere attivamente il lavoro femminile, mediante l’adozione di discipline giuridiche differenziate che, derogando al principio di eguaglianza formale, hanno perseguito quello sostanziale[104].
Tuttavia, nonostante i progressi compiuti persiste un problema centrale nella lotta alla povertà femminile: la disparità di reddito tra donne ed uomini, il c.d. gender pay gap.
Si tratta di un fenomeno riconducibile da un lato alla discriminazione salariale subita dalle donne lavoratrici quando sono occupate in mansioni di “egual valore” rispetto a quelle svolte da colleghi uomini[105]; dall’altro, alla difficoltà delle donne di accedere al mercato del lavoro o comunque di accedervi per lavori meglio retribuiti.
Rispetto al primo punto, sul piano interno il d.lgs. n. 198/2006, Codice pari opportunità tra uomo e donna, pur segnando un notevole progresso sul piano della parità dei diritti, non è riuscito a contrastare la componente discriminatoria della disparità retributiva che secondo le stime Eurostat è pari al 12 per cento[106].
In effetti, l’art. 28 del d.lgs. n. 198/2006 limitandosi ad imporre il “divieto di discriminazione retributiva”, non indica quale sia il “discrimen” tra un trattamento retributivo differenziato, “ma giustificato e insindacabile in sede giudiziale, e una disparità retributiva ingiustificata e dunque discriminatoria”.
Né tanto meno esiste nelle fonti del diritto, interno ed europeo, e nella contrattazione sindacale un’indicazione che aiuti ad individuare tale discrimen[107]. A questo va aggiunto che non esistono obblighi, né sanzioni che vincolino i datori di lavoro del settore privato ad adottare azioni positive di contrasto del divario salariale.
Dopo diverse proposte di legge in materia, recentemente è stato presentato il disegno di legge n. 1423/2019 che modificando dell’art. 46 del d.lgs. n. 198/2006, mira a garantire la “trasparenza sulla parità retributiva" disponendo che "i dati sulla retribuzione effettivamente corrisposta" abbiano "informazioni chiare sulle componenti fisse e variabili, la media e la mediana tra le retribuzioni di uomini e donne, sulla differenza nella media dei bonus di produttività, sulla proporzione di uomini e donne che hanno ricevuto premi nei dodici mesi precedenti, sulla percentuale di uomini e donne occupati, sulla percentuale di differenza retributiva per il medesimo livello di inquadramento e le medesime competenze, articolato per impiegati, quadri e dirigenti, e sulla diffusione del lavoro agile"[108].
Verrebbe in questo modo rafforzato il monitoraggio anche attraverso "un sistema di certificazione della parità retributiva presso le camere di commercio, in collaborazione con le consigliere di parità" basato su "criteri e procedure" indicati dal Governo "nel rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali" (art. 4, d.d.l. n. 1423/2019).
E’ di rilievo l’introduzione di un meccanismo incentivante della parità retributiva: il disegno di legge infatti prevede che il datore di lavoro che avrà conseguito il "contrassegno distintivo per l'applicazione del principio della parità retributiva" potrà godere di "un credito di imposta nella misura massima del 50 per cento dei costi, connessi al raggiungimento della parità retributiva, comunque non superiore a 10.000 euro" (art. 5, d.d.l. n. 1423/2019).
Al momento in cui si scrive (maggio 2021) la proposta risulta esser ferma presso la Commissione Lavoro del Senato, in attesa di esame. Tuttavia un segnale positivo rispetto alla parità retributiva viene dal Piano nazionale di ripresa e resilienza che tra le molteplici misure volte a recuperare la parità di genere, inclusa la disparità salariale, prevede la definizione di un Sistema nazionale di certificazione della parità di genere che supporti e incentivi le imprese nell’adozione di “policy adeguate a ridurre il gap di genere in tutte le aree maggiormente “critiche” (opportunità di crescita in azienda, parità salariale a parità di mansioni, politiche di gestione delle differenze di genere, tutela della maternità)”[109].
Si tratta di segnali certamente positivi nel contrasto ad un fenomeno diffuso ma che, come accennato costituisce solo un aspetto del più ampio problema legato al divario retributivo, il cui tratto più preoccupante risiede, nel secondo punto sopra accennato, nell’assenza di strumenti in grado assicurare effettivamente la parità accesso al mercato del lavoro ed in particolare alle posizioni meglio retribuite.
In Italia nel 2020, il divario nell’accesso al mercato del lavoro è stato pari al 18 per cento, mentre la media europea si è assestata sopra il 10 per cento[110].
In particolare, le donne che non hanno avuto accesso al mercato del lavoro per occuparsi dei figli sono pari all’11,1 per cento a fronte del 3,7% per il complesso dell’Unione, condizione che peggiora nel Mezzogiorno in cui la percentuale aumenta anche per la quota di donne che non lavorano per ragioni diverse dalla cura dei figli (12 per cento a fronte del 6,3 per cento della media nazionale).
Il punto nevralgico di questa condizione risiede nella difficile conciliazione delle esigenze di vita con le esigenze di lavoro che induce principalmente le donne a riorganizzare gli impegni lavorativi in funzione del lavoro domestico e di cura dei familiari: nel 2018 il 38, 3 per cento delle madri occupate (un milione), contro all’11 per cento dei padri (poco oltre il mezzo milione) ha dichiarato di aver rimodulato la propria attività lavorativa per conciliarla con la cura dei figli.
In Italia l’offerta dei servizi integrativi per l’infanzia è carente specie per la fascia di età fino ai 3 anni e specie nel Mezzogiorno. Nelle aree e nelle situazioni maggiormente svantaggiate infatti si rileva come il costo del servizio (pari a circa 2.208 all’anno), non ne consente l’accesso proprio alle famiglie che più ne avrebbero bisogno in cui uno dei due genitori, tradizionalmente la madre, è costretto a ridurre il proprio carico lavorativo esterno e con esso la fonte di reddito. Ciò spiega, in parte, una delle caratteristiche della carriera lavorativa delle donne: intermittente, a bassa intensità e con contratti a termine[111].
La questione interseca ed in parte coincide con i pochi progressi compiuti sull’altra direttiva indicata dall’art. 37 Cost: la costruzione di un sistema volto a proteggere le funzioni legate alla vita familiare[112].
Sotto il forte impulso del diritto e della giurisprudenza europea, oltre che della Corte costituzionale, a partire dal 2000 il legislatore ha intensificato gli sforzi volti a conciliare attività lavorativa e cura dei figli come prerogativa non solo della madre ma anche del padre. In questo senso si collocano la legge 53/2000 recante misure a sostegno dell’astensione dal lavoro e della flessibilità finalizzate ad una migliore conciliazione del tempo lavorativo con il tempo dedicato alla famiglia; il d.lgs. n. 151/2001, oltre a riorganizzare la precedente normativa in tema di maternità e paternità, ha previsto anche un congedo di paternità, accanto a quello di maternità, oltre ai congedi parentali, per allattamento e per malattia del figlio; anche i d.lgs. nn. 80 e 81/2015, attuativi della legge 183/2014 che arricchiscono il precedente quadro normativo relativo alla conciliazione e introducono incentivi al lavoro part time al telelavoro.
Ciononostante, molto resta da fare per garantire un’effettiva partecipazione delle donne al lavoro, specialmente perché la società attuale risente ancora di un’impostazione basata sui tempi, esigenze e caratteristiche degli uomini che tradizionalmente non hanno gli stessi carichi legati alla vita familiare delle donne[113].
Non sembra esserci una sufficiente consapevolezza della differenza delle donne, ma semmai finora nell’accesso al mercato del lavoro sembra rilevabile una consapevolezza delle donne di dover accettare ed adeguarsi ad un mercato “neutro/maschile”. Come osservato, tutte le misure messe in campo finora per facilitare l’accesso delle donne al mercato del lavoro, non colgono un nodo cruciale “che è quello di un lavoro apparentemente neutro, che indirettamente discrimina le donne in ragione del genere, tenendole fuori o relegandole nei lavori precari e nella sottoccupazione del part-time (troppo spesso involontario)”[114]. In questa prospettiva, appare chiaro come la lotta alla povertà femminile richieda un sistema di politiche, programmi e servizi che tenga conto di questa differenza nel pieno rispetto del principio di eguaglianza sostanziale ex art. 3 Cost.
- Il problema dei working poor e la prospettiva del salario minimo legale
La riflessione sugli strumenti di lotta alla povertà come funzionale alla garanzia di una vita libera e dignitosa non può tralasciare una sfida relativamente nuova, quale è l’aumento dei lavoratori poveri, c.d working poor.
Nell’attuale contesto globalizzato la prestazione lavorativa è divenuta cronicamente precaria; i mercati del lavoro sono sempre più interconnessi con conseguenze negative sul livello delle retribuzioni, della qualità della vita ed in generale sulla dignità del lavoratore[115].
La globalizzazione, il progresso tecnologico, unitamente a politiche economiche liberali hanno spinto al ribasso le condizioni lavorative ampliando la classe dei lavoratori poveri, working poor, la cui retribuzione non è sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa[116].
L’ampliamento della categoria dei lavoratori poveri, meglio nota in ambito sovranazionale con l’espressione in- work poverty (iwp), è un fenomeno allarmante per il nostro Paese poiché, come è stato osservato, in “Italia, non soltanto i tassi di occupazione registrano una crescita non paragonabile a molti Stati membri, ma emergono progressivamente nuove povertà lavorative, determinate dalla scarsa qualità dei percorsi di carriera e dall'inefficiente sostegno pubblico al funzionamento del mercato del lavoro. Un settore particolarmente colpito dal fenomeno è il lavoro autonomo non imprenditoriale, che registra nel 2017 un rischio di IWP del 19,5%, contro il 10,1% del lavoro dipendente. Nel lavoro dipendente, si osserva un'incidenza significativa dei low-wage earners, particolarmente elevata in Italia negli anni della crisi finanziaria”[117].
Sono dati che dimostrano come il lavoro non possa essere “una buon assicurazione contro la povertà”, ancor meno può esserlo il lavoro precario e neanche il lavoro a tempo indeterminato il cui livello retributivo è stato eroso dall’indebolimento della capacità della contrattazione collettiva. Quest’ultima, nell’attuale contesto economico e politico non sempre è riuscita a resistere alle pressioni volte a ridurre i salari[118].
Si tratta di un problema sul quale è recentemente tornata la Commissione Europea con una proposta di direttiva (COM(2020)682 final), trasmessa al Parlamento europeo e al Consiglio, relativa all’adozione di salari minimiadeguati nell’Unione europea quale strumento di contrasto all’in-work poverty.
Dalla relazione illustrativa e dai considerando della proposta emerge la sua duplice finalità: da un lato mira ad introdurre garanzie di minimi salariali in funzione di contrasto dei salari bassi e dell’in-work poverty; dall’altro, in modo complementare intende evitare il c.d. dumping salariale, contrastando la concorrenza al ribasso fra gli Stati membri sul costo del lavoro. Finalità coerenti con lo spirito del Pilastro europeo dei diritti sociali, specie con il Principio 6 del Pilastro stesso che ribadisce il diritto dei lavoratori a una retribuzione equa in grado di garantire una vita dignitosa.
La proposta è stata accolta con un consenso relativamente ampio da parte delle organizzazioni sindacali aderenti alla confederazione europea dei sindacati, contrariamente alle federazioni imprenditoriali aderenti a Business Europe che hanno manifestato una preferenza per l’utilizzo della forma della Raccomandazione in luogo della Direttiva[119]. Attualmente la consultazione sulla proposta di direttiva è ancora aperta e sebbene non sia possibile in questa sede analizzarne tutte le implicazioni, specie per gli aspetti più propriamente giuslavoristici, occorre evidenziare come anche in ambito europeo sembra emergere un diverso orientamento più aderente alla visione di una Europa sociale inclusiva. In esso l’approccio alle politiche occupazionali, centrali nella lotta alla povertà, non è più incentrato solo sul contenimento delle dinamiche retributive al fine di conservare la competitività dei mercati, ma ora anche sulla “necessità di garantire salari minimi adeguati come strumento importante per promuovere un lavoro dignitoso per tutti i lavoratori europei”[120].
Si tratta di un cambio notevole rispetto al decennio precedente in cui le esigenze di finanza pubblica hanno compresso quelle sociali, un cambio che si coglie anche nelle Conclusioni del Consiglio del 9 ottobre 2020 con cui si ribadisce la necessità di rafforzare il reddito minimo al fine di contrastare la povertà acuita ulteriormente dalla pandemia[121].
Sebbene, come accennato, il fenomeno dell’in-work poverty è determinato da molteplici fattori, anche di ordine sovranazionale molti dei quali sono comuni alla maggior parte dei Paesi europei, occorre chiedersi se l’introduzione di un salario minimo nel nostro ordinamento potrebbe essere davvero la soluzione per combattere quella componente della povertà correlata ad una retribuzione insufficiente.
La nostra Costituzione non offre alcuna indicazione circa le modalità per assicurare al lavoratore una “retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”; non vi è neanche una preclusione per un intervento legislativo volto a garantire il minimo salariale, sebbene nel dibattito costituente la contrattazione collettiva ha assunto una primazia tale da configurarsi come il “naturale strumento per la fissazione dei minimi di trattamento retributivo di applicazione generale e nello stesso tempo, adeguati alla realtà produttiva dei diversi settori”[122].
È alla contrattazione collettiva che la Costituzione affida, la competenza in materia salariale i cui livelli, per effetto dell’art. 39 Cost. avrebbero avuto efficacia erga omnes.
In assenza di una reale attuazione del suddetto articolo, la giurisprudenza è stata indotta indirettamente a supportare la funzione della contrattazione utilizzando i livelli salariali fissati dai contratti collettivi come parametro della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost[123].
Tuttavia, come accennato, negli ultimi anni, la contrattazione collettiva si è indebolita per effetto di molteplici fattori: dalla frammentazione delle rappresentanze sindacali, alla deregolazione aziendale, dalla proliferazione di contratti collettivi sottoscritti dalle stesse categorie, alla diffusione dei c.d. “contratti pirata” siglati da organizzazioni sindacali non rappresentative[124]. Il tutto in un contesto in cui il lavoro attraverso le piattaforme si diffonde progressivamente e con esso una dimensione grigia di difficile regolazione[125].
Ne è derivata una oggettiva difficoltà di garantire salari minimi adeguati al punto che in alcuni settori si rivelano retribuzioni più basse dei minimi tabellari del settore, oltre alla presenza di minimi salariali particolarmente bassi[126].
In questo contesto si è riacceso il dibattito relativo all’opportunità di introdurre anche nel nostro ordinamento un salario minimo legale, ipotesi già prevista dalla legge delega n. 183 del 2014, c.d. Jobs Act, ed attualmente oggetto del D.d.l. n. 1132/2019 (Nannicini-PD) e il D.d.l. n. 658/2018 (Catalfo-M5s), entrambi oggetto di critiche sia da parte dei sindacati che delle imprese. In particolare, il D.d.l. n. 1132/2019 sembra in linea con la proposta di direttiva, laddove prevede non una soglia minima (fissata in 9 euro lordi dal D.d.l. n. 658/2018), ma un salario minimo coincidente con il minimo tabellare dei contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle parti sociali maggiormente rappresentative. Per le attività non coperte, lo stesso disegno prevede “un salario minimo di garanzia” la cui quantificazione viene affidata ad una commissione da istituire presso il Cnel, che avrà il delicato compito di certificare la rappresentanza delle organizzazioni sindacali e datoriali. La Commissione avrebbe il compito di deliberare anche in ordine al “salario minimo di garanzia applicabile, ove individuati, negli ambiti di attività non coperti da contrattazione collettiva, nonché i criteri per il suo aggiornamento” (art. 2, c. 6, lett. h, d.d.l. n. 1132).
Senza entrare nel merito dei due disegni di legge, quest’ultima proposta appare maggiormente condivisibile poiché si ritiene che il contrasto al fenomeno dei working poor, data la sua complessità, richieda interventi con diverse modalità.
Così, l’introduzione di un salario minimo fissato per legge non dovrebbe costituire la sola garanzia contro bassi livelli di retribuzione, ma potrebbe affiancare e completare il sistema di garanzie dei minimi retributivi tabellari stabilendo un minimo per tutti quei settori che non sono coperti dai contratti collettivi nazionali, oppure per i lavoratori che operano in settori con scarse tutele[127].
L’osservazione è supportata dall’esperienza tedesca che pur avendo, come in Italia, una contrattazione collettiva predominante, ha inteso introdurre un salario minimo a tutela dei lavoratori dei settori a maggior rischio di in-work poverty. In questo caso il salario minimo, senza sostituirsi al salario stabilito dalla contrattazione collettiva, ha offerto maggiore tutela ai lavoratori precari dei settori scoperti. Va tuttavia rilevato che l’impatto sulla riduzione dei livelli di povertà in Germania è stato deludente poiché l’aumento del salario orario è stato compensato da una riduzione delle ore lavorate[128].
Il che evidenzia la necessità di collocare l’introduzione di un minimo salariale legale in un quadro più ampio, che tenga conto di come il problema della povertà nonostante il lavoro trovi una delle principali cause nella bassa intensità lavorativa, dovuta principalmente all’aumento dei lavori occasionali, a chiamata, a “zero ore” ed in generale all’ “intermittenza dei percorsi lavorativi”[129].
Si tratta di questioni che si collocano sullo sfondo di un problema più ampio che riguarda la struttura stessa del mercato italiano, le cui debolezze sono state acuite dalla crisi del 2008 ed ora dalla crisi pandemica[130]. Sono aspetti complessi le cui risposte vanno ricercate in un insieme di policy che richiedono una riflessione ampia relativa alle politiche di investimento in istruzione e formazione, ma anche alla politica industriale, culturale e sociale e non possono trovare risposta in un solo strumento, né nel salario minimo legale, né tanto meno nel Reddito di cittadinanza.
- La lotta alla povertà oltre la logica meramente redistributiva
I limiti degli strumenti per la lotta alla povertà osservati finora si sono rivelati con maggior chiarezza nel corso della crisi pandemica da Covid-19 che ha innescato una crisi economica e con essa un aumento della povertà.
In questo contesto sono stati adottati diversi provvedimenti per fronteggiare la situazione di disagio economico e sociale acuito dalla pandemia[131].
Si tratta di misure temporanee che pur mirando ad alleviare il disagio dovuto all’emergenza Covid, non possono essere qualificate come strumenti idonei al contrasto alla povertà[132]. In generale, relativamente alle principali misure di contrasto della povertà, l’analisi condotta ha evidenziato le criticità di interventi discontinui, frammentari e disorganici, di tipo prettamente redistributivo di risorse economiche, interventi che sono peraltro lontani da un auspicabile approccio integrato delle diverse politiche afferenti alla lotta alla povertà.
La relativa inadeguatezza delle misure di lotta alla povertà adottate finora è infatti riconducibile, almeno per una parte, alla mancanza di collegamento con un adeguato substrato sistemico di politiche e servizi volti ad emancipare la persona dalla condizione di disagio[133].
In particolare, gli strumenti di sostegno al reddito posti in essere, specie il Rdc, per la sua impronta workfaristica caratterizzata da una rigida condizionalità, è lontano dal configurarsi come efficace strumento di lotta alla povertà e, a ben vedere, anche come efficace strumento di politica attiva del lavoro[134].
Questo dato è stato rilevato con particolare riguardo agli immigrati, alle persone senza fissa dimora, alle famiglie con minori e non esclude la classe dei lavoratori poveri e ancor di più le donne che hanno accentuato la loro povertà in seguito alla pandemia. Queste tipologie di persone povere non sono state efficacemente raggiunte dalle misure di sostegno al reddito e in alcuni casi restano invisibili anche ai servizi sociali erogati dai Comuni.
In effetti, questa criticità del Rdc riflette una delle criticità di fondo nell’approccio alla lotta alla povertà, individuabile nell’assenza un coordinamento tra politiche previdenziali e assistenziali che guardino ai bisogni dell’individuo da angolazioni diverse ma complementari. Peraltro anche l’assenza del coordinamento tra queste due politiche costituisce a sua volta solo un aspetto del problema, rappresentato dalla mancanza di uno sguardo alla persona nel momento e nel contesto in cui è situata; uno sguardo in grado di cogliere non solo il disagio legato alla privazione materiale, ma anche quello legato agli ostacoli di ordine sociale che ne impediscono il pieno sviluppo e ne pregiudicano la partecipazione alla vita politica economica e sociale della Paese (art. 3 Cost.)[135]. Soprattutto è necessario riuscire a ‘vedere’ anche coloro che, come accennato, non riescono ad essere intercettati dai servizi di assistenza sociale. Si tratta pertanto di adottare un punto di vista nuovo, uno sguardo che guardi alla persona da una distanza ravvicinata per poterne cogliere le specifiche fragilità, ma anche le specifiche potenzialità di sviluppo secondo un progetto di lungo periodo, di liberazione dalla povertà e di inclusione sociale.
In questa prospettiva il Terzo settore è stato tradizionalmente prezioso per la capacità di osservare e cogliere le fragilità presenti sul territorio e di interloquire con gli enti locali per l’approntamento di misure adeguate al bisogno rilevato[136]. Dunque, oltre ad una maggiore integrazione delle politiche pubbliche che offra una risposta dall’alto, è auspicabile un maggior coinvolgimento dei privati, dal basso.
La collaborazione tra pubblico e privato nell’erogazione di servizi di assistenza è prefigurata dall’art. 38 Cost. in base al quale il diritto a ricevere assistenza è legato alla libertà di offrire assistenza secondo l’approccio solidaristico di cui all’art. 2 Cost. Tale principio- dovere di solidarietà va posto in relazione ad un sistema di diritti garantiti dal nostro ordinamento e al dovere di rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale (art. 3, comma 2 Cost.) che impongono l’organizzazione di un intervento pubblico adeguato a garantire l’effettività dei diritti e il pieno sviluppo della persona che si concretizza non tanto in una risposta al bisogno, ma in una risposta adeguata a garantire una vita dignitosa[137].
Già la legge 328/2000 riconosceva il ruolo fondamentale del Terzo settore, ruolo che è stato ulteriormente valorizzato dal d. lgs. n. 117/2017, Codice del terzo settore in coerenza con il principio di sussidiarietà orizzontale per il quale la pubblica amministrazione favorisce l’intervento del privato. In questo modo l’obiettivo di contrasto alla povertà viene condiviso con i privati sin dalle fasi iniziali del processo di decisione[138].
Il ruolo dei privati, infatti, è rafforzato dal loro coinvolgimento a partire dalla fase di programmazione e progettazione da parte dei Comuni; questi possono avviare istruttorie pubbliche per la costruzione di interventi innovativi rispetto ai quali i privati offrono la loro disponibilità a collaborare[139].
Anche rispetto alla progettazione, volta alla definizione ed eventualmente alla realizzazione di specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare bisogni individuati nella fase di programmazione, il contributo dei privati si colloca in una prospettiva di condivisione con la pubblica amministrazione [140].
In questo sistema spetta al soggetto pubblico stabilire i requisiti comuni che i fornitori delle prestazioni dovranno possedere al fine di garantire un’eguale tutela del diritto, requisiti che si pongono alla base per l’autorizzazione e accreditamento, oltre che per la stipula di convenzioni[141].
Spetta al soggetto pubblico anche la decisione sulle modalità di intervento più adatte a soddisfare il bisogno dell’individuo, facendosi garante in questo modo della piena tutela del soggetto bisognoso anche attraverso l’organizzazione e il coordinamento delle prestazioni necessarie, pubbliche e/o private[142].
Il tutto in una prospettiva che può andare oltre quella meramente redistributiva, per evolvere verso un welfare generativo, idoneo a coniugare i valori di solidarietà ed eguaglianza, di cui all’art. 2 e 3 Cost., con le opportunità della sussidiarietà orizzontale ex art. 118 Cost.[143]
In questa prospettiva generativa la persona viene posta al centro di una visione in cui il sostegno al reddito e i servizi di assistenza sono volti ad un reinserimento sociale che presuppone il contributo della persona non necessariamente identificabile con una prestazione lavorativa, ma anche con attività di cura che concorrano al bene comune[144]. Si crea così un collegamento tra l’erogazione della prestazione sociale e la “controprestazione a corrispettivo sociale”, secondo un modello di welfare non più meramente redistributivo, ma focalizzato sui “c.d. bisogni di cura” della persona e capace, allo stesso tempo di generare “responsabilità di cura a carico del beneficiario”[145].
Naturalmente l’attuazione di questo modello di welfare non è priva di ostacoli, quali ad esempio, la difficoltà di coordinamento delle discipline relative all’affidamento del servizio, le scarse risorse assegnate ai Comuni, oppure l’approntamento di un efficace strumento di controllo delle risorse pubbliche utilizzate dagli enti del Terzo settore[146].
Tuttavia, va positivamente rilevato come siano già stati piantati dal legislatore i semi per la crescita di un nuovo modello di welfare basato sulla collaborazione tra pubblico e privato; spetta pertanto al decisore politico andare oltre la logica meramente distributiva seguita finora, per la costruzione di un welfare nel segno di quella solidarietà capace di ri-generare le risorse già disponibili e con esse il “rendimento degli interventi di politiche sociali a beneficio di tutta la collettività”, attraverso la responsabilizzazione e la valorizzazione dello sviluppo della persona umana[147]. Nella consapevolezza “di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme”[148].
Abstract: The study analyzes the main income support measures to understand their effectiveness in thefight against poverty. In Italy, the phenomenon of poverty, as a result of the Sars-Cov2 pandemic, hassharpened its multidimensional character, posing new challenges. The study intends to demonstrate thateconomic support measures alone are not an adequate response to the problem. The absence of amultidimensional approach in the fight against poverty risks not solving the protection gaps, especially withregard to the most fragile types: immigrants, homeless people, families with children. The goal is todemonstrate the need for a change in the fight against poverty, a change that involves the individual not only asa passive beneficiary but as an active participant in the community, according to a welfare that is no longermerely redistributive, but actually generative.
Key words: Poverty, Basic Income, immigrants, family, homeless, female poverty, working poor.
* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] Nell’ambito della letteratura giuspubblicistica in materia, ex multis, si veda, E. Balocchi, La qualificazione di povertà nel diritto amministrativo, Milano 1967; Q. Camerlengo, Il senso della Costituzione per la povertà, in AIC (1-2), aprile 2019; V. Casamassima-E. Vivaldi, Ius existentiae e politiche di contrasto alla povertà, in Quaderni costituzionali, (1) 2018, pp. 115 ss.; V. Cerulli Irelli, La lotta alla povertà come politica pubblica, in Democrazia e Diritto, (4) 2005, p. 57 e ss.; R. Fattibene, Povertà e costituzione, Napoli 2020; C. Franchini, L’intervento pubblico di contrasto alla povertà, Napoli 2020, passim; E. Innocenti - E. Rossi - E. Vivaldi (a cura di), Quale reddito di cittadinanza? Criticità e prospettive delle politiche di contrasto alla povertà, Bologna 2019, passim; F. Manganaro, Combattere povertà ed esclusione sociale: ruolo e responsabilità delle amministrazioni e delle comunità locali e subnazionali, in Il Diritto dell’economia, 2003, pp. 273 ss.; B. Mattarella, Il problema della povertà nel diritto amministrativo, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2012, p. 359; M. Ruotolo, La lotta alla povertà come dovere dei pubblici poteri. Alla ricerca dei fondamenti costituzionali del diritto a un’esistenza dignitosa, in Diritto pubblico, (2) 2011, p. 391.
[2] La soglia della povertà assoluta secondo l’Istat, Calcolo della soglia di povertà assoluta, disponibile su ww.istat.it, “rappresenta il valore monetario a prezzi correnti, del paniere e di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia, definita in base all’età dei componenti, alla ripartizione geografica e alla tipologia del comune di residenza”. Pertanto, sempre secondo l’Istat, La misura della povertà assoluta, 2009, p. 14 “a differenza delle misure di povertà relative che individuano la condizione di povertà nello svantaggio di alcuni soggetti rispetto agli altri, la povertà assoluta si riferisce all’incapacità di acquisire i beni e i servizi necessari a raggiungere uno standard di vita ritenuto “minimo accettabile” nel contesto di appartenenza”. La povertà assoluta indica pertanto l’incapacità di acquisire beni e servizi necessari a raggiungere uno standard di vita minimo accettabile ne contesto di appartenenza”. Per il 2020, una famiglia si considera in povertà assoluta se sostiene una spesa mensile per consumi pari o inferiore a tale valore monetario. Per una famiglia con due bambini di età inferiore ai 10 anni, residente al centro tale valore monetario, la soglia di povertà assoluta è pari a circa 1500 euro; secondo i Principi guida delle Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani adottati dal Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite il 27 settembre 2012, la povertà è definita come “una condizione umana caratterizzata dalla privazione continua o cronica di risorse, capacità, opzioni, sicurezza e potere necessari per poter godere di un tenore di vita adeguato e di altri diritti civili, culturali, economici, politici e sociali”. In questo contesto la povertà estrema è a sua volta ivi definita come “una combinazione di penuria di entrate, sviluppo umano insufficiente ed esclusione sociale”.
[3] Istat, Le statistiche dell’Istat sulla povertà_ Anno 2020, 16 giugno 2021.
[4] Istat, La povertà in Italia, 2017, 26 giugno 2018.
[5] Ugl-Censis, Tra nuove povertà e lavoro che cambia: quel che attende i lavoratori oltre il Covid-19, Rapporto Censis- Ugl, Milano, Over Edizioni, 1 maggio 2021.
[6]W. Beveridge, Social Insurance and Allied Services, New York 1942.
[7]F. Pizzolato, L’incompiuta attuazione del minimo vitale nell’ordinamento italiano, in Rivista del Diritto della Sicurezza Sociale, (2) 2005, p. 248
[8] Così C. Gori, Combattere la povertà. L’Italia dalla Social Card al Covid-19, cit., p. 131; diversamente R. Casillo, Il Reddito di cittadinanza nel d.l. 28 gennaio 2019, n. 4: reddito di cittadinanza, reddito minimo garantito e regime di condizionalità, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2 (2019), p. 441, ritiene che la duplice finalità del Rdc sia funzionale ad obiettivi di inclusione sociale.
[9] Cfr. M. Ruotolo, La lotta alla povertà come dovere dei pubblici poteri. Alla ricerca dei fondamenti costituzionali del diritto a un’esistenza dignitosa, in Diritto pubblico, 2 (2011), p. 391; nel diritto amministrativo il compito delle pubbliche amministrazioni di prevenire e combattere la povertà diffusa per la riduzione delle disuguaglianze è rimarcato da B. Mattarella, Il problema della povertà nel diritto amministrativo, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2012, p. 359.
[10] È la posizione di Aldo Moro in Assemblea costituente, 13 marzo 1947, ripresa da G. Rossini, Aldo Moro. Scritti e discorsi (1940-1947), Cinque lune, 1982, pp. 459 ss.
[11] A questo proposito F. Fracchia, Combattere la povertà, cit., p. 5, parla di lotta alla povertà come “condizione di libertà”; il ruolo delle pubbliche amministrazioni nel combattere la povertà è evidenziato da B. Mattarella, Il problema della povertà nel diritto amministrativo, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2012, p. 359.
[12] Così P. Barcellona, L’individuo sociale, Genova 1996, pp. 88 ss.; d’altro canto, il rispetto del principio di solidarietà, dello stesso art. 2 Cost., implica una reciprocità, un contributo della persona allo sviluppo della società sia attraverso il lavoro, sia attraverso attività o funzioni che concorrano “al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4 Cost.).
[13] Si tratta di garantire il diritto ad un’esistenza dignitosa quale risultato di una redistribuzione della ricchezza volta a realizzare la giustizia sociale così come teorizzato da T. Paine, Giustizia Agraria, in Id., I Diritti dell’uomo e altri scritti politici, Roma 1978, p. 341 e ss.; concetto sviluppato poi da J. Rawls, A Theory of justice, Harvard University Press, 1971, Trad. it. di U. Santini, a cura di S. Maffettone, Milano 1982, specie p. 150 e ss.
[14] Cfr. B.M. Raganelli, Oltre la crisi Covid. Una sfida per l’Europa tra limiti e distorsioni, in Analisi giuridica dell’economia, 2 (2020), p. 361.
[15] Sul punto si veda la ricostruzione svolta da S. Ronchi - A. Terlizzi, Schemi di reddito minimo: il quadro europeo, in Nuove (e vecchie) povertà: quale risposta? Reddito d’inclusione, reddito di cittadinanza, e oltre, a cura delle Fondazioni Astrid e Circolo Fratelli Rosselli, Bologna 2018, pp. 55 ss., specie p. 60 dove si evidenzia come “nella quasi totalità dei Paesi europei, il RMG entra in gioco come last safety net. Proprio come la rete di salvataggio degli acrobati, il reddito minimo ha l’obiettivo di frenare la caduta di chi, in periodi di crisi economica e personale, precipita in condizioni di povertà. (...) il reddito minimo viene attivato una volta esauriti tutti i restanti ammortizzatori sociali o una volta accertata la loro applicabilità al singolo caso”.
[16] Cfr.: L. Violini, Art.38, in R. Bifulco - M. Olivetti - A. Celotto, (a cura di), Commentario alla Costituzione, Roma 2006, p.789; sull’ambigua formulazione dell’art. 38 Cost. dalla quale sono derivate difficoltà per l’introduzionedi un reddito minimo garantitosi veda S. Giubboni, Il reddito minimo garantito nel sistema di sicurezza sociale. Le proposte per l’Italia in prospettiva europea, in Rivista del diritto e della sicurezza sociale, (2) 2014, p. 148 e ss.;in argomento precedentementeF. Pizzolato, Il minimo vitale, Milano 2004, p. 9; C. Tripodina, Il diritto ad un’esistenza dignitosa, Torino 2013, p. 52 e ss.
[17] Cfr. C. Tripodina, Il diritto a un’esistenza dignitosa, cit., p. 136.
[18] Così S. Giubboni,Il reddito minimo garantito nel sistema di sicurezza sociale. Le proposte per l’Italia in prospettiva europea, in Rivista del Diritto della Sicurezza Sociale, (2) 2014, p. 149 ss., specie p. 151.
[19] Così S. Giubboni, Primi appunti sulla disciplina del reddito di cittadinanza, in Working Paper 401 (2019), in Centre for the Study of European Labour Law “Massimo D’Antona”, p. 6.
[20] Cfr. C. Mortati, Il lavoro nella Costituzione, in Diritto del Lavoro, (I) 1954, p. 149, specie p. 250 e ss; in argomento si veda C. Tripodina, Povertà e dignità nella Costituzione italiana: il Reddito di cittadinanza come strumento costituzionalmente necessario, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, (4) 2016, p. 733 e ss.
[21] Cfr. Persiani, Il sistema giuridico della previdenza sociale, Padova 1960.
[22] Le Raccomandazioni 92/441/CEE e 92/442/CEE erano in linea con la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989 che all’art.10, sotto la Rubrica “Protezione sociale” stabiliva che “Le persone escluse dal mercato del lavoro, o perché non hanno potuto accedervi o perché non hanno potuto reinserirvisi, e che sono prive di mezzi di sostentamento devono poter beneficiare di prestazioni e di risorse sufficienti adeguate alla loro situazione personale”; su questi aspetti si veda T. Giubboni, L’incerta europeizzazione: diritto della sicurezza sociale e lotta all’esclusione in Italia, in Giornale del Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali, 2003, p. 563.
[23] La sperimentazione fu avviata con il d.lgs. n. 237/1998 di attuazione alla delega recata dall’art.59 della legge n. 449/1997 (legge finanziaria per il 1998); su questi aspetti si veda C. Saraceno, La riforma dell’assistenza in Italia, in L. Paganetto (a cura di), Lo stato sociale in Italia: quadrare il cerchio, Bologna 1998, pp. 34 ss; per una ricostruzione del dibattito più recente in materia si veda M. Altimari, Tra assistenza e solidarietà: la liberazione dal bisogno nel recente dibattito politico parlamentare, in M. Ferraresi (a cura di), Reddito di inclusione e reddito di cittadinanza. Il contrasto alla povertà tra diritto e politica, Torino 2018, pp. 101 ss.
[24] Cfr. E. Ranci Ortigosa, Il reddito minimo d’inserimento, in L. Guerzoni (a cura di), La riforma del welfare dieci anni dopo la Commissione Onofri, Bologna 2008, pp. 445 ss.; per una ricostruzione delle misure adottate si veda E. Vivaldi - A. Gualdani, Il minimo vitale tra tentativi di attuazione e prospettive future, in Diritto e Società, 1 (2014), pp. 115 ss., specie, p. 137 e ss.
[25] Cfr. M. Laaroussi - Vatz, Revenu minimum d’insertion en France: Les strategies des acteurs, in Nouvelles Pratiques sociales, vol.6, II (1993), pp. 193-204; per una comparazione con i sistemi assistenziali adottati nei Paesi europei si veda C. Saraceno, Le dinamiche assistenziali in Europa. Sistemi nazionali di contrasto alla povertà, Bologna 2009.
[26] Non appare opportuno ripetere quanto già osservato in altra sede, F. Nugnes, Gli strumenti di lotta alla povertà e di garanzia di una vita dignitosa. Dal Reddito minimo di inserimento al Sostegno di inclusione attiva, in L. Azzena - E. Malfatti (a cura di), Poteri normativi del governo ed effettività dei diritti sociali, Pisa 2017, p. 115 e ss., in cui era stato rilevato come le difficoltà sul piano amministrativo, unite alla insufficiente determinazione della classe politica hanno fatti naufragare questa prima misura di contrasto alla povertà. In particolare, ha pesato negativamente la difficoltà degli enti locali, specie di piccole dimensioni, di realizzare progetti di reinserimento sociale. A questa si aggiunge l’assenza di un parametro, analogo all’Isee, da utilizzare nella verifica dell’effettivo stato di bisogno. Su questi aspetti si veda S. Toso, Reddito di cittadinanza, Bologna 2016, p. 107 e ss.; S. Giubboni, Primi appunti sulla disciplina del redito di cittadinanza, cit., p.10.
[27] Per un commento si veda F. Pizzolato, L’incompiuta attuazione del minimo vitale nell’ordinamento italiano, in Rivista del Diritto e della Sicurezza sociale, 2005, p. 258 e ss.
[28] Cfr. R. Lumino - E. Morlicchio, Gli schemi regionali di reddito minimo: davvero una esperienza fallimentare?, in Autonomie locali e servizi sociali, 2 (2013), pp. 235 e ss.
[29] In questo senso C. Pinelli, “Social card”, o ritorno alla carità di Stato, in Scritti in onore di Lorenza Carlassare, Napoli 2009, p. 1177, specie p. 1191.
[30] Come è stato osservato da S. Giubboni, Primi appunti sula disciplina del reddito di cittadinanza, cit., p. 11 “Con la social card ha fatto ingresso nel nostro ordinamento (...) una delle misure più ideologiche, inique e stigmatizzanti della ingloriosa storia recente dell’assistenza sociale italiana: una versione becera e populistica di welfare compassionevole concettualmente agli antipodi, non si dice solo della logica dell’art. 38 Cost., ma della stessa filosofia euro-unitaria della lotta contro la povertà”.
[31] Con il d.l n. 225/2010, c.d. decreto “milleproroghe” una nuova Carta era stata sperimentata per un solo anno e limitatamente a città con almeno 250.000abitanti; in seguito, con il d.l n. 5/2012, convertito in legge n. 35/2012 e con il decreto interministeriale del 10 gennaio 2013 è stata aggiunta una Carta acquisti sperimentale non cumulabile alla precedente. su questi aspetti sia consentito rinviare a F. Nugnes, Gli strumenti di lotta alla povertà e id garanzia di una vita dignitosa, cit., p.120.
[32] Di questa parte erano incaricati analogamente a quanto previsto con il primo Rmi, i Comuni che avrebbero dovuto coordinarsi con i centri per l’impiego aventi il compito di fornire servizi idonei all’inserimento lavorativo dei beneficiari.
[33] Cfr. F. Gadaleta, La via italiana al reddito minimo: il tortuoso sentiero del reddito di inclusione, in M. Ferraresi (a cura di), Reddito di inclusione e reddito di cittadinanza. Il contrasto alla povertà tra diritto e politica, Torino 2018, p.25, specie p. 34; relativamente al c.d. active inclusion approach, si veda R. Halvorsen - B. Hviden (edt by), Combating Poverty in Europe. Active Inclusion in a Multi-level and Multi-Actor contest, Edward Elgar, Cheltenham Glos 2016, passim.
[34] Così E. Granaglia - M. Bolzoni, Il reddito di base, Roma 2016, p. 1, le quali avvertono che si tratta di una definizione “più generale e allo stesso tempo più stringenti rispetto a molte definizioni presenti nella letteratura e nel discorso pubblico” come ad esempio quella offerta dal P. van Parijs, che svincola il reddito di base dalle condizioni di disagio.
[35] Cfr. P. van Parijs, The alternative proposals: basic income: a simple and powerful idea for the 21st century, in AA.VV., Verso nuove forme di Welfare, Milano 2003, pp. 60 ss.
[36] In Finlandia nel biennio 2017- 2018, come Reddito di base è stata erogata una cifra di 560 euro a 2000 persone selezionate fra i 25 e i 58 anni di età, soprattutto con lo scopo di osservarne il comportamento in relazione alla volontà di accettare lavoro. Gli esiti dell’esperimento sono controversi, specie perché nel secondo anno sono stati introdotti incentivi all’attivazione, ma va comunque positivamente rilevato come ci sia stato un miglioramento del tasso di occupazione per i beneficiari del sostegno economico ed anche del benessere psicofisico generale della persona; cfr. Kela Institute, Results of Finland’s basic income experiment: small employment effects, better perceived economic security and mental wellbeing, in www.kela.fi, 6, maggio 2020; un altro Stato in cui è stato introdotto il reddito di cittadinanza è l’Alaska, USA, in cui a ciascun cittadino è attribuito un reddito di 2000 dollari, misura finanziata dagli introiti derivanti dal petrolio.
[37] In questo senso si è espressa anche l’International Labour Organization, Inception Report for the Global Commission on the Future of Work, Geneva, 2017, p. 20-21 reperibile all’indirizzo www.ilo.org in cui ha sostenuto che per vincere le sfide della povertà è necessario introdurre una misura di sostegno svincolato dall’occupazione. Secondo l’ILO il basic income, potrebbe non solo servire a contrastare la povertà, ma sarebbe anche facile da amministrare ed avrebbe meno rischi di generare sprechi e corruzione. Una misura analoga è stata concessa anche ai cittadini di Berlino ovest durante il periodo in cui la città era divisa, al fine di compensare i residenti per i disagi derivanti dall’isolamento.
[38] Così G. Modica Scala, Il reddito di cittadinanza tra workfare e metamorfosi del lavoro, in Working Paper 402 (2019), in Centre for the Study of European Labour Law “Massimo D’Antona”, p. 4.
[39] Così G. Bronzini, Il reddito di cittadinanza: una tappa per un nuovo welfare e l’autodeterminazione delle persone, in https://volerelaluna.it, 11 febbraio 2019, il quale osserva che ciò vale “soprattutto in situazioni storiche come l’attuale, nelle quali la precarietà e l’incertezza “esistenziale” costituiscono un rischio che si diffonde a macchia di leopardo, questa evocazione terminologica del legame sociale che stringe coloro che vivono stabilmente in un determinato territorio non è un imbroglio ma la sottolineatura di un principio di coesione elementare tra cittadini che andrebbe valorizzato e reso effettivo con istituti adeguati”
[40] Sul punto E. Rossi, Il «reddito di cittadinanza» introdotto dal decreto-legge n. 4 del 2019: prime considerazioni, in E. Innocenti - E. Rossi - E. Vivaldi (a cura di), Quale reddito di cittadinanza? Criticità e prospettive delle politiche di contrasto alla povertà, cit., p. 26, osserva che il legislatore abbia inteso «“sparare nel mucchio”; a riguardo R. Casillo, Il reddito di cittadinanza nel d.l. 28 gennaio 2019, n. 4: precedenti, luci e ombre, in Rivista di Diritto della Sicurezza sociale, 3 (2019), p. 562, osserva come queste molteplici finalità siano riconducibili alla più ampio obiettivo di inclusione sociale e pertanto andrebbero interpretati in una logica sistematica, come “declinazioni in dettaglio” di una inclusione sociale che è considerata, alla luce degli artt. 1-4 Cost. come conseguenza esclusiva del lavoro. Il che, come si dirà più avanti conferma che il concetto di workfare sotteso alla logica del d.l. n. 4/2019.
[41] Cfr. M. Baldini, C. Gori, Il reddito di cittadinanza, in il Mulino, (2) 2019, p. 270.
[42] Come osservato da P. Bianchi, Contrasto alla povertà e reddito di cittadinanza: spunti critici, in E. Innocenti - E. Rossi - E. Vivaldi (a cura di), Quale reddito di cittadinanza?, cit., p. 109 ss, spec- p. 118, “Si impone nell’ultimo ventennio un approccio moralistico al tema della disoccupazione e della conseguente povertà, che intende chiaramente colpevolizzare l’inoccupato per la situazione in cui si trova. Accanto al moralismo c’è però un intento spesso dichiarato: quello di attenuare il costo degli interventi, sia di contendendone la durata, sia coinvolgendo i destinatari in attività ritenute almeno parzialmente compensative dei sussidi erogati”; sul punto si veda anche A.Zellecke, Lessons from Sweden: Solidarity, the Welfare State, and Basic Income, in Journal of Sociology and Social Welfare, 2016, p. 73 e ss.
[43] Peraltro, come evidenziato da M.A. Gliatta, Le misure di sostegno al reddito nel sistema costituzionale di garanzia sociale, in F. Marone (a cura di), La doverosità dei diritti: analisi di un ossimoro costituzionale, cit., p. 226 ss., l’imposizione di un obbligo a carico del beneficiario pregiudica la garanzia del diritto alla prestazione che si configura come un corrispettivo e potrebbe pertanto non essere erogato in caso di mancato assolvimento dell’obbligo; il che si pone in contrasto con il modello costituzionale di protezione sociale.
[44]L’esonero da tali obblighi è previsto anche per i beneficiari della pensione di cittadinanza, ovvero i beneficiari del RdC titolari di pensione diretta o comunque di età pari o superiore a 65 anni, oltre che per i componenti con disabilità ai sensi della legge n. 68/1999, a meno che non sia prevista un’iniziativa di attivazione.
[45]I beneficiari del Rdc sono convocati entro trenta giorni dal riconoscimento del beneficio, se sussistevano determinati requisiti al momento della richiesta del Rdc, quali: essere disoccupati da non più di due anni; essere beneficiari della NASPI o di altro ammortizzatore sociale per la disoccupazione involontaria, oppure averne terminato la fruizione da non più di un anno; aver sottoscritto negli ultimi due anni un patto di servizio attivo presso i centri per l’impiego ai sensi dell’art. 20, d.lgs. n. 150/2015; d) non aver sottoscritto un progetto personalizzato ai sensi dell’art. 6, d.lgs. n. 147/2017 (art. 4, 5° comma, d.l. n. 4/2019).
[46] Cfr. Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Decreto ministeriale del 23 luglio 2019 con cui sono state approvate le Linee Guida per la definizione dei Patti per l’inclusione sociale, oggetto di intesa in sede di Conferenza Unificata il 27 giugno 2019.
[47] Cfr. P. A. Varesi, Reddito di cittadinanza e politiche attive del lavoro tra ambizioni e gracilità, in E. Innocenti - E. Vivaldi - E. Rossi (a cura di) Quale reddito di cittadinanza?, cit.,p. 239.
[48] Così M. Baldini - C. Gori, Combattere la povertà, Bari, 2020, p. 275.
[49] Cfr. Anpal, Le politiche e i servizi per il lavori in Germania: focus sul sistema dell’Hartz IV, novembre 2018; in argomento si veda anche F. de Michiel, Il reddito di cittadinanza: beneficiari, requisiti oggettivi, principio id condizionalità, cit., p.191 che offre una comparazione con i sistemi vigenti in altri ordinamenti tra cui la Germania in cui per le politiche attive volte all’inserimento lavorativo dei beneficiari un ruolo primario è svolto dall’Agenzia federale per il lavoro che si avvale dei job centers distribuiti a livello territoriale e che possono contare su 110 mila professionisti (in Italia i centri per l’impiego i professionisti superano di poco gli 8 mila). Questi ultimi in particolare prendono in carico i disoccupati per seguirli nel loro percorso di inserimento, mentre l’Agenzia federale ha il compito di erogare l’assicurazione contro la disoccupazione. Si tratta pertanto di un “sistema articolato e ben organizzato, nel gli alti livelli di condizionalità (assai più rigida di quella italiana) beneficiano di un apparato solido e strutturato. A questo si aggiungano le attività di collocamento e di consulenza individuale che i centri per l’impiego offrono ai datori di lavoro e ai lavoratori”.
[50] In particolare, come sintetizzato efficacemente da S. Giubboni, Primi appunti sulla disciplina del reddito di cittadinanza, cit., p. 19, “ai sensi dell’art. 4, 9° comma, legge n. 26/29019, è considerata congrua un’offerta dalle caratteristiche seguenti: a) nei primi dodici mesi di fruizione del beneficio, è congrua un’offerta entro cento chilometri di distanza dalla residenza del beneficiario o comunque raggiungibile nel limite temporale massimo di cento minuti con i mezzi di trasporto pubblici, se si tratta di prima offerta, ovvero entro duecentocinquanta chilometri di distanza, se si tratta di seconda offerta, ovvero (salvo il caso in cui nel nucleo familiare siano presenti componenti con disabilità) ovunque collocata nel territorio italiano se si tratta di terza offerta; b) decorsi dodici mesi di fruizione del beneficio, è congrua un’offerta entro duecentocinquanta chilometri di distanza dalla residenza del beneficiario nel caso si tratti di prima o seconda offerta, ovvero ovunque collocata nel territorio italiano se si tratta di terza offerta; c) in caso di rinnovo del beneficio, è congrua un’offerta ovunque sia collocata nel territorio italiano anche nel caso si tratti di prima offerta”.
[51] Va precisato che nel caso in cui il beneficiario accetti una proposta di lavoro distante oltre i 250 km, si possa continuare per tre mesi successivi alla presa di servizio a percepire il Rdc come compensazione delle spese da sostenere per il trasferimento; il periodo è elevato a dodici mesi se nel nucleo sono presenti minori o persone con disabilità (art.4, comma 10, d.l. n. 4/2019).
[52] Cfr. A. Cariola, Commento all’art. 4, in R. Bifulco - A. Celotto - M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, I, Torino 2006, p. 114 ss.
[53] Così F. Pizzolato, I sentieri costituzionali della democrazia, Roma 2019, p. 64.
[54] Cfr. U. Rescigno, Lavoro e Costituzione, in Diritto Pubblico, 1 (2009), p. 25 ss. ribadisce come di tali attività, il lavoro stricto sensu costituisce solo una modalità attraverso cui il cittadino può contribuire al progresso economico, sociale e spirituale della società.
[55] Cfr. M. Ruotolo, Eguaglianza e pari dignità sociale: Appunti per una lezione, in Revista juridica de los Derechos Sociales, 2 (2013), p. 17; Id., La lotta alla povertà come dovere dei pubblici poteri. Alla ricerca dei fondamenti costituzionali del diritto a un’esistenza dignitosa, in Diritto Pubblico, 2 (2011), p. 411 e ss.; sul punto F. Mancini, Art. 4, in G. Branca - A. Pizzorusso (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna - Roma 1975, p. 247 e ss. specie pp. 249-257 evidenzia come il riferimento al progresso spirituale, voluto dalle correnti democristiane in sede costituente, può essere inteso anche in un’ottica che garantisca anche un “laico diritto all’ozio ( o meglio all’otium)”.
[56] Cfr. C. Tripodina, Povertà e dignità nella Costituzione italiana: il Reddito di cittadinanza come strumento costituzionalmente necessario, in Rivista Giuridica del Lavoro, I (2016), p. 732 e ss.
[57] Cfr. M. Grandi, “Il lavoro non è una merce”: una formula da rimeditare, in Lavoro e diritto, 4 (1997), p. 557, specie p. 577, in cui osservava come “la tensione irrisolta tra lavoro-oggetto e lavoro-soggetto continua a percorrere itinerari, sempre più contorti di un diritto del lavoro il cui futuro non è assicurato”; nello stesso senso più recentemente A Supiot, The spirit of Philadelfia. Social Justice vs. the Total Market, Verso Books 2012, in cui l’A. condanna il neoliberismo e il darwinismo sociale ed evidenzia la necessità di un ritorno ai valori di giustizia sociale e di solidarietà già presenti nella Dichiarazione riguardante gli scopi e gli obiettivi dell’organizzazione internazionale del lavoro, c.d. Dichiarazione di Filadelfia del 10 maggio 1944; L. Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Bari 2007, passim.
[58] Sul punto P. O’Higgins, “Il lavoro non è una merce”. Un contributo irlandese al diritto del lavoro, in Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali 1996, p. 295 osserva che nel 1880, durante un discorso tenuto al Trade Union Congress, l’economista irlandese J. Kells Ingram, affermando che “ il lavoro non è una merce” intendeva sostenere il legame intrinseco del lavoro con il lavoratore, per questa ragione il rapporto di lavoro oltre ad doversi fondare su principi etici e non solo da quelli del mercato, doveva garantire al lavoratore una vita dignitosa e salubre fisicamente e mentalmente.
[59] In argomento si veda A. Perulli, La riforma del mercato del lavoro: bilancio e prospettive, in L. Mariucci (a cura di), Dopo la flessibilità, cosa? Le nuove politiche del lavoro, Bologna 2006, p. 192 ss.; E. Fabrizi - V. Peragine - M. Raitano, Flessibilità e lavoro in Europa: la teoria economica e l’evidenza empirica, in P. Chieco (a cura di), Flessibilità e tutele nel lavoro – Commentario della legge 28 giugno 2012, 92, Bari 2013, pp. 49 ss.
[60] Così, U. Romagnoli, Diritto del lavoro, in Enciclopedia del diritto – Annali, IV, Milano 2011, p. 428 e ss., specie p. 442.
[61] Così F. de Michiel, Il Reddito di cittadinanza, cit., p.185 che evidenzia l’inasprimento in confronto con l’art.14, comma 6 del d.lgs. n. 147/2017, in base al quale la decadenza del beneficio non era immediata ma “conseguiva ad un duplice richiamo da parte della figura di riferimento del progetto”.
[62] In questo senso M.D. Ferrara, Il principio di condizionalità e l’attivazione del lavoratore tra tutela dei diritti sociali e controllo della legalità, in Lavoro Diritto, 4 (2015), p. 639, specie p. 651 e ss.
[63] Cfr. M. Marocco, La condizionalità del Reddito di cittadinanza: continuità e discontinuità, in M. Marocco - S. Spattini, Diritto al lavoro, contrato alla povertà, inclusione sociale: le tante (troppe?) funzioni del reddito di cittadinanza all’italiana, Adapt Labour Studies, e-Book series, n. 79, p.63 ss.; M.D. Ferrara, Il principio di condizionalità e l’attivazione del lavoratore tra tutela dei diritti sociali e controllo della legalità, in Lavoro Diritto, 4 (2015), p. 639, spec. p. 652.
[64] Così E. Rossi, Il “Reddito di cittadinanza” introdotto dal decreto legge n. 4 del 2019: prime considerazioni, in E. Innocenti - E. Rossi - E Vivaldi (a cura di), Quale reddito di cittadinanza?, cit., p. 19, spec. p. 31 ss.
[65] Relativamente alla condizione di disagio degli stranieri, la cui prevalenza sono sotto la soglia di povertà, si veda lo studio di C. Saraceno, N. Sartor, G. Sciortino (a cura di), Stranieri e disuguali. Le disuguaglianze nei diritti e nelle condizioni di vita degli immigrati, Bologna 2013.
[66] Cfr. E. Ranci Ortigosa, Contro la povertà, Milano 2018, p. 46 e ss.
[67] La Corte costituzionale con la sentenza n. 146 del 2020, in ragione dell’abrogazione del Capo II del d.lgs n. 147 del 2017, a decorrere dal primo aprile 2019, in virtù di quanto disposto dall’art. 11, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, che ha sostituito il Redditto di inclusione con il Reddito di cittadinanza, ha dichiarato inammissibile la questione in ragione del mutato quadro normativo.
[68] In questo senso, ad esempio, Corte Cost., sent. nn. 187/2010, 29/2011, 40/2013, 230/2015, 22/2015.
[69] In questo senso G. Fontana, Reddito minimo, disuguaglianze sociali e nuovo diritto del lavoro. Fra passato, presente e futuro, in Working Paper 389 (2019), in Centre for the Study of European Labour Law “Massimo D’Antona”, p. 22 ss., specie p. 34.
[70] Così L. Violini, I dilemmi irrisolti delle politiche di contrasto alla povertà. Solo centralismo?, in Le Regioni, 3 (2018), p. 364.
[71] Cfr. S. Giubboni, Primi appunti sulla disciplina, cit., p. 21.
[72] Cfr. E. Rossi, Prestazioni sociali con corrispettivo? Considerazioni giuridico-costituzionali sulla proposta di collegare l’erogazione di prestazioni sociali allo svolgimento di attività di utilità sociale, in Fondazione Emanuela Zancan (a cura di), Vincere la povertà con un welfare generativo. Rapporto 2012, Bologna 2012, p. 103 ss.
[73] C. Franchini, L’intervento pubblico di contrasto, cit., p. 211.
[74] Cfr. Caritas, Gli anticorpi della solidarietà. Rapporto sulla povertà ed esclusione sociale 2020, Roma 2020 riporta come le Caritas diocesane segnalino una difficoltà legata al pagamento di affitto o mutuo in aumento dell’88,8 per cento.
[75]Nel 2014, sulla base di una convenzione tra Istat, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora (fio. PSD) e Caritas Italiana, è stata realizzata una indagine sulla condizione delle persone che vivono in povertà estrema.Si stimano in 50 mila 7241 le persone senza dimora che, nei mesi di novembre e dicembre 2014, hanno utilizzato almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna nei 158 comuni italiani in cui è stata condotta l’indagine2. Tale ammontare corrisponde al 2,43 per mille della popolazione regolarmente iscritta presso i comuni considerati dall’indagine, valore in aumento rispetto a tre anni prima, quando era il 2,31 per mille (47 mila 648 persone).
[76] Il suddetto decreto, convertito, con modificazioni, nella Legge 4 aprile 2012, n. 35, introduce il c.d. cambio di residenza "in tempo reale", prevedendo che le dichiarazioni anagrafiche (ex art. 13, comma 1, lettere a), b) e c) D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223) sono rese nel termine di venti giorni dalla data in cui si sono verificati i fatti, rese e sottoscritte di fronte all'ufficiale di anagrafe, il quale nei due giorni lavorativi successivi alla presentazione delle dichiarazioni effettua, previa comunicazione al comune di provenienza, le iscrizioni anagrafiche. Gli effetti giuridici delle iscrizioni anagrafiche decorrono dalla data della dichiarazione.
[77] In argomento si veda, Cass., sent. nn. 30952/2017, 12380/2017 e 4274/2019 relativamente alla regolarità delle notificazioni, ma più specificamente per la nozione di residenza effettiva, delle società, si veda Cass., sent. nn. 15184/2019 e 27606/2020.
[78] Così Ministero del lavoro e delle Politiche sociali, Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia, Roma 2015, p. 15.
[79] Si veda P. Palvarini, Cara dolce casa. Come cambia la povertà in Italia dopo le spese abitative, Paper per la Terza Conferenza Annuale Espanet Italia, Napoli 2010, rivela l’esistenza di una “povertà dipendente dalla casa” che rappresentava, nel 2010, il 56, 4 per cento della complessiva povertà rilevata.
[80] Così A. Tosi, Il Reddito di cittadinanza e la povertà abitativa, in E. Ranci Ortigosa - M. Baldini - C. Saraceno - C. Lucifora - T. Treu - A. Tosi, Reddito di cittadinanza e oltre. Per contrastare la povertà combinare più politiche, cit., p. 38.
[81] Cfr. A. Tosi, Le case dei poveri. È ancora possibile pensare ad un welfare abitativo? Milano 2017; in questo senso M. Baldini - G. Busilacchi - G. Gallo, Da politiche di reddito minimo a sistemi integrati di contrasto della povertà. Un’analisi di dieci paesi europei, in La Rivista delle politiche sociali, n. 2 (2018), p. 189 e ss.
[83] Cfr. F. De Michiel, Il Reddito di cittadinanza: beneficiari, requisiti oggettivi, principio di condizionalità, in E. Innocenti - E. Rossi - E. Vivaldi, Quale reddito di cittadinanza, cit., pp. 178-180.
[84] Così G. Bronzini, Il reddito di cittadinanza: una tappa per un nuovo welfare e l’autoderminazione delle Persone, in volerelaluna.it, 11 febbraio 2019, p. 6.
[85]L’art. 2, comma 4, del d.l. n. 4/2019, dispone «il parametro della scala di equivalenza (…) è pari ad 1 per il primo componente del nucleo familiare ed è incrementato di 0,4 per ogni ulteriore componente di età maggiore di anni 18 e di 0,2 per ogni ulteriore componente di minore età, fino ad un massimo di 2,1, ovvero fino ad un massimo di 2,2 nel caso in cui nel nucleo familiare siano presenti componenti in condizione di disabilità grave o di non autosufficienza”.
[86] Cfr. Istat, Le statistiche dell’Istat sulla povertà. Anno 2018, Statistiche Report, 18 giugno 2019, secondo cui in Italia le famiglie con più componenti occupati erano il 44,6% delle famiglie, meno rispetto al 2004, quando erano il 45,6% (Istat, 2019c).
[87] Istat, Popolazione e famiglie, Annuario statistico italiano, 2020, p.110.
[88] Istat, La povertà in Italia, 16 giugno 2021, p. 3.
[89] Tra gli altri si veda W.J. Wilson - R. Aponte, Urban Poverty, in Annual Review of Sociology, 11 (1985), pp. 231-58; C. Saraceno, Growth, Regional Imbalance and Child Well-Being: Italy over the Last Four Decades, in G.A. Cornia - S. Danzinger (a cura di), Child Poverty and Deprivation in the Industrialized Countries 1945-1995, Oxford 1997, p. 260; S. P. Jenkins - T. Siedler, The Intergenerational Transmission of Poverty in Industrialized Countries, Institute for Social and Economic Research University of Essex, CPRC Working Paper n. 75; P. Barbieri - G. Cutuli - M. Tosi, Famiglie, mercato del lavoro e rischi sociali. Nascita di un figlio e rischi di transizione alla povertà tra le famiglie italiane, in Stato e mercato, 3 (2012), p. 391 e ss.
[90] S.P. Jenkins - T. Siedler, The Intergenerational Transmission of Poverty in Industrialized Countries, Institute for Social and Economic Research University of Essex, CPRC Working Paper n. 75/2007, p. 7 e ss.; G. Esping-Andersen - J. Mestres - A. Vatta, Ineguaglianza delle opportunità ed eredità sociale, in Stato e mercato, 1 (2003), p. 123 e ss., specie p. 147 dove si osserva che “è necessario che la politica venga riorientata verso quelle istituzioni che, in primo luogo, sono responsabili delle disuguaglianze. Molte delle conoscenze attuali suggeriscono che la famiglia occupa una posizione cruciale. Ciò porta ad una terza, e finale, conclusione di contenuto politico: la pressante esigenza di una nuova politica per la famiglia”.
[91] Istat, La povertà in Italia, 16 giugno 2021, p. 1.
[92] Cfr. T. Boeri - R. Perotti, Meno pensioni, più welfare, Bologna 2002; M. Ferrera, The European Welfare State, Golden Achievement, Silver Prospects, URGE Working Paper, n. 4/2007.
[93] Come evidenziato da C. Saraceno, Politiche per le famiglie e per i minori come strumento di contrasto alla povertà, in E. Ranci Ortigosa - M. Baldini - C. Saraceno - C. Lucifora - T. Treu - A. Tosi, Reddito di cittadinanza e oltre. Per contrastare la povertà combinare più politiche, il punto di Welforum, Supplemento a welforum.it, 2019, in https://welforum.it/wpcontent/uploads/2019/11/PdWdC_combinare_politicheNUOVO.pdf, p. 13 la frammentarietà delle misure di sostegno alle famiglie è tale che, ad esempio, “L’assegno per il terzo figlio destinato alle famiglie a basso reddito con tre figli tutti minori, cessa non appena uno dei figli diventa maggiorenne, senza considerazione se sia ancor a carico o meno e dei bisogni degli altri due. Le detrazioni per i figli a carico, non essendoci una imposta negativa, non possono essere fruite dagli incapienti. I vari bonus bebè durano solo a che il bambino è molto piccolo, benché si sappia che i bambini costano di più man mano che crescono”.
[94] Va precisato che già con la legge di bilancio 27 dicembre 2019 n. 160, è stato istituito il “Fondo assegno universale e servizi alla famiglia” nel quale dal 2021 sono confluite le risorse del c.d. bonus bebè e del bonus asilo nido.
[95] Così M. Baldini - P. Bosi - G. Gallo - C. Gori - C. Lucifora - C. Saraceno, Assegno unico per i figli: una prima proposta alcune riflessioni, cit., p. 4, “Sarebbe quanto meno controverso, ad esempio, far pagare di più la retta dell’asilo nido o dell’università a quelle famiglie che riceveranno l’assegno unico, poiché questo andrebbe ad aumentare il loro valore ISEE complessivo.
[96] In questo senso ancora, M. Baldini - P. Bosi - G. Gallo - C. Gori - C. Lucifora - C. Saraceno, Assegno unico per i figli: una prima proposta alcune riflessioni, cit., p. 3, osservano che “Se in esso sono presenti in modo rilevante elementi di selettività rispetto alla condizione economica, si pongono problemi di sovrapposizione di obiettivi (contrasto della povertà e della disuguaglianza) tra le due misure che possono rendere ragionevole l’eventualità prevista dalla Legge delega. Se invece nel disegno dell’assegno la selettività svolge un ruolo solo residuale, e comunque si manifesta a livelli di condizione economica che non interferiscono con le soglie di povertà implicita nel RDC, la duplicazione dei benefici potrebbe essere giustificata. Si tratterebbe poi di valutare se e in che misura eventualmente effettuare una correzione della componente del beneficio economico del RDC attribuibile ai componenti di minore età presenti nel nucleo familiare per evitare il raggiungimento di benefici troppo elevati. Un’ipotesi potrebbe essere, ad esempio, quella di eliminare il coefficiente previsto per i minorenni nella scala di equivalenza adottata attualmente nel RDC (pari a 0,2 per ciascun figlio minore). Questa ipotesi comporterebbe un risparmio di spesa per il RDC di circa 650 milioni di euro all’anno”.
[97] Cfr. M. Baldini - P. Bosi - G. Gallo - C. Gori - C. Lucifora - C. Saraceno, Assegno unico per i figli: una prima proposta alcune riflessioni, in Menabò di EticaEconomia.it, 14 aprile 2021.
[98] Nelle more dell’approvazione dei decreti legislativi di attuazione, in considerazione della necessità di adottare misure a sostegno della genitorialità è stato adottato il decreto legge n. 79/2001 con il quale si dispone a l’erogazione su base mensile di un assegno temporaneo per figli minori per il semestre luglio-dicembre 2021 a sostegno dei nuclei familiari che non percepiscono già l’assegno per il nucleo familiare che spetta ai lavoratori dipendenti e assimilati (legge n. 153/1988); il decreto non è privo di alcuni aspetti critici quali, ad esempio, la progressività che risulta essere troppo elevata e per questo poco coerente con l’idea di universalità e di debole selettività che secondo la legge n. 46/2021 dovrebbe caratterizzare l’istituto; cfr. S. Lepri, Sull’assegno unico decreto ponte con ostacoli, in Il Sole24ore, 21giugno2021.
[99] Così G. Esping-Andersen, Le nuove sfide per le politiche sociali del XXI secolo. Famiglia, economia e rischi sociali dal fordismo all'economia dei servizi, in Stato e mercato, 2 (2005), p. 181 e ss., specie pp. 189-190.
[100] Istat, Audizione presso la XII Commissione Affari sociali in materia di misure per il sostegno e la valorizzazione della famiglia (Proposta di legge A.C. 2561), Roma, 20 ottobre 2020.
[101] Cfr. W. Van Lanker, Effects of poverty on the living and working conditions of women and their children, Directorate General for International Policies, Main causes of female, Workshop 30 March 2015; European Commission, 2017 Report on equality between women and men in the EU, European Union, 2017, p. 9.
[102] Istat, Statistiche focus, 19 aprile 2018, rileva che già nel 2015-2016 i nuclei familiari mono-genitoriali con sole madri costituivano l’’86,4 per cento, l’11,8 per cento era in condizioni di povertà assoluta, mentre il 42, 1 per cento a rischio di povertà o esclusione sociale (il 58 per cento nel Mezzogiorno).
[103] Così A. Tonarelli - M. L. Vallauri, Povertà femminile e diritto delle donne al lavoro, in Lavoro e Diritto, 1 (2019),p. 173, specie p. 185.
[104] Cfr. C. Tripodina, Art.37, in F. Clementi - L. Cuocolo - F. Rosa - G.E. Vigevani, La Costituzione italiana, Bologna 2021, p. 259 ss., indica molteplici interventi “recanti azioni” positive in favore delle donne, a partire dalla legge 125/1991, poi abrogata, eccetto l’art.11, dal d.lgs. n. 198/2006 (art.57), Codice della pari opportunità tra uomo e donna.
[105] In base all’art. 2 della dir. 2006/54/CE, costituisce discriminazione diretta la «situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto un’altra persona sia, sia stata o sarebbe trattata in una situazione analoga”. La disposizione è stata recepita dall’art. 25 del Codice delle pari opportunità, che fa riferimento al trattamento “di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga».
[106] Eurostat, Gender Pay Gap: how much less do women earn than men?, Febbraio 2021, Table2: The unadjusted gender pay gap by economic control 2019.
[107] Così M. Sgueglia, Audizione presso la XI Commissione lavoro pubblico privato della Camera dei deputati, 30 Gennaio 2020.
[108] L’art. 46 del d.lgs. n. 198/2006, prevede che le aziende pubbliche e private con più di 100 dipendenti debbano redigere un rapporto biennale relativo alla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni e in rapporto allo stato di assunzioni, della formazione, della formazione professionale, dei passaggi di livelli, dei passaggi di categoria o qualifica, di altri fenomeni di mobilità, del ricorso alla Cassa integrazione guadagni, dei prepensionamenti, pensionamenti, licenziamenti ed ovviamente della retribuzione realmente corrisposta.
[109] Piano nazionale riprese e resilienza, p.205, reperibili su www.gov.it; in coerenza con quanto previsto anche dalla recente Proposta di Dir. Europea 2021/93 del Parlamento e del Consiglio "per rafforzare l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza delle retribuzioni e meccanismi esecutivi", reperibile:https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2021/IT/COM-2021-93-F1-IT-MAIN-PART-1.PDF.
[110]Cfr. dati Eurostat all’indirizzo https://ec.europa.eu/eurostat/ web/products-datasets/-/t2020_10&lang=en.
[111] Cfr. Istat, Istat, Audizione presso la XII Commissione Affari sociali in materia di misure per il sostegno e la valorizzazione della famiglia (Proposta di legge A.C. 2561), Roma, 20 ottobre 2020; Caritas, Gli anticorpi della solidarietà. Rapporto 2020 sulla povertà e l’esclusione sociale, p. 69.
[112] Sebbene si possano collocare negli anni 2000 le misure più significative nel senso di una maggiore protezione della funzione familiare della donna, precedenti interventi si sono avuti sin dagli anni ’50 con le leggi nn. 860/1950, 7/1963, 1204/1971 e con il d.lgs. n. 645/1996, leggi che come osservato da C. Tripodina, Art. 37, cit., p.261, “pongono regole fondamentali volte, da un lato, a proteggere la lavoratrice sposa o madre da possibili discriminazioni sul posto di lavoro; dall’altro a tutelare la salute della lavoratrice gestante e genitrice e a favorire il suo reingresso nel posto di lavoro; in materia la letteratura è vastissima, tra molti si v. M.V. Ballestrero, Dalla tutela alla parità. La legislazione italiana sul lavoro delle donne, Bologna 1979; Id., La costituzione e il lavoro delle donne: eguaglianza, parità di trattamento, pari opportunità, in M. Gigante (a cura di), I diritti delle donne nella Costituzione, Napoli 2007, p. 75; E. Catelani, La donna lavoratrice nella sua “essenziale funzione familiare” a settant’anni dall’approvazione dell’art. 37 Cost, in Federalismi.it, 2019, spec. p. 4 ss.; F. Covino, Donna lavoratrice (dir. Cost.), in Digesto delle Discipline Pubblicistiche, Torino 2015, p. 128; M. D’Amico - S. Leone, La donna dalla fragilità alla pienezza dei diritti? Un percorso non ancora concluso, Milano 2017; M.G. Rodomonte, L’eguaglianza senza distinzione di sesso in Italia. Evoluzioni di un principio a settant’anni dalla nascita della Costituzione, Torino 2018.
[113] Cfr. G. de Simone, Precarietà vs stabilità. Ma che genere di stabilità?, in Lavoro Diritto, 3 (2010), p. 377; C. Valentini, O i figli o il lavoro, Milano 2012; I. Quadrelli, Promuovere la conciliazione tra responsabilità familiari e impegno lavorativo nei luoghi di lavoro, Roma 2012.
[114] Così M. V. Ballestrero, Il lavoro e l’uguaglianza nel “deserto dei diritti”, in V. Roppo - G. Alpa, La vocazione civile del giurista: saggi dedicati a Stefano Rodotà, Roma-Bari 2013, p. 159 ss.
[115] A riguardo C. Saraceno, Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi, Milano 2015, chiarisce come la trasformazione del mercato del lavoro incida negativamente sul relativo reddito al punto da non garantire automaticamente un’esistenza libera e dignitosa.
[116] Secondo l’Eurofond, In-work poverty in the EU, Dublin, 2017, p. 3-6, i working poor nel 2007 costituivano l’8 per cento della forza lavoro nell’Unione europea, valore aumentato al 10 per cento nell’ultimo rapporto del 2017; in Italia, secondo gli ultimi dati Eurostat, In-work at risk of poverty rate, in ec.europa.eu/eurostat/databrowser/view/tespm070/default/table?lang=en, la percentuale è salita all’11,8 per cento. In questa sede, per working poor, si intendono i lavoratori il cui reddito è sotto la soglia di povertà, situazione definita anche con l’espressione in-work- poverty in base al concorso di due fattori: il lavoro e la povertà. Secondo l’Eurofond, In-work poverty in the EU, Dublin 2017, p. 5, si ritiene che una persona sia al lavoro se svolge un’attività lavorativa per almeno sei mesi in un anno ed è a rischio povertà se il suo reddito familiare netto equivalente, comprese le prestazioni sociali è inferiore al 60 per cento del reddito mediano equivalente dell’intera popolazione; più ampiamente in argomento A.B. Atkinson - A.C. Guio - E. Marlier, Monitoring the evolution of income poverty and real oncomes over time, in Id (a cura di), Monitoring social inclusion in Europe, European Union, p. 66, reperibile all’indirizzo:https://tony-atkinson.com/researchpaper.
[117] Così L. Ratti, La proposta di direttiva sui salari minimi adeguati nella prospettiva di contrasto all'in-work poverty, inDiritto delle Relazioni Industriali, 1 (2021), p. 59, spec. pp. 60-61; C. Lucifora, “Working poor” e politiche per l’occupazione in C. Dell’Aringa - P. Guerrieri (a cura di), Inclusione, produttività, crescita. Un’agenda per l’Italia, Bologna 2019, p. 426 ss; più recentemente si veda il Cnel, Mercato del lavoro e contrattazione collettiva, Rapporto XXII, 2020, capp. 5 e 6; con particolare riguardo all’impoverimento del lavoro autonomo non imprenditoriale si veda M. Raitano - M. Jessoula - E. Pavolini - M. Natili, In-work poverty in Italy, European Commision 2019 reperibile.all’indirizzo:https://ec.europa.eu/social/Blobservelet?docld=21106&langld=en.
[118] Così T. Treu, Ricerche- Proposta di direttiva sui salari minimi adeguati nell’UE-La proposta sul salario minimo e la nuova politica della Commissione Europea, in Diritto delle Relazioni industriali, 1 (2021), p. 1, spec. p. 8.
[119] A. Lo Faro, L’iniziativa della Commissione per il salario minimo europeo fra coraggio e temerarietà, in Lavoro e Diritto, (2020), p. 547 ss.
[120] Così T. Treu, Ricerche - Proposta di direttiva sui salari minimi adeguati nell’UE-La proposta sul salario minimo e la nuova politica della Commissione Europea, cit., p. 3 e p. 6, il quale pone in evidenza come uno degli aspetti critici della proposta di direttiva risiede nelle sue controverse basi giuridiche posto che in base all’art. 153 Tfue esclude la competenza dell’Unione relativamente alle “retribuzioni, al diritto di associazione, al diritto di sciopero (...) al diritto di serrata”; tuttavia, come rilevato dallo stesso autore, in materia giuslavoristica sussiste una consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha legittimato l’esercizio della competenza legislativa in materia in diverse decisioni relative alle condizioni di lavoro che hanno avuto un impatto anche sulle retribuzioni lavorative. Il riferimento è “alla regolazione dei contratti a termine (direttiva 1999/70/CE), la tutela anti-discriminatoria (direttiva 2000/43/CE), riferita anche alle condizioni di lavoro (direttive 2000/78/CE e 2006/54/CE), particolarmente significativa, perché si propone di ridurre il divario retributivo di genere, tutela dei lavoratori in caso di insolvenza delle imprese, fino alla notissima sentenza Laval che è intervenuta di fatto a modificare la interpretazione delle regole svedesi su diritto di sciopero, contrattazione collettiva e retribuzione”.
[121] Strengthening Minimum Income Protection to Combat Poverty and Social Exclusion in the COVID-19 Pandemic and Beyond, Council Conclusions (9 October 2020).
[122] Così T. Treu, La questione salariale: legislazione sui minimi e contrattazione collettiva, in Working Paper 386, (2019), in Centre for the Study of European Labour Law “Massimo D’Antona”, p. 8.
[123] In questo senso G. Ricci, La retribuzione costituzionalmente adeguata e il dibattito sul diritto al salario minimo, in Lavoro Diritto, 4 (2011), p. 637; cfr. Corte Cost. n. 30 /1960; T. Treu, Sub art. 36, Commentario alla Costituzione, a cura di Scialoja, Branca, Bologna – Roma, 1979, pp. 76 ss.
[124] Così G. Centamore, Contratti collettivi o diritto del lavoro pirata?, in Variazioni su Temi di Diritto del Lavoro, 2 (2018), pp. 471 ss.
[125]Cnel, XXI Rapporto mercato del lavoro e contrattazione collettiva 2019, ww.bollettinoadapt.it/wpcontent/uploads/2019/12/cnel-xxiii-rapportomercato-del-lavoro-contrattazione-collettiva.pdf.
[126] C. Lucifora, Il salario minimo: contrattazione, salari, produttività, diseguaglianze o minimo legale?, in C. Dell’Aringa - C. Lucifora - T. Treu (a cura di), Bologna 2017, p. 415 ss., specie p. 425 ; sul punto T. Treu, La questione salariale, cit., p. 10 osserva che “Le difficoltà della contrattazione di regolare efficacemente le condizioni di lavoro a cominciare dalla retribuzione sono tali da mettere in discussione la fiducia nella capacità dei sindacati di continuare a essere autorità salariale. E sono la manifestazione di una crisi generale del sistema di relazioni industriali che è stata solo aggravata dalla grande recessione economica scoppiata nel 2008”.
[127] In questo modo il salario minimo legale potrebbe costituire secondo A. Garnero - C. Lucifora, L’erosione della contrattazione collettiva in Italia e il dibattito sul salario minimo legale, in Giornale di Diritto del Lavoro e di Relazioni Industriali, 2 (2020), p. 295 ss., spec. p. 313.
[128] Cfr. M. Barbera - F. Ravelli, Osservazioni sulla proposta di direttiva della commissione relativa a salari minimi adeguati nell'ue – com(2020) 682 final; Memoria per la XI Commissione (Lavoro pubblico e privato) della Camera dei deputati, Audizione del 9 dicembre 2020.
[129] L. Ratti, La proposta di direttiva sui salari minimi adeguati nella prospettiva di contrasto all'in-work poverty, in Diritto delle Relazioni Industriali, 1 (2021), p. 59, spec. p. 67;G. Marchi, “Working, yet poor”: la povertà tra bassi salari e instabilità lavorativa, in Sociologia del Lavoro, 1 (2021);in una prospettiva sovranazionale si veda M. Filandri - E. Struffolino, Individual and household in-work poverty in Europe: understanding the role of labor market characteristics, in European Societies, 1, (2019), p. 130 ss.
[130] A riguardo si veda ISTAT, Il mercato del lavoro. Verso una lettura integrata, Roma 2019, p.17 rileva che in generale, resta consolidata la carenza di opportunità di lavoro in alcune aree territoriali, in primis nel Mezzogiorno alle quali si aggiunge, rispetto alla media europea, l’Italia risente di una carenza di “occupazione nei settori ad elevata concentrazione di lavoro qualificato e nel terziario prevalentemente pubblico”. Tale di un divario che è aumentato “nell’ultimo decennio anche a causa del blocco delle assunzioni nella P.a.”, e che si accentua “nei tassi di occupazione dei giovani, dei laureati e nelle professioni qualificate: in tali casi l’occupazione necessaria equivale rispettivamente a 2,4 milioni, a 4,3 milioni, e 3,3 milioni di unità”.
[131] In particolare, con il d.l. n. 18/2020, c.d. Cura Italia, convertito in legge n. 27/2020, e con il d.l. n. 34/2020, c.d. Rilancio, convertito in legge n. 77/2020, sono stati adottati molteplici interventi finalizzati a contrastare il disagio di lavoratori e famiglie, che sono stati aggiunti ai vigenti ammortizzatori sociali. In questo senso con il Cura Italia è stato previsto, ad esempio, il c.d. “bonus 600 euro”, a beneficio di professionisti, lavoratori oltre che per alcuni lavoratori subordinati e parasubordinati; sono stati previsti voucher per i costi di baby sitting e, in alternativa, congedi parentali ad hoc. È inoltre intervenuto sulla sospensione della condizionalità per accedere al Reddito di cittadinanza, misura confermata dal decreto Rilancio (art.40 del d.l. 18/2020 e art.76 del d.l.34/2020). Un ulteriore intervento di contrasto della povertà è stato adottato con il decreto Rilancio che, oltre ad intervenire integrando e rimodulando i precedenti interventi, ha introdotto il “reddito di emergenza, inteso come “sostegno al reddito straordinario” riconosciuto “ai nuclei familiari in condizioni di necessità economica in conseguenza dell'emergenza epidemiologica da COVID-19” (art.82 d.l. 34/2020). Si tratta di una misura temporanea destinata ai nuclei familiari il cui disagio reddituale è peggiorato a causa della pandemia e che sono esclusi dall’accesso alle altre misure di sostegno del reddito e di contrasto alla povertà. A differenza del Rdc, si tratta di una somma compresa tra 400 e 800 euro mensili, la cui erogazione non è condizionata da controprestazioni a carico dei beneficiari, ma non è cumulabile con altre misure di natura assistenziale e previdenziale, incluso il Rdc. Sebbene il Rem sia un intervento apprezzabile, la sua natura temporanea, limitata a due sole mensilità, è del tutto insufficiente a contrastare un fenomeno, quale è quello della povertà, che nel nostro Paese ha assunto dimensioni allarmanti; G. Busilacchi, Le misure di contrasto alla povertà durante l’emergenza Covid 19, in Politiche sociali, 2 (2020), p. 325 ss.; l’accesso al Rem presuppone il possesso di alcuni requisiti tra cui :a) residenza in Italia del richiedente; b) un valore di ISEE inferiore a 15.000 euro; c) un valore del patrimonio mobiliare familiare nel 2019 inferiore a 10.000 euro, aumentato di 5.000 euro per ogni componente successivo al primo e fino a un massimo di 20.000 euro (accresciuto di 5.000 euro in caso di componenti gravemente disabili e non autosufficienti). Inoltre, sono esclusi i lavoratori che hanno già percepito l’indennità di 600 euro prevista dal decreto 18/2020 (artt. 27-30 e art. 38), i lavoratori domestici che hanno percepito l’indennità di 500 euro (art. 84 d.l. 34/2020) e i titolari di pensioni e del reddito di cittadinanza.
[132]Come osservato da F. Carta - M. De Philippis, Una crisi diseguale: il ruolo degli ammortizzatori sociali durante la pandemia, in Menabò di Etica ed Economia, 14 Marzo 2021, “se nel breve termine gli ammortizzatori sociali introdotti per fronteggiare la crisi appaiono in grado di compensare le perdite reddituali, nel medio periodo il rischio di un aumento della disuguaglianza rimane elevato”.
[133] Cfr. E. Ranci Ortigosa, Ridefinire e integrare misure, connettere politiche, in E. Ranci Ortigosa - M. Baldini - C. Saraceno - C. Lucifora - T. Treu - A. Tosi, Reddito di cittadinanza e oltre, cit., p. 1 ss.; il tema dovrebbe essere collocato all’interno di un nuovo modello di sviluppo del Paese che in coerenza con i principi e i valori dell’economia circolare, dovrebbe saper cogliere le indicazioni provenienti dall’attuale crisi relativamente alle potenzialità offerte dalla tecnologia, dalle urgenze di tutela dell’ambiente e della sicurezza sanitaria; sul punto si veda AA.VV. Svimez, Rapporto Svimez 2020. L’economia e la società nel Mezzogiorno, Bologna 2021, p. 625.
[134] Peraltro, secondo i dati dell’Agenzia nazionale politiche attive del lavoro (Anpal), Reddito di cittadinanza, ottobre 2020, p. 9 le disposizioni non sembrano aver avuto un positivo impatto sull’attivazione della formazione professionale finalizzata al reinserimento sul mercato del lavoro, dato che è pari al 39,2 per cento la quota di individui che hanno sottoscritto un Patto per il lavoro e allo 0,3 per cento gli individui in tirocinio.
[135] Cfr. S. Rossi, Oltre il margine. Diritti, povertà estrema e diseguaglianza sociale, in federalismi.it, 20 (2016).
[136]A riguardo si veda recentemente E Frediani, La co-progettazione dei servizi sociali, Torino, 2021, specie p. 194 e ss.
[137] Sul punto A. Albanese, Diritto all’assistenza e servizi sociali, Milano 2007, passim, osserva come la principale implicazione che ne deriva consiste nell’obbligo per il sistema pubblico di garantire che l’effettività del diritto all’assistenza non debba in nessun caso essere condizionato dall’adesione a particolari orientamenti etici o religiosi, permettendo al privato di poter usufruire di un luogo neutrale e dunque pubblico per accedere alla prestazione cui ha diritto; in riferimento alle problematiche derivanti dal decentramento delle funzioni di welfare si veda E. Ferioli, Diritti e servizi sociali nel passaggio dal welfare statale al welfare municipale, Torino 2003; Id., Sui livelli essenziali delle prestazioni: le fragilità di una clausola destinata a contemperare autonomia e uguaglianza, in Le Regioni, 2-3 (2006), p. 564; E. Vivaldi, I diritti sociali tra Stato e Regioni: il difficile contemperamento tra il principio unitario e la promozione delle autonomie, in www.gruppodipisa.it, 3/2012
[138] In questo senso M. Bombardelli, Il sistema integrato dei servizi sociali come nuovo modello per l’organizzazione amministrativa, in Impresa sociale, 2005, p. 115 ss.
[139] Il Titolo VII del Codice, “Dei rapporti con gli enti pubblici” dispone che tutte le amministrazioni pubbliche “nell’esercizio delle proprie funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale degli interventi e dei servizi nei settori di attività di cui all’art. 5, assicurano il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore attraverso forme di co-programmazione e co-progettazione e accreditamento” (art. 55).
[140] Sul punto l’Autorità nazionale anticorruzione ha chiarito che la collaborazione con i soggetti del Terzo settore si concretizza “in una compartecipazione del partner alla realizzazione del progetto con proprie risorse intese come beni immobili, attrezzature, strumentazioni, automezzi, risorse umane, capacità di reperire contributi e/o finanziamenti da parte di enti pubblici, attività di coordinamento e organizzazione, cura dei rapporti con la rete territoriale”; Anac Consultazione sulle Linee Guida recanti “Indicazioni in materia di affidamenti di servizi sociali”, p. 26, specie par. 23.2.3, reperibile all’indirizzo www.anticorruzione.it.
[141] Cfr. S. Pellizzari, La co-progettazione nelle esperienze regionali e nel Codice del Terzo settore, in S. Pellizzari - A. Magliari (a cura di), Pubblica amministrazione e Terzo settore, Napoli 2019, p. 89 e p. 112 ss.
[142] In effetti, già prima dell’avvento del Codice le leggi regionali hanno introdotto modalità diverse quali la consultazione, la costituzione di comitati come anche di tavoli con funzioni propositive oltre che consultive, nel cui ambito il ruolo del privato si è venuto progressivamente affermato come centrale, specie nella programmazione a livello locale attraverso i piani di zona; A. Pioggia, Diritto sanitario e dei servizi sociali, Torino 2019, p.188; sul punto anche V. Sandretti, Il piano di zona, in E. Codini - A. Fossati - S.A. Frego Luppi, Manuale di diritto dei servizi sociali, Torino 2019, p. 347.
[143] Fondazione Zancan, Vincere la povertà con un welfare generativo – La lotta alla povertà. Rapporto 2012, Bologna 2012; la proposta è analizzata da S. Polimeni, Il welfare generativo tra dimensione teorica e applicazioni pratiche: cenni sul ruolo degli enti locali, in Nuove autonomie, 3 (2015), p.429 ss.; più recentemente, Laboratorio Wiss della Scuola Superiore Sant’anna di Pisa,La recente normativa «sociale» e le potenzialità del welfare generativo, in Fondazione Emanuela Zancan (a cura di), La lotta alla povertà è innovazione sociale. Rapporto 2020, Bologna 2020, p. 41.
[144] In questo senso M. Ruotolo, La lotta alla povertà come dovere dei pubblici poteri, cit., p. 414.
[145] Così S. Polimeni, Il welfare generativo tra dimensione teorica e applicazioni pratiche: cenni sul ruolo degli enti locali, cit., p. 436.
[146] A riguardo E. Rossi, I rapporti fra Terzo settore e pubblica amministrazione in P. Consorti - L. Gori - E. Rossi, Diritto del terzo settore, Bologna 2018, p.138; L. Gori, La “saga” della sussidiarietà orizzontale. La tortuosa vicenda dei rapporti tra Terzo settore e P.A. in «Federalismi.it», 14(2020), p.190; M.V. Ferroni, L’affidamento agli enti del Terzo settore ed il Codice dei contratti pubblici, in Nomos, 2 (2018), p. 144; A. Pioggia, Diritto sanitario e dei servizi sociali, cit., p.179 ss.
[147] Fondazione Zancan, Rapporto sulla povertà 2012, Bologna 2012.
[148] Momento straordinario di preghiera in tempo di pandemia, Meditazione del Santo Padre, 27 marzo 2020.
Nugnes Francesca
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