Le ‘allegorie’ de La peste e la metafora criminale. La condanna della pena di morte nel pensiero di Camus
Giuseppe Rotolo
Professore associato di Diritto penale,
Università del Salento
Le ‘allegorie’ de La peste e la metafora criminale.
La condanna della pena di morte nel pensiero di Camus***
English title:The ‘allegories’ of The plague
and the criminal metaphor.
The condemnation of the death penalty in the Camus’s thought
DOI: 10.26350/18277942_000064
Sommario: 1. Le ‘allegorie’ de La peste. 2. La metafora criminale e la sua ascrivibilità al meccanismo del capro espiatorio. 3. La condanna della pena di morte nel pensiero e nelle opere di Camus. 4. Gli argomenti contro la pena di morte. 4.1 …e la sua giustificazione secondo la concezione generalpreventiva. 4.2 …e la sua giustificazione secondo la concezione retributiva. 4.3 …e la sua giustificazione secondo la concezione specialpreventiva. 5. Umanesimo consapevole e ‘umanesimo penale’.
1. Le ‘allegorie’ de La peste
Le parole di chiusura de La peste raccolgono le riflessioni di Rieux che, al cospetto delle manifestazioni di gioia dei cittadini di Orano, i quali erano stati finalmente ‘liberati’ dalle strettezze imposte dall’esigenza di fronteggiare l’epidemia, avverte il dovere di rammentare la necessità di assoluta prudenza affinché quello scenario non si ripresenti.
Ascoltando infatti le grida di esultanza che si levavano dalla città, Rieux si ricordava che quell’esultanza era sempre minacciata. Poiché sapeva quel che la folla in festa ignorava, e che si può leggere nei libri, cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice[1].
Il brano riportato rappresenta, dunque, un monito rivolto al futuro: senza la dovuta attenzione da parte di ognuno, il bacillo della peste potrebbe ravvivarsi e nuovamente imperversare nelle impetuose infuriate di una epidemia. Volgendo lo sguardo alla forza morale di simile messaggio, il suo contenuto consiste nella raccomandazione di attenzione e di cura[2], rivolta ai lettori – di ogni tempo e in ogni luogo – di questo formidabile testo.
L’attualità de La peste è certamente dimostrata dalla continua evocazione del capolavoro di Camus durante la pandemia da coronavirus, quale perspicua chiave di lettura delle tristi vicende che l’hanno accompagnata e a quella si legano. Tuttavia, non è solo per questo che al testo letterario è attribuibile un certo rinnovato interesse, atteso che da esso è ricavabile un ventaglio ampio di significati allegorici e metaforici, che proprio la salienza semantica del concetto di ‘cura’ si presta perfettamente a illustrare. Come si cercherà di dare conto in questo paragrafo e, più in generale, nel presente lavoro, all’accezione di pertinenza medico-sanitaria – riconducibile allo svolgimento di attività terapeutica – può essere affiancata quella, di impronta etica, di ‘cura’ come attenzione, appunto.
In questo senso, al testo di Camus è stato tradizionalmente riconosciuto un preciso significato allegorico[3]: quello concernente il valore della contrapposizione al male attraverso l’assunzione a livello individuale di contegni regolati da responsabilità e ispirati al valore della reciproca solidarietà tra i componenti di una comunità[4].
Lo si coglie da un altro significativo brano, in cui Tarrou – un personaggio centrale del romanzo, che collabora con Rieux alla realizzazione di gruppi di volontari per l’intervento sanitario – ammonisce da ogni forma di distrazione nella gestione della epidemia:
(…) questa epidemia non mi insegna niente di nuovo, se non che devo combatterla accanto a lei. So per certo (…) che ciascuno la porta in sé, la peste, perché nessuno, no, nessuno al mondo ne è immune. E che è necessario prestare la massima attenzione per non rischiare, in un attimo di distrazione, di respirare in faccia a un altro e di passargli l’infezione. La sola cosa naturale è il microbo. Il resto, la salute, l’integrità, la purezza, in un certo senso sono frutto della volontà, e di una volontà che non deve mai venir meno[5].
Se ognuno «porta in sé» la peste e «nessuno al mondo ne è immune», la proiezione di quella raccomandazione di cura in chiusura del testo – che trova pure corrispondenza nello svolgimento di quest’ultimo brano – ha l’attitudine a propagarsi e diffondersi, precisamente come è da dirsi per il «microbo». Coerentemente, la portata allegorica attribuibile alle dolorose vicende occorse nella città di Orano è suscettibile di essere proiettata a ulteriori dimensioni di significato, a loro volta riproducibili in molteplici contesti e situazioni in cui si ponga l’esigenza di contrapposizione individuale al male, e pertanto capace di sempre rinnovata attualizzazione.
Seguendo questa impostazione, allora, sembrerebbe configurarsi la possibilità di superare la critica secondo cui la condanna del regime totalitario – significato che certamente il testo possiede, come riconosciuto esplicitamente dal suo Autore – sarebbe fin troppo timida, se non addirittura pavida, da parte di Camus[6]. È l’attributo universale del messaggio rivolto ai lettori de La peste a non consentire di riferire in termini puntuali ed espliciti la vocazione morale di quel significato a un contesto situazionale specifico; inoltre, finisce per sdrammatizzarne la portata allegorica, la cui decifrazione potrebbe perfino svilire – costringendola a uno spartito obbligato – la potente forza che esprime sul piano etico.
Del resto, è esattamente per la ripetibilità di quel monito e delle situazioni in cui esso si renda necessario che nel titolo di questo lavoro si è ritenuto di declinare al plurale il concetto in questione, facendo riferimento alle ‘allegorie’ ricavabili dal testo, nella convinzione che siano molteplici, seppur riconducibili alla medesima matrice culturale e valoriale di cui si è detto: la contrapposizione individuale, e fondata sul piano morale, al male (nelle diverse forme, appunto, che esso possa assumere).
Riscontro di tale apertura universalistica sembrerebbe potersi trarre dal contenuto di una conferenza tenuta da Albert Camus presso la Columbia University nel 1946, intitolata evocativamente La crisi dell’uomo[7]. In effetti, l’oggetto delle considerazioni di Camus tocca una «lacerante» contraddizione: ciò che è tale da negare la condizione stessa di uomo, e dunque il fondamento essenziale dell’approccio umanistico da cui muove il suo pensiero. Guardando alla propria generazione, composta di uomini «nati subito prima o durante la Prima guerra mondiale», «diventati adolescenti con la crisi economica mondiale» e che «avevano vent’anni quando Hitler arrivò al potere»[8], definisce nei termini seguenti la crisi esistenziale che costoro attraversarono.
Andarono in guerra come si va all’inferno, se è vero che l’inferno è negazione di tutto. Non amavano né la guerra né la violenza: dovettero accettare la guerra e praticare la violenza. Sentivano odio solo per l’odio. E tuttavia dovettero applicarsi allo studio di questa implacabile disciplina. In flagrante contraddizione con sé stessi, e senza che nessun valore tradizionale li guidasse, erano di fronte a quelli che per l’uomo sono i problemi più terribili. Insomma, abbiamo da una parte questa generazione che ho cercato di descrivere, e dall’altra una crisi di dimensioni mondiali: una crisi della coscienza umana, che vorrei definire il più chiaramente possibile[9].
La definizione della crisi passa dalla presentazione di una serie di storie, mediante un approccio descrittivo di situazioni particolari, attraverso la cui narrazione se ne suggerisce un’idea più generale[10]. La selezione di tali vicende dipende essenzialmente dal proposito di rispondere «uno stereotipato “si” alla domanda: “esiste una crisi dell’uomo?”»[11]. Come precisato dallo stesso Camus, alla luce di quei racconti di cui sintetizza gli aspetti salienti, la risposta deve essere «sì, esiste una crisi dell’uomo, se la morte o la tortura di un essere umano, nel nostro mondo, possono essere viste con un sentimento di indifferenza, con interesse amichevole o curiosità sperimentale, o senza provocare una reazione. Sì, esiste una crisi dell’uomo, se il mettere a morte un uomo può essere considerato senza l’orrore e la vergogna che dovrebbe suscitare, se il dolore umano viene accettato come una noiosa incombenza, da mettere alla pari di problemi come il fare provviste o la necessità di fare la fila per ottenere un poco di burro»[12].
Vi si può cogliere la matrice essenziale del monito di valore morale espresso nell’ultima pagina de La peste, che vale ad appuntare la responsabilità di chi assista a qualunque forma di manifestazione del male, rimanendone tuttavia spettatore inerme, così che non si attivino quegli ‘anticorpi’ utili a prevenire conseguenze tanto dolorose e a contrastarne gli effetti.
2. La metafora criminale e la sua ascrivibilità al meccanismo del capro espiatorio
Nell’ampio ventaglio di significati più puntuali ricavabili mediante la concretizzazione di quel messaggio universalistico, se ne può cogliere uno – che pure è esplicitamente rinvenibile nelle trame de La peste – riconducibile al contempo alla dimensione giuridica prettamente penalistica, oltre che alla logica del capro espiatorio.
In effetti, piuttosto ricorrente nel testo è quella che si potrebbe definire la metafora criminale concernente specificamente la pena di morte. In primo luogo, un limpido richiamo a essa è espresso dalla definizione degli abitanti della città di Orano, data la loro condizione, alla stregua di ‘prigionieri’[13]; inoltre, come meglio si dirà più avanti, nello sviluppo narrativo delle vicende assume considerevole rilevanza proprio il riferimento alla pena capitale.
Lasciando allo sviluppo di questa riflessione l’analisi del rilievo che il tema assume nel pensiero e nell’opera di Camus, si ritiene ora di offrire perlomeno un tentativo di svolgimento pieno e compiuto dei contenuti della metafora.
A tal riguardo occorre innanzi tutto puntualizzare che se, come è stato ampiamente ed efficacemente notato, le concezioni tradizionali della penalità di impronta retributiva, a vocazione schiettamente ed esclusivamente afflittiva, hanno proposto l’idea della sanzione penale alla stregua di un male, da corrispondere – quale suo equivalente omologo – al male del fatto commesso, onde ripristinare una situazione di – meramente astratta e ideale – giustizia[14], la pena capitale – decisamente lo strumento più grave e severo del cosiddetto ‘arsenale sanzionatorio’ – addirittura sublima tale attribuzione di significato[15].
Il ricorso a tale forma sanzionatoria, inoltre, può essere spiegato nel suo fondamento alla luce della logica del capro espiatorio, la cui costruzione, come è noto, costituisce a livello sociale la risultante dell’attitudine mimetica della collettività nella riproposizione del male: il sacrificio di una persona, che si sa non sarà vendicato, specie per ragioni di marginalità sociale e particolare vulnerabilità di chi ne sia coinvolto, risponde a un meccanismo semplificatorio di reazione alla frustrazione delle prerogative dei singoli nel contesto sociale. Già a una prima considerazione degli elementi salienti di questa costruzione teorica, dunque, emerge l’affinità con la pena di morte, essenzialmente riducibile al sacrificio[16] di un individuo quale esito di un approccio semplificatorio di giudizio.
Del resto, la pertinenza di simile parallelo è confermata dallo stesso René Girard, al cui pensiero si deve la riflessione più organica e approfondita del ‘capro espiatorio’: nel precisare come tale meccanismo abbia un ruolo «molto importante nello sviluppo culturale», egli afferma il convincimento che «la pena di morte (…), quale noi la conosciamo nelle società moderne, come molte altre istituzioni, derivi da fenomeni di questo tipo»[17]. Lo dimostra anche un’altra considerazione: attingendo proprio alla riflessione in argomento di questo Autore, se la dinamica ripropositiva della costruzione del capro espiatorio è interrotta dalla figura di Gesù Cristo[18] con le sue ultime parole sulla croce[19] e con il suo esempio di totale gratuità nel sacrificio, non pare trascurabile la circostanza per cui simile ribaltamento di prospettiva avvenga durante l’esecuzione di una pena capitale[20] e dunque si inserisca in una cornice situazionale ispirata proprio alla logica che con quell’atto viene superata.
Alla luce delle implicazioni della metafora criminale richiamata è possibile allora cogliere una ulteriore dimensione di significato, forse più profonda e meno intuitiva, del testo di Camus. In effetti, le connessioni tra la peste, o qualunque forma di epidemia, e il meccanismo del capro espiatorio, coerentemente pure con l’elaborazione culturale e teorica di questa categoria, sarebbero più immediatamente da riferirsi alla reazione di una comunità di fronte all’infuriare di un contagio tanto inesorabile, quanto inatteso[21]. Tuttavia, seguendo le evocazioni suggerite dal riferimento alla questione criminale, pure attribuibili al testo attraverso la metafora di cui si è detto, sembra possibile scorgere una sorta di richiamo ai rischi di un contagio morale, riconducibile alla disponibilità a rinnovare un sistema giuridico che contempli l’inesorabile sacrificio della vita di un uomo, «senza l’orrore e la vergogna che dovrebbe suscitare», riprendendo qui le già richiamate parole di Albert Camus agli studenti della Columbia University.
3. La condanna della pena di morte nel pensiero e nelle opere di Camus
Si è già detto che il tema della pena di morte costituisce una cifra specifica del pensiero di Camus e si traduce in espliciti riferimenti nella sua opera.
In primo luogo, esso rappresenta un elemento comune a La peste e a un altro capolavoro di Camus, a questo profondamento connesso[22]: Lo straniero.
Meursault, il protagonista di quest’altra opera, è condannato a morte in conseguenza di un episodio in cui spara a un arabo, uccidendolo, sulla spiaggia di Algeri in un pomeriggio estivo caldo e assolato[23]. Lo straniero offre, dunque, una serie di elementi che contribuiscono a definire la posizione culturale, nonché etica, di Camus al cospetto della pena di morte. Per un verso, infatti, il testo fornisce la vivida descrizione della detenzione in attesa della esecuzione capitale e della condizione emotiva in cui versi il condannato. Inoltre, nelle pagine dedicate al procedimento che è seguito ai fatti, è possibile cogliere pienamente quella semplificazione di giudizio che – come si vedrà più nel dettaglio nel prosieguo – necessariamente è alla base di qualunque sentenza che condanni un uomo alla morte: non c’è modo di valutare accuratamente la condizione esistenziale di Meursault e di riconoscerne rilievo ai fini della decisione; al contrario, le singolarità dei suoi comportamenti, dettate appunto dalla sua particolare condizione, sono fraintese come evocative della sua colpevolezza.
Ne La peste, invece, il richiamo alla pena di morte consente un importante sviluppo narrativo. In un momento di confidenza tra Tarrou e Rieux, che prelude al suggello della loro amicizia, il primo confida al secondo la ragione che lo ha spinto a impegnarsi per la costituzione delle formazioni volontarie di intervento sanitario. Quest’ultima consiste, ricorrendo alle parole precise pronunciate da Tarrou, nella circostanza per cui egli si è sentito ‘appestato’ lungo tutto il corso della sua vita[24]: la malattia, tuttavia, è da considerarsi non fisica, bensì morale ed è consistita nell’aver tollerato la pratica della pena di morte, senza opporvi alcuna resistenza, ma – riprendendo precisamente le parole del personaggio – ‘volendone sempre uscire’ e in definitiva arrendendosi al senso di ‘orrore’ e ‘vergogna’, precisamente i concetti richiamati al riguardo da Camus nella sua conferenza alla Columbia University.
L’episodio saliente nella biografia di Tarrou risale alla sua partecipazione a un’udienza in cui suo padre – un magistrato – chiedeva la pena di morte per l’imputato di quel processo.
Da un lato, gli si presentava il colpevole:
E tuttavia conservo della giornata un’unica immagine, quella del colpevole. Credo infatti che fosse colpevole, poco importa di cosa. Ma quell’ometto dal pelo rosso, povero, di una trentina d’anni, sembrava talmente deciso a riconoscere tutto, talmente terrorizzato da ciò che aveva fatto e da ciò che si accingevano a fargli, che in capo a qualche minuto non ebbi più occhi che per lui. Sembrava un gufo spaventato da una luce troppo intensa. Aveva il nodo della cravatta storto rispetto all’angolo del colletto. Si mangiava le unghie, ma solo della mano destra… Vabbè, non voglio farla lunga, avrà capito anche lei che era vivo[25].
Dall’altro, il padre durante la sua requisitoria:
Trasformato dalla toga rossa, né bonario né affettuoso, apriva la bocca dove brulicavano frasi immense che ne uscivano senza sosta come serpenti. E capii che chiedeva la morte di quell’uomo in nome della società e chiedeva anche che gli tagliassero la testa. A dire il vero, diceva soltanto: ‘Quella testa deve cadere.’ Ma alla fin fine non c’era una gran differenza. E infatti era la stessa cosa, e la testa la ottenne. Semplicemente, non fu lui a fare il lavoro[26].
L’«orrore» di fronte «alla giustizia, alle condanne a morte, alle esecuzioni» porta Tarrou sul piano biografico alla scelta individuale non soltanto di interrompere ogni rapporto con il padre e di abbandonarne la casa, ma anche di «fare politica», per via di quel «conto in sospeso con il gufo rosso»[27]. D’altra parte, simile impegno «contro l’assassinio» non lo assolve dal sentimento di «vergogna».
Dice Tarrou:
Da molto tempo provo vergogna, una vergogna terribile all’idea di essere stato a mia volta, anche solo lontanamente, un assassino[28].
In effetti, è la considerazione delle responsabilità sociali per l’inerzia di fronte al rinnovarsi di simile pratica di assassinio legalizzato a rappresentare la ragione per cui anche chi la contrasti debba sentirsi a sua volta ‘appestato’. L’orrore della pena di morte è infatti nascosto all’opinione pubblica, dal momento che «[i]l sonno degli uomini, per gli appestati, è più sacro della vita» e «[n]on si deve impedire alla brava gente di dormire»[29].
Seguendo simili considerazioni finisce per essere attinto il piano delle responsabilità personali:
Allora ho capito che, almeno io, anche nei lunghi anni in cui pure credevo con tutta l’anima di lottare contro la peste, non avevo mai smesso di essere un appestato. Ho scoperto che avevo acconsentito indirettamente alla morte di migliaia di uomini, che avevo addirittura provocato quella morte trovando buone le ragioni e i princìpi da cui fatalmente era conseguita[30].
Cui si deve legare il piano delle scelte etiche di fronte al male della pena di morte:
Quel che so è che ognuno deve fare il possibile per non essere più un appestato e che solo questo può farci sperare nella pace, o perlomeno in una buona morte[31].
L’incursione nel testo e nei suoi sviluppi narrativi consente allora di conferire significato più pieno e profondo al monito rivolto da Camus agli studenti della Columbia University circa l’esigenza morale di risvegliare i sentimenti dell’«orrore» e della «vergogna» di fronte a ogni discorso attorno alla pena di morte.
Da questo punto di vista, inoltre, la metafora criminale assume tratti biografici, innanzi tutto perché oggetto di personale interesse culturale, morale e, in un certo senso, politico. In effetti, non soltanto quello della pena di morte rappresenta un tema saliente della narrativa di Camus e del suo pensiero filosofico, ma a esso è dedicato un saggio del 1957 intitolato Réflexions sur la guillotine[32],che costituisce una sorta di manifesto abolizionista e, al contempo, un atto di accusa nei confronti delle istituzioni politiche, responsabili di confermare e rinnovare il ricorso a simile pratica disumana[33].
Dalla lettura delle prime pagine di questo testo si coglie, inoltre, come esso appartenga in termini ancora più stretti e immediati al dato biografico di Camus. La storia con cui si apre quel saggio riguarda, infatti, il padre dell’Autore: questi, come la maggioranza dei membri della comunità di appartenenza, rimase emotivamente sconvolto da un episodio di efferata violenza che si era verificato ad Algeri poco prima della guerra del 1914. Un bracciante aveva dapprima derubato e poi massacrato una famiglia di coloni, compresi i piccoli figli. L’opinione pubblica reputava perfino inadeguata, perché addirittura troppo mite, la pena di morte per decapitazione cui era stato condannato il reo del crimine, considerazioni queste cui aderiva anche il padre di Camus prima di assistere all’esecuzione. Nonostante la fermezza e nettezza di tale punto di vista, esso risulterà completamente ribaltato a seguito dell’esperienza diretta di quel supplizio.
Anche in questo caso le parole precise dell’Autore esprimono con maggiore efficacia lo sconvolgimento emotivo determinato dalla concretizzazione di quella sanzione che, in linea di speculazione astratta, risultava addirittura insufficiente a corrispondere la gravità e l’efferatezza del fatto che sanzionava.
Una delle poche che so di lui, in ogni caso, è che volle assistere all’esecuzione per la prima volta in vita sua. Si alzò nel cuore della notte per recarsi sul luogo del supplizio, all’altro capo della città, fra un gran concorso di folla. Di quanto vide, quel mattino, non disse nulla a nessuno. Mia madre racconta soltanto che rientrò di furia, stravolto, si rifiutò di parlare, si stese un istante sul letto e d’improvviso incominciò a vomitare. Aveva visto in faccia la realtà che si celava sotto le formule solenni tese a mascherarla. Non pensava più ai bambini massacrati, non poteva più che pensare a quel corpo palpitante sull’asse dove l’avevano gettato per tagliargli il collo[34].
Le note di commento di Camus alla vicenda sottolineano acutamente il disvelamento della concreta natura violenta di una tipologia sanzionatoria che soltanto sul piano astratto potrebbe giustificarsi in punto di proporzione[35] perfino rispetto ai crimini più efferati. Vi si può cogliere una certa eco di quella critica di sterile idealismo che è stata rivolta alle posizioni che, sulla base di simili argomentazioni, hanno sostenuto il significato necessariamente retributivo della sanzione penale, tuttavia riferendo a un piano esclusivamente astratto il valore di giustizia ripristinabile proprio attraverso la pena e dunque trascurandone le implicazioni materiali.
Bisogna dunque ritenere che quest’atto rituale[36] è ben spaventoso, se poté vincere l’indignazione di un uomo semplice e probo, e se un castigo, da lui considerato fino ad allora cento volte meritato, non ebbe in definitiva altro effetto che provocargli la nausea fisica.
4. Gli argomenti contro la pena di morte…
Il saggio di Camus contesta sul piano non soltanto filosofico, ma come si vedrà perfino giuridico, i fondamenti stessi della pena di morte e la scelta politica di contemplarla quale strumento sanzionatorio, all’epoca in vigore in Francia.
Il fatto che nel frattempo sia intervenuta oltralpe l’abolizione della pena capitale[37], così come nella generalità dei Paesi europei[38], tra cui sicuramente l’Italia, non rende anacronistica la riflessione sul tema almeno per due ordini di motivi.
Innanzi tutto, l’analisi storica delle scelte ordinamentali operate al riguardo da questi Paesi mostra come spesso siano intervenuti radicali revirement circa l’inclusione della pena di morte o, al contrario, la sua esclusione dall’arsenale sanzionatorio penale[39]: non soltanto al variare dell’indirizzo politico delle singole realtà nazionali, specie per l’instaurarsi di regimi politici autoritari[40], ma anche per contradditorie determinazioni sul punto dei medesimi soggetti istituzionali, magari in ragione di episodiche esigenze di rafforzata severità nel controllo penale[41]. Non a caso è stata ritenuta una scelta di primaria rilevanza la radicale abolizione a livello costituzionale della pena di morte[42], intervenuta con la legge costituzionale n. 1 del 2 ottobre 2007[43], atteso che fino a quel momento la previsione di cui all’art. 27, comma IV, Cost. faceva salvi «i casi previsti dalle leggi militari di guerra» e si era provveduto soltanto a livello di legge ordinaria per l’espunzione di quello strumento sanzionatorio dall’ordinamento penale[44]. Ciò non soltanto in punto di coerenza con le scelte politiche che si converrebbero a un Paese dichiaratamente abolizionista e indissolubilmente legato al ripudio della pena di morte sublimato dalle potenti pagine di Cesare Beccaria[45], ma anche per scongiurare il rischio di ripensamenti e tristi ricorsi storici, cui si potessero legare rigurgiti autoritari e afflittivi[46]. In effetti, soltanto con la sua totale e inequivoca abolizione intervenuta a livello costituzionale si è potuto escludere che residuassero le condizioni perché si potesse indulgere al recupero di simile strumento sanzionatorio, anche solo con interventi di legislazione ordinaria, quando – in ipotesi – peculiari e particolarmente gravi istanze di sicurezza richiedessero altrettanto particolari e penetranti interventi politico-criminali.
Inoltre, le riflessioni condotte da Camus si attestano a livello puramente teorico e speculativo dei fondamenti stessi di tale forma sanzionatoria[47], rappresentando così una sorta di compimento della metafora criminale che accompagna la narrazione dei fatti ne La peste. Al riguardo, benché non sia intento dell’Autore scandire le proprie riflessioni in termini coerenti con le differenti funzioni della pena (che non sono esplicitamente richiamate nel testo), nondimeno le argomentazioni svolte paiono puntualmente spendibili nella prospettiva di un’analisi filosofica e giuridica di taglio penalistico. Esse parrebbero perfino riconducibili alla griglia concettuale delle classiche impostazioni teoriche in argomento: secondo l’ordine seguito nel testo, quella generalpreventiva; quella retributiva; infine, quella specialpreventiva.
Coerentemente con l’ordine espositivo scelto da Camus, di seguito si passeranno in rassegna le considerazioni proposte per contestare la giustificazione della pena di morte secondo ciascuna di quelle concezioni e si cercherà di mettere in luce gli aspetti di quegli argomenti pertinenti alla riflessione penalistica sul tema. Preme sin d’ora precisare che le linee argomentative seguite da Camus nel suo saggio sembrano rispondere al modello della reductio ad absurdum: presentati gli argomenti tradizionalmente portati a sostegno della giustificazione della pena di morte secondo ciascuna delle diverse prospettive giuridiche e filosofiche già richiamate[48], l’analisi critica dell’Autore, volta alla loro confutazione, consente la sottolineatura delle contraddizioni che in ultima istanza emergono con riguardo alle implicazioni materiali di quelle affermazioni.
4.1 …e la sua giustificazione secondo la concezione generalpreventiva
Camus muove le sue riflessioni dall’assunto di fondo del pensiero a sostegno dell’utilità della pena di morte, secondo cui essa garantirebbe piena efficacia deterrente per via della sua assoluta esemplarità[49]. Stando a questo tradizionale argomento, tuttavia, l’attitudine in questione è da declinarsi in senso negativo e non positivo: in ragione della sua forza intimidativa[50] e non certo perché espressione di un esempio virtuoso[51].
Proprio a questo riguardo emerge un primo rilievo critico a proposito della stentorea affermazione circa l’utilità[52] preventiva della pena capitale, concernente il fondamento stesso della concezione in parola. In effetti, come è noto, la dinamica generalpreventiva e la coazione psicologica che ne è componente essenziale fanno leva sul sentimento di paura ingenerato nel destinatario del precetto normativo cui si rivolga la minaccia di una risposta sanzionatoria in caso di inosservanza di quella regola[53]. Le reazioni emotive cui dà luogo la pena di morte, invece, non sono funzionali al perseguimento dell’obiettivo di deterrenza, dal momento che essa non produce timore o paura, ma semmai sgomento e repulsione. L’«orrore», la «vergogna» e l’«umiliazione»[54] caratterizzano lo sconvolgimento emotivo di chi vi assista, come peraltro descritto dall’Autore stesso nella narrazione dell’episodio in cui suo padre era stato spettatore di una esecuzione capitale[55].
Addirittura, per le vivide note violente che accompagnano la procedura di esecuzione capitale, gli spettatori di simile ‘supplizio’[56], quando non risultassero sgomenti di fronte a un sacrificio umano, potrebbero finire addirittura per essere sedotti da tale esperienza e indotti a propositi criminali di emulazione che ne rinnovino e riproducano la violenza. È in questo senso che la pena di morte può perfino considerarsi un fattore criminogeno[57].
Anche per queste ragioni, tutte sottese e concorrenti alla conclusione circa l’inutilità della pena di morte (se non, addirittura, la sua pericolosità), si può facilmente spiegare un elemento ormai tradizionalmente messo in luce dai critici della pena di morte e cioè l’impossibilità di verificare empiricamente[58] l’assunto di fondo secondo cui tale sanzione esprimerebbe in massimo grado funzione deterrente[59].
L’argomentazione di Camus, tuttavia, si spinge oltre il dato condiviso dalla critica alla pena di morte e aggiunge argomentazioni portate a sostegno di tale conclusione. Si tratta di riflessioni che – come si è detto – paiono far emergere le contraddizioni intrinseche alla gestione politica di quello strumento sanzionatorio: è l’istituzione stessa a non dare l’idea di credere nella sua effettività e adeguatezza al perseguimento degli obiettivi dichiarati, segnalando così l’ipocrisia di fondo del rinnovato ricorso alla pena di morte. L’esecuzione capitale, infatti, è nascosta all’opinione pubblica e non per ragioni umanitarie, ma per preservare lo strumento che altrimenti sarebbe rigettato[60]. Anche il linguaggio informalmente utilizzato per riferirsi alla pena e alla sua procedura esecutiva tradisce la falsa rappresentazione che se ne vuole dare, affinché possa perpetuarsi il ricorso a simili pratiche[61].
Depurata dalla falsa e retorica considerazione alla stregua di efficace, e dunque utile, strumento di prevenzione generale, la pena di morte assume le sue più autentiche fattezze: si tratta di una vera e propria forma di vendetta[62].
4.2. …e la sua giustificazione secondo la concezione retributiva
Secondo la logica di corrispondenza del malum di una sanzione a quello di un illecito, la comminazione della pena di morte per alcuni delitti garantisce – perlomeno a livello intuitivo – la soddisfazione delle istanze di ‘giustizia’ coltivate da chi vanti l’aspettativa di una ferma reazione al crimine; inoltre, il ricorso a una sanzione tanto grave varrebbe a segnalarne la particolare efferatezza.
Si è parlato al riguardo di «simmetria morale gratificante»[63]. Del resto, è soltanto alla luce dell’adesione a un approccio retributivo che con riguardo alla pena di morte può affermarsi per un verso che «nessun’altra pena può essere considerata una applicazione altrettanto “esatta” della logica della corrispondenza, sottesa alla nozione stessa di pena», benché – per altro verso – essa al contempo segnali in modo «altrettanto evidente il contraddittorio convertirsi dello ius in summa iniuria»[64].
Come già si è accennato, aderendo a una logica ispirata alla retribuzione, la pena di morte potrebbe perfino risultare sproporzionata per difetto, quando si trattasse di applicarla a casi di particolarmente grave violenza[65]. Certamente l’affermazione potrebbe risultare per certi versi paradossale, dal momento che segnalerebbe l’esigenza di superare in severità addirittura la condanna a morte di una persona, esigendo così un’eccedenza sanzionatoria materialmente non realizzabile con riguardo al singolo.
Tuttavia, l’aspetto maggiormente critico di una tale affermazione attinge proprio il fondamento della logica cui è ispirata la concezione retributiva della pena – quello della «rozza aritmetica», per stare alle parole dell’Autore[66] –, come ricavabile dagli argomenti da Camus richiamati per evidenziarne l’incongruenza intrinseca. Se, infatti, la giustificazione della pena di morte è operata sul piano aritmetico, in termini proporzionati alla gravità del disvalore del fatto commesso, simile conclusione non tiene conto delle modalità con cui si dà esecuzione alla pena, cui si accompagna inevitabilmente l’inflizione di ulteriore sofferenza al condannato[67]. Questi, infatti, è posto in uno stato di frustrazione dovuta all’attesa della propria fine nella consapevolezza circa la certezza della morte: se quest’ultima è ovviamente una condizione cui l’uomo sia abituato per l’ordine naturale delle cose, altrettanto non può dirsi quando essa si leghi all’esito di una procedura, di cui non si conoscano elementi puntuali con riguardo ai tempi e alle modalità di svolgimento, e il trascorrere di ogni giorno sia salutato dal rinnovarsi di una speranza che nasce necessariamente frustrata[68].
Sono le parole stesse di Camus a esprimere compiutamente tale condizione emotiva:
La paura devastatrice, degradante che s’impone al condannato per mesi o per anni, è una pena più atroce della morte, e che non è stata imposta alla vittima[69].
Come pure le implicazioni del rilievo sul piano della giustificazione della pena di morte secondo un approccio retributivo:
Generalmente l’uomo è distrutto dall’attesa della pena capitale molto tempo prima di morire. Gli si infliggono due morti, e la prima è peggiore dell’altra, mentre egli ha ucciso una volta sola. Paragonata a questo supplizio, la legge del taglione appare ancora come una legge di civiltà. Non ha mai preteso che si dovessero cavare entrambi gli occhi a chi aveva reso cieco di un occhio il proprio fratello[70].
Che gli argomenti appena richiamati posseggano importanti ricadute anche sul piano strettamente giuridico è dimostrato dalla loro puntuale sovrapponibilità alle motivazioni addotte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Soering contro Regno Unito[71]. Si tratta, a ben vedere, del primo caso discusso dinnanzi alla Corte di Strasburgo in materia di pena di morte[72], stante in quel momento storico l’entrata in vigore del Protocollo n. 6 della Convezione[73] e, con esso, l’adesione a livello convenzionale a istanze abolizioniste[74]. La questione rimessa al giudizio della Corte atteneva alla eventuale qualificazione alla stregua di una violazione del divieto di tortura – sancito all’art. 3 della Convenzione[75] – dell’estradizione di un imputato che corresse il concreto rischio di essere condannato a morte nel procedimento in essere a suo carico nel Paese richiedente. Nello specifico, M. Jens Soering, cittadino della Repubblica Federale Tedesca, venne arrestato in Inghilterra insieme a una sua complice per reati contro il patrimonio. Tuttavia, egli era accusato del duplice omicidio di due persone – proprio i genitori della ragazza, che si opponevano alla loro relazione – avvenuto circa un anno prima nello Stato della Virginia, in particolare nella Contea di Bedford. Per questa ragione gli Stati Uniti d’America avanzarono al Regno Unito una richiesta di estradizione[76].
A seguito del ricorso individuale presentato dall’imputato alla Corte di Strasburgo, venne dapprima adottata una misura interinale volta alla sospensione del provvedimento del Ministro dell’Interno inglese che aveva disposto la consegna alle autorità statunitensi di Soering; seguì la sentenza richiamata, in base alla quale l’adozione del provvedimento di estradizione verso gli Stati Uniti dell’imputato, con il concreto rischio della sua condanna a morte, avrebbe rappresentato una violazione dell’art. 3 della Convenzione.
L’argomento principale a sostegno della decisione della Corte consiste nella qualificazione della condizione di detenzione in attesa dell’esecuzione capitale alla stregua di un trattamento inumano[77]. L’affermazione non discende dalla valorizzazione dei contenuti del Protocollo n. 6, che peraltro in quel momento non era stato ratificato da tutti i Paesi che avevano aderito alla Convenzione di Roma; essa riconosce rilievo, piuttosto, alle implicazioni concrete della condanna alla pena capitale, in particolare con riguardo alla circostanza per la quale «il condannato dovrebbe subire “per la durata di anni, le condizioni del ‘braccio della morte’, l’angoscia e la tensione crescente di vivere nell’ombra onnipresente della morte”»[78].
Come è stato acutamente notato a proposito dell’argomento in questione da un autorevole commentatore della sentenza, «[l]a ragione ultima per cui l’attesa dell’esecuzione provoca angoscia e paura disumane risiede nel fatto che si tratta di una morte regolamentata, programmata, “artificiale” quasi»[79]. Se è propria della condizione umana la convivenza con l’idea della morte[80], nondimeno «l’uomo ha bisogno di sapere o di credere nella “spontaneità” della morte», laddove «[l]a pena capitale invece toglie “spontaneità” alla morte, rendendola insopportabile qualunque sia la durata dell’attesa»[81].
Non a caso l’Autore alla cui analisi si è da ultimo fatto ampio riferimento ha riccamente richiamato a sua volta proprio il pensiero di Camus sulla pena di morte, riportando molti passaggi del testo che valgono a significare in modo vivido la «dimensione psicologica della condanna capitale»[82], così confermando la piena sovrapponibilità di quegli argomenti con quelli contenuti nella pronuncia della CEDU nel caso Soering c. Regno Unito[83].
4.3 … e la sua giustificazione secondo la concezione specialpreventiva
«La pena di morte, che non soddisfa realmente né l’esemplarità, né la giustizia distributiva, usurpa, se non bastasse, un esorbitante privilegio, pretendendo di punire una colpevolezza sempre relativa con un castigo definitivo e irreparabile»[84].
In queste parole si concentrano gli argomenti presentati da Camus in contestazione del fondamento specialpreventivo della pena di morte. In effetti, essa non è semplicemente neutralizzatrice – come si richiederebbe in coerenza con la declinazione in negativo dell’impostazione teorica in parola – ma addirittura «eliminatrice»[85].
Nella sua irrevocabilità e assolutezza, la pena di morte rivela dunque la sua ingiustizia[86] e coerentemente il nucleo dell’argomentazione critica si sposta dalla contestazione del fondamento della pena di morte in punto di sua utilità alla discussione di profili di valore del ricorso a tale strumento sanzionatorio. In altri termini, al di là dello stringente riferimento alla mera proporzionalità tra fatto e risposta sanzionatoria, emerge come risulti intrinsecamente contraddittorio ritenere che la pena, ordinata sul piano della giustizia umana (e dunque necessariamente relativa), possa assumere i tratti assoluti dell’interruzione della vita di una persona quale suo specifico contenuto[87].
Le ragioni di simile paradosso sono diverse e condividono il medesimo fondamento logico: la definitività della reazione sanzionatoria mediante la pena di morte nega all’individuo la possibilità di rimediare alle proprie azioni[88]; come pure gli viene sottratta la possibilità di un reinserimento sociale, peraltro in assenza di un’accurata prognosi sullo sviluppo esistenziale dei singoli e sulla possibilità del loro pieno recupero alle relazioni fondamentali, semplicemente negando a tutti – indistintamente – il proprio «futuro»[89].
Sempre con riguardo alla assolutezza e alla definitività che la caratterizzano, l’ingiustizia della pena di morte emerge anche rispetto al rischio dell’occorrenza di errori giudiziari, che è argomento tradizionale nella critica della pena di morte. Ci ricorda Camus che «nessuno dovrebbe esser castigato in modo definitivo, se ritenuto colpevole, e a maggior ragione se c’è il rischio che sia innocente»[90]. A simile affermazione si potrebbe obiettare che un margine di errore nel giudizio è ‘umano’ e dunque perfettamente ammissibile. L’argomento, tuttavia, dimostrerebbe una volta di più la sicura ‘disumanità’ della pena di morte, cui non può essere riconosciuto alcuno statuto nell’ambito di un modello di giustizia necessariamente relativo[91], in quanto strumento – al contrario – assoluto, definitivo e in nessun modo emendabile[92].
- Umanesimo consapevole e ‘umanesimo penale’
In altri termini, l’ammissibilità della pena di morte è da escludersi perché, al contrario, il suo riconoscimento alla stregua di strumento sanzionatorio praticabile pone inevitabilmente essa stessa come valore assoluto[93], negando così la centralità nell’ordinamento sociale e giuridico della persona e, dunque, della vita come suo complemento essenziale. Ricorrendo alle parole di Camus, «[l]a sentenza capitale spezza l’unica solidarietà umana indiscutibile, la solidarietà contro la morte, e non può essere legittimata che da una verità o da un principio che si ponga al di sopra degli uomini»[94].
Per il recupero della centralità di valori positivi e dell’uomo si rende dunque necessaria l’adesione a contegni solidali ispirati a reciproca ‘compassione’[95]. Lo si coglie nelle pagine finali de La peste, nel giubilo degli abitanti di Orano[96] per la ritrovata libertà dall’epidemia, benché su di loro incomba il monito della ripetibilità di quegli scenari; emerge nitidamente anche nella narrazione dell’episodio in cui Tarrou confida a Rieux le più intime ragioni che lo avevano spinto a impegnarsi nel contrasto dell’epidemia, e al contempo lo mette a parte di pagine significative e dolorose della propria vita. Ne segue la decisione di costituire squadre di intervento volontario; ma ne nasce anche una profonda amicizia tra i due, sugellata dalla liberatoria nuotata notturna nel mare aperto, che consente loro di accogliere – e così superare, almeno per un momento, – il gravoso peso della peste del corpo e di quella dell’anima.
È l’idea di un umanesimo per così dire ‘onesto’ – in quanto perfettamente consapevole dei propri limiti – quella che emerge da queste pagine, come pure dal testo della conferenza di Camus presso la Columbia University e dal saggio sulla pena di morte: ripropone la centralità dell’uomo (benché necessariamente imperfetta), come valore assoluto e dunque non tollera che la vita possa essere sacrificata per alcuna ragione[97]; ripudia la pena di morte e così esige, inoltre, il pieno compimento anche di un ‘umanesimo penale’[98].
Abstract: According to a law and literature approach, the contribution starts from the analysis of the Camus’s The plague to discuss its allegorical meaning and trace a link between it and the repudiation of the death penalty, which represents a salient content of the text. The theme is explored in the light of the author's thought, expressed in other writings and in particular in an abolitionist essay. The arguments against the death penalty are discussed on a legal level with reference to the classical theories of the penalty: in the order of the text, according to the general preventive, retributive and special preventive approach. The reflection leads to the overcoming of the death penalty in view of the pursuit of a model of criminal humanism.
Keyword: The plague - death penalty - general prevention – retribution – special prevention - criminal humanism
* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
** Il saggio è destinato alla pubblicazione nel volume a cura di G. Forti - A. Visconti - C. Mazzucato - A. Provera, L’ombra delle ’colonne infami’, Milano, 2022.
[1] A. Camus, La peste, tr. it. di Yasmina Melahouah, Firenze – Milano, 2018, pp. 325-326. I brani del testo riportati in questo lavoro sono tratti dalla stessa edizione italiana del volume.
[2] Classico, al riguardo, il richiamo al pensiero di Susan Sontag che individua appunto nella capacità di attenzione una componente essenziale dell’attitudine morale dell’essere umano (cfr. S. Sontag, Nello stesso tempo: il romanziere e la riflessione morale. Conferenza Nadine Gordimer, in Nello stesso tempo. Saggi di letteratura e di politica, trad. it. a cura di P. Dilonardo - A. Jump, Milano, 2008, p. 186. Per la declinazione di simile attitudine rispetto ai problemi posti dal diritto, specialmente quanto all’ordinamento penale e alle questioni criminologiche che lo interrogano, si veda G. Forti, La cura delle norme. Oltre la corruzione delle regole e dei saperi, Milano, 2018.
[3] Si veda il contributo di Marisa Verna, Sacrificio, forza e debolezza ne La peste di Camus, in corso di pubblicazione in G. Forti - A. Visconti - C. Mazzucato - A. Provera (a cura di), L’ombra delle ’colonne infami’, Milano, 2022, cui pure si rinvia in generale per la presentazione critica del testo.
[4] Sull’analogia spendibile a questo riguardo tra il pensiero di Camus e quello di Hannah Arendt si veda S. Velotti, Arendt e Camus: amor mundi, giudizio e dignità dei mezzi, in G. Fofi - V. Giacopini, Stranieri. Albert Camus e il nostro tempo, Roma, 2012, pp. 59 ss.
[5] A. Camus, La peste, cit., p. 268.
[6] Dà conto della critica in questione, contestandola, M. Verna, Sacrificio, forza e debolezza ne La peste di Camus, cit., pp. 3-4 del dattiloscritto.
[7] Pubblicata ne L’informazione bibliografica, 1995, n. 2 e raccolta nel già citato volume a cura di G. Fofi - V. Giacopini, Stranieri. Albert Camus e il nostro tempo, Roma, 2012, pp. 9 ss. (da cui verranno tratte le citazioni riportate in questo testo).
[8] A. Camus, La crisi dell’uomo, cit., p. 9.
[9] A. Camus, La crisi dell’uomo, cit., p. 10.
[10] Tra quelle presentate, una storia sembra esprimere puntualmente la dimensione critica appuntata dal significato allegorico de La peste finora presentata e cioè il torpore morale di fronte al male, là dove si imporrebbe l’adesione solidaristica ai valori fondamentali su cui poggia l’umanesimo al centro del pensiero di Camus e da cui può scaturire la scelta individuale di positiva contrapposizione al perpetuarsi del negativo. «In una capitale europea: dopo una notte di torture, due imputati ancora grondanti sangue e strettamente legati vengono scoperti in un appartamento utilizzato dalla Gestapo. La portinaia dello stabile provvede a rimettere diligentemente ordine, disinvolta e senza pensieri perché senza dubbio ha già preso il suo caffellatte. A uno dei due torturati che la rimprovera, risponde indignata: “non mi immischio mai negli affari degli inquilini”» (A. Camus, La crisi dell’uomo, cit., p. 10).
[11] A. Camus, La crisi dell’uomo, cit., p. 11.
[12] A. Camus, La crisi dell’uomo, cit., p. 11.
[13] O talvolta anche ‘esiliati’. Come segnalato da M. Verna, Sacrificio, forza e debolezza ne La peste di Camus, p. 1 del dattiloscritto, il titolo originario avrebbe dovuto essere appunto ‘I prigionieri’.
[14] Sul piano della riflessione penalistica in argomento, si rinvia alle molte opere che compongono l’ampia produzione scientifica di Luciano Eusebi sul tema, di recente efficacemente sintetizzate nel loro messaggio essenziale in L. Eusebi, Superare la visione di una giustizia fondata sul modello della bilancia, disponibile online sulla rivista «disCrimen», 11 maggio 2020. Sempre nella letteratura giuridica, per un approccio culturale di ampio respiro e consonante con le riflessioni proposte, si rinvia a U. Curi, Il colore dell’inferno. La pena tra vendetta e giustizia, Torino, 2019, in particolare pp. 103 ss.
[15] Tra i contributi giuridici in argomento, si veda: Aa. Vv., La pena di morte nel mondo. Convegno internazionale di Bologna (28-30 ottobre 1982), Casale Monferrato, 1983, con contributi – tra gli altri – di N. Bobbio, Il dibattito attuale sulla pena di morte, pp. 13 ss., e di A. Baratta, Aspetti extragiudiziali della pena di morte; M. Donini, La condanna a morte di Saddam Hussein. Riflessioni sul divieto di pena capitale e sulla ‘necessaria sproporzione’ della pena nelle gross violation, in Diritti umani e diritto internazionale (2007), pp. 343 ss.; L. Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte: riflessioni sul dibattito statunitense, in Riv. it. dir. proc. pen. (2006), pp. 1366 ss.; F. Mantovani, Sacertà della vita e pena di morte, in Iustitia (2003), pp. 106 ss.; G. Marinucci, La pena di morte, in Riv. it. dir. proc. pen. (2009), pp. 3 ss.
[16] Per la sottolineatura del sacrificio quale componente essenziale alla dinamica del capro espiatorio, si veda, S. Petrosino, Logiche follie. Sacrificio e capro espiatorio, in corso di pubblicazione in G. Forti - A. Visconti - C. Mazzucato - A. Provera (a cura di), L’ombra delle ’colonne infami’, Milano, 2022, specialmente con riguardo alle riflessioni contenute nel paragrafo n. 3 del saggio.
[17] R. Girard, Culture «primitive», Giudaismo, Cristianesimo, in Aa. Vv., La pena di morte nel mondo. Convegno internazionale di Bologna (28-30 ottobre 1982), Casale Monferrato, 1983, p. 79. La riflessione muove da premesse coerenti con la visione critica sulla connotazione afflittiva dell’ordinamento giuridico punitivo, di cui si è dato conto nel testo. Al riguardo Girard afferma: «[l]a differenza tra sistema giudiziario e sistema della vendetta non è affatto la differenza tra il “giusto” e l’“ingiusto”, fondamentalmente, ma è la capacità del sistema giudiziario di limitare la vendetta a un solo episodio, a una violenza unica che è la vendetta della società stessa. Detto altrimenti, il sistema giudiziario mette fine alla vendetta con la vendetta» (p. 78). L’Autore, inoltre, scorge ulteriori affinità tra la dinamica del capro espiatorio e la pena di morte, come il carattere sacro della vittima, che sembra poter avere una lontana eco nei privilegi riconosciuti al condannato secondo i riti di quella sanzione e specialmente nelle ultime ore della sua vita (p. 80); o come la dimensione pubblica dell’esecuzione e il carattere collettivo della stessa (p. 80); da ultimo, come la considerazione della pena di morte alla stregua di una sorta di evoluzione del sacrificio umano (pp. 80-81).
[18] R. Girard, Le bouc emissaire, trad. it. di C. Leverd e F. Bovoli, Il capro espiatorio, Milano, 1987, pp. 163 ss.
[19] Riprese dal vangelo di Luca: «Padre mio, perdonali perché essi non sanno quello che fanno» (Lc, 23, 34); Girard sottolinea la necessità di non offrirne una lettura banale o ‘buonista’, proprio perché esse racchiudono il disvelamento della logica del capro espiatorio e del suo meccanico, inconscio rinnovarsi nelle pratiche sociali (R. Girard, Il capro espiatorio, cit., pp. 177-178).
[20] Per l’inquadramento del processo a Gesù nelle dinamiche di una vicenda giudiziaria secondo l’ordinamento vigente al tempo, cfr. G. Agamben, Pilato e Gesù, Roma, 2013, pp. 27 ss.
[21]Scenario ricorrente nell’elaborazione teorica del meccanismo del capro espiatorio: ritorna per esempio sullo sfondo delle vicende narrate nell’opera del poeta del XIV secolo Guillaume de Machaut, intitolata Jougement dou Roy de Navarre, dalla cui analisi prende le mosse la riflessione in argomento di R. Girard, Il capro espiatorio, pp. 11 ss.; è di centrale rilevanza rispetto al mito di Edipo, che pure rappresenta un modello paradigmatico nella costruzione del meccanismo del capro espiatorio (R. Girard, Il capro espiatorio, cit., pp. 45 ss.). Riferimenti in argomento proprio alla peste in R. Escobar, Metamorfosi della paura, Bologna, 1997, pp. 204-205.
[22] Parla di «legame indissolubile» tra le due opere G. Fofi, Per Camus, in G. Fofi - V. Giacopini, Stranieri. Albert Camus e il nostro tempo, Roma, 2012, p. 8.
[23] Della vicenda ricorre un richiamo ne La peste: una tabaccaia racconta della notizia appresa sui giornali e la commenta con una certa partecipazione.
[24] Così si esprime sul punto Tarrou: «“Per semplificare, Rieux, diciamo che soffrivo già della peste ben prima di conoscere questa città e questa epidemia. Il che significa che sono come tutti gli altri. Sennonché ci sono persone che non lo sanno, o che si trovano bene in questa condizione, e persone che lo sanno e che vorrebbero uscirne. Io ho sempre voluto uscirne» (A. Camus, La peste, cit., pp. 260-261).
[25] A. Camus, La peste, cit., pp. 262-263.
[26] A. Camus, La peste, cit., p. 263.
[27] Egli afferma: «Pensavo che la società in cui vivevo fosse fondata sulla condanna a morte e che combattendola avrei combattuto l’assassinio» (A. Camus, La peste, cit., p. 265).
[28] A. Camus, La peste, cit., p. 267.
[29] Camus, tramite le parole di Tarrou, chiosa sul punto che ciò «[s]arebbe di pessimo gusto, mentre il buon gusto è risaputo, sta nel non insistere». E poi aggiunge: «Io però da allora non ho più dormito bene. Mi è rimasto un pessimo gusto in bocca, e non ho smesso di insistere, cioè di pensarci» (A. Camus, La peste, cit., p. 266).
[30] A. Camus, La peste, cit., p. 266.
[31] A. Camus, La peste, cit., p. 267.
[32] Le citazioni del testo assumono come riferimento la traduzione italiana: Riflessioni sulla pena di morte, Milano, 1993.
[33] Nella letteratura francese quello di Camus non rappresenta un unicum quanto a impegno culturale ed etico contro la pena di morte. Si può ricordare, infatti, la figura di Victor Hugo che al tema dedica nel 1829 il romanzo Le Dernier Jour d’un condamné, la cui prima edizione italiana risale al 1854, intitolata L’ultimo giorno di un condannato a morte, ed è oggi raccolta insieme ad altri saggi nel volume intitolato Contro la pena di morte, Milano, 2005.
[34] Per molti versi sovrapponibile a questa storia è quella che vide come protagonista J. W. Goethe, il quale decise di abbandonare gli studi giuridici proprio in ragione dello sconvolgimento emotivo procuratogli dalla visione dell’esecuzione capitale di una donna, di nome Margaretha Brandt, avvenuta a Francoforte sulla pubblica piazza il 14 gennaio 1772 (si veda sul punto G. Forti, La cura delle norme, cit., pp. 57 ss.).
[35] Sul tema della proporzione, si veda il recente volume di F. Viganò, La proporzionalità della pena. Profili di diritto penale e costituzionale, Torino, 2021.
[36] Nella prospettiva di questo scritto, intesa a inserire le riflessioni suggerita da La peste nella logica del capro espiatorio, pare notevole la definizione della pena di morte alla stregua di «atto rituale», e dunque ispirato alla dinamica del sacrificio che ne è modello archetipico.
[37] L’abolizione della pena di morte in Francia è intervenuta con la legge n. 908 del 9 ottobre 1981, il cui principio è stato ribadito a livello costituzionale, all’art. 66, mediante la legge n. 239 del 23 febbraio 2007. L’ultima esecuzione in quel Paese risale al 10 settembre 1977. Per una ricca ricognizione dell’incidenza delle istanze abolizioniste in prospettiva globale, si veda R. Hood - C. Hoyle, The Death Penalty: A Worldwide Perspective, Oxford, 2008.
[38] Proprio la netta differenza tra l’approccio europeo e quello statunitense al tema concernente l’abolizione della pena di morte non consente di considerarlo alla stregua di un tratto caratteristico degli ordinamenti giuridici occidentali (cfr. D. Garland, Peculiar Institution, trad. it. La pena di morte in America. Un’anomalia nell’era dell’abolizionismo, Milano, 2013, pp. 25 s. Con riguardo alla realtà statunitense si veda anche il fondamentale lavoro di F. E. Zimring, The Contradictions of American Capital Punishment, New York, 2003 e, nel dibattito italiano, L. Goisis, Sull’efficacia deterrente della pena di morte, cit., pp. 1366 ss.; G. Marinucci, La pena di morte, cit., pp. 15 ss.; A. Corda, L’incerto futuro dei metodi di esecuzione della pena di morte negli Stati Uniti. Scenari emergenti e prospettive dopo la sentenza Glossip v. Gross, in Riv. it. dir. proc. pen. (2017), pp. 198 ss.; F. Viganò, La proporzionalità della pena, cit., pp. 6 ss.).
[39] Sull’evoluzione storica delle istanze abolizioniste, quanto alla loro elaborazione teorica e alle implicazioni sulle scelte politiche, si veda M. Caravale, Pena senza morte, in Questione giustizia (2008), pp. 51 ss.
[40] Si vedano, per esempio, le iniziative legislative introdotte dal regime fascista e volte alla reintroduzione della pena di morte: dapprima nel 1926, a seguito di un attentato subito da Mussolini, mediante l’eliminazione della norma del Codice Zanardelli, che nel 1889 la aveva espunta dall’ordinamento (benché residuasse nel codice penale militare e in quelli coloniali); successivamente, con la sua inclusione nel codice penale del 1930 (cfr. M. Caravale, Pena senza morte, cit., p. 61).
[41] Si pensi al primo intervento legislativo in senso abolizionista, intervenuto il 30 novembre 1786, nel Gran Ducato di Toscana, con l’introduzione del codice leopoldino, dal nome del granduca Pietro Leopoldo. Tuttavia, come è stato notato, questi nel 1790, quando «abbandonava la Toscana per assumere, alla morte del fratello, la corona imperiale, impressionato dai disordini avvenuti a Firenze e a Livorno, invitò il governo provvisorio del granducato a ripristinare la pena capitale per chi guidava sommosse contro il governo: e il 30 giugno il governo approvava la restaurazione della pena per detto crimine» (M. Caravale, Pena senza morte, cit., p. 57).
[42] A. Pugiotto, L’abolizione costituzionale della pena di morte e le sue conseguenze ordinamentali, in Quaderni costituzionali, pp. 573 ss.
[43] Cfr. L. Goisis, La revisione dell’articolo 27, comma 4 della Costituzione: l’ultima tappa di un lungo cammino, in Riv. it. dir. proc. pen.(2008), pp. 1680 ss.; Marinucci, La pena di morte, pp. 5 ss.
[44] Intervenuta dapprima con il d.lgs. lgt. 10 agosto 1944, n. 224 per i reati previsti nel codice penale; successivamente con il d.lgs. 22 gennaio 1948, n. 21, in attuazione dell’art. 27, comma IV, Cost. nella sua originaria formulazione con riguardo al codice penale militare di pace; infine, con la l. 13 ottobre 1994, n. 589 per le l’intero ordinamento militare, ivi comprese le leggi di guerra.
[45] Si vedano le penetranti argomentazioni raccolte nel § XVI, intitolato appunto ‘Della pena di morte’, della sua imperitura opera (cfr. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Livorno, 1764, ed. curata da G. D. Pisapia, Milano, 1973, pp. 63 ss.).
[46] Si pensi al Decreto luogotenenziale 10 maggio 1945 n. 234 «Disposizioni penali di carattere straordinario» che, seppur temporaneamente e in via residuale, reintroduceva la pena di morte.
[47] La rilevanza dell’opera sul piano culturale, e anche a livello filosofico, è dimostrata dalla inclusione del pensiero di Camus e, in particolare, di Réflexions sur la guillotine tra i riferimenti costanti per la fondamentale opera di Jacques Deridda, La pena di morte, volume I, 2014 e volume II, Milano, 2016.
[48] Le quali sono riconducibili alla «massima forza generalpreventiva», alla «massima forza specialpreventiva neutralizzatrice» e alla «massima capacità di placare l’allarme sociale provocato dal reato, nonché il sentimento offeso dei parenti e amici della vittima, evitandosi i delitti di reazione (vendette, faide)» secondo l’efficace sintesi delle opinioni antiabolizioniste proposta da F. Mantovani, Sacertà della vita e pena di morte, cit., p. 110.
[49] Le riflessioni sul punto, cui nel testo si farà a più riprese riferimento, sono condotte da A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., pp. 15 e ss.
[50] Esempio negativo che, scrive Camus, «si moltiplica», «si propaga», «il contagio dilaga ovunque. E, con esso, l’anarchia del nichilismo» (A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 66).
[51] Per l’approfondita riflessione sul concetto di ‘giustizia esemplare’, si veda C. Mazzucato, Giustizia esemplare. Interlocuzione con il precetto penale e spunti di politica criminale, in Aa.Vv., Studi in onore di Mario Romano, I, Napoli, 2011, pp. 407 ss.; Ead., La ‘poesia della verità’ nella ricerca della giustizia. Poesia, parresia, esemplarità, giustizia, in G. Forti - C. Mazzucato - A. Visconti (a cura di), Giustizia e letteratura, I, Milano, 2012, pp. 507 ss., specialmente pp. 522 ss.; Ead., Restorative Justice and the Potential of ‘Exemplarity’. In Search of a ‘Persuasive’ Coherence Within Criminal Justice, in I. Aertsen - B. Pali (eds.), Critical Restorative Justice, Oxford-London, 2017, pp. 241 ss. e in particolare pp. 250 ss.
[52] A proposito della pena di morte è possibile distinguere in termini plastici la distinzione tra i profili di effettività del particolare strumento sanzionatorio, riconducibili dunque alla sua utilità, da quelli di valore, concernenti la legittimità stessa del ricorso a essa. Al riguardo, si veda G. Piffer, L’efficacia generalpreventiva della pena di morte, in Jus (1981), pp. 361 ss., in particolare pp. 363 s.
[53] Cfr. G. Forti, L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e del controllo penale, Milano, 2000, pp. 118 e ss.
[54] A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 34.
[55] Sono proprio le parole di Tarrou, ne La peste, a esplicitare la reazione emotiva di sgomento alla partecipazione – sebbene nel ruolo di mero spettatore – a una esecuzione capitale. Camus così fa esprimere il suo personaggio nel rivolgersi a Rieux: «“Ha mai visto fucilare un uomo? (…) Lo sa che invece il plotone di esecuzione si piazza a un metro e mezzo dal condannato? Lo sa che se il condannato facesse due passi avanti toccherebbe i fucili con il petto? Lo sa che a questa distanza ravvicinata tutti i tiratori mirano alla zona del cuore e che insieme, con i loro enormi proiettili, fanno un buco in cui si potrebbe infilare il pugno? No, non lo sa perché questi non sono dettagli di cui si parla. Il sonno degli uomini, per gli appestati, è più sacro della vita. Non si deve impedire alla brava gente di dormire. Sarebbe di pessimo gusto, mentre il buon gusto è risaputo, sta nel non insistere. Io però da allora non ho più dormito bene. Mi è rimasto un pessimo gusto in bocca, e non ho smesso di insistere, cioè di pensarci» (Camus, La peste, p. 265).
[56] Classico, al riguardo, il riferimento a M. Foucault, Sourveiller et punir. Naissance de la prison, trad. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, 1976, la cui parte I è intitolata appunto Supplizio.
[57] Così pure si esprime G. Piffer, L’efficacia generalpreventiva della pena di morte, cit., pp. 374 s., con riguardo all’«omicida che agisce per ragioni politiche o ideali» e al «delinquente per convenzione». Mentre, per altro verso, la pena di morte non potrebbe esprimere alcuna coazione psichica con riguardo ai delitti «passionali» o c.d. «di conflitto» (p. 374).
[58] Proprio la pena di morte rappresenta l’ambito specifico cui sono stati tradizionalmente dedicati i tentativi di verifica sul piano statistico della efficacia deterrente delle sanzioni penali, come sottolinea J. Andenaes, General Prevention Revisited: Research and Policy Implications, in The Journal of Criminal Law and Criminology, vol. 66, n. 3 (1975), p. 343: «Capital punishment was the first and, up to recently, the only field where research efforts were made in order to obtain a statistical assessment of the deterrent effect of punishment». A margine dell’affermazione l’Autore puntualizza anche l’alternativa metodologica per le ricerche in questo ambito: la comparazione di statistiche criminali – specie con riferimento all’omicidio – in Paesi abolizionisti e altri che annoverino la pena di morte nell’arsenale sanzionatorio; ovvero, facendo leva sulle ‘variazioni concomitanti’ (cfr. G. Forti, L’immane concretezza, cit., pp. 125 ss.), ossia sulla valutazione dei tassi di criminalità nell’ambito dello stesso stato, a seguito dell’abolizione della pena capitale o della sua introduzione.
[59] Si veda al riguardo G. Piffer, L’efficacia generalpreventiva della pena di morte, cit., pp. 361 ss. e, in particolare, pp. 365 ss., là dove l’Autore passa in rassegna le risultanze di tre importanti indagini sul punto, i cui esiti possono essere sostanzialmente concordanti nell’affermare l’ineffettività sul piano general preventivo della pena di morte: il rapporto della Royal Commission on Capital Punishment, istituita in Inghilterra nel 1949; lo studio condotto dall’Economic and Social Council dell’O.N.U sulla base di una particolare delibera della assemblea generale risalente al 20 novembre 1959; quello svolto con puntuale riguardo ai Paesi europei dal Comité Européen pour les Problèmes Criminels, nell’ambito delle attività del Consiglio d’Europa. In tema di prevenzione generale, resta fondamentale il volume curato da M. Romano e F. Stella, Teoria e prassi della prevenzione generale dei reati, Bologna, 1980, che raccoglie – nell’ordine – i saggi di F. Stella, Introduzione (pp. 9 ss.); J. Andenaes, La prevenzione generale nella fase della minaccia, dell’irrogazione e dell’esecuzione della pena (pp. 33 ss.); W. Naucke, Prevenzione generale e diritti fondamentali della persona (pp. 49 ss. ); F. Mantovani, Sanzioni alternative alla pena detentiva e prevenzione generale (pp. 69 ss.); K. Lüderssen, La funzione di prevenzione generale del sistema penale (pp. 99 ss.); W. Hassemer, Prevenzione generale e commisurazione della pena (pp. 125 ss.) e M. Romano, Prevenzione generale e prospettive di riforma del codice penale italiano (pp. 151 ss.).
[60] Sul punto si registra una certa affinità con la pratica della pena di morte negli Stati Uniti d’America, dove – peraltro – nonostante non si tratti più di uno ‘spettacolo’ offerto al ‘pubblico’, la pena di morte conserva il suo «perenne fascino» (D. Garland, La pena di morte in America, cit., p. 327). Sul dibattito statunitense attorno alle modalità legittime di esecuzione della pena capitale, si veda A. Corda, L’incerto futuro dei metodi di esecuzione della pena di morte negli Stati Uniti, cit., pp. 198 ss.
[61] A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 12 riferisce che per indicare il condannato si utilizza spesso il termine «interessato», o «paziente», oppure ancora l’acronimo «C.A.M.» (che sta per condamné à mort); quanto all’esecuzione è frequente sentire o leggere che «giustizia è stata fatta» o che il colpevole «ha espiato» o che «ha pagato il suo debito alla società».
[62] Così A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 34.
[63] D. Garland, La pena di morte in America, cit., p. 325.
[64] U. Curi, Il colore dell’inferno, cit., p. 114.
[65] Si ricordi, al proposito, l’episodio vissuto in prima persona dal padre di Camus e il giudizio dell’opinione pubblica, secondo cui la pena di morte risultava addirittura insufficiente a esprimere compiutamente la riprovazione dei fatti, in ragione della loro particolare gravità. Peraltro, tale sproporzione per difetto può ricorrere di frequente nel contesto dei crimini internazionali, come segnalato da M. Donini, La condanna a morte di Saddam Hussein, cit., p. 351, con riguardo alla condanna a morte di Saddam Hussein: «se la vendetta, a differenza della giustizia, non è richiesto che sia proporzionata ai fatti vendicati, potendo benissimo superarli per gravità, nel caso di specie neppure uccidendo tutta la famiglia di Saddam, salvo pensare di distruggere fisicamente il partito Baath, si potrebbe compensare quanto egli ha realizzato o fatto eseguire o tollerato in venti-trent’anni di regime (…). La vendetta, dunque, non potrebbe essere mai veramente soddisfatta dalla sua uccisione». L’Autore, immediatamente di seguito, a completamento del pensiero aggiunge che «nemmeno la ‘giustizia’, se riduttivamente intesa come proporzione, potrebbe mai trovare una soddisfazione equa, appena si consideri la povertà dei mezzi legittimi di risposta che ha a disposizione un organo giurisdizionale rispettoso dei diritti fondamentali e li si raffronta con la migliaia di vite che le accuse mettono sul conto di Saddam Hussein».
[66] A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 35.
[67] Senza trascurare l’impatto della pena di morte sulle famiglie e le persone care ai condannati (A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 42).
[68] Come, con straordinaria efficacia mette in luce A. Camus (Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 37), riportando l’opinione di un condannato a morte, detenuto presso le carceri di Fresnes: «Sapere che si morirà non è nulla, (…) ma non sapere se si vivrà, è questo il terrore e l’angoscia».
[69] A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 36.
[70] A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 41.
[71] Sentenza n. 14038/88 del 7 luglio 1989, dinnanzi alla Corte plenaria, interamente pubblicata in Riv. it. dir. proc. pen. (1990), pp. 334 ss., con commento di F. Palazzo, La pena di morte dinanzi alla Corte di Strasburgo, pp. 367 ss.
[72] Sono successivamente seguiti i casi Jabari c. Turchia, 11 luglio 2000; Öcalan c. Turchia, 12 maggio 2005; Bader e Kanbor c. Svezia, 8 novembre 2005; Al-Saadoon e Mufdhi c. Regno Unito, 2 marzo 2010; Al-Nashiri c. Polonia, 24 luglio 2014; A.L. (X.W.) c. Russia, 29 ottobre 2015; Al-Nashiri c. Romania, 31 maggio 2018.
[73] Risalente al 1 marzo 1985 con la ratifica del Protocollo da parte dei primi cinque Stati; l’Italia vi ha provveduto il 29 dicembre 1988, con successiva entrata in vigore a far corso dal 1° gennaio 1985.
[74] Il Protocollo n. 6 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali relativo all’abolizione della pena di morte, oltre alla generale indicazione da parte degli Stati membri di «una tendenza generale a favore dell’abolizione della pena di morte», stabilisce quanto segue all’art. 1, rubricato ‘Abolizione della pena di morte’: «La pena di morte è abolita. Nessuno può essere condannato a tale pena, né giustiziato». Tuttavia, all’art. 2 si fa salva la possibilità per uno Stato di prevedere la pena di morte nell’ambito della legislazione interna esclusivamente «per atti commessi in tempo di guerra o di pericolo imminente di guerra». Il superamento anche di tale limite, con l’adesione totale alle posizioni abolizioniste, si è avuto con l’introduzione del Protocollo n. 13, risalente al 2003, che estende il divieto di pena di morte «in qualsiasi circostanza». Ribadito all’art. 1 il contenuto della prima norma del protocollo n. 6, agli articoli 2 e 3 si stabilisce, rispettivamente, che nessuna deroga e nessuna riserva alle previsioni contenute nel Protocollo n. 13 possono essere ammesse.
[75] Preme precisare che nei casi richiamati alla nota 60, intervenuti successivamente all’introduzione del Protocollo n. 13 della Convenzione, il parametro normativo del giudizio ha ricompreso anche il diritto alla vita, sancito all’art. 2 della Convenzione.
[76] Come pure la Repubblica Federale di Germania avanzò una richiesta analoga.
[77] Rappresentando dunque il diritto fondamentale in questione un limite alla cooperazione giudiziaria tra Stati mediante estradizione (cfr. F. Palazzo, La pena di morte dinanzi alla Corte di Strasburgo, cit., pp. 372 ss.).
[78] Così F. Palazzo, La pena di morte dinanzi alla Corte di Strasburgo, cit., p. 376, là dove l’Autore richiama, traducendolo, un passaggio della sentenza.
[79] F. Palazzo, La pena di morte dinanzi alla Corte di Strasburgo, cit., p. 378.
[80] Si veda al riguardo anche D. Garland, La pena di morte in America, cit., pp. 335 ss.
[81] F. Palazzo, La pena di morte dinanzi alla Corte di Strasburgo, cit., p. 378.
[82] F. Palazzo, La pena di morte dinanzi alla Corte di Strasburgo, cit., p. 377.
[83] Del resto, nella sua ricca produzione letteraria, Camus ha offerto anche una sorta di resa narrativa della condizione emotiva che vive chi sia stato condannato a una morte ‘artificiale’ e non ‘spontanea’ con la già richiamata vicenda di Meursault, il protagonista de Lo straniero.
[84] A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 47.
[85] A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 47.
[86] Profilo che accomuna anche la critica alla concezione retributiva, secondo il cui paradigma l’attributo di giustizia dovrebbe pertenere alla reazione stessa al male commesso. Per una discussione critica di tale impostazione, si veda L. Eusebi, La pena in crisi, Brescia, 1992, specialmente pp. 67 ss.
[87] Vi osta, sempre sotto il profilo dei valori, l’intangibilità della vita e la centralità nell’ordinamento giuridico del principio personalistico: cfr. F. Mantovani, Sacertà della vita e pena di morte, cit., pp. 112 ss.; M. Donini, La condanna a morte di Saddam Hussein, cit., pp. 353-354. Del resto, come ricordato dallo stesso Camus nelle pagine richiamate nel testo, ne deriverebbe un ulteriore paradosso, dal momento che un giudizio assoluto implicherebbe l’altrettanto assoluta innocenza di chi condanni una persona alla morte.
[88] A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 57.
[89] A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 66.
[90] A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 47. In un altro passaggio, l’Autore ammonisce: «Il delitto impunito, secondo i Greci, infettava le città. Ma l’innocenza condannata, o il delitto eccessivamente punito, alla lunga l’insudiciano altrettanto» (p. 53). Declinata sul piano giuridico, la questione sollecita attenzione agli standard probatori e alle regole di giudizio proprie del processo penale, suggerendo così una certa assonanza con la discussione attorno alla regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, a partire dal fondamentale lavoro di Federico Stella, nel cui titolo pure sono evidenziate le stringenti esigenze di protezione degli innocenti (F. Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, 2003).
[91] Scrive Camus: «Senza innocenza assoluta non esiste giudice supremo» (A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 57).
[92] A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 51 ss.
[93] Cfr. A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 62.
[94] A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 59.
[95] «La compassione, s’intende, può esser qui solo il sentimento di una sofferenza comune, non una frivola indulgenza che non tenga in alcun conto né le sofferenze né i diritti della vittima. Non esclude il castigo, ma sospende l’estrema condanna. Le ripugna il provvedimento definitivo, irreparabile che, non contemplando la miseria della condizione comune, si dimostra ingiusto verso l’umanità intera» (A. Camus, Riflessioni sulla pena di morte, cit., p. 54).
[96] Ne dà conto M. Verna, Sacrificio, forza e debolezza ne La peste di Camus, cit., p. 1 del dattiloscritto.
[97] Per la centralità della persona quale valore fondativo dell’intero ordinamento, si veda il contributo alla recente pubblicazione della Facoltà di Giurisprudenza presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Giustizia Persona Ordinamento, Milano, 2021, di L. Eusebi, Persona e fratellanza universale, specialmente pp. 67-68.
[98] L’espressione è tratta da F. Palazzo, La pena di morte dinanzi alla Corte di Strasburgo, cit., p. 377.
Rotolo Giuseppe
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