L'azione di contrasto preventivo alla criminalità mafiosa e le informazioni antimafia interdittive: tra legalità ed efficacia
Calogero Miccichè
Assegnista di ricerca di diritto amministrativo, Università Cattolica del Sacro Cuore – sede di Milano
L’azione di contrasto preventivo alla criminalità mafiosa e le informazioni antimafia interdittive: tra legalità ed efficacia*
The preventive action to combat the mafia organizations and the interdictory anti-mafia informations: between legality and effectiveness
Sommario: 1. Il contrasto delle mafie come funzione irrinunciabile e in divenire dello Stato di diritto. - 2. Misure di prevenzione e principio di legalità. - 3. Il problema delle informazioni antimafia interdittive. - 4. La necessità di contornare l’istituto delle informazioni antimafia di maggiori garanzie anche procedimentali.
1. Il contrasto delle mafie come funzione irrinunciabile e in divenire dello Stato di diritto
Se i fenomeni criminali, anche organizzati, sono da sempre parte dell’esperienza umana, le organizzazioni di stampo mafioso sono una peculiarità dei tempi moderni. Queste organizzazioni, infatti, non esistono solo per compiere atti violenti e illegali, ma sono sorte esercitando, e perciò rivendicando, un potere territoriale che le ha rese, fin dai propri albori ottocenteschi, l’espressione del rifiuto dello Stato quale istituzione capace di ridurre «ad unità gli svariati elementi di cui consta» e che detiene «un potere, che non ripete se non dalla sua stessa natura e dalla sua forza, che è la forza del diritto»[1].
La sfida alla sovranità pubblica insita nella natura delle logge mafiose negli anni è andata diventando sempre più pervasiva e pericolosa per la tenuta dello Stato di diritto[2], ciò anche in considerazione del fatto che la cultura mafiosa ha finito per alimentare ed essere a sua volta sostenuta dal diffondersi di più generali forme di illegalità e corruzione[3].
Questa situazione ha reso le politiche di contrasto alle organizzazioni criminali un’urgente necessità alla quale le istituzioni pubbliche hanno risposto approntando strumenti via via più incisivi. Si è così passati dall’iniziale repressione solo penale e, dunque, ex post, al contrasto amministrativo preventivo. In tal senso, essendosi compreso che anche il potere criminale si alimenta per mezzo del denaro, il legislatore ha assegnato all’amministrazione strumenti innovativi attraverso cui colpire il patrimonio delle organizzazioni criminali e la loro capacità di generare e riciclare ricchezza.
Il citato cambio di passo non è stato facile. Al contrario è stato scandito da omicidi e stragi che hanno segnato la coscienza civile e la memoria della Repubblica. Un momento importante per il nuovo corso è stata l’approvazione della legge 13 settembre 1982, n. 646, nota come legge Rognoni-La Torre[4], che ha istituito il reato di associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.) e introdotto nuovi strumenti amministrativi per il contrasto alla mafia. In particolare con quella legge si sono previste, quale effetto inevitabile della condanna penale per associazione mafiosa, la decadenza di diritto delle «licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all’ingrosso, [del]le concessioni di acque pubbliche e [de]i diritti ad esse inerenti nonchè [del]le iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche di cui il condannato fosse titolare» (art. 1, introduttivo dell’art. 416-bis c.p.), e pure la confisca delle «cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego». Quella legge ha altresì introdotto il potere di confiscare preventivamente i beni di chi fosse anche solo indiziato di associazione mafiosa[5], purché, «sulla base di sufficienti indizi, come la notevole sperequazione fra il tenore di vita e l’entità dei redditi apparenti o dichiarati, si [avesse] motivo di ritenere [fossero] il frutto di attività illecite o ne [costituissero] il reimpiego» (art. 14, integrativo dell’articolo 2 della legge 31 maggio 1965, n. 575)[6].
L’azione di riforma e di inasprimento del diritto antimafia iniziata nel 1982 è proseguita negli anni successivi, introducendo ulteriori misure volte a colpire non più solo i soggetti associati, ma pure coloro che, operando in modo opaco, con la propria attività agevolino – o possano agevolare – l’attività delle organizzazioni mafiose. Quest’ampliamento del fronte di contrasto, ancora una volta, è avvenuto tanto sul piano penale, dove ha iniziato a essere contestato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa[7], quanto sul piano della prevenzione amministrativa che si è arricchita delle comunicazioni antimafia (legge 23 dicembre 1982, n. 936) e, soprattutto, delle informazioni prefettizie antimafia (d.lgs. 8 agosto 1994, n. 490). Il diritto dell’antimafia sorto con quegli interventi normativi negli anni successivi è stato affinato sino a confluire nel vigente Codice antimafia (d.lgs. n. 6 ottobre 2011, n. 159), da cui adesso va intrecciandosi con le altre disposizioni introdotte per contrastare i più diffusi fenomeni di corruzione (legge 6 novembre 2012, n. 190) e assicurare la libertà dei mercati (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50). Ciò evidentemente nella consapevolezza che la criminalità mafiosa è adesso soprattutto criminalità economica.
2. Misure di prevenzione e principio di legalità
Nonostante l’azione di contrasto condotta contro le mafie sin qui non sia stata sufficiente a sconfiggerle, ha permesso di contenerne e attenuarne la capacità espansiva. Ne sono una prova tangibile le migliaia di beni confiscati alle organizzazioni criminali e adesso restituiti a usi sociali attraverso l’attività dell’Agenzia Nazionale per i Beni Confiscati[8].
Cionondimeno, man mano che va inasprendosi l’azione preventiva diretta a contrastare non più solo le organizzazioni mafiose e i suoi sodali, ma anche quanti operano in contiguità con essi, va facendosi più evidente e delicato il problema della legalità di questa azione di contrasto.
Invero, nonostante le misure preventive mirino ad anticipare la soglia di reazione dell’ordinamento piuttosto che a infliggere sanzioni, è indubbio che raggiungano questo obiettivo apportando – proprio come le sanzioni – riduzioni significative alla sfera giuridica dei destinatari e ciò, non all’esito di un processo eventualmente anche basato sulla regola probatoria del “più probabile che non” (meno stringente di quella necessaria per giungere a una condanna penale), bensì su basi meramente indiziarie e attraverso procedimenti ben poco paritari e di tipo inquisitorio.
Certo si potrebbe dire che la riduzione delle garanzie rappresenti il prezzo da pagare per disporre di misure efficaci nel contrastare situazioni tanto pericolose come le mafie e le loro metastasi[9]. È questa, tuttavia, una valutazione che può essere condivisa solo a condizione che l’azione di contrasto sia contenuta entro un perimetro di ragionevolezza, assicurando un livello di garanzie accettabile. Oltre quel confine, infatti, le azioni di contrasto rischiano di diventare esse stesse illegali e comunque tali da rendere le istituzioni pubbliche non meno odiose e pericolose per i cittadini della stessa criminalità. Il che non può ammettersi, dovendosi piuttosto difendere il carattere solidale e positivo della Repubblica, la quale deve essere implacabile con i prepotenti, ma attenta ai bisogni e ai diritti dei cittadini onesti.
3. Il problema delle informazioni antimafia interdittive
Le misure preventive che al momento sembrano porre più problemi sotto l’aspetto della loro legalità sostanziale sono le informazioni antimafia interdittive. A differenza dell’altro documento antimafia[10], ossia la comunicazione antimafia[11], le informazioni possono essere adottate anche sulla base di presupposti non tipizzati e, peraltro, non sempre rivelatori di condotte in qualche modo deviate dai canoni della legalità. Ai sensi dell’art. 84, comma 3, del Codice antimafia, infatti, le informazioni antimafia possono attestare tanto la «sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67», quanto la «sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4» (idem). E questi tentativi potranno essere desunti da molti indizi che il combinato disposto degli artt. 84 e 91 del Codice antimafia individua solo esemplificativamente, consegnando poi ai Prefetti il più ampio potere di accertamento.
La legge riconduce all’accertamento delle predette circostante non una responsabilità dell’impresa ma la sua inaffidabilità[12], facendone discendere il venir meno – teoricamente in via temporanea[13] – della capacità di essere titolare di rapporti economici con la pubblica amministrazione[14]; e a ben vedere non solo con quella, visto che il provvedimento interdittivo in molti casi rende impossibile la prosecuzione di ogni attività anche a favore dei privati[15].
La giurisprudenza negli anni scorsi ha riconosciuto alla misura una portata ampia, ritenendola «volta – ad un tempo – alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica Amministrazione»[16]. Ciò ha giustificato e sostenuto il ricorso a soluzioni interpretative viepiù estese e distanti dal tenore letterale della legge. In tal senso le maggiori criticità riguardano la disciplina delle informazioni interdittive adottate in esito all’accertamento di «eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese», ossia le informazioni antimafia c.d. “generiche”.
Sotto un primo profilo viene in rilievo l’interpretazione data dalla giurisprudenza alla fattispecie dei tentativi di infiltrazione mafiosa, la quale si ritiene integrata anche in presenza del mero “pericolo” che possa avvenire un tentativo. Ciò, evidentemente, al fine di anticipare ulteriormente la soglia di tutela dando rilievo alle più disparate circostanze, a partire dai rapporti interpersonali[17].
Al riguardo si è affermato che «[e]ventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di queste ad influenzare la gestione dell’impresa sono all’evidenza tutte nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzate, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori»[18]. La scelta ermeneutica, specie se riferita a pericoli derivanti da fatti sostanzialmente e non solo formalmente esterni al controllo dell’interessato[19], è distante dalla nozione giuridica di “tentativo” tipizzata dall’art. 56 del c.p. e consente di prescindere dalla prova di fatti già avvenuti accontentandosi di meri indizi di progressioni causali del tutto eventuali, per quanto probabili. Inoltre l’interpretazione non è del tutto coerente con la lettera della legge e attenua le garanzie offerte ai destinatari dell’informazione antimafia, costringendoli a difendersi da fatti che non solo sono estranei alla propria volontà, ma che neppure sono ancora avvenuti. Si tratta pertanto di una posizione che, nel silenzio della legge e nonostante il rango costituzionale di molti diritti coinvolti, anticipa il momento di reazione dello Stato al tal punto da collocare queste misure più nel campo della “precauzione” che in quello “prevenzione”.
Sotto altro aspetto va considerato che questi provvedimenti sono basati su valutazioni prefettizie per le quali il legislatore non ha individuato puntualmente né tutte le circostanze rilevanti né, soprattutto, i criteri per la loro interpretazione, il che ha indotto la giurisprudenza a riconoscere ai Prefetti ampi poteri discrezionali[20] sui quali sarebbe esercitabile unicamente un sindacato “debole”, limitato ai casi «di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti»[21]. L’ampiezza dei poteri prefettizi stride con il principio di legalità, non tanto sotto l’aspetto del mancato rispetto per il principio della tassatività, proprio della sola materia penale, quanto sotto il profilo della prevedibilità dei comportamenti rilevanti[22].
Invero, perché una misura di prevenzione sia legale, è necessario che sia prevista dalla legge, che sia «accessibile alle persone interessate e che i suoi effetti [siano] prevedibili» (C.E.D.U., De Tommaso vs. Italia, 23 febbraio 2017)[23]. La questione, benché cruciale, è stata sin qui affrontata dalla giurisprudenza con (apparente) distacco[24]. Se l’obiettivo dichiarato resta salvaguardare uno strumento efficace nel contrastare fenomeni che «ben lungi dal costituire un numerus clausus, assumono forme e caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le persone e sfuggono, per l’insidiosa pervasività e mutevolezza, anzitutto sul piano sociale, del fenomeno mafioso, ad un preciso inquadramento»[25], è pur vero che già alla vigilia della sentenza De Tommaso il Consiglio di Stato aveva avvertito il bisogno di stilare un primo elenco, benché solo esemplificativo, delle “figure sintomatiche” dell’esposizione al rischio di infiltrazione mafiosa[26]. D’altra parte neppure sono mancate sentenze che hanno esaminato funditus la rilevanza della sentenza De Tommaso per la legittimità delle informazioni antimafia[27], benché allo scopo di negarla sulla scorta di vari argomenti, tra cui il diverso rango dei diritti coinvolti. Al riguardo è stato osservato che, a differenza dei provvedimenti scrutinati dalla Corte di Strasburgo, l’informazione antimafia non inciderebbe né sulla libertà di circolazione (tutelata dall’art. 2 Cedu), né sul diritto di proprietà (tutelato dall’art. 1 del Primo protocollo Cedu), bensì solo sulla libertà di iniziativa economica che, tuttavia, non trovando tutela dal sistema Cedu, sarebbe recessiva rispetto all’interesse pubblico alla salvaguardia del sistema socio-economico[28]. L’argomento è efficace, ma non sembra tener conto del fatto che l’interdittiva, adesso, incide anche su altri diritti della persona senz’altro tutelati a livello europeo e costituzionale, come quello alla vita privata e familiare (tutelato dall’art. 8 Cedu). Né può negarsi che la legittimità della misura vada vagliata avendo riguardo a tutti i suoi effetti.
Privati della fiducia dello Stato e del conseguente requisito della moralità/onorabilità, infatti, i destinatari dell’informazione in molti casi non solo sono esclusi dalle commesse pubbliche, ma sono anche impossibilitati a proseguire ogni attività[29] e, perciò, annientati[30]. Ciò, si badi, benché in ipotesi potrebbero essere dei soggetti totalmente estranei a vicende di mafia o perfino vittime delle ingerenze mafiose, visto che non è assicurata alcuna differenziazione (anche solo in termini di effetti della misura) tra i soggetti infiltrati o addirittura concorrenti, e quelli che il tentativo lo hanno solo subito o che, addirittura, sono solo esposti al pericolo di subirlo[31].
Il problema di legalità della misura può essere meglio apprezzato ove si consideri il caso delle imprese aventi forma individuale. Allora, infatti, gli effetti “squalificanti” del provvedimento interdittivo finiscono per colpire personalmente il titolare anche quando le circostanze contestate non riguardino direttamente lui, bensì altri soggetti a lui vicini, magari per ragioni lavorative o familiari[32]. Allora è evidente che gli effetti dell’interdittiva travalicano l’esercizio dell’attività economica a rischio di infiltrazione e colpiscono direttamente la vita privata del titolare dell’impresa, la sua dignità personale, la sua onorabilità e perfino la possibilità che egli possa trovare un nuovo lavoro. A ben vedere, infatti, essendo stato personalmente destinatario dell’informazione interdittiva, quello diventerà una sorta di untore per gli altri operatori economici[33], giacché ogni collaborazione con lui potrà assumere valenza indiziaria dell’altrui esposizione al rischio di infiltrazione mafiosa[34].
D’altra parte, i problemi di legittimità posti dalle interdittive neppure possono essere superati evocando la pericolosità del fenomeno mafioso. Ciò in quanto le interdittive – diversamente da quanto la giurisprudenza talvolta mostra di ritenere[35] – di per sé (ossia in astratto, prescindendo dai fatti accertati dagli organi di polizia nel singolo caso) non attestano la “mafiosità” di un’impresa o di chi vi opera, ma solo il suo essere infiltrata o a rischio infiltrazione, visto che il condizionamento esercitato dalla mafia può avvenire anche «al di là e persino contro la volontà del singolo»[36], e finanche «imprenditori soggiogati dalla sua forza intimidatoria e vittime di estorsioni sonopassibili di informativa antimafia»[37]. Dal che discende che la mancanza di qualsiasi differenziazione e la riconduzione di tutti i destinatari delle informazioni interdittive (quanto meno) tra i conniventi con la mafia, è una scelta che tradisce un difetto di percezione delle dinamiche sociali nelle quali è immerso chi, pur estraneo alla mafia, opera nei territori ove è più forte e diffusa la sua presenza. Il che rappresenta un’ulteriore criticità della misura, visto che il potere “interdittivo” dei Prefetti, ove non debba essere esercitato tenendo conto delle specificità socio-territoriali (i.e. secondo logiche di differenziazione), rischia di avere effetti discriminatori e anticoncorrenziali. Al riguardo si consideri, infatti, che lo strumento in esame, se non venisse usato con prudenza là dove è statisticamente maggiore il rischio per gli operatori economici di entrare in contatto con imprese e soggetti compromessi con la mafia, può finire per “bruciare” l’imprenditoria sana anziché “far terra bruciata” attorno alle mafie. È questo, d’altra parte, un rischio concreto, che trova un riscontro nella «diversità di indirizzo tra i due organi di appello della giustizia amministrativa»[38], dal momento che il giudice siciliano, onde evitare di trasformare la lotta alla mafia in una caccia alle streghe, ha dovuto (e potuto) elaborare criteri più prudenziali di quelli elaborati dal Consiglio di Stato per valutare gli indizi riguardanti il contesto sociale e le frequentazioni delle persone oggetto degli accertamenti prefettizi, senza peraltro giungere a risultati meno severi[39].
4. La necessità di contornare l’istituto delle informazioni antimafia di maggiori garanzie anche procedimentali
Le criticità evidenziate sono tanto importanti da meritare, pare, interventi correttivi di carattere generale. Invero non si tratta né di rinunciare allo strumento delle informazioni antimafia né tanto meno di depotenziarne l’efficacia. Al contrario occorre contornare le interdittive di garanzie che permettano di raggiungere un ragionevole equilibrio tra le esigenze della prevenzione e quelle della legalità. Ciò può avvenire in più modi, a partire da alcuni interventi sul procedimento.
Al riguardo è noto quanto il procedimento possa contribuire a dare concreta attuazione al principio di legalità e come a questo scopo esso debba essere “giusto”, ossia strutturato in modo da garantire un ragionevole equilibrio tra tutela delle prerogative pubbliche e private, nell’ottica della buona amministrazione e dell’imparzialità. Come è stato evidenziato si tratta di assicurare all’interessato «alcuni essenziali strumenti di difesa, quali la conoscenza degli atti che lo riguardano, la partecipazione alla formazione dei medesimi e la facoltà di contestarne il fondamento e di difendersi dagli addebiti»[40] e perciò, in altri termini, di partecipare con effettiva utilità al procedimento[41].
Questa necessità non emerge più solo dalle riflessioni della dottrina, ma adesso anche dalla giurisprudenza costituzionale[42] e, soprattutto, da quella della C.E.D.U., la quale in plurime occasioni ha sanzionato la legittimità dell’operato dell’amministrazione guardando alle concrete modalità (e pertanto al procedimento) attraverso cui essa era giunta a comminare le misure[43] o, comunque, ad assumere la decisione di sua competenza[44].
A fronte di questo quadro generale è inevitabile costatare come la normativa antimafia detti una disciplina dei procedimenti di adozione e aggiornamento (o conferma) delle informazioni essenzialmente derogatoria rispetto ai principi generali della materia[45].
A titolo esemplificativo si consideri che la partecipazione al procedimento di adozione, benché sia astrattamente ammessa dall’art. 93, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011[46], lo è solo come una eventualità rimessa ad una scelta discrezionale del Prefetto[47]. Inoltre, sia in fase di audizione, sia dopo l’adozione del provvedimento, neppure è assicurata agli interessati la possibilità di conoscere tutte le informazioni che hanno guidato la valutazione prefettizia, ma solo quelle “ostensibili” in quanto non coperte da esigenze di tutela degli accertamenti compiuti dalle forze di polizia. Potrà perciò avvenire che il soggetto sia tenuto a difendersi – peraltro nell’ambito di un processo nel quale, come si è detto, il giudice ritiene di poter esercitare solo un sindacato debole[48] – da valutazioni indiziarie costellate da omissis, oppure fondate su notizie tratte da informative di polizia o giudiziarie (spesso riguardanti soggetti terzi) delle quali è difficile verificare perfino la veridicità oltre che l’attualità.
Vi è da chiedersi se queste e altre deroghe siano davvero necessarie, se lo siano stabilmente e se non sia possibile recuperare il deficit di garanzie quantomeno in una fase successiva all’adozione del provvedimento interdittivo. Allora, infatti, l’informazione avrà già prodotto i suoi effetti e non sussisteranno più molte ragioni per negare all’interessato la possibilità di confrontarsi paritariamente con l’amministrazione difendendo le proprie ragioni innanzi a un organo capace di riconsiderare anche il merito della decisione già assunta. Inoltre, una simile soluzione sarebbe in grado di implementare le garanzie facendo salvi i poteri dell’amministrazione. D’altra parte, il fatto che certi espedienti procedimentali possano salvaguardare la legittimità dell’intero istituto delle informazioni antimafia sembra trovare conferme perfino nella più stringente giurisprudenza amministrativa, la quale, pur rifiutando l’idea che incomba sul legislatore l’obbligo di assicurare in ogni caso tutte le garanzie partecipative di cui alla legge n. 241 del 1990[49], ha comunque individuato nel procedimento di aggiornamento, «ai sensi dell’art. 91, comma 5, del d. lgs. n. 159 del 2011, un punto di equilibrio fondamentale e uno snodo della disciplina in materia, sia in senso favorevole che sfavorevole all’impresa, poiché impone all’autorità prefettizia di considerare i fatti nuovi, laddove sopravvenuti, o anche precedenti – se non noti – e consente all’impresa stessa di rappresentarli all’autorità stessa, laddove da questa non conosciuti»(Cons. Stato, Sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758). Il procedimento di aggiornamento, insomma, sarebbe per l’attuale giurisprudenza l’istituto che assicura la legittimità delle informazioni interdittive consentendo di recuperare il deficit di partecipazione e tutela.
Eppure la possibilità di avviare il procedimento di aggiornamento non sembra sufficiente per colmare il divario di garanzie e di legalità formatosi man mano che il ricorso alle informazioni si è fatto più intenso ed esteso nei suoi presupposti indizianti. Ciò per varie ragioni. Intanto perché l’aggiornamento consente di proporre all’esame del Prefetto soltanto fatti nuovi e non argomenti difensivi riferiti a circostanze già esaminate o comunque note. In secondo luogo perché quel procedimento, al momento, neppure è strutturato in modo da garantire un riesame o un approfondimento imparziale della vicenda[50].
Al riguardo si consideri che se le amministrazioni pubbliche sono solitamente poco disposte a rivedere in autotutela le proprie determinazioni, lo saranno senz’altro meno in presenza di provvedimenti riguardanti la prevenzione antimafia, sia per la discrezionalità che connota quegli atti, sia per la prudenza con cui i funzionari agiranno per evitare di essere “sospettati” a propria volta di fare gli interessi della criminalità. Se ciò non bastasse si consideri pure che la competenza per il procedimento di aggiornamento spetta allo stesso Prefetto che ha adottato il primo provvedimento interdittivo, il quale si avvarrà (quantomeno anche) dell’attività dei Gruppi interforze consultati in origine. Ciò esclude, come anticipato, la possibilità di un riesame imparziale, svolto senza pregiudizi e con la disponibilità ad accogliere valutazioni diverse da quelle già espresse.
È, dunque, per superare simili problemi che sarebbe auspicabile prevedere a valle dell’adozione dell’informazione interdittiva un’ulteriore fase procedimentale nella quale, a istanza di parte, sia consentito riesaminare – anche nel merito e alla luce delle memorie e dei documenti prodotti dal destinatario e dagli altri soggetti interessati – la misura già adottata (ed efficace). Un simile procedimento dovrebbe essere attribuito alla competenza di un organo terzo e possibilmente collegiale, formato da personale proveniente dai ranghi della pubblica sicurezza, della carriera prefettizia, ma anche dalla magistratura, in modo da garantire decisioni improntate a un pluralismo di sensibilità istituzionali. D’altra parte, il ricorso a un simile accorgimento procedimentale, mentre aumenterebbe le garanzie per il cittadino e le imprese, non comprometterebbe l’efficacia delle misure di prevenzione, come dimostra l’esperienza del Tribunale del riesame e l’attività che quello svolge nel vagliare la legittimità delle misure cautelari adottate in materia penale[51] senza che ciò renda meno efficace nel suo complesso quel sistema di tutele.
Anche per tale ragione, quindi, è auspicabile che il legislatore intervenga al più presto sulla materia delle informazioni antimafia, mettendo lo strumento al riparo da possibili censure e restituendo ai cittadini quell’accettabile livello di garanzie al quale hanno diritto e che rende la Repubblica diversa e migliore delle mafie.
Abstract: The paper debates the issue of preventive instruments to combat the mafia organizations’ activities, with particular emphasis on those so-called “informazioni antimafia interdittive”. More in details, the essay examinates the essential features of the said measures and the reasons of conflicts amoung them and the principle of legality, then it focuses on the necessity to adopt certain measures, under the procedural or organisational point of view, in order to preserve their legitimacy.
Keywords: Legality, effectiveness, preventive measures, organised crime, infiltration.
* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] Così S. Romano, in Lo Stato moderno e la sua crisi. Saggi di diritto costituzionale, Milano 1969, p. 8 (discorso inaugurale dell’a.a. 1909-1910 presso la Regia Università di Pisa, pubblicato per la prima volta in Riv. dir. pubbl., 1910, p. 87). È a partire da questa visione che l’illustre Maestro ha ritenuto di poter difendere lo Stato anche «quando nella pratica i suoi istituti si corrompono e degenerano, e l’inevitabile, permanente contrasto tra la forza oggettiva del diritto e la potenza arbitraria di chi detiene il potere tende a risolversi in favore di quest’ultima», giacché, anche allora, «rappresenta sempre in grande vantaggio e un grande progresso il fatto che tutto ciò non può considerarsi che come uno stato di cose che, lungi dall’essere consacrato e riconosciuto dall’ordinamento giuridico, si rivela a questo contrario» (p. 9).
D’altra parte si consideri che l’insanabilità del contrasto tra lo Stato e le mafie trova conferme anche nella più recente crisi che sta attraversando la sovranità statale e che è determinata dalle dinamiche della globalizzazione e perciò pure dal proliferare del crimine transnazionale.
[2] Circa la percezione di questo fenomeno si veda C.E.D.U., sentenza Cacucci e Sabatelli contro Italia, 7 giugno 2014 (ricorso n. 29797/09), secondo cui «il fenomeno della criminalità organizzata ha raggiunto in Italia proporzioni davvero preoccupanti. I profitti smisurati che le associazioni di stampo mafioso traggono dalle loro attività illecite conferiscono loro un potere la cui esistenza mette in discussione la supremazia del diritto nello Stato» (§ 41).
[3] In tal senso cfr. N. Gullo, Emergenza criminale e diritto amministrativo. L’Amministrazione pubblica dei beni confiscati, Napoli 2017, pp. 20-21,per il quale la «diffusione della corruzione quale metodo per regolare le relazioni tra le imprese e le amministrazioni pubbliche» è un «fenomeno che ha acquisito in molti sistemi statali un carattere endemico ed implica una grave compromissione del funzionamento ordinario degli apparati amministrativi. Ovviamente il ricorso alla corruzione può diventare una strategia anche dei gruppi criminali organizzati, ma ciò non esclude che possa trovare riscontro nell’iniziativa autonoma degli operatori economici che cercano di conseguire illecitamente posizioni di vantaggio nei rapporti con i pubblici poteri». Sul rapporto tra mafia e corruzione, nonché pure tra lotta alla mafia e alla corruzione, si vedano F. Astone, Interdittive antimafia e “commissariamento” delle imprese (avuto riguardo al settore degli appalti pubblici), in Giustamm.it, 7 (2018); M. Mazzamuto, Le interdittive prefettizie tra prevenzione antimafia e salvataggio delle imprese, in Giur. it., 10 (2018), p. 2222. Per F. Manganaro, Il contrasto alla corruzione in materia di contratti pubblici, in Giustamm.it, 11 (2014), «[l]a lotta alla corruzione nei contratti pubblici coincide con il contrasto alla criminalità organizzata, non fosse altro perché quando l’impresa criminale partecipa agli appalti pubblici il suo potere intimidatorio cancella ogni forma di concorrenza».
[4] Il che non esclude che alcune misure fossero state introdotte già prima. Al riguardo cfr. art. 10 della legge 31 maggio 1965, n. 575.
[5] Si tratta di una misura di prevenzione patrimoniale (c.d. sanzione ante delictum) dal carattere extrapenale, in quanto non presuppone l’accertamento di un reato né tanto meno di una condanna, ma l’accertamento di elementi sintomatici di una pericolosità sociale particolarmente qualificata e di una provenienza illecita dei beni. Ne discende che questo tipo di confisca non è limitata alle cose che costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto del reato, ma ha una portata più ampia.
[6] La misura è adesso disciplinata dall’art. 24 del d.lgs. n. 159/2011 (Codice antimafia), il cui primo comma prevede che «[i]l tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. In ogni caso il proposto non può giustificare la legittima provenienza dei beni adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale. Se il tribunale non dispone la confisca, può applicare anche d’ufficio le misure di cui agli articoli 34 e 34-bis ove ricorrano i presupposti ivi previsti».
[7] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 13 giugno 1987, Altivalle, CED-177889.
[8] Le statistiche dell’attività svolta dall’Agenzia Nazionale sono disponibili sul sito www.benisequestraticonfiscati.it. A titolo esemplificativo si consideri che nel solo 2018 l’Agenzia ha gestito sul territorio nazionale un patrimonio di ben 16.874 beni immobili. Con riguardo alla confisca e all’attività svolta dall’Agenzia si vedano M. Mazzamuto, L’agenzia nazionale per l’amministrazione e la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, in Dir. Pen. Cont., 2015; Id., Gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati tra giurisdizione e amministrazione, Giur. it., 2 (2013), p. 478; A. Cisterna (a cura di), L’agenzia nazionale per i patrimoni di mafia, Santarcangelo di Romagna 2012; A. Balsamo, La istituzione dell’agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, in Cass. pen., 2010, p. 2105.
[9]Al riguardo si parla in dottrina di «“diritto amministrativo dell’emergenza criminale”» (N. Gullo, Emergenza criminale e diritto amministrativo, cit., pp. 24-25) per «indicare la nuova frontiera della legislazione in materia di ordine pubblico e sicurezza pubblica. Si tratta, in altri termini, di un settore ordinamentale che deriva dalla “torsione” del diritto della sicurezza pubblica attraverso un ampliamento del suo quadro teleologico e del relativo strumentario giuridico: difatti, alle tradizionali finalità di tutela dell’ordine pubblico, da perseguire limitando le condotte pericolose anche con misure cautelari ed interdittive, si sovrappongono ulteriori finalità di ordine generale, che esprimono complessivamente l’esigenza di contenere o quanto meno di gestire le implicazioni negative delle misure di prevenzione penale e amministrativa nei riguardi di altri interessi pubblici – come, per esempio, la continuità nell’esecuzione dei contratti pubblici o il recupero alla legalità di aziende “a contaminazione mafiosa” – meritevoli di una particolare protezione giuridica. In questa prospettiva s’inserisce, a pieno titolo, anche il tema dei beni confiscati […]».
[10] Con riguardo al complessivo tema della documentazione antimafia, nonché pure per quanto concerne la questione della vigenza delle informazioni antimafia c.d. “atipiche” (art. 1-septies del d.l. 6 settembre 1982, n. 629), si veda in dottrina G. D’Angelo, Artt. 84-95 del D.lg. 6.9.2011, n. 159 (commento), in T. Epidendio - G. Varraso (a cura di), Codice delle confische, Milano 2018, pp. 1125 ss., e ancor prima in Id., La documentazione antimafia nel D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159: profili critici, in Urb. app., 3 (2013), p. 256. Si veda altresì R. Ursi, Certificazioni e normativa antimafia, in F. Fracchia - M. Occhiena, I sistemi di certificazionetra qualità e certezza, Milano 2006, p. 103.
[11] Cfr. art. 84, comma 2, del vigente Codice antimafia, ai sensi del quale «La comunicazione antimafia consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67». Sul rapporto tra gli istituti ma anche con riguardo alle censure sollevate si veda M. Mazzamuto, Profili di documentazione amministrativa antimafia, in Giustamm.it, 3 (2016).[12] Cfr. Cons. Stato, Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743, per il quale, «nella sostanza, l’interdittiva antimafia comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore – pur dotato di adeguati mezzi economici e di una adeguata organizzazione – meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a dire che risulti “affidabile”) e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche Amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge».
[13] Sulla temporaneità dell’efficacia delle informazioni interdittive si veda l’art. 86, comma 2, del Codice antimafia, secondo il quale «[l]’informazione antimafia […] ha una validità di dodici mesi dalla data dell’acquisizione, salvo che non ricorrano le modificazioni di cui al comma 3». Si consideri, però, che per pacifica giurisprudenza il termine annuale disciplinato dall’art. 86, comma 2, riguarderebbe piuttosto gli obblighi di acquisizione gravanti sui soggetti pubblici (Cons. Stato, Sez. III, 5 ottobre 2016, n. 4121). Ne consegue che l’efficacia dell’informazione antimafia interdittiva è ultrattiva e permane fintanto che il Prefetto, in esito al procedimento di aggiornamento disciplinato dall’art. 91, comma 5, non adotti una nuova informazione liberatoria attestando il venir meno «delle circostanze rilevanti ai fini dell’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa». Il che avviene di rado. Sul tema si veda la successiva nota 50 nonché più diffusamente G. D’Angelo, Artt. 84-95 del D.lg. 6.9.2011, n. 159 (commento), cit., pp. 1147 ss.[14] Circa l’incapacità derivante dall’adozione dell’informazione antimafia interdittiva si veda Cons. Stato, Sez. IV, 20 luglio 2016, n. 3247, e più recentemente Cons. Stato, Ad. Plenaria, 6 aprile 2018, n. 3, secondo cui l’interdittiva antimafia «determina una particolare forma di incapacità giuridica, e dunque la insuscettività del soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che determinino (sul proprio cd. lato esterno) rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione (Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2016 n. 3247). Si tratta di una incapacità giuridica prevista dalla legge a garanzia di valori costituzionalmente garantiti e conseguente all’adozione di un provvedimento adottato all’esito di un procedimento normativamente tipizzato e nei confronti del quale vi è previsione delle indispensabili garanzie di tutela giurisdizionale del soggetto di esso destinatario. Essa è: - parziale, in quanto limitata ai rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione, ed anche nei confronti di questa limitatamente a quelli di natura contrattuale, ovvero intercorrenti con esercizio di poteri provvedimentali, e comunque ai precisi casi espressamente indicati dalla legge (art. 67 d. lgs. n. 159/2011); - tendenzialmente temporanea, potendo venire meno per il tramite di un successivo provvedimento dell’autorità amministrativa competente (il Prefetto)». Per un commento alla sentenza si veda G. D’Angelo, Sull’informazione interdittiva antimafia, in Foro it., 6 (2018), p. 321.
[15] Nonostante le informazioni antimafia siano sorte per interdire i rapporti tra l’operatore e la pubblica amministrazione, nel tempo l’interdittiva è diventata ostativa anche alla titolarità di altre autorizzazioni pubbliche, ciò che esclude ogni possibilità di svolgere certe attività economiche pure verso i privati. Sul punto cfr. Cons. Stato, Sez. III, 27 settembre 2018, n. 5547, secondo cui «“La prevenzione contro l’inquinamento dell’economia legale ad opera della mafia ha costituito e costituisce, tuttora, una priorità per la legislazione del settore” (sentenza 8 marzo 2017, 1109). Tale priorità di lotta alla infiltrazione della criminalità organizzata nelle attività economiche ha, peraltro, giustificato la scelta del legislatore di non riconoscere dignità e statuto di operatori economici, non soltanto nei rapporti con la pubblica amministrazione, a soggetti condizionati, controllati, infiltrati ed eterodiretti dalle associazioni mafiose».
[16] Con riguardo a questo ampliamento di finalità si veda in senso critico F.G. Scoca, Le interditive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in Giustamm.it, 6 (2018), p. 6, secondo il quale «[a]nche rispetto alle finalità delle interdittive si nota una evoluzione nella giurisprudenza: viene nettamente superata la ratio della legge» giacché «non c’è alcun necessario collegamento tra la lotta alla mafia, da un lato, e la salvaguardia dell’ordine economico e della concorrenza, dall’altro: può esserci e non esserci, a seconda dei fatti che volta a volta giustificano la interdittiva».
[17] Circa i differenti orientamenti emersi con riguardo alla fattispecie del tentativo di infiltrazione si veda l’esaustiva ricostruzione di G. D’Angelo, Artt. 84-95 del D.lg. 6.9.2011, n. 159 (commento), cit., spec. pp. 1144 ss., il quale segnala che «[s]econdo un primo orientamento l’infiltrazione mafiosa dovrebbe essere l’oggetto dell’accertamento a cura del Prefetto, che deve motivare, in base agli elementi da prendere in considerazione, in ordine al fatto che il tentativo (di infiltrazione) abbia avuto, presumibilmente, esito positivo. Il tentativo di infiltrazione che non ha avuto successo dovrebbe essere valutato come irrilevante […]. Secondo un altro orientamento, invece, deve escludersi la necessità di “provare” l’avvenuto successo del tentativo di infiltrazione, in ragione della natura cautelare della misura disposta dal Prefetto […] ai fini cautelari, “il venir meno dell’estraneità (in senso obiettivo) dell’impresa è un inevitabile corollario della consistenza degli indizi che acclarano, anche solo in termini di pericolo, il tentativo di infiltrazione». Il tema è delicato, giacché «pone inevitabilmente la questione circa il bilanciamento di contrapposti interessi in gioco, quello della prevenzione dei fenomeni criminali da un lato, quello della libertà economica dall’altro, che il nostro legislatore non sempre delinea in modo chiaro» (idem). Secondo l’Autore una soluzione ai problemi emersi potrebbe essere di tipo ermeneutico, considerando «irrilevante il tentativo qualora l’impresa abbia “superato” il tentativo stesso, cioè dimostri di avere avuto consapevolezza del tentativo e di avere messo in atto gli strumenti idonei a sterilizzare l’infiltrazione in un periodo antecedente all’istruttoria prefettizia (in una logica simile a quella sottesa all’art. 32, c. 10, d.l. n. 90/2014, per la diversa ipotesi in cui l’informazione interdittiva sia stata già adottata […]. Un altro contemperamento potrebbe consistere nell’escludere in radice il tentativo di infiltrazione se gli indizi non siano connessi con l’attività imprenditoriale o comunque ad essa riferibili (nel senso che il solo rapporto di parentela e di frequentazione dell’amministratore della società con un soggetto appartenente alla criminalità organizzata non costituisce di per sé un presupposto sufficiente per l’adozione di un’informazione interdittiva, ma deve essere supportato da ulteriori elementi indiziari, quali il carattere plurimo e stabile di dette frequentazioni e la loro connessione con le vicende dell’impresa, che depongano nel senso di un’attività funzionale a logiche e a interessi malavitosi v. CSt. III, n. 203/15 e n. 96/13)» (pp. 1144-1145).
[18] Cons. Stato, Sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758, ove si prosegue evidenziando che «[i]l pericolo – anche quello di infiltrazione mafiosa – è per definizione la probabilità di un evento. Il diritto amministrativo della prevenzione antimafia in questa materia non sanziona perciò fatti, penalmente rilevanti, né reprime condotte illecite, ma mira a scongiurare una minaccia per la sicurezza pubblica, l’infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale, e la probabilità che siffatto “evento” si realizzi» (§§ 6.5. e 6.6).
[19] Diverso è il caso in cui il pericolo sia ricavabile da fatti riguardanti il medesimo centro di interessi, come in alcune fattispecie scrutinate anche di recente; in tal senso si veda, ad esempio, Cons. Stato, Sez. III, 8 febbraio 2019, n. 950.
[20] Sulla natura discrezionale dei poteri prefettizi si veda l’opinione critica di F.G. Scoca, Razionalità e costituzionalità della documentazione antimafia in materia di appalti pubblici, in Giustamm.it, 6 (2013), e da ultimo in Le interdittive antimafia,cit.. Sul tema cfr. recentemente G. D’Angelo, Artt. 84-95 del D.lg. 6.9.2011, n. 159 (commento), cit., il quale, segnalando che «la giurisprudenza amministrativa è ferma nel considerare la valutazione del prefetto “espressione di ampia discrezionalità” (CSt. III, n. 3208/14; in termini di ampio, ma non indeterminato, potere discrezionale v. CSt. III, n. 1109/17), anche se sembra ricondurre (non senza incertezze e ambiguità) le informazioni antimafia a valutazioni di ordine tecnico» (p. 1151), ha altresì evidenziato come simili posizioni non sarebbero condivisibili «in quanto attenuano il sindacato giurisdizionale in modo significativo, fino al punto da essere incompatibile con i principi costituzionali sulla tutela».
[21] Cons. Stato, Sez. III, 7 gennaio 2019, n. 163. Sul tema cfr. anche G. Sigismondi, Il sindacato sulle valutazioni tecniche nella pratica delle Corti, in Riv. trim. dir. pubbl., 2 (2015), p. 705, il quale, riflettendo sul sindacato giurisdizionale in materia di interdittive, ha evidenziato «un’ambiguità di fondo nella qualificazione della fattispecie – che resta sospesa tra discrezionalità amministrativa (evocata anche dal riferimento all’esistenza di vizi della funzione amministrativa) e valutazioni tecniche riservate – e, conseguentemente, nell’individuazione delle ragioni dell’esistenza di una riserva di valutazione a favore della prefettura, mentre a condizionare i limiti al sindacato sembrano essere soprattutto le esigenze di anticipazione della soglia di difesa sociale, spesso richiamate per giustificare la sufficienza di un quadro di rilevanza probatoria prevalentemente indiziario e meno rigoroso di quello richiesto in materia penale» (p. 721).
[22] Il che imprime all’esercizio delle attività imprenditoriali un notevole tasso di incertezza e perciò di rischio, oltre che costi aggiuntivi per adempiere agli obblighi legali. Sul tema si veda M. Mazzamuto, Lo scettro alla prefettocrazia: l’indefinità pervasività del sottosistema antimafia delle grandi opere e il caso emblematico della “filiera”, in Dir. econ., 3 (2013), p. 619, il quale ha evidenziato il bisogno di certezza che caratterizza il sistema della prevenzione antimafia.
[23] Dove è pure precisato che «[u]no dei requisiti derivanti dall’espressione “prevista dalla legge” è la prevedibilità. Pertanto, una norma non può essere considerata una “legge” se non è formulata con sufficiente precisione in modo da consentire ai cittadini di regolare la loro condotta; essi devono essere in grado di prevedere, a un livello ragionevole nelle specifiche circostanze, le conseguenze che un determinato atto può comportare». Con riguardo alla rilevanza della sentenza in questione sul sistema delle informazioni antimafia cfr. G. Amarelli, L’onda lunga della sentenza De Tommaso: ore contate per l’interdittiva antimafia ‘generica’ ex art. 84, co. 4, lett. d) ed e), d. lgs. n. 159/2011?, in Dir. Pen. Cont., 2017.
[24] Secondo N. Gullo, Emergenza criminale e diritto amministrativo, cit., p. 113, «l’immediata reazione delle corti di merito [alla sentenza De Tommaso, ndr]è stata caratterizzata dalla tendenza a ridimensionare la rilevanza della sentenza della Corte di Strasburgo, sottolineando come non si possa attribuirle il carattere di “giurisprudenza consolidata” dei principi di diritto». Lo stesso Autore ha pure evidenziato che l’impatto della sentenza «sul modello italiano è ancora tutto da valutare, tenuto conto, tra l’altro, che dalla Corte di appello di Napoli è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale della disciplina delle misure di prevenzione (personali e patrimoniali) fondate sulle fattispecie di pericolosità ‘generica’, di cui all’art. 1, lett. a) e b) del d.lgs. n. 159/2011 (c.d. codice antimafia), per contrasto con l’art. 117 co. 1 Cost., in relazione all’art. 2 Prot. 4 CEDU, per ciò che concerne le misure di prevenzione personali, e all’art. 1 Prot. add. CEDU, per ciò che riguarda la misura di prevenzione patrimoniale della confisca».
[25] Cons. Stato, Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743. La sentenza prosegue evidenziando che «[q]uello voluto dal legislatore, ben consapevole di questo, è dunque un catalogo aperto di situazioni sintomatiche del condizionamento mafioso». Sul punto il Consiglio di Stato recentemente ha pure precisato che «una rigorosa, tassativa, asfissiante tipizzazione di tipo casistico, che elenchi un numerus clausus di situazioni “sintomatiche”[…]ove pure sia auspicabile, in abstracto, sul piano della certezza del diritto e della prevedibilità delle condotte anche in materia di prevenzione antimafia, frustrerebbe nel suo «fattore di rigidità», per usare un’espressione dottrinaria, la ratio che ispira il diritto della prevenzione, il quale deve affidarsi anche, e necessariamente, a “clausole generali”, come quelle del tentativo di infiltrazione mafiosa, e alla valutazione di situazioni concrete, non definibili a priori, spesso ancora ignote alle stesse forze di polizia prima ancora che alla più avanzata legislazione, attraverso le quali la mafia opera e si traveste, in forme nuove e cangianti, per condizionare le scelte imprenditoriali» (30 gennaio 2019, n. 758).
[26] Cons. Stato, Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743, spec. § 5.10 ss.
[27] T.a.r. Campania, Napoli, Sez. I, 14 febbraio 2018, n. 1017.
[28] Secondo la sentenza del T.a.r. partenopeo «l’informativa interdittiva antimafia è oggettivamente insuscettibile di comprimere la menzionata libertà fondamentale di circolazione né – a dispetto degli assunti di parte ricorrente – il menzionato diritto fondamentale di proprietà, (parzialmente) incidendo, piuttosto, sulla libertà di iniziativa economica, la quale non trova, però, specifica tutela nella CEDU, mentre è contemplata dall’art. 41 Cost. 11.4. Ciò posto, osserva, a questo punto, il Collegio che la formula ‘elastica’ adottata dal legislatore nel disciplinare l’informativa interdittiva antimafia su base indiziaria riviene dalla ragionevole ponderazione tra l’interesse privato al libero esercizio dell’attività imprenditoriale e l’interesse pubblico alla salvaguardia del sistema socio-economico dagli inquinamenti mafiosi, dove il primo, siccome non specificamente tutelato dalla CEDU né riconducibile alla sfera dei diritti costituzionali inviolabili, si rivela recessivo rispetto al secondo, siccome collegato alle preminenti esigenze di difesa dell’ordinamento contro l’azione antagonistica della criminalità organizzata». Al riguardo cfr. G. Corso, La normativa antimafia, in M.A. Sandulli - R. De Nictolis - R. Garofoli(diretto da), Trattato sui contratti pubblici, 5a, Milano 2008, p. 3425, il quale, dopo aver ricostruito il fondamento comunitario della disciplina che vieta l’aggiudicazione delle commesse pubbliche agli operatori economici legati alla criminalità organizzata, nel segnalare la maggior severità della disciplina italiana, ha evidenziato che «[n]on si può tuttavia ipotizzare un contrasto tra il diritto interno e la direttiva dal momento che le ragioni sottostanti alla normativa antimafia, nella parte relativa ai contratti pubblici sono riconducibili a quei motivi di ordine pubblico e pubblica sicurezza che, ai sensi dell’art. 46 del Trattato (in combinato disposto con l’art. 55), giustificano i divieti o le restrizioni alla libera circolazione dei servizi» (p. 3427).
[29] Ciò può non avvenire (con conseguenti profili di disparità) quando si tratti di realtà economiche abbastanza grandi da sollecitare l’adozione delle misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio disciplinate dall’art. 32 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90, applicabili anche alle imprese destinatarie di informazioni antimafia interdittive ai sensi del comma 10 dello stesso articolo 32, quando «sussista l’urgente necessità di assicurare il completamento dell’esecuzione del contratto ovvero dell’accordo contrattuale, ovvero la sua prosecuzione al fine di garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, nonché per la salvaguardia dei livelli occupazionali o dell’integrità dei bilanci pubblici, ancorché ricorrano i presupposti di cui all’articolo 94, comma 3, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. In tal caso, le misure sono disposte di propria iniziativa dal Prefetto che ne informa il Presidente dell’ANAC». Con riguardo al rapporto tra interdittive antimafia e commissariamento si veda F. Astone, Interdittive antimafia e “commissariamento” delle imprese (avuto riguardo al settore degli appalti pubblici), in Giustamm.it, 7 (2018), per il quale «[i]l salto qualitativo che viene compiuto con queste previsioni è notevole, specialmente ove si consideri che i provvedimenti restrittivi di cui si vuole sottolineare la singolarità, sono disposti ante e praeter delictum, sulla base di un quadro probatorio di consistenza inferiore rispetto a quanto necessario per ottenere una condanna in sede penale. Le nuove misure straordinarie previste all’art. 32 del d. l. 90/2014, intendono evitare il rischio che, da un lato, le indagini penali ostacolino il conseguimento da parte della p.a. dell’utilità connessa al contratto, dall’altro, che la necessità di portarlo comunque ad esecuzione consenta a chi ne abbia ottenuto contra legem l’aggiudicazione di conseguirne pure il profitto». Circa la complessità degli interessi pubblici adesso coinvolti cfr. anche M. Mazzamuto, Le interdittive prefettizie tra prevenzione antimafia e salvataggio delle imprese, cit., pp. 2222 ss..
[30] Cfr. a titolo esemplificativo quanto è adesso previsto in tema di autotrasporto di cose per conto terzi (una delle attività che la legge presume maggiormente a rischio di infiltrazione ex art. 91, comma 7, del Codice antimafia) dall’art. 5 del d.lgs. 22 dicembre 2000, n. 395 (come modificato dall’art. 29-bis della legge 11 novembre 2014, n. 164). Nel disciplinare il necessario requisito dell’onorabilità, infatti, la norma dispone che il requisito non esiste o cessa di sussistere in capo alla persona che «h-bis) sia stata oggetto di un’informativa antimafia interdittiva ai sensi dell’articolo 91 del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, e successive modificazioni». Dal che consegue che gli effetti dell’informazione vanno ben al di là del già grave “ergastolo imprenditoriale” evidenziato dalla dottrina (tra gli altri M. Mazzamuto, Profili di documentazione amministrativa antimafia, cit.).
[31] D’altra parte quelle in esame non sono le uniche misure a carico degli operatori economici che siano venuti in contatto – da vittime – con la criminalità organizzata. Al riguardo si consideri che l’art. 80, comma 5, lett. l), del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), prevede l’esclusione dalle commesse pubbliche per quanti omettano di denunciare taluni reati tra cui le estorsioni aggravate, ex art. 416-bis.1c.p., dal metodo mafioso. Si badi che anche in quel caso il livello di garanzie per l’impresa è ridotto, giacché la legge prevede che la comunicazione all’Anac dell’omessa denuncia (ai fini della pubblicazione sul sito dell’Osservatorio) avvenga non all’esito del processo penale a carico dell’estorsore, ma già al momento della richiesta di rinvio a giudizio, dunque su basi indiziarie.
[32] Cfr. Cass. Civ., Sez. lav., 8 giugno 2016, n. 11734, secondo cui «la ditta individuale coincide con la persona fisica titolare di essa e perciò non costituisce un soggetto giuridico autonomo, sia sotto l’aspetto sostanziale che sotto quello processuale».
[33] Non a caso si parla di “contagio” nelle ipotesi in cui il rischio di infiltrazione sia ravvisato nell’esistenza di rapporti commerciali con imprese poi colpite da interdittive. In senso critico verso simili criteri valutativi cfr. F.G. Scoca, Le interdittive antimafia, cit., p. 4. Sulla questione delle c.d. informazioni antimafia a cascata, ossia fondate «soltanto su legami associativi stabili tra l’impresa destinataria dell’informazione e quella gravata da un’informazione precedente», cfr. G. D’Angelo, Artt. 84-95 del D.lg. 6.9.2011, n. 159 (commento), cit., p. 1145, il quale, tra l’altro, ha evidenziato che per la giurisprudenza amministrativa la «“consapevolezza del rischio” in capo all’impresa ritenuta “contagiata”, che secondo una certa prospettiva dovrebbe essere accertata e valutata con rigore perché possa operare la presunzione del “contagio mafioso” tra imprese […], non può comunque essere equiparata alla (sola) conoscenza del provvedimento interdittivo del Prefetto, in quanto “è evidente che nessuna impresa capace di orientare razionalmente le proprie decisioni economiche e strategiche deciderebbe mai di associarsi ad altra già attinta da informativa antimafia”»; diversamente «“il requisito della consapevolezza, per avere una qualche significativa rilevanza, deve piuttosto esse ricercato e verificato nei comportamenti e nelle strategie associative che precedono l’informativa” (CSt. III, 214/17, che peraltro ha respinto la domanda di revocazione di CSt. III, n. 2774/16, cit.)».
Al riguardo è significativo evidenziare che nell’attività di contrasto a ogni possibile forma di infiltrazione, la giurisprudenza neppure riconosce rilevanza al fatto che l’impresa poi interdetta sia stata in precedenza oggetto di informazione favorevole o finanche iscritta nell’elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa, operanti nei settori esposti maggiormente a rischio di cui alla l. 6 novembre 2012, n. 190 (c.d. “White List”). Ne discende che, al di là delle attività di accertamento svolte dalle Autorità pubbliche, il rischio legato alla scelta dei soggetti con cui avviare forme di collaborazione economica resta interamente a carico delle imprese.
[34] Ciò fermo restando che il singolo indizio andrà considerato in maniera non atomistica ma unitamente agli altri elementi «cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri» (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. III, 20 febbraio 2019, n. 1182).
[35] Cfr. T.a.r. Campania, Napoli, Sez. I, 14 febbraio 2018, n. 1017, il quale, al fine di preservare le informazioni antimafia dagli effetti della sentenza De Tommaso, dopo aver osservato che quella pronuncia «si riferisce alle sole misure di prevenzione personali (in ipotesi di c.d. pericolosità generica), limitative, come tali, della libertà fondamentale di circolazione di cui all’art. 2 del Protocollo IV alla CEDU, mentre non considera le misure di prevenzione patrimoniali, limitative del diritto fondamentale di proprietà di cui all’art. 1 del Protocollo addizionale 1 alla CEDU», precisa pure che «[è] altrettanto evidente, poi, che le misure di prevenzione personali vagliate
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