fbevnts The protection in rem and the iudicium in factum against the seller

La tutela in rem e il iudicium in factum contro il venditore

28.02.2020

Gianpiero Mancinetti

Ricercatore di diritto romano e diritti dell’antichità, Università degli Studi di Roma Tor Vergata

La tutela in rem e il iudicium in factum contro il venditore*

           

English title: The protection in rem and the iudicium in factum against the seller

DOI: 10.26350/18277942_000005

 

Sommario: 1. La dottrina sulla proprietà provinciale: Gai.2.7 e la posizione della letterarura sull’operis novi nuntiatio — 2. La testimonianza di Cicerone, Verr. 2.2.12.31 — 3. L’argomentazione gaiana dell’ad edictum provinciale: D.4.7.3.3— 4. La responsabilità dell’acquirente nell’operis novi nuntiatio in Giavoleno e Paolo — 5. Conclusioni

 

  1. La dottrina sulla proprietà provinciale: Gai.2.7 e la posizione della letteratura sull’operis novi nuntiatio

 

È noto che la dottrina concernente la struttura della proprietà provinciale abbia discusso tradizionalmente una duplice polarizzazione concettuale. Da un lato quella che aveva impegnato la dottrina più risalente incentrata sulla contrapposizione tra stipendium e tributum[1]; dall’altro invece quella ulteriore tra possessio e ususfructus[2].

Rispetto alla prima dicotomia si era affermato che le Istituzioni farebbero discendere la duplicità di imposte, quali rendita fondiaria, dalla duplicità delle sfere patrimoniali riconducibili al popolo e al principe[3].

Relativamente alla seconda invece si è sostenuto che le espressioni gaiane le quali riecheggerebbero formule risalenti farebbero riferimento a schemi peculiari. Questi esprimerebbero la spettanza di una dominazione della cosa che coesiste con la proprietà altrui e che però nel riferimento contenutistico andrebbero intesi con molta elasticità[4].

Sebbene tali interpretazioni delle due coppie concettuali siano state messe in discussione con argomenti del tutto stringenti, osservando per la prima la rilevanza degli agri divisi et adsignati e per la seconda la sua natura descrittiva piuttosto che tecnica[5], rimane tuttavia la riconosciuta autenticità delle qualificazioni gaiane. Anzitutto quella fondamentale contenuta in Gai.2.7[6] che riferisce della possessio vel ususfructus correlata al dominium populi Romani vel Caesaris, oltreché la contrapposizione tra tributum e stipendium rilevata da ulteriori fonti[7].

Rispetto allo stato attuale del dibattito[8] e ferme le qualificazioni gaiane, un contributo fondamentale al chiarimento dei profili di autonomia della proprietà provinciale parrebbe poter essere fornito non soltanto dallo stesso Gaio delle Istituzioni. Esso sembrerebbe determinato al contrario proprio dalla prospettiva della tutela in ordine alla medesima proprietà modellata su quella quiritaria quale testimoniata da altre fonti.

Infatti le qualificazioni e la disciplina introdotta a proposito della tutela quiritaria in factum di denuncia di nuova opera nell’ad edictum provinciale non solo sembrano coinvolgere le parti rinvenibili nella stessa proprietà provinciale. Viceversa risultano implicare anche un peculiare obiettivo di tutela perseguito dal giudizio petitorio predisposto dal governatore nonché la divergenza medesima dal giudizio civile. In tal modo la contrapposizione gaiana lascia emergere la specificità di una regolamentazione che risalta rispetto a quella civilistica incentrata sul principio della tutela del ius domini aut servitutis[9]. Questa, com’è noto, si estrinsecherebbe nell’intimazione rivolta al vicino di non compiere una data opera lesiva del diritto del proprietario[10], fino alla configurazione delle sole immissioni dannose[11] ed attraverso la predispozione di reciproci mezzi di tutela a fronte dell’interdictum demolitorium.

 Pertanto le caratteristiche della tutela evocata da Gaio appaiono dischiudere una prospettiva ulteriore. Ed essa risulta determinante per la giusta valutazione di una fattispecie osservata spesso solo in ragione dei suoi profili sostanziali e non invece dal punto di vista delle peculiarità della tutela predisposta fin dalle origini dallo stesso governatore. Così proprio da quest’ultima appare più opportuno iniziare.

 

  1. La testimonianza di Cicerone, Verr. 2.2.12.31

 

Nel frammento delle verrine dell’actio secunda, all’interno del secondo libro, Cicerone riporta il testo della formula di un giudizio petitorio. Questo risulta del tutto peculiare ed ha fatto ampiamente discutere la dottrina romanistica. Tuttavia tale particolarità appare configurare la costruzione del tipo di iudicium concesso dal governatore al momento della promulgazione del suo editto all’inizio dell’assunzione della propria carica per il governo della provincia

 

Cicerone, Verr. 2.2.12.31: dubium nemini est quin omnes omnium pecuniae positae sint in eorum potestate qui iudicia dant, et eorum qui iudicant, quin nemo vestrum possit aedis suas, nemo fundum, nemo bona patria obtinere, si, cum haec a quopiam [vestrum] petita sint, praetor improbus, cui nemo intercedere possit, det quem velit iudicem, iudex nequam et levis quod praetor iusserit iudicet. [31] Si vero illud quoque accedit, ut praetor in ea verba iudicium det ut vel L. Octavius Balbus iudex, homo et iuris et offici peritissimus, non possit aliter iudicare, — si iudicium sit eius modi: L. Octavius iudex esto. Si paret fundum Capenatem, quo de agitur, ex iure Quiritium P. Servili esse, neque is fundus Q. Catulo restituetur, non necesse erit L. Octavio iudici cogere P. Servilium Q. Catulo fundum restituere, aut condemnare eum quem non oporteat? Eius modi totum ius praetorium, omnis res iudiciaria fuit in Sicilia per triennium Verre praetore. Decreta eius modi, si non accipit quod te debere dicis, accuses; si petit, ducas: C. Fuficium duci iussit petitorem, L. Suettium, L. Racilium. Iudicia eius modi: qui cives Romani erant, si Siculi essent, cum Siculos eorum legibus dari oporteret, qui Siculi, si cives Romani essent. [32] Verum ut totum genus amplectamini iudiciorum, prius iura Siculorum, deinde istius instituta cognoscite. 

 

Non c’è nessuno che abbia dei dubbi ― afferma l’oratore ― sul fatto per cui tutti gli averi siano nelle mani di coloro che accordano la facoltà di avviare un’azione giudiziaria e di coloro che sono chiamati a giudicare. E non vi sono dubbi che nessuno di voi, cioè, potrebbe conservare la proprietà della propria casa, di un fondo e dei beni avuti nel caso in cui qualcuno gli contestasse in giudizio la legittimità del possesso, un pretore disonesto gli assegnasse, senza possibilità di fare opposizione, il giudice desiderato e un giudice furfante e vile emettesse la sentenza conformemente alla volontà del pretore. Se poi si aggiunge anche il fatto che un pretore conceda l’azione giudiziaria con una formula tale che perfino L. Ottavio Balbo, chiamato a giudicare, non potrebbe ― lui che è pure giurista così esperto e un uomo così attaccato ai suoi doveri ― discostarsi nella sua sentenza dalla formula. Ciò accade qualora cioè la formula sia del seguente tenore: ‘sia giudice L. Ottavio. Se risulta evidente che il fondo di Capena, che è l’oggetto del giudizio, appartiene in base al diritto romano a P. Servilio, e non sarà restituito a Q. Catulo…’, non dovrà il giudice L. Ottavio costringere P. Servilio a restituire il fondo a Q. Catulo, oppure condannare chi non dovrebbe? Ecco come sono state tutte quante le norme emanate dal governatore, ecco come s’è svolta ogni azione giudiziaria in Sicilia durante il triennio della propretura di Verre, afferma Cicerone. Ecco un esempio dei suoi decreti: ‘se non accetta quanto tu affermi di dovergli, accusalo; se reclama, fallo incarcerare’: e fece incarcerare G. Fuficio, che reclamava in giudizio il suo, L. Suettio e L. Racilio. Ecco le sue giurie: formate da cittadini romani, se i contendenti erano Siculi ― le loro leggi le volevano invece formate da Siculi ―; da Siculi, se i contendenti erano cittadini romani. Ma perché possiate rendervi conto dell’amministrazione della giustizia nel suo complesso, continua l’oratore, voglio prima farvi conoscere le norme di diritto vigenti in Sicilia e poi le disposizioni emanate da Verre. In tal modo Cicerone enuncia altresì la sussistenza di una sovrapposizione normativa che si sarebbe comunque determinata in tal caso[12].

Una consolidata tradizione interpretativa in letteratura ha per tempo evidenziato l’omogeneità della formula delle verrine proposta ai recuperatores. Essa si è contraddistinta però per aver sottolineato come da un lato questa avrebbe costituito il prototipo di quella adottata dal pretore urbano in epoca postebuzia[13], dall’altro invece come il modello ciceroniano fosse proprio quello svolto davanti al iudex privatus[14]. E quest’ultima considerazione che giungeva a configurare nella formula descritta il caso di un iudicium legitimum basava la sua argomentazione sul rilievo per cui P. Servilius e Q. Catulus fossero nomi affatto romani, nonché sull’essere oggetto della supposta vindicatio il fondo Capenate[15]. Oltretutto pertanto, in assenza di una possibilità di intercessio contro il governatore il quale imponeva una litiscontestatio su siffatta formula, avrebbe integrato un esempio il quale sarebbe stato più prossimo e accessibile agli ascoltatori romani[16].

In questa prospettiva, fin da epoca piuttosto risalente, da un lato è stato evidenziato lo scetticismo sulla struttura della formula. Infatti si è ritenuto che poiché i giudizi esaminati da Cicerone erano tutti giudizi celebrati davanti ai recuperatores, in quanto, mancando l’accordo fra le parti sul nome del giudice, essi sarebbero stati scelti “sistematicamente entro quella cohors latronum” di Verre. Pertanto si è affermato come “ne vien di conseguenza che in questo procedimento mancava la formula, ma era il magistrato a trasmettere ai recuperatores una istruzione”[17], ovvero “un ordine di servizio”[18]. In relazione a questo L. Ottavio comunque avrebbe dovuto costringere o a restituere fundum ovvero a condannare a pagare a Q. Catulo il quanti ea res est. E non è stata nemmeno omessa la considerazione in ragione della quale Cicerone avrebbe stigmatizzato la mancanza di un controllo sull’attività giurisdizionale del governatore e sui poteri che ne conseguono in ordine al patrimonio dei provinciali, alla nomina dei giudici, ai mezzi di tutela. Ciò è accaduto fino ad affermare che “… così ha amministrato la giustizia Verre, manipolando arbitrariamente decreta e iudicia[19].

Connessa a tale critica d’altro lato, si prospetta la valutazione negativa circa il ricorso ciceroniano alla fictio civitatis cui la formula stessa avrebbe fatto riferimento. Infatti Cicerone avrebbe contestato al governatore non tanto il richiamo della fictio[20], poiché egli avrebbe tenuto presenti fattispecie in cui le parti fossero di diversa nazionalità, quanto piuttosto la costituzione dei processi[21]. In sostanza la formula, pur non ricomprendendo una fictio, avrebbe portato a conclusioni processuali identiche a quelle conseguenti proprio alla fictio[22] nel caso in cui, in violazione della lex Rupilia, il giudice prescelto fosse costretto ad applicare un diritto sostanziale diverso da quello del convenuto.

A conclusioni viceversa più drastiche si è giunti allorché si è affermato che Cicerone sembrerebbe alludere a giudizi tra attori e convenuti romani ovvero entrambi siculi, allorché la fictio civitatis avrebbe riguardato controversie tra un romano e un peregrino[23]. Così la critica ciceroniana al governatore avrebbe coinvolto la concessione di azioni fondate su leggi sicule, qualora le parti del processo fossero state romane ovvero al contrario il conferimento di azioni fondate sul diritto romano in presenza di parti sicule[24]. Ma non si sarebbe affatto trattato di qualsivoglia riferimento alla concessione di azioni contenenti la fictio civitatis[25]. E di recente è stato evidenziato come il discorso ciceroniano sarebbe solo allusivo a formule giudiziali, tuttavia manipolate al punto tale da parte del governatore, anche tramite adattamenti simili a quelli richiesti dalla fictio civitatis, “ma in assenza di condizioni giustificative”[26]. Pertanto il discorso dovrebbe riferirsi alla datio dei iudicia intesi quali ‘organi giudicanti’[27]. Così nella critica ai verba dovrebbe ravvedersi una contestazione del loro contenuto arbitrario[28], fino allo stravolgimento di una formula petitoria[29], ovvero fino a sancirne la scorrettezza con l’indicare nella clausola restitutoria persona diversa rispetto all’attore[30].

Dall’altro lato invece rileva la posizione di quella letteratura che accoglie come autentica l’attestazione ciceroniana. Questa si è caratterizzata per aver ritenuto come “dalle Verrine risulta che formule con finzione di cittadinanza venivano concesse dai governatori delle provincie in liti fra romani e provinciali”. Ciò sarebbe accaduto allo scopo di rispondere alla necessità di non sottrarre un cittadino all’ordinamento giuridico naturale quando si procedeva al regolamento di fattispecie al di fuori del ius gentium[31].

Delle differenti interpretazioni offerte dunque appare necessario acclarare quale fosse quella più conforme alla reale portata del discorso ciceroniano. E ciò è possibile già verificando l’effettiva efficacia euristica degli argomenti che sono stati addotti nella letteratura considerata.

Anzitutto rispetto alla doppia e contrastante ipotesi che è stata avanzata circa l’opportunità di valutare il testo della formula riportato da Cicerone quale prototipo di quello che solo successivamente sarebbe stato assunto dal pretore urbano per la tutela del diritto assoluto[32], ovvero all’inverso quale testo tratto proprio dalla formula già adottata dallo stesso pretore urbano[33], appaiono elementi che ostacolano entrambe le illazioni. Da un lato infatti non si può non osservare che P. Servilius e Q. Catulus indicati nel testo della formula siano nomi senz’altro romani, così come il fondo Capenate oggetto della vindicatio[34]. Ma si tratta della configurazione idonea ad ottenere esecuzione e che sarebbe risultata tale una volta espletata positivamente l’attività demandata al giudice L. Ottavio. Dall’altro non può nemmeno essere sottovalutato come nel testo stesso della formula vengano espressamente riferiti soggetti diversi rispetto a colui che avanza la pretesa processuale e relativamente al soggetto poi proposto quale destinatario della restituzione del fondo ovvero del pagamento dell’aestimatio di questo[35], aspetto invero non configurabile in ambito civilistico.

Inoltre non sembra che il capriccio manipolatorio di Verre si spingesse fino al punto di voler soltanto designare giudici tratti dalla propria cohors, senza allegare alcuna formula a questi destinata, ovvero adducendo un mero ordine di servizio[36]. Infatti il discorso di Cicerone si svolge al contrario proprio indicando il testo di una formula redatta con tutti i criteri propri di quello tipico del ius civile: la nomina del giudice, la pronuntiatio de iure, il iussum de restituendo, la configurazione dell’aestimatio.

Infine non risulta plausibile la ripetuta affermazione, di recente riformulata in modo sempre più accentuato, per cui Cicerone non avesse fatto alcuna allusione alla fictio civitatis[37]. Ovvero, secondo una impostazione più risalente, vi si sarebbe riferito soltanto in modo indiretto al fine di contestare l’effetto processuale ottenuto nella costituzione dei giudizi, nel rendere cioè applicabile una norma sostanziale diversa da quella del convenuto[38]. L’oratore infatti afferma esplicitamente: iudicia eius modi: qui cives Romani erant, si Siculi essent, cum Siculos eorum legibus dari oporteret, qui Siculi, si cives Romani essent. Di fronte alla effettiva presenza di convenuti Siculi, attraverso l’uso tecnico e ripetuto del discorso condizionale proprio di tale struttura formulare, questi devono essere trattati alla stregua di cittadini romani. Il riferimento specifico relativo ai romani riguarda invero interamente la loro condizione di cives, la quale deve essere processualmente configurata rispetto a coloro che invece difettano di siffatta qualificazione giuridica.

Così non sembra possa essere sottovalutato che il modello della formula riprodotto da Cicerone, nella sua struttura sostanziale, parrebbe dovesse essere in buona approssimazione quello relativo al iudicium tenuto davanti ad un iudex privatus, anziché direttamente innanzi ai recuperatores. Infatti P. Servilius e Q. Catulus sono nomi senz’altro romani, così come il fondo Capenate oggetto della vindicatio[39]. Ma perdipiù, a livello dell’oportere stabilito nella litiscontestatio, oggetto del dovere del convenuto era senz’altro la restitutio del fondo. In modo particolare ci troviamo in relazione alla descrizione di una formula che riguardava l’appartenenza ex iure Quiritium di un fondo, in cui però si configura la restituzione di questo a persona diversa dall’attore: il fondo appartiene esclusivamente in base ad una procedura del diritto romano a P. Servilio, ma sarà restituito a Q. Catulo. E il giudice L. Ottavio dovrà costringere P. Servilio a restituire il fondo proprio a Q. Catulo, oppure condannare eum quem non oporteat: quindi chi non dovrebbe in caso di mancata restituzione a pagare a Q. Catulo il quanti ea res est. Pertanto il tenore della formula riportata non appare integrare soltanto un mero esempio precostituito ad uso dei romani uditori, come invece ritenuto[40]. I soggetti infatti su cui grava l’obbligo processuale di restitutio ovvero di pagamento dell’aestimatio sono individualmente determinati, così come sono espressamente circoscritti coloro che sono indicati come i destinatari della restitutio o del pagamento. Si tratta di P. Servilio e Q. Catulo. Come si vedrà il delegante concedente abilitato alla gestione dello sfruttamento dei fondi (nonché alla riscossione) e cui viene perciò demandata l’iniziativa processuale ― oltretutto in origine di certo Siculo (civitas, publicanus, autorità locale) ― ed il delegatario titolare: il che presuppone la sussistenza di un delegato concessionario.

Qualora si tenga presente la costruzione di schemi formulari analoghi a quello qui riprodotto, pertanto si evince con facile evidenza che la determinazione dei soggetti appare corrispondere, non tanto al capriccio inventivo di Verre quanto piuttosto ad una precisa scelta nella tecnica relativa alla costruzione della formula destinata ai giudici. Infatti sia nello schema del giudizio petitorio civile riprodotto da Lenel[41], sia nelle formulazioni ove Gaio attesta la cessione delle azioni a chi non sia concreto titolare del diritto in base all’effetto della fictio[42], ovvero in quelle in cui prevede la condanna ad una somma indeterminata, senza una limitazione[43], si può riscontrare viceversa l’assenza di tale precisazione.

Appare pertanto logico dedurre che l’indicazione espressa dei soggetti dovesse corrispondere ad una duplice operazione giuridica. Questa risulterebbe effettuata al fine di rendere operativa una disciplina sostanziale originariamente concepita in relazione a diritti vantati solo da romani ed ora invece estesi anche a coloro che non solo risultano privi della cittadinanza, bensì ai quali non è attribuito al contempo ugualmente l’esercizio del diritto.

Anzitutto il romano P. Servilio si trova a dover chiedere la restitutio ovvero il pagamento dell’aestimatio non verso se stesso bensì verso Q. Catulo. Ma tale richiesta che fonda la sua legittimazione ad aprire il processo anzitutto avrebbe dovuto essere fondata su una titolarità. Questa sarebbe concessa in via d’azione ed estesa tramite l’attribuzione di una finzione di cittadinanza, analogamente agli esempi visti in ambito urbano. Infatti la fattispecie iniziale descritta da Cicerone non lascia adito a incertezze. Non c’è nessuno che abbia dei dubbi sul fatto per cui tutti gli averi siano nelle mani di coloro che accordano la facoltà di avviare un’azione giudiziaria e di coloro che sono chiamati a giudicare, aveva detto l’oratore all’inizio del frammento. E non vi sono dubbi che nessuno di voi, cioè ― afferma ancora l’oratore ―, potrebbe conservare la proprietà della propria casa, di un fondo e dei beni avuti nel caso in cui qualcuno gli contestasse in giudizio la legittimità del possesso, un pretore disonesto gli assegnasse, senza possibilità di fare opposizione, il giudice desiderato e un giudice furfante e vile emettesse la sentenza conformemente alla volontà del pretore. Il diritto contestato al convenuto pertanto è un “diritto di proprietà avuto”; la contestazione dell’attore invece avrebbe potuto riguardare la legittimità viceversa del possesso esercitato; il giudice assegnato non avrebbe potuto essere controverso non solo ove non vi fosse stato accordo delle parti. Non soltanto per quest’ultimo aspetto invero l’intervento del governatore avrebbe potuto discostarsi dalle previsioni della lex Rupilia. Infatti anzitutto certamente le sue giurie sarebbero state formate da cittadini romani, se i contendenti fossero Siculi ― le loro leggi invece le volevano viceversa formate da Siculi ―; da Siculi, se i contendenti fossero cittadini romani. Ma a differenza di quanto osservato per cui la lex Rupilia avrebbe contenuto disposizioni di ordine processuale e non sostanziale[44], essa avrebbe implicato anche l’applicazione di norme sostanziali[45] e senz’altro riguardanti oltreché controversie tra cittadini, tra Siculi non eiusdem civitatis, oppure tra un privato e il popolo[46].

Il principio generale affermato dalla lex Rupilia per cui avrebbe dovuto essere concesso il giudice della nazionalità propria del convenuto, avrebbe potuto essere derogato perdipiù ove la formula avesse contenuto una fictio civitatis, come affermato nella parte finale del frammento delle verrine 2.2.12.31 e come ritenuto da parte della dottrina[47]. I iudicia complessivamente considerati e non soltanto a livello dei collegi giudicanti sarebbero stati costituiti secondo il diritto dei romani considerando i Siculi sia eiusdem civitatis sia non alla stregua di cittadini romani, ovvero configurando giudici siculi qualora fossero in causa cittadini romani:iudicia eius modi: qui cives Romani erant, si Siculi essent, cum Siculos eorum legibus dari oporteret, qui Siculi, si cives Romani essent. A favore del fatto che si tratti infatti di una deroga a quanto dispostoin Verr. 2.2.13.32 sembrano deporre diversi elementi. Anzitutto emerge il rilievo testuale per cui soltanto per i Romani si fa riferimento nel caso espressamente allo status civitatis (qui cives Romani, … si cives Romani), mentre analoga indicazione è assente per quanto riguarda i Siculi. Pertanto nel caso parrebbe alludersi alla necessità di una estensione dell’ordinamento romano rispetto ai peregrini. Inoltre si evidenzia il fatto per cui le norme della lex Rupilia potevano essere derogate in vario modo allorché esplicitamente è affermato che riguardo tutte le altre controversie di solito i giudici venivano assegnati scegliendoli dalla comunità dei cittadini romani di quella circoscrizione. Viceversa le cause tra coltivatori ed esattori della decima vengono celebrate in base alla legge frumentaria, chiamata dai Siculi legge di Gerone. Infine rileva soprattutto la stessa configurazione della fattispecie sostanziale descritta in Verr. 2.2.12.31: … quin nemo vestrum possit aedis suas, nemo fundum, nemo bona patria obtinere …, per la quale il diritto contestato al convenuto sarebbe un “diritto di proprietà avuto”. E la contestazione dell’attore invece avrebbe potuto riguardare la legittimità del possesso esercitato.

A fronte della determinazione esatta relativamente alle parti in causa, sia dell’attore, sia del destinatario effettivo della restituzione e sia del convenuto legittimato passivo alla restituzione, in definitiva soltanto la fictio civitatis avrebbe potuto intanto incardinare sull’attore la pretesa di un diritto analogo a quello che un qualsiasi altro cittadino romano avrebbe potuto vantare nei confronti dei terzi. Ma nella circostanza si tratta esclusivamente di un’analogia in quanto l’attore non risulta essere poi colui che ha esercitato effettivamente il diritto e quindi processualmente il destinatario della possibile restitutio del fondo o della sua aestimatio.

In questo modo l’ulteriore conseguenza del riconoscimento del diritto assoluto analogo a quello configurato per i cittadini romani, assicurato ai Siculi mediante la fictio civitatis, risulta essere quella di garantire nei confronti del destinatario designato per la restitutio o per l’aestimatio gli effetti concreti della sentenza. Anche a tale esigenza in effetti appare corrispondere l’affermazione dell’oratore alla fine del frammento relativamente alla costituzione dei iudicia, allorché il governatore aveva previsto che le giurie sarebbero state formate da cittadini romani, se i contendenti fossero stati Siculi, ovvero da Siculi, se i contendenti fossero stati cittadini romani. I collegi giudicanti composti da cittadini romani, scelti dallo stesso governatore, nel caso avrebbero avuto tutti i poteri idonei e sufficienti ad assicurare l’efficacia di una sentenza che imponeva ai convenuti l’applicazione di un diritto sostanziale diverso da quello che sarebbe spettato loro in base alla legge.

In effetti, è ragionevole ritenere che la formula petitoria di Verr. 2.2.12.31 non solo non costituisca un mero esempio civilistico soltanto retoricamente formulato dall’oratore[48]. Né invero una completa invenzione inizialmente predisposta esclusivamente per il procedimento che doveva svolgersi davanti ai recuperatores[49]. E tantopiù nemmeno un esclusivo procedimento abusivo imposto dal capriccio di Verre che escludesse qualsiasi logica formulare e la stessa presenza di una fictio[50]. Ma è plausibile affermare che essa contenesse invece un preciso obiettivo di tutela. Quest’ultimo appare costituito proprio nella stessa formulazione edittale. Ciò accade allorché, attraverso il meccanismo della fictio civitatis, si riconosce al concedente il diritto civile di chiedere la restituzione ad un terzo preciso cui sia stata effettuata la concessione mediante l’affitto. Dacché il concedente potrebbe anche non considerarsi proprietario[51]. Pertanto il locatore siculo è integrato nella posizione di dominus solo in conseguenza del riconoscimento processuale e fittizio della cittadinanza. Questo rende in un momento successivo l’atto della concessione, di per sé non idoneo al trasferimento della proprietà, invece l’atto stesso analogo in quanto a provenienza ad un atto di trasferimento iuris civilis emesso dal dominus: si paret fundum Capenatem, quo de agitur,ex iure Quiritium P. Servili esse, recita infatti la formula. E dopo tale riconoscimento, al momento della richiesta circa la restituzione, si impone ai giudici recuperatores l’onere di assicurare il risultato della restitutio o dell’aestiamatio al titolare sottostante ed effettivo oltreché pubblico del diritto già sussistente appunto prima della concessione. Invero da un lato la pretesa edittale appare validamente fondata sull’atto stesso ed operativo della concessione, configurando quest’ultima come atto però fittiziamente idoneo ad attribuire seppure retroattivamente il dominium al concedente in virtù dell’avvenuta considerazione di questo quale cittadino romano. D’altro lato viceversa il destinatario della restitutio del fondo o della sua aestimatio risulterebbe essere legittimamente il soggetto pubblico titolare originario del fondo medesimo e cui spettano i proventi definitivi dello sfruttamento. Oltretutto il dovere di restituzione o di pagamento dell’aestimatio così fatto valere dai recuperatores nei confronti dell’autorità, specificamente individuata nella figura di Q. Catulo e titolare originaria nel caso del dominium populi[52], sembrerebbe configurato ad un preciso scopo concreto. Esso cioè è puntualizzato al fine di evitare anche un danno che altrimenti si sarebbe prodotto proprio a carico di quest’ultima autorità qualora invece esso non fosse stato assicurato secondo le procedure di volta in volta valutate dal governatore stesso. Così si spiega pertanto anche la già rilevata necessità di procedere all’esatta indicazione sia del soggetto gravato dell’onere della restituzione ovvero del pagamento dell’aestimatio, sia al contempo del soggetto incaricato specificamente ad ottenere la restituzione medesima o il pagamento. Aspetto codesto che pertanto esula completamente dall’attribuzione astratta della titolarità dell’appartenenza all’affittuario in base al riconoscimento del meccanismo processuale di una possibile fictio civitatis a quest’ultimo, bensì esclusivamente al concedente e che legittima solo l’iniziativa processuale del concedente medesimo.

Cicerone dunque in Verr. 2.2.12.31 attesta anzitutto che i destinatari del diritto di proprietà di una casa, di un fondo o dei beni in ambito provinciale ottengono tale titolarità in base al presupposto di una intervenuta concessione. Sul fondamento di ciò essi sono tenuti a tal titolo comunque a restituire nel caso in cui qualcuno contestasse loro la legittimità del possesso: dubium nemini est quin omnes omnium pecuniae positae sint in eorum potestate qui iudicia dant, et eorum qui iudicant, quin nemo vestrum possit aedis suas, nemo fundum, nemo bona patria obtinere, si, cum haec a quopiam [vestrum] petita sint. Pertanto il soggetto concedente del fondo nei confronti dell’affittuario, potendo anche non essere titolare del diritto di appartenenza del fondo e comunque in ciascun caso disponendo di questo solo per mezzo dell’affitto per cui soltanto in base al negozio sarebbe abilitato ad agire in via processuale, non potrebbe costituire in capo al concessionario quella titolarità definitiva necessaria alla richiesta della restituzione nei confronti invece dell’autorità pubblica rimasta titolare del dominium populi. Questa però difettando nella situazione data del rapporto diretto con il concessionario deve avvalersi necessariamente della posizione del concedente che ha stipulato il contratto al fine di promuovere l’iniziativa giudiziale per la rivendica del fondo medesimo. Così in ogni circostanza l’intervento formulare della fictio civitatis, costitutivo ex iure Quiritium P. Servili esse, appare sempre necessario allo scopo di far ottenere all’autorità pubblica titolare del dominium populi la restituzione del fondo. Infatti solo il riconoscimento del dominium in testa al concedente appare giustificare in via fittizia la restituzione ai decumani titolari del potere di riscossione della decima, senza alcuna perdita del fondo o futura privazione di esso e in costanza invece della permanenza del possesso del fondo presso l’affittuario ma in presenza di un inadempimento circa il pagamento della decima medesima. E soltanto tale restituzione consente di sancire il dovere di controllo che al riguardo pare accollato al concedente, nella misura in cui gli si sottrae il corrispettivo del canone ordinariamente percepito e facendo valere in tal modo la sua responsabilità: aut condemnare eum quem non oporteat.

 

  1. L’argomentazione gaiana dell’ad edictum provinciale: D.4.7.3.3

 

La struttura del giudizio petitorio utilizzata in ambito provinciale, quale emersa da Cicerone, appare non soltanto confermata dagli impieghi classici, bensì anche estesa ad ulteriori funzioni. A queste il iussum de restituendo avrebbe potuto essere predisposto, secondo un’analoga configurazione rispetto a quanto accadeva in sede civile. E da questo punto di vista risulta del tutto rilevante la testimonianza di Gaio. Essa tradizionalmente è stata letta o in rapporto all’alienazione effettuata per mutare le condizioni in cui si svolge il giudizio ovvero in relazione alla difficoltà di applicazione della denuncia di nuova opera proprio in sede provinciale

 

Gai. ad ed. prov. fr. 112 Lenel = Gai. 4 ad ed. prov. D.4.7.3.3: opus quoque novum si tibi nuntiaverim tuque eum locum alienaveris et emptor opus fecerit, dicitur te hoc iudicio teneri, quasi neque tecum ex operis novi nuntiatione agere possim, quia nihil feceris, neque cum eo cui id alienaveris, quia ei nuntiatum non sit.

 

Il giurista asserisce infatti che pure se io ti abbia fatto la denuncia di nuova opera e tu abbia alienato il fondo, e il compratore abbia costruito l’opera, si afferma che tu sei tenuto con questa azione, in quanto io non posso agire contro di te in base alla denuncia di nuova opera, poiché nulla hai costruito, né posso agire contro colui al quale hai alienato, poiché non gli è stata fatta la denuncia[53].

Non soltanto la letteratura più risalente, ma anche quella più recente, ha evidenziato la collocazione del frammento gaiano nell’ambito della concessione dell’actio in factum entro il contesto dell’alienatio iudicii mutandi causa facta[54]. E non ha mancato di interpretare l’argomentazione gaiana ipotizzando la sussistenza di un dubbio giurisprudenziale alla base della soluzione offerta dal giurista. Ciò sarebbe avvenuto sul presupposto dell’impiego di dicitur nel testo quale implicito riferimento ad un’affermazione di altri giuristi[55]. Così come non ha omesso di ipotizzare che la denuncia nelle provincie non avrebbe avuto efficacia reale e, dato il suo carattere civile, non sarebbe stata applicata ai fondi provinciali. Tale risultato si sarebbe verificato in quanto Gaio concede solo contro l’alienante l’azione per l’alienatio iudicii mutandi causa facta[56]. Tuttavia quella più attenta ha sottolineato ulteriormente la specificità della soluzione gaiana in quanto proveniente dal commento all’editto provinciale[57]. Ciò avrebbe comportato una peculiare posizione del giurista, seppure descritta in termini abbastanza generici rispetto alla disciplina civilistica, proprio allorché si trovava a dover offrire argomenti circa la regolamentazione di una fattispecie nell’ambito della realtà provinciale. 

Rispetto a quest’ultima prospettiva la letteratura successiva invece ne aveva respinto la possibilità. Infatti aveva interpretato la mutatio iudicii, specificandone il significato nel senso di un cambiamento del iudicium, dipendente dal mutamento dell’avversario[58]. L’alienazione intervenuta dopo la nuntiatio renderebbe impossibile l’azione successiva contro l’alienante che non avesse realizzato l’opus prima dell’atto, ma anche contro l’acquirente il quale pur costruendo non abbia ricevuto denuncia[59].

Inoltre si è sostenuto che il dicitur attesterebbe la possibilità di applicare l’editto circa la alienatio iudicii mutandi causa sostenuta da altri giuristi[60]. Esso pertanto rileverebbe anche in tal caso, ma poiché il nuncians non poteva agire contro il nunciatus e nemmeno contro l’acquirente, il giurista non avrebbe riconosciuto come fondato tale presupposto. E costui avrebbe fatto trasparire siffatta critica all’applicazione dell’editto attraverso la costruzione quasi neque … neque[61]

È da premettere come non appaiano emergere dal passo elementi sufficienti al fine di poter rintracciare un effettivo dubbio giurisprudenziale riportato in ordine alla tutela circa la denuncia di costruzione di nuova opera. Dicitur te hoc iudicio teneri potrebbe invero riferirsi a quanto espresso nello stesso testo edittale. Anzi tale provenienza consentirebbe proprio una tutela della proprietà data in concessione. E sarebbe opportuno considerare come invece dovrebbe essere specificata la giusta portata dell’argomentazione del giurista in commento all’editto. Da tale punto di vista le posizioni della dottrina in ultimo richiamata in realtà non appaiono persuasive.

Infatti la prima risulta del tutto incentrata sul rilievo generale della mutatio iudicii, e valuta anche giustamente la centralità degli argomenti gaiani nel senso che l’alienante si trovi nella condizione di non avere ancora costruito prima di vendere ovvero che l’acquirente abbia effettivamente costruito però senza aver subito la denuncia. Tuttavia essa ritiene addirittura che Gaio avrebbe escluso l’azione sia contro l’alienante, sia contro l’acquirente, rimanendo di fatto entrambe le parti nel caso sfornite di qualsivoglia forma di tutela.

La seconda invece al contrario riconosce la concessione dell’azione a favore dell’alienante, ma ne disconosce la paternità gaiana, in quanto il giurista si limiterebbe a riportare una possibilità affermata da altri. Questi ultimi avrebbero formulato i presupposti che il nunciatus avesse alienato il fondo ed il compratore avesse costruito e pertanto non si potesse agire né contro il nunciatus né contro il compratore, senza che Gaio stesso riconoscesse alcuna fondatezza ad essi. Tuttavia anche in tale prospettiva o le parti avrebbero dovuto restare a rigore senza nessuna tutela ovvero il giurista avrebbe dovuto prevedere un tipo di protezione alternativa a quella discendente dalla alienatio iudicii mutandi causa.

Così entrambe le posizioni richiamate appaiono occultare quello che sembrerebbe lo scopo fondamentale dell’argomentazione gaiana. Esso invero concerne la giustificazione di una determinata disciplina della fattispecie che diveniva oggetto di una protezione in factum e di un connesso e specifico obiettivo di tutela.

Anzitutto occorre evidenziare come la fattispecie valutata dal giurista e per la quale egli stesso perviene ad indicare la forma di tutela possibile riguardi l’effettuazione di una denuncia circa la costruzione di una nuova opera da parte di un vicino nei confronti del proprietario del fondo. Quest’ultimo però ha venduto il fondo stesso ad un acquirente che invece realizza la nuova opera denunciata.

Sussistendo la fattispecie nei termini descritti, è vero che Gaio asserisce l’assenza dei presupposti affinchè potesse essere concessa la tutela civile derivante dalla denuncia di nuova opera e incentrata sulla rimozione di quanto fosse stato costruito illegittimamente sul fondo tramite l’emanazione dell’interdictum demolitorium.

Tuttavia, affermando che il proprietario venditore il quale abbia ricevuto la denuncia nel caso non ha costruito nulla e che invece l’acquirente ha realizzato il manufatto ma senza essere stato egli stesso destinatario della denuncia effettuata, anzitutto non esclude la tutela. Questa infatti emerge in quanto viceversa dicitur te hoc iudicio teneri. Inoltre evidenziando la decadenza dei presupposti civili della tutela, non ne disconosce affatto la fondatezza. Al contrario ne rileva la mancata corrispondenza con i soggetti che in sede civile dovrebbero essere ritenuti effettivamente responsabili dell’opera compiuta. Ossia afferma la decadenza dei presupposti circa la realizzazione dell’opera e la destinazione della denuncia in quanto tali elementi nella fattispecie descritta nel testo edittale non pertengono più al medesimo soggetto considerato civilisticamente responsabile. La decadenza dei presupposti di conseguenza attiene esclusivamente ad una rilevata assenza ma soltanto per mutamento dei soggetti rispetto a quelli rilevanti per il ius civile. In questo senso essi mantengono tutta la propria validità ed anzi sembrano acquistare proprio maggiore forza allorché essi stessi sono posti a nuovo fondamento di una scissione soggettiva.

In sostanza l’argomentazione gaiana mette al centro della peculiare tutela concessa una fattispecie nuova rispetto a quella rinvenibile in ambito civile. Tuttavia non si tratta affatto di una fattispecie diversa da quest’ultima. Nella realtà sono posti in essere proprio i medesimi requisiti di quelli civilmente richiesti ma soltanto da differenti soggetti.

In questa prospettiva allora sembra possa essere interpretato dicitur te hoc iudicio teneri. Infatti il iudicium concesso appare fare riferimento all’actio in factum, come risulta dall’ulteriore testo gaiano cui facciamo ora solo breve richiamo 

 

Gai. ad ed. prov. fr. 112 Lenel = Gai. 4 ad ed prov. D. D.4.7.1pr.: omnibus modis proconsul id agit, ne cuius deterior causa fiat ex alieno facto: et cum intellegeret iudiciorum exitum interdum duriorem nobis constitui opposito nobis alio adversario, in eam quoque rem prospexit, ut, si quis alienando rem alium nobis adversarium suo loco substituerit idque data opera in fraudem nostram fecerit, tanti nobis in factum actione teneatur, quanti nostra intersit alium adversarium nos non habuisse. 1. Itaque si alterius provinciae hominem aut potentiorem nobis opposuerit adversarium, tenebitur.

 

Il frammento, non sospettato, conferma senza dubbio che in caso di alienazione fatta per rendere peggiore la condizione di uno per fatto di un altro, il proconsole avrebbe concesso l’azione in factum[62].

Ma nella fattispecie di D.4.7.3.3 la condizione peggiore che si sarebbe verificata per l’attore sarebbe stata esattamente quella concernente un difetto di legittimazione per assenza di uno dei requisiti richiesti: la costruzione del manufatto da parte del denunciato. E in effetti occorre riconoscere che in ogni circostanza, come già evidenziato, tutti i presupposti propri della denuncia di nuova opera si sono inverati sebbene non da parte del medesimo soggetto ritenuto civilisticamente responsabile. Tuttavia deve essere anche ammesso come il presupposto effettivo che rende peggiore la condizione dell’attore denunciante sia proprio l’avvenuta denuncia stessa nei confronti del proprietario originario. Infatti è esclusivamente in relazione alla denuncia inoltrata che egli nella circostanza si troverebbe a dover perdere nell’ambito di un procedimento richiedente tutti i requisiti civili. Soltanto da questo punto di vista l’azione concessa in D.4.7.3.3 appare poter rientrare nel iudicium descritto in D.4.7.1pr. Altrimenti invero non sarebbe possibile rintracciare alcun deterioramento nella condizione di un vicino il quale comunque abbia inoltrato la denuncia al proprietario e ciò nonostante attualmente si ritrova al cospetto della nuova costruzione realizzata benché inibita dalla denuncia medesima.

Da questo punto di vista pertanto, a ben vedere, il reale fondamento della protezione concessa al vicino denunciante risulta essere proprio l’avvenuta nuntiatio, mentre l’obiettivo della tutela appare risultare esattamente l’attuale presenza dell’opus novum nuntiatum. Così l’intervenuta compravendita non rappresenta affatto il presupposto della tutela in factum, bensì soltanto della realizzazione relativa alla nuova costruzione: opus quoque novum si tibi nuntiaverim tuque eum locum alienaveris et emptor opus fecerit, dicitur te hoc iudicio teneri. Infatti essa avviene soltanto dopo che sia stata inoltrata la denuncia al proprietario da parte del vicino.

Tenuto conto dell’insieme degli elementi fin qui rinvenuti, appare possibile affermare che il giudizio in factum concesso da Gaio in D.4.7.3.3 sia un giudizio petitorio in cui il iussum de restituendo ha ad oggetto la rimozione della nuova costruzione realizzata illegittimamente. L’effetto prodotto a carico dell’acquirente si fonda sul negozio di vendita concluso e che aveva instaurato una successione a titolo particolare sul fondo medesimo. Ma è il fondo stesso ad ottenere protezione nei confronti del vicino sulla base dell’originario esposto rivolto al precedente proprietario.

Infatti è proprio quest’ultimo chiamato in causa dal iudicium in factum promosso dal medesimo soggetto che ha inoltrato la denuncia e che su tale base si trova a rispondere per aver compiuto un’attività in violazione della denuncia stessa e per la quale permane a suo carico un dovere di protezione nei confronti del vicino anche rispetto al fatto compiuto da parte di terzi.

Come è possibile osservare l’obiettivo della tutela così predisposta risulta del tutto omogeneo a quello riscontrato nel giudizio petitorio descritto da Cicerone. Nell’ambito della denuncia di nuova opera il venditore è chiamato a rispondere sulla base della denuncia a lui effettuata da parte di un vicino e che è tenuto in ragione della nuova costruzione effettuata da un terzo avente causa. A quest’ultimo sarà imposta la rimozione da parte del venditore medesimo allo scopo di tutelare il vicino in ragione dell’originaria denuncia. Nello stesso modo infatti il concedente del fondo era chiamato a rispondere nei confronti di chi avesse sollecitato la promozione dell’azione imponendo la restituzione del fondo proprio a quest’ultimo anziché a se stesso attore del procedimento petitorio.  

 

  1. La responsabilità dell’acquirente nell’operis novi nuntiatio in Giavoleno e Paolo

 

A tal punto appare opportuno verificare se l’omogeneità della struttura del giudizio petitorio riscontrabile in Gaio e Cicerone avesse effettivo motivo di sussistere in ambito provinciale non soltanto in ragione di una peculiare disciplina bensì anche poiché in grado di contrapporsi a quella consolidata nel ius civile. Pertanto ugualmente codesta normazione dovrebbe essere verificata.

E da questo punto di vista la testimonianza di Giavoleno costituisce il riscontro essenziale circa l’alternativa ipotizzata, in relazione ad una fattispecie del tutto identica rispetto a quella commentata da parte di Gaio

 

Iav. epist. fr. 105 Lenel = Iav. 7 epist. D.39.1.23: is, cui opus novum nuntiatum erat, vendidit praedium: emptor aedificavit: emptorem an venditorem teneri putas, quod adversus edictum factum sit? respondit: cum operis novi nuntiatio facta est, si quid aedificatum est, emptor, id est dominus praediorum tenetur, quia nuntiatio operis non personae fit et is demum obligatus est, qui eum locum possidet, in quem opus novum nuntiatum est.

 

Colui al quale fu rivolta la denuncia di nuova opera ― afferma Giavoleno ― vendette il fondo e l’emptor procedette all’edificazione. Si pone la questione pertanto se sia tenuto il venditore oppure il compratore per quanto fosse stato realizzato in violazione delle norme edittali. Giavoleno offre il responso che, allorché sia stata fatta la denuncia di nuova opera e allorché sia stato realizzato l’edificio, sarà tenuto l’emptor in quanto egli risulterebbe essere dominus praediorum. La motivazione di tale soluzione in siffatta prospettiva consisterebbe nel fatto per cui la denuncia di nuova opera non personae fit, ossia non obbliga il soggetto in quanto tale, ma nella fattispecie descritta soltanto colui che possiede il fondo sul quale si trova l’opus novum nuntiatum sarà obbligato[63].

Anzitutto, su un piano più generale[64], la dottrina ha evidenziato come Giavoleno risolva un dubbio e già tale circostanza di per sé dovrebbe indurre l’interprete a “pensare che l’editto pretorio non portasse in argomento una situazione precisa”[65]. Ma si era arrivati anche a configurare nel caso la sussistenza di un sottostante ed effettivo dubbio giurisprudenziale[66].

Dal punto di vista del contenuto invece il responso di Giavoleno attesterebbe l’efficacia reale della denuncia[67]. Sarebbero tenuti pertanto anche i successori a titolo singolare, qualora essi in persona contravvengano alla denuncia, compiendo o proseguendo l’opera, “poiché, si dice, la denuncia ha efficacia reale, operi, non personae fit[68]. Dal lato passivo quindi essa vincolerebbe i successori a titolo singolare, benché sarebbe controversa la responsabilità degli acquirenti non autori, ossia quando la successione a titolo particolare abbia luogo dopo la contravvenzione alla denuncia[69].

Non sembra che il responso emesso dal giurista possa essere considerato di per sé quale sintomo della persistenza di un dubbio od di una controversia giurisprudenziale al riguardo, in quanto la domanda proveniente dal privato potrebbe essere legittimata proprio dalla disciplina emersa in sede di commento all’editto provinciale. Ovvero più plausibilmente potrebbe essere determinata dalla circostanza per cui dopo la denuncia il fondo fu venduto e l’acquirente costruisce l’edificio. Inoltre non parrebbe nemmeno verosimile ritenere che l’editto del pretore non portasse in argomento una situazione precisa. Infatti in questo senso rileva soltanto il contenuto del responso che eventualmente integra la disposizione edittale e il quale prescrive la responsabilità esculsiva dell’acquirente, perdipù offrendone un chiaro inquadramento dogmatico. E quest’ultimo infatti appare il vero contributo del giurista che argomenta stando ad una concettualizzazione che risulta essere del tutto chiara oltreché fortemente consolidata: quia nuntiatio operis non personae fit et is demum obligatus est, qui eum locum possidet, in quem opus novum nuntiatum est.

Da questo punto di vista pertanto sembrano affatto rispondenti le considerazioni avanzate circa l’efficacia reale della denuncia per cui risultano obbligati esclusivamente coloro che si appalesino proprietari del fondo, benché aventi causa rispetto a coloro che siano stati originariamente investiti della denuncia. Un principio che quindi appare del tutto omogeneo anche a quello riscontrabile in ambito provinciale, sebbene in quest’ultimo caso operante in senso inverso riguardo a quello qui descritto, e che consente di affermare nelle due differenti situazioni comunque l’identica portata dell’istituto tutelato.

Pur permanendo siffatta omogeneità di fondo, invero non si può disconoscere la contrapposta disciplina: la responsabilità dell’acquirente in ambito civile al posto di quella dell’alienante nel contesto provinciale.

Il dato di tale contrapposizione sembrerebbe facilmente spiegabile alla luce di quanto emerso finora. Infatti in ambito provinciale il venditore comunque rimane titolare del dominium populi vel Caesaris e quindi allo stesso resta ascritto, in quanto nel caso concedente del fondo medesimo ad un privato, quel dovere di protezione nei confronti dei vicini confinanti il quale può essere fatto valere attraverso il giudizio petitorio in factum sulla base dell’avvenuta denuncia. Nel contesto civile viceversa tale presupposto viene a mancare ed è chiamato in causa l’unico titolare del fondo, il quale a seguito della vendita pertanto sarà proprio il compratore. Così diventa anche meno essenziale il presupposto della denuncia, ma solo apparentemente. In tale prospettiva infatti assume rilevanza il presupposto, inverato successivamente alla denuncia, della realizzazione del nuovo opus che appunto sia stato però già in precedenza nuntiatum.

E detta realizzazione può essere compiuta da un terzo cui sia stato venduto il fondo.

Dall’attestazione di Paolo emerge un’ulteriore divergenza alla base della responsabilità accollata all’avente causa. Essa riguarda la necessità del ricorso ad uno schema negoziale, ossia una stipulazione, che intercorre tra il nuntiatus e il nuntians, con cui il primo si assume la responsabilità per fatto del terzo al posto della legittimazione passiva all’actio in factum

 

Paul. ad ed. fr. 619 Lenel = Paul. 48 ad ed. D.39.1.8.7: quod si is cui opus novum nuntiatum erat decesserit vel aedes alienaverit, non extinguitur operis novi nuntiatio: idque ex eo apparet, quod in stipulatione quae ex hac causa interponitur, etiam heredis mentio fit.

 

Se colui al quale l’opus novum era stato denunciato fosse morto o avesse alienato la casa, non si estingue la denuncia di nuova opera: e questo risulta dal fatto che nella causa per la quale è conclusa la stipulatio si fa menzione anche dell’erede[70].

A parte l’interpolazione avanzata in relazione a vel aedes alienaveris[71], la dottrina ha soprattutto evidenziato il profilo dell’efficacia della denuncia. Questa non cesserebbe pertanto né con la morte del denunciato, né per alienazione del fondo denunciato, perché essa appunto opererebbe in rem[72]. Inoltre ha posto in risalto il ruolo della cautio ex operis novi nuntiatione: la stipulazione considerata nel testo di Paolo, in ragione della sua ereditabilità, sarebbe una valida attestazione di quella stipulazione pretoria che produrrebbe i suoi effetti nei confronti dei terzi[73].

La parificazione della morte del nuntiatus alla vendita operata nei confronti dei terzi lascia residuare pochi dubbi in ordine alla sussistenza del richiamato sospetto di interpolazione. I due eventi infatti descrivono le differenti dinamiche possibili dell’ambito successorio presso gli aventi causa del fondo. Tuttavia, mentre nei due casi l’attuale proprietà del fondo è rilevante in quanto su di essa si sia verificata la realizzazione della nuova opera, l’interdictum demolitorium invece potrebbe indirizzarsi soltanto al nuntiatus. Pertanto la stipulazione intercorsa tra il denunciante e il denunciato risulta in grado di sostituire gli effetti dell’interdetto demolitorio, nel caso in cui fosse venuta meno la titolarità determinante la legittimazione passiva, facendo assumere agli aventi causa l’impegno risarcitorio nei confronti del vicino che avesse avanzato la denuncia.

La conseguenza risarcitoria appena indicata viceversa risulta del tutto assorbita dalla configurazione del iussum de restituendo nell’ambito del giudizio petitorio concesso in sede provinciale.

 

  1. Conclusioni

 

Secondo quanto emerso fin qui, pertanto la proprietà provinciale parrebbe potersi validamente ricostruire anche ripercorrendo le tracce della tutela predisposta all’interno dell’editto concesso dai governatori, al di là degli aspetti sostanziali, dalla qualificazione all’imposizione tributaria, finora in prevalenza considerati in letteratura.

In questo senso è sembrata rilevante anzitutto la testimonianza ciceroniana che nel prevedere un giudizio petitorio sul modello di quello concesso in sede civile, tuttavia ne circoscrive la peculiarità attraverso la previsione come oggetto del iussum de restituendo di una restituzione a soggetto diverso dall’attore che ha instaurato il processo. Tale singolarità invece che addurla all’arbitrio manipolatorio di Verre, è sembrata rispondere viceversa ad una precisa logica giuridica e struttura formulare: la restituzione del fondo concesso a favore del privato al soggetto pubblico titolare del dominium populi, attraverso la configurazione processuale di una finzione di cittadinanza presso il concedente e facendo allo stesso tempo valere la responsabilità del concedente medesimo in ordine al suo dovere di controllo. E tale identica logica è apparsa alla base del giudizio petitorio commentato da Gaio e formulato in conseguenza di una denuncia di nuova opera da parte di un vicino nei confronti del proprietario. Questi infatti in quanto titolare del dominium populi è tenuto a trasferire gli effetti della domolizione anche nei confronti degli aventi causa al fine di salvaguardare l’interesse di colui che ha denunciato. Risultato che invece in ambito civile appare realizzato mediante stipulazione ove fosse stato non esperibile l’interdetto stesso e ove è fatta valere la responsabilità dell’unico proprietario.

Le caratteristiche della tutela petitoria in factum in sede provinciale dunque aprono una utile prospettiva di valutazione circa la natura di una forma di appartenenza che mantiene la sua pienezza benché concessa dall’autorità pubblica.  

 

Abstract: The provincial property, beyond the substantive aspects, in the Ciceronian attestation provides for a petitive judgment on the model of that granted in a civil court and limits its peculiarity through the provision as object of the iussum de restituendo a return to a subject other than the plaintiff which established the process. This singularity instead of referring to Verre’s manipulative arbitrariness, seemed to respond to a precise legal logic and to formulate: the restitution of the fund granted in favor of the private to the public subject holding the dominium populi, through the procedural configuration of a fiction of citizenship at the grantor and at the same time enforcing the responsibility of the grantor with regard to his duty of control. The same logic appeared at the base of the petition judgment commented by Gaius and formulated as a result of a complaint of a new work by a neighbor towards the owner, who is required to transfer the effects of the demolition also towards the assignees in order to safeguard the interest of the one who reported. The result is that in the civil sphere it appears to be realized by stipulation where the interdict it self was not available and where the responsibility of the sole owner is asserted.

Keywords: object of the iussum de restituendo, fiction of citizenship, the responsibility of the grantor, complaint of a new work, the effects of the demolition also towards the assignees in order, stipulation

* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II.2, Leipzig, 1887, p. 1093 s.; R. Cagnat, Étude historique sur les impôts indirectes chez les Romains. Jusqu’aux invasions des Barbares, d’après les documents littéraires et épigraphiques [Paris, 1882], in V. Pareto (dir.), Biblioteca di storia economica, V, Milano, 1921, p. 477 ss.; F. Grelle, ‘Stipendium’ vel ‘tributum’. L’imposizione fondiaria nelle dottrine giuridiche del II e III secolo, Napoli, 1963; e già F. Bozza, Gai. 2.7 e la proprietà provinciale, in Athenaeum 30 (1942), p. 66 ss., sop. p. 7

Mancinetti Gianpiero



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