La prevenzione della corruzione mediante l’organizzazione: il ruolo del responsabile della prevenzione
Giammarco Sigismondi
Professore Associato di Diritto amministrativo, Università Cattolica del Sacro Cuore
La prevenzione della corruzione mediante l’organizzazione: il ruolo del responsabile della prevenzione*
English title: Organisation as a means of Corruption Prevention: the Corruption Prevention and Transparency Officer
DOI: 10.26350/18277942_000056
Sommario: 1. La rilevanza del tema. 2. La prevenzione della corruzione mediante organizzazione nelle pubbliche amministrazioni: strumenti e tecniche di riferimento. 3. Il ruolo del responsabile della prevenzione della corruzione nel sistema. 4. I profili critici e i problemi applicativi. 5. Il responsabile della prevenzione della corruzione negli enti di diritto privato in controllo pubblico. 6. Conclusioni.
- Introduzione
Il contrasto alla corruzione è ormai da alcuni anni un tema centrale per le pubbliche amministrazioni.
A questo riguardo si è assistito a un significativo cambio di paradigma nell’approccio al problema. Tale approccio è stato caratterizzato in modo particolare dal ricorso a disposizioni di carattere organizzativo e dalla predisposizione di specifici strumenti operativi per consentire un’adeguata opera di prevenzione. Questi strumenti si sono affiancati ai tradizionali mezzi repressivi da sempre previsti dall’ordinamento[1].
L’impulso al cambiamento, come spesso è accaduto nell’ultimo ventennio, non è però venuto da un’iniziativa e da un confronto di idee sviluppatosi nell’ambito dell’ordinamento interno, ma è il risultato dell’adeguamento dell’ordinamento interno a direttive definite in sede internazionale, cui l’Italia ha deciso di aderire.
Le scelte di fondo destinate a essere attuate riprendono infatti le linee di indirizzo concordate nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite sulla corruzione del 2003 (nota come Convenzione di Mérida), ratificata dall’Italia con la l. 3 agosto 2009, n. 116, e nella Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa (Criminal Law Convention on Corruption) del 27 gennaio 1999, entrata in vigore nel 2002 e ratificata con la l. 28 giugno 2012, n. 110[2]. Sul versante interno, invece, possono essere ricordate le indicazioni contenute nel Rapporto della Commissione per lo studio e l’elaborazione di proposte in tema di trasparenza e prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione, pubblicato nel 2012[3].
Il risultato finale (che rappresenta anche il punto di partenza del nuovo corso) è stata la l. 6 novembre 2012, n. 190. Un risultato che comunque non è stato facile raggiungere, come dimostra la struttura della legge stessa, che per necessità legate ai lavori parlamentari e alle difficoltà a raggiungere il consenso politico necessario a consentirne l’approvazione risulta costituita da un solo articolo, suddiviso in ottantadue commi.
L’aspetto centrale della nuova prospettiva, oltre alla logica preventiva che caratterizza l’approccio al problema della corruzione, è la concezione stessa del fenomeno da contrastare, che non è preso in considerazione soltanto con riguardo alla sua rilevanza penalistica, ma è inteso in un senso più ampio e comprensivo di tutti i comportamenti che possano essere considerati patologici rispetto a uno svolgimento ordinato e imparziale dell’attività amministrativa. Obiettivo della prevenzione, quindi, sono le condotte riconducibili alla nozione di maladministration[4].
Dal punto di vista dei contenuti, la riforma del 2012 è intervenuta in tre direzioni principali: innanzi tutto si è provveduto all’adeguamento del sistema sanzionatorio penale, con la revisione delle tradizionali fattispecie di reato e l’introduzione del reato di corruzione tra privati[5]; in secondo luogo è stata predisposta una normativa per rendere meno probabili situazioni che possono essere occasione di fatti corruttivi o di maladministration in senso ampio[6]; in terzo luogo è stata decisa l’introduzione di misure specifiche di prevenzione, sia di tipo prescrittivo, sia di tipo organizzativo. Nella prima prospettiva si segnalano i codici di comportamento[7], nella seconda i piani di prevenzione della corruzione[8].
Il quadro[9] è stato infine completato dall’istituzione di una specifica autorità indipendente con la funzione di Autorità nazionale anticorruzione[10].
- La prevenzione della corruzione mediante organizzazione nelle pubbliche amministrazioni: strumenti e tecniche di riferimento
In termini di impatto sulla struttura organizzativa delle pubbliche amministrazioni la novità principale è senz’altro rappresentata dall’introduzione dell’obbligo di dotarsi di specifici strumenti di prevenzione[11]. Il sistema, come è noto, è strutturato sulla base di un Piano nazionale di prevenzione della corruzione, che definisce linee guida e i contenuti fondamentali degli strumenti di prevenzione da predisporre a livello di singola amministrazione e del Piano triennale di prevenzione della corruzione, che ogni amministrazione deve predisporre e aggiornare periodicamente.
Il ricorso a modelli organizzativi con la funzione di prevenire comportamenti corruttivi all’interno di strutture complesse non è una novità, come non lo è, in generale, la gestione del rischio attraverso interventi sull’organizzazione. Rispetto a entrambe le prospettive vi sono infatti esperienze già consolidate: da un lato i modelli organizzativi previsti nell’ambito del sistema che disciplina la responsabilità amministrativa degli enti per fatti connessi a fattispecie di reato, introdotto dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231[12]; dall’altro gli standard internazionali per la gestione del rischio, in particolare lo Standard ISO 31000[13].
A questo riguardo, la contiguità tra lo standard internazionale ISO 31000 e la prima versione del Piano nazionale di prevenzione della corruzione – quella del 2013 – risulta evidente e dichiarata: lo stesso Allegato 1 del Piano Nazionale di prevenzione della corruzione precisa infatti che «per i contenuti e le indicazioni sulla gestione del rischio si sono tenuti presenti i Principi e linee guida “Gestione del rischio” UNI ISO 31000 2010 (edizione italiana della norma internazionale ISO 31000), riconsiderati anche con un intento di semplificazione»[14]. Anche la struttura del modello organizzativo, che nello standard internazionale è fondata su tre pilastri fondamentali (principi; struttura; processo)[15], è in gran parte riprodotta nei documenti che costituiscono il Piano Nazionale, pur con alcune differenziazioni di dettaglio (ma non sempre marginali[16]).
In questa prospettiva, pertanto, il principale problema con il quale si sono inizialmente dovute confrontare le strutture organizzative pubbliche è stato costituito dalla necessità di apprendere le logiche e il linguaggio dei modelli di gestione del rischio: logiche e linguaggio distanti dalla tradizione organizzativa delle pubbliche amministrazioni e dai percorsi di formazione – d’impostazione prevalentemente giuridica – dalla quale provengono la maggior parte dei dipendenti pubblici[17].
Non è sorprendente, quindi, che i risultati della prima esperienza applicativa siano apparsi perfettibili, soprattutto per le difficoltà riscontrate nel definire strumenti omogenei e nel proporre contenuti conformi allo standard internazionale di riferimento[18]. Si tratta peraltro di una criticità che è destinata a essere superata con l’acquisizione delle competenze necessarie e con la consuetudine allo strumento.
La rilevanza dell’esperienza maturata con i modelli organizzativi previsti dal d.lgs. 231/2001 è altrettanto evidente, così come le analogie nelle scelte che definiscono i criteri di attribuzione delle responsabilità per il caso che si verifichi un comportamento qualificabile come corruttivo in senso ampio. Si spiega quindi come inizialmente il modello sia stato valutato secondo un metro di giudizio simile, soprattutto da chi si è occupato della materia in ambito penalistico.
La trasposizione del sistema definito dal d.lgs. 231/2001, tuttavia, è meno semplice di quanto possa apparire (e probabilmente anche di quanto sia apparsa al legislatore del 2012) e una più attenta riflessione condotta ancora una volta sulla base dei risultati prime esperienze applicative suggerisce maggior prudenza di giudizio ed evidenzia alcune criticità.
- Il ruolo del responsabile della prevenzione della corruzione nel sistema
Come si è ricordato, il sistema di prevenzione della corruzione mediante organizzazione fondato sul Piano triennale di prevenzione della corruzione segue nella struttura e nei contenuti il modello di gestione del rischio definito dallo standard internazionale ISO 31000.
Uno dei passaggi essenziali per il funzionamento effettivo del modello è rappresentato dalla definizione dei criteri di attribuzione delle responsabilità.
Nel sistema fondato sui modelli organizzativi previsti dal d.lgs. 231/2001 – che come si è visto costituiscono l’esperienza di riferimento più immediata del Piano triennale di prevenzione della corruzione – la logica del criterio di attribuzione della responsabilità è funzionale a creare un incentivo a sviluppare un modello di prevenzione ottimale e vigilare sulla sua applicazione. Conseguentemente si è deciso da un lato di attribuire all’ente la responsabilità per condotte penalmente rilevanti di dirigenti o dipendenti che siano poste in essere nell’interesse dell’ente stesso, e dall’altro si è consentito all’ente di sottrarsi all’imputazione della responsabilità attraverso la predisposizione di specifici modelli organizzativi di prevenzione, dei quali sia possibile dimostrare l’idoneità e la vigilanza sulla corretta applicazione.
In questa prospettiva, la configurazione di una responsabilità connessa alla commissione di un reato le cui conseguenze vadano comunque a vantaggio dell’ente ha consentito di aggirare il tradizionale limite riguardante la riferibilità dell’imputazione penale ai soggetti collettivi. La possibilità di sottrarsi a tale responsabilità predisponendo un idoneo modello organizzativo costituisce invece un incentivo per strutturare un’organizzazione aziendale nell’ambito della quale sia più difficile commettere illeciti.
Nel sistema di prevenzione fondato sui Piani triennali di prevenzione della corruzione si è cercato di replicare un modello simile. In mancanza di una chiara situazione di conflitto di interessi (responsabilità connessa a un fatto altrui/possibilità di sottrarsi alla responsabilità attraverso il modello organizzativo in grado di prevenire la condotta) capace di garantire l’operatività del modello organizzativo e la funzionalità del sistema rispetto all’obiettivo finale è stato tuttavia necessario creare artificiosamente un incentivo all’attuazione del modello. Un modello organizzativo privo di un sistema di attribuzione della responsabilità e non inserito in un contesto ambientale che ne consenta la corretta attuazione, infatti, è irrimediabilmente destinato a rimanere privo di effettività.
La soluzione è stata individuata nella definizione della figura del Responsabile della prevenzione della corruzione (RPC), vero e proprio cardine attorno al quale ruota il sistema e che ne dovrebbe garantire l’efficace funzionamento[19]. I compiti specifici assegnati al Responsabile della prevenzione della corruzione e le responsabilità che gli sono attribuite nel caso che nell’ente si verifichino comportamenti in senso lato corruttivi (e quindi, come già chiarito, comprensivi anche di condotte non penalmente rilevanti ma comunque classificabili come maladministration), infatti, dovrebbero in teoria rappresentare un incentivo alla vigilanza sulla corretta attuazione del Piano triennale di prevenzione della corruzione e sul rispetto delle relative prescrizioni.
L’art. 1, c. 7 l. n. 190/2012 ha quindi previsto che in ogni amministrazione venga designato – normalmente tra i dirigenti di ruolo in servizio – un Responsabile della prevenzione della corruzione[20]. Si tratta di un incarico aggiuntivo rispetto ad altri già in essere e per il quale non è prevista alcuna indennità particolare[21]. Conseguentemente la durata non può eccedere quella dell’incarico già svolto.
Già sulla competenza a disporre la nomina, tuttavia, sono emerse alcune incertezze interpretative: la formulazione originaria della norma faceva infatti riferimento all’organo di indirizzo politico, lasciando intendere che per gli enti territoriali la designazione dovesse spettare al Consiglio (che l’art. 42, c. 1 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 definisce come organo di indirizzo e di controllo politico amministrativo), ma lasciando allo stesso tempo margini di incertezza con riguardo agli enti pubblici non dotati di un organo che sia espressione di un mandato di rappresentanza politica. Quasi contestualmente sul punto è intervenuto un parere interpretativo della CIVIT (allora competente all’esercizio delle funzioni di Autorità nazionale anticorruzione[22]), che per i Comuni ha invece ritenuto competente il Sindaco, sul presupposto del carattere tassativo delle competenze assegnate dal Testo unico degli enti locali al Consiglio a fronte di una individuazione delle competenze del Sindaco che ne permette l’ampliamento e della circostanza che la funzione di Responsabile della prevenzione della corruzione nei Comuni è normalmente attribuita al Segretario comunale, che di regola è nominato dal Sindaco stesso[23]. Al di là dell’opinabilità degli argomenti su cui si fonda il parere[24], il testo dell’art. 1, c. 7 l. n. 190/2012 è stato successivamente modificato dall’art. 41, c. 1, lett. f) d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97, che ha attribuito la competenza a disporre la nomina all’organo di indirizzo (espungendo dalla disposizione l’attributo “politico”) eliminando i dubbi riguardanti gli enti pubblici non territoriali e rendendo più plausibile la conclusione interpretativa proposta dal parere del 2013.
Il Responsabile della prevenzione della corruzione ha innanzi tutto il compito di predisporre il Piano triennale di prevenzione della corruzione, che dovrà poi essere approvato dall’organo di indirizzo dell’ente. Anche in questo caso l’art. 1, c. 8 l. n. 190/2012 attribuiva la competenza all’approvazione all’organo di indirizzo politico, con le ambiguità già segnalate. Sul punto è intervenuto ancora una volta il d.lgs. n. 97/2016, che con l’art. 41, c. 1 lett. g) da un lato ha modificato l’art. 1 c. 8 l. n. 190/2012 eliminando anche in questo caso l’attributo “politico”, e dall’altro ha stabilito espressamente che negli enti locali il Piano Triennale sia approvato dalla Giunta.
A tale compito si accompagna una previsione di responsabilità per il caso che il Responsabile della prevenzione della corruzione non provveda per tempo, responsabilità che oltre alle ordinarie forme delle responsabilità dirigenziale ed eventualmente disciplinare, si è confrontata nella prassi con l’esercizio da parte dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) dei poteri sanzionatori previsti dall’art. 19, c. 5, lett. b) d.l. 24 giugno 2014, n. 90, conv. in l. 11 agosto 2014, n. 114[25]. Sul punto e sui relativi problemi applicativi si avrà comunque modo di tornare in seguito.
Oltre alla responsabilità per la propria condotta è inoltre stabilito che il Responsabile della prevenzione della corruzione debba rispondere a vario titolo anche dei comportamenti di altri soggetti che siano riconducibili o a fattispecie di reato o al mancato rispetto del modello organizzativo definito dal Piano triennale di prevenzione della corruzione.
È infatti prevista una responsabilità dirigenziale, disciplinare ed erariale e per danno all’immagine nel caso in cui a carico dei dipendenti dell’ente siano accertati reati di corruzione con sentenza passata in giudicato, responsabilità cui il Responsabile della prevenzione della corruzione si può sottrarre solo se dimostra di aver predisposto il Piano triennale, di averne osservato le prescrizioni e di aver vigilato sul suo funzionamento e sull’osservanza delle sue prescrizioni[26].
In secondo luogo, e in termini più ampi, è prevista una responsabilità dirigenziale ai sensi dell’art. 21, d.lgs. n. 165/2001 e disciplinare per omesso controllo nel caso di «ripetute violazioni delle misure di prevenzione previste dal piano»[27], responsabilità dalla quale è ora possibile liberarsi se il Responsabile della prevenzione della corruzione prova «di avere comunicato agli uffici le misure da adottare e le relative modalità e di avere vigilato sull’osservanza del Piano»[28].
Infine il Piano Nazionale anticorruzione approvato nel 2013 ha stabilito che l’insieme degli adempimenti, dei compiti e delle responsabilità previste dal Piano triennale debbano essere inseriti nel ciclo delle performances.
Il quadro complessivo delinea quindi per il Responsabile della prevenzione della corruzione una posizione per molti aspetti assimilabile a una posizione di garanzia.
Accanto a questa funzione principale, al Responsabile della prevenzione della corruzione sono inoltre affidati importanti compiti connessi con l’attuazione delle disposizioni in materia di trasparenza e accesso agli atti delle amministrazioni pubbliche (sia in termini di sorveglianza sull’adempimento degli obblighi di pubblicazione che gravano sull’amministrazione d’appartenenza, sia come primo filtro rispetto alle istanze di accesso agli atti che non abbiano trovato riscontro positivo)[29] e con la disciplina delle incompatibilità e inconferibilità di incarichi nelle amministrazioni pubbliche e negli enti privati in controllo pubblico[30]. Su quest’ultimo aspetto peraltro emergono delicati problemi di coordinamento con i poteri riconosciuti alla stessa Autorità nazionale anticorruzione, in particolare per quanto riguarda la competenza a dichiarare la nullità dell’incarico.
La centralità della figura del Responsabile della prevenzione della corruzione è confermata dall’attenzione che l’ANAC ha riservato al ruolo, fino a farne oggetto di specifici interventi in due occasioni relativamente recenti: una prima volta nel 2018, con un parere riguardante l’interpretazione dei compiti del Responsabile della prevenzione della corruzione[31] e una seconda volta l’anno successivo. L’aggiornamento del 2019 al Piano Nazionale per la prevenzione della corruzione ha infatti dedicato una parte specifica (la parte IV) alla precisazione della cornice normativa che caratterizza la funzione, alla soluzione di alcune questioni operative emerse nei primi anni di attuazione della riforma e a definire alcuni indirizzi di soft law al riguardo[32].
In tale occasione è stata ribadita la posizione di indipendenza che deve caratterizzare chi ricopre l’incarico, così da rendere inopportuna la scelta di dirigenti assegnati a uffici che lavorino in diretta collaborazione con l’organo di indirizzo politico. Per le stesse ragioni è stato ritenuto preferibile evitare la nomina di dirigenti dei settori più esposti al rischio-corruzione e del responsabile dell’ufficio procedimenti disciplinari (salvo che le dimensioni dell’ente o la sua organizzazione interna non rendano impossibili soluzioni alternative, e pur se non sussiste una situazione di incompatibilità in senso proprio).
L’ANAC ha anche precisato che l’incarico – pur in mancanza di indicazioni espresse da parte della legge – debba essere attribuito a soggetti che abbiano tenuto un comportamento integerrimo, escludendo quindi chi sia stato destinatario di provvedimenti disciplinari e di sentenze di condanna e fornendo adeguata motivazione delle ragioni della scelta[33].
- I profili critici e i problemi applicativi
Se il ruolo del Responsabile della prevenzione della corruzione risulta complessivamente definito in modo chiaro e altrettanto evidenti sono le ragioni che hanno indotto il legislatore a determinate scelte, soprattutto in termini di configurazione di una responsabilità connessa a comportamenti materialmente riferibili ad altri soggetti, resta il fatto che si tratta di un carico di responsabilità oggettivamente rilevante[34].
Anche se molto dipenderà dagli orientamenti interpretativi seguiti al momento di valutare la sussistenza dei presupposti per poter ritenere soddisfatta la prova liberatoria[35], infatti, in linea di principio emergono alcuni profili di criticità.
In termini generali va innanzi tutto considerato che rispetto al sistema di responsabilità definito dal d.lgs. 231/2001 vi è la differenza di fondo rappresentata dal fatto che il soggetto sanzionato non trae alcun vantaggio dall’attività che si vuole prevenire (attività, è il caso di ribadirlo, non necessariamente illecita, ma comunque contraria ai canoni di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione o ai doveri di lealtà e correttezza che costituiscono un dovere per ciascun dipendente pubblico). Manca quindi un primo elemento che nel nostro ordinamento può giustificare l’attribuzione di una responsabilità per fatto altrui.
Criteri di attribuzione della responsabilità analoghi sono collegati anche alla sussistenza di una posizione di controllo o all’esistenza di uno specifico obbligo di impedire un evento. Nel caso del Responsabile della prevenzione della corruzione, però, da un lato si deve escludere che sussistano dei veri e propri poteri di controllo sugli altri dipendenti pubblici (vi è un più generico dovere di informazione e collaborazione reciproca), mentre dall’altro un obbligo di prevenire condotte in senso lato corruttive non è espressamente previsto, dal momento che la legge fa riferimento soltanto agli obblighi relativi alla predisposizione di un Piano Triennale dai contenuti idonei, alla vigilanza sulla sua attuazione e alla proposta periodica di modifiche per gli adeguamenti che si rivelino necessari.
Il fatto che le scelte iniziali del legislatore fossero perfettibili, d’altra parte, è dimostrato dalle modifiche introdotte nel 2016: come già accennato, inizialmente non era prevista alcuna possibilità di fornire una prova liberatoria per escludere la responsabilità dirigenziale e disciplinare connessa al verificarsi di ripetute violazioni del Piano triennale. Attualmente tale possibilità sussiste, circostanza che sembra delineare per il Responsabile della prevenzione della corruzione un essenziale dovere di vigilanza sull’attuazione del Piano, mentre appare ridimensionato il collegamento diretto con condotte altrui: se si può ipotizzare una chiave di lettura, sembra che nella configurazione originaria il Responsabile della prevenzione della corruzione fosse chiamato a rispondere perché il riscontro delle violazioni del Piano Triennale avrebbe attestato (senza possibilità di prova contraria, quindi come presunzione assoluta) l’inidoneità dello strumento da lui predisposto; nella configurazione attuale, invece, la responsabilità pare riconducibile al più tradizionale criterio che la collega alla violazione di un obbligo specifico. È infatti ammessa la prova che l’obbligo è stato adempiuto, e tale dimostrazione esclude la responsabilità[36].
Anche nella declinazione attuale, tuttavia, restano margini di ambiguità. Si è già ricordato più volte che la responsabilità in questione è connessa – seppure indirettamente –alla responsabilità disciplinare dei singoli dipendenti per violazione delle misure di prevenzione previste dal Piano triennale stabilita dal Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (artt. 8 e 16, d.P.R. n. 62/2013). Dal momento che l’illecito disciplinare è integrato dalla semplice inosservanza delle misure di prevenzione, senza che sia richiesto anche il verificarsi di eventi corruttivi, sia pure da intendere nell’accezione ampia di maladministration, il Responsabile della prevenzione della corruzione si trova a essere gravato da un dovere di vigilanza molto esteso. L’adempimento di tale dovere in modo effettivo è quindi condizionato in modo decisivo dalle risorse disponibili.
A questo riguardo l’aggiornamento del 2019 al Piano Nazionale di prevenzione della corruzione ha auspicato che il Responsabile della prevenzione della corruzione sia dotato di una struttura di supporto adeguata, eventualmente attraverso la costituzione di un ufficio specifico[37]. È pertanto ragionevole aspettarsi che nell’ambito dei procedimenti relativi all’accertamento dell’eventuale responsabilità disciplinare e dirigenziale del Responsabile della prevenzione della corruzione l’adeguatezza delle risorse e della struttura organizzativa di supporto allo svolgimento dei compiti istituzionali siano tenute in considerazione.
Sullo sfondo resta inoltre presente – anche se in modo meno evidente rispetto a quando non era consentita alcuna prova liberatoria della responsabilità – il paradosso per cui l’esercizio del compito di vigilare sul rispetto delle previsioni del Piano Triennale espone il Responsabile della prevenzione della corruzione a potenziali conseguenze negative.
Altre questioni interpretative rilevanti riguardano l’esercizio dei poteri di controllo e sanzionatori da parte dell’ANAC e il coordinamento tra competenze del Responsabile della prevenzione della corruzione e dell’ANAC stessa rispetto all’applicazione della disciplina sull’incompatibilità degli incarichi.
La prima questione è connessa all’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 19, c. 5, lett. b) d.l. n. 90/2014, a carico dei soggetti obbligati che omettano di adottare il Piano triennale di prevenzione della corruzione (o il Programma triennale della trasparenza o il Codice di comportamento). L’ANAC interpreta tale disposizione nel senso di considerare come soggetti obbligati il Responsabile della prevenzione della corruzione e l’organo di indirizzo, individuandolo per gli enti locali nel Sindaco e nella Giunta. Conseguentemente la sanzione amministrativa è spesso comminata a tutti i soggetti ritenuti responsabili, comprendendo Responsabile della prevenzione della corruzione, Sindaco e componenti dell’organo collegiale[38]. Va tuttavia tenuto presente che la responsabilità amministrativa configurata dalla l. 24 novembre 1981, n. 689 – cui la norma richiamata fa espresso riferimento – è personale[39], e questo carattere contrasta con l’attribuzione della responsabilità ai componenti di un organo collegiale in quanto tali e non considerati singolarmente. Inoltre, pur nell’ambiguità della formulazione della norma attributiva del potere sanzionatorio, non necessariamente la posizione dei soggetti onerati è analoga: il Responsabile della prevenzione della corruzione, infatti, non partecipa alla votazione che delibera l’adozione del Piano, salvo doverlo predisporre (attività che costituisce tuttavia oggetto di un obbligo distinto e specifico); quindi da un lato la sua inerzia può senz’altro condizionare la possibilità di adottare il Piano – senza che tuttavia l’organo di indirizzo possa esserne ritenuto responsabile – mentre dall’altro (e specularmente) lo stesso Responsabile della prevenzione della corruzione può non avere colpe nel caso che la mancata adozione dipenda da dissensi emersi all’interno dell’organo collegiale. Lo stesso Sindaco, infine, anche se dovesse essere identificato come organo di indirizzo (circostanza che pare esclusa dal riferimento espresso che l’art. 1, c. 8, l. n. 190/2012 fa alla Giunta), non ha alcun ruolo formale nella delibera di adozione, se non come presidente della Giunta. Resta infine il dubbio che il soggetto obbligato all’adozione debba essere individuato nell’ente stesso, soprattutto se dotato di personalità giuridica, come nel caso degli enti territoriali.
I problemi interpretativi relativi alla disciplina degli incarichi hanno invece riguardato il coordinamento tra i poteri dell’ANAC e quelli del Responsabile della prevenzione della corruzione. Come è noto il d.lgs. n. 39/2013 riconosce espressamente all’ANAC poteri ispettivi e di accertamento rispetto alla sussistenza di cause di incompatibilità/inconferibilità a carico dei soggetti designati per l’incarico. In tali casi l’ANAC può sospendere il procedimento di attribuzione dell’incarico indicandone le ragioni. Se l’ente intende procedere comunque all’attribuzione dell’incarico, nella motivazione del provvedimento finale è necessario tenere conto dei rilievi dell’ANAC. Parallelamente l’art. 15 del d.lgs. n. 39/2013 attribuisce al Responsabile della prevenzione della corruzione il dovere di vigilare sul rispetto delle disposizioni in materia di incompatibilità/inconferibilità, dovere che viene esercitato in collaborazione con l’ANAC e che si concretizza nella segnalazione o contestazione ai soggetti interessati di eventuali situazioni che presentino criticità. Lo stesso d.lgs. n. 39/2013, all’art. 17, stabilisce infine la nullità degli incarichi attribuiti in violazione delle disposizioni in vigore, senza però specificare quale sia il soggetto competente ad accertarla, e al successivo art. 18 prevede l’irrogazione di specifiche sanzioni a carico di chi abbia conferito l’incarico nullo[40]. Oltre a tale questione, resta inoltre aperta la possibilità di una diversa valutazione tra l’ANAC (che può esercitare anche di propria iniziativa i poteri ispettivi e di sospensione) e il Responsabile della prevenzione della corruzione (che può non condividere le ragioni ostative individuate dall’ANAC, o non avviare il procedimento sanzionatorio). Proprio un precedente specifico di questo tipo ha portato a un contenzioso davanti al giudice amministrativo: l’ANAC aveva infatti disposto al Responsabile della prevenzione della corruzione di contestare la sussistenza di una causa di incompatibilità e di aprire il conseguente procedimento sanzionatorio. A fronte di un provvedimento di archiviazione che escludeva l’incompatibilità rilevata dall’ANAC, l’Autorità aveva disposto la sostituzione del Responsabile della prevenzione della corruzione con un commissario ad acta. Le determinazioni assunte dal commissario sulla nullità dell’incarico e sulle sanzioni erano state tuttavia oggetto di un ricorso giurisdizionale (promosso sia dall’ente, sia dal Responsabile per la prevenzione della corruzione sostituito, sia dal titolare dell’incarico dichiarato decaduto). A dimostrare l’ambiguità del contesto normativo, la decisione dei due gradi di giudizio era stata significativamente diversa: secondo il Tribunale amministrativo regionale il potere di dichiarare la nullità dell’incarico e il conseguente potere sanzionatorio sarebbero spettati solo al Responsabile della prevenzione della corruzione[41]; secondo il Consiglio di Stato, invece, la disciplina attribuirebbe anche all’ANAC parte di tali poteri[42]. In particolare, l’ANAC potrebbe accertare l’illegittimità dell’attribuzione dell’incarico e dichiararne la nullità se il relativo procedimento è concluso; se il procedimento non è concluso, invece, può disporne la sospensione. La determinazione finale in questo caso spetta però al Responsabile della prevenzione della corruzione, e una sua eventuale valutazione contraria rispetto alle posizioni espresse dall’ANAC non può essere oggetto di riforma o annullamento d’ufficio da parte della stessa Autorità. Al Responsabile della prevenzione della corruzione spetterebbe inoltre sempre la competenza ad applicare le sanzioni previste dall’art. 18 d.lgs. n. 39/2013. Questa interpretazione, che cerca di ricomporre un quadro normativo senza dubbio molto perplesso, finisce però per riconoscere un potere non espressamente conferito dalla norma[43] e lascia spazio al problema relativo alla possibilità per l’ANAC di promuovere un contenzioso rispetto alla decisione assunta dal Responsabile della prevenzione della corruzione o alla sua inerzia nell’avviare il procedimento sanzionatorio[44].
Si tenga inoltre presente che in giurisprudenza è emerso un contrasto nell’individuazione del giudice cui spetterebbe la giurisdizione sulle controversie relative alle contestazioni nei confronti del provvedimento che ravvisi l’esistenza di una causa di incompatibilità/inconferibilità, e che eventualmente assegni un termine per porvi rimedio: un primo orientamento ritiene competente il giudice ordinario, sul presupposto che si tratti di determinazioni che incidono su diritti soggettivi perfetti[45]; un diverso – e più condivisibile – orientamento afferma invece la giurisdizione del giudice amministrativo. Nel caso di determinazione assunta dall’ANAC la controversia rientrerebbe infatti nell’ipotesi di giurisdizione esclusiva prevista dall’art. 133, c. 1, lett. l) d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104. Nel caso di determinazione assunta dal Responsabile della prevenzione della corruzione, invece, si tratterebbe di un provvedimento in grado di incidere unilateralmente su situazioni giuridiche soggettive non qualificabile come atto di gestione del rapporto di lavoro e non riconducibile quindi alla competenza funzionale del giudice del lavoro[46].
Un’ultima questione rilevante, sempre connessa alle cause di incompatibilità tra incarichi, riguarda la possibilità da parte del Piano triennale di prevenzione della corruzione di introdurne di nuove e diverse da quelle individuate dal d.lgs. n. 39/2013. La questione è oggettivamente delicata, perché da un lato tale possibilità consente di tenere in adeguata considerazione particolari situazioni ambientali e di contesto; dall’altro, tuttavia, si tratta di scelte che possono riguardare settori sensibili o incidere in modo significativo sull’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti. Un caso specifico ha riguardato l’introduzione da parte del Piano triennale di prevenzione della corruzione di un Consorzio di bonifica del divieto per i dirigenti apicali di assumere incarichi di rappresentanza sindacale. Nell’occasione il Tribunale amministrativo regionale per la Campania aveva riconosciuto in linea di principio ammissibile la possibilità di introdurre nuove ipotesi di incompatibilità attraverso il Piano triennale di prevenzione della corruzione e non irragionevole la misura concretamente disposta[47]. Successivamente la questione è stata tuttavia superata dalla soppressione della causa di incompatibilità decisa in occasione della revisione del Piano triennale[48]. Sul punto manca comunque un orientamento giurisprudenziale consolidato.
- Il responsabile della prevenzione della corruzione negli enti di diritto privato in controllo pubblico
Altre questioni specifiche riguardano il ruolo di Responsabile della prevenzione della corruzione nei soggetti privati in controllo pubblico.
Inizialmente rispetto a tali soggetti – nella maggior parte dei casi soggetti costituiti in forma societaria, ma non sono da escludere altre forme, come la fondazione di partecipazione[49] – l’applicabilità delle disposizioni della l. n. 190/2012 era stata oggetto di discussione: da un lato il Piano Nazionale anticorruzione del 2013[50] aveva stabilito che anche tali soggetti dovessero predisporre il Piano triennale di prevenzione della corruzione, e la Determinazione ANAC 17 giugno 2015, n. 8[51] aveva predisposto specifiche linee guida al riguardo (dando quindi per presupposto l’obbligo); dall’altro in dottrina si era rilevata la mancanza di un riferimento normativo espresso che giustificasse la conclusione[52].
Attualmente il vuoto è stato superato, e un obbligo di legge effettivamente sussiste. Si tratta peraltro di un obbligo che non è riconducibile a una previsione esplicita, ma si ricava da una serie di disposizioni concorrenti[53].
L’obbligo riguarda i soggetti privati in controllo pubblico (non è quindi sufficiente la semplice partecipazione all’ente) e deve essere adempiuto attraverso una integrazione al modello organizzativo previsto dal d.lgs. n. 231/2001. In conseguenza delle modifiche normative, l’ANAC con la Delibera 8 novembre 2017, n. 1134[54] ha emanato specifiche linee guida al riguardo.
Il riferimento alla necessaria integrazione con il modello organizzativo, d’altra parte, solleva un’ulteriore questione, dal momento che il d.lgs. n. 231/2001 non prevede che il modello organizzativo debba necessariamente essere adottato: avere un modello idoneo serve all’ente per liberarsi della responsabilità amministrativa connessa all’accertamento dei reati presupposto, ma la predisposizione del modello organizzativo da parte dell’ente non è oggetto di un obbligo specifico.
La questione era stata rilevata dal Consiglio di Stato, che in occasione del parere reso sulle linee guida predisposte dall’ANAC, ha suggerito di rendere esplicito l’obbligo[55]. L’ANAC, tuttavia, considerate le difficoltà dal punto di vista del sistema delle fonti di superare il senso inequivoco di una fonte primaria (e il d.lgs. n. 231/2001, lo si ribadisce, considera i modelli organizzativi facoltativi) si è limitata a raccomandarne l’adozione, disponendo contestualmente un obbligo di motivazione nel caso di mancata adozione[56]. Questa previsione in linea di principio resta però discutibile, perché introduce un onere di motivazione a carico di soggetti formalmente privati rispetto a una scelta libera.
Per quanto riguarda il Responsabile della prevenzione della corruzione, la nomina spetta al consiglio di amministrazione (coerentemente con quanto previsto dall’art. 1, c. 7, l. n. 190/2012) ed è designato preferibilmente tra i dirigenti della società con incarichi in settori diversi da quelli a più elevato rischio corruzione[57].
Dal punto di vista operativo, un primo punto rilevante nella prospettiva del coordinamento riguarda i rapporti con l’Organismo indipendente di vigilanza istituito nell’ambito del modello organizzativo previsto dal d.lgs. 231/2001. Nelle prime esperienze applicative si era spesso seguita la prassi di integrare i due organi, prevedendo che nel caso che l’Organismo di vigilanza fosse costituito in forma collegiale uno dei componenti dovesse essere il Responsabile della prevenzione della corruzione[58]. Tale soluzione presentava tuttavia dei problemi dal punto di vista delle garanzie di indipendenza dell’Organismo di vigilanza, normalmente costituito da soggetti esterni all’ente, mentre il Responsabile della prevenzione della corruzione di regola è nominato all’interno dell’ente stesso. Attualmente le linee guida dell’ANAC hanno invece stabilito che le due funzioni debbano rimanere separate.
Il secondo e principale punto rilevante riguarda il sistema delle responsabilità. Si è visto come tale sistema sia funzionale a garantire l’effettività delle prescrizioni del Piano Triennale attraverso l’azione del Responsabile della prevenzione della corruzione. Trasposto nel contesto di enti con personalità giuridica di diritto privato, tuttavia, tale sistema risulta estremamente depotenziato: rispetto al quadro definito dall’art. 1, c. 12 e 14 l. n. 190/2012, infatti, non è possibile configurare una responsabilità dirigenziale fondata sul modello definito dall’art. 21 d.lgs. n. 165/2001 e neppure una responsabilità per danno erariale (con l’unica possibile eccezione costituita dal fatto che la società sia legata con l’ente controllante da un rapporto in house[59]), salvo che si possa configurare un danno all’immagine del socio pubblico. Anche le eventuali sanzioni disciplinari non possono trovare fondamento nell’art. 55 d.lgs. n. 165/2001 e lo stesso ciclo di gestione della performance non deve essere obbligatoriamente attivato. Conseguentemente l’unica possibilità di ricostituire un sistema di responsabilità simile richiede l’elaborazione di specifiche clausole negoziali da prevedere al momento del conferimento dell’incarico di Responsabile della prevenzione della corruzione, fermo restando che alcune ipotesi di responsabilità – come quella contabile per danno erariale – non possono trovare fondamento in un accordo negoziale. Resta invece possibile l’esercizio dei poteri sanzionatori da parte di ANAC in caso di inadempimento dell’obbligo di predisporre o aggiornare il Piano triennale. Tuttavia, rispetto alle criticità generali, si tratta di una misura dalla portata relativa.
Resta quindi qualche dubbio sull’opportunità della scelta di estendere il sistema di prevenzione mediante strumenti organizzativi previsto per le pubbliche amministrazioni ai soggetti privati in controllo pubblico, quando sarebbe stato forse più ragionevole prevedere un adeguamento del sistema dei modelli organizzativi già esistenti, eventualmente rendendone obbligatoria per legge l’adozione.
- Conclusioni
Per tentare alcune considerazioni conclusive, appare in primo luogo evidente che il sistema di prevenzione della corruzione fondato sul ricorso a specifici modelli organizzativi avviato a partire dal 2013 ha rappresentato un importante cambiamento per le pubbliche amministrazioni[60]. Un cambiamento sia dal punto di vista della mentalità di approccio ai problemi, sia dal punto di vista dell’acquisizione degli strumenti tecnici necessari, con i relativi linguaggi.
Rispetto alla prima prospettiva l’impostazione tradizionale vedeva nell’esecuzione scrupolosa delle direttive provenienti in primo luogo da fonti legislative o regolamentari, ma anche dalle prescrizioni interne, al tempo stesso una risposta all’esigenza di legalità e una garanzia di imparzialità e buon andamento. I nuovi strumenti impongono invece a ciascuna amministrazione, in quanto organizzazione complessa, di riflettere consapevolmente sulla propria struttura, sul funzionamento dei propri uffici e sulle debolezze o vulnerabilità che possono emergere, per individuarle e predisporre gli opportuni correttivi. Da un approccio passivo-esecutivo ci si muove quindi verso una dimensione nella quale è valorizzata la capacità di iniziativa interna e viene promossa la collaborazione tra strutture e uffici diversi.
La seconda prospettiva richiede invece uno sforzo di apprendimento e di adattamento. È pertanto normale che la risposta avvenga in modo progressivo e in tempi differenti, che possono essere influenzati da molti fattori: dal fattore umano, alla complessità dell’organizzazione, al contesto ambientale nel quale si trova a operare. Va anche considerato che l’adeguamento imposto non è stato preceduto da una specifica formazione, ma si è svolto attraverso la guida esercitata dall’Autorità nazionale anticorruzione. La transizione al nuovo sistema, almeno all’inizio, è stata quindi appresa operando sul campo.
In questo sistema, come si è visto, la figura del Responsabile della prevenzione della corruzione svolge un ruolo centrale. Chi ha ricoperto tale funzione, soprattutto nei primi tempi, ha quindi dovuto sperimentare in prima persona le difficoltà della transizione.
Al di là delle difficoltà e dei problemi interpretativi e applicativi che si sono accompagnati all’avvio del sistema, alcuni fisiologici, altri probabilmente evitabili, restano probabilmente due debolezze di fondo: la prima, ormai purtroppo abituale, riguarda la scarsità delle risorse concretamente destinate a sostenere le riforme introdotte a livello normativo[61]. Nel caso degli strumenti di prevenzione mediante organizzazione questa carenza ha verosimilmente contribuito alla mancata programmazione di una formazione da svolgere con il necessario anticipo e si è tradotta nella mancata previsione di una struttura da affiancare al Responsabile della prevenzione della corruzione per supportarlo nell’esercizio delle sue funzioni. Alla prima carenza, come si è anticipato, si è posto un parziale rimedio con l’esperienza acquisita nel tempo e attraverso formazione successiva e gli indirizzi definiti dalle linee guida dell’Autorità nazionale anticorruzione (soprattutto dal momento in cui l’ANAC è subentrata a CIVIT). Della seconda debolezza sembra aver preso atto la stessa Autorità nazionale anticorruzione, che con l’aggiornamento del 2019 al Piano Nazionale anticorruzione ha considerato «necessaria la costituzione di un apposito ufficio dedicato allo svolgimento delle funzioni poste in capo al RPCT», o quantomeno il rafforzamento della struttura di supporto.
Questa circostanza, d’altra parte, evidenzia come quella del Responsabile della prevenzione della corruzione si stia evolvendo verso una funzione autonoma, che presuppone una profonda conoscenza dell’organizzazione nella quale è chiamato a operare e che diviene sempre più difficile affiancare ad altre funzioni e incarichi.
Resta infine un auspicio di fondo. Gli strumenti di prevenzione mediante organizzazione hanno infatti introdotto nelle pubbliche amministrazioni modelli fino a ora sperimentati prevalentemente nel settore privato (mentre le tecniche di gestione del rischio e i relativi standard internazionali hanno una dimensione applicativa più generale e tendenzialmente neutra rispetto agli ambiti di applicazione). In questa prospettiva sarebbe auspicabile che dal settore privato, da molti anni attento a sviluppare verso l’interno dell’organizzazione il senso d’appartenenza aziendale e verso l’esterno l’immagine positiva dell’appartenenza all’organizzazione stessa, si recuperi la capacità di promuovere un ruolo, quello del pubblico impiegato, che in tempi meno recenti – e in modo forse retorico, ma non privo di forza evocativa – veniva definito come posto al servizio esclusivo della Nazione.
Abstract: This paper focuses on the Corruption Prevention and Transparency Officer and on its pivotal role in the “Prevention through Organisation” as stated by law no. 190/2012. Although recent developments show improvement in the application of the system, foundamental issues remain unsolved. More specifically the criteria for attributing liability, the specific attributes of the Officers in the context of private entities under public control and the relationship with the National Anti-Corruption Authorithy (ANAC) remain problematic. Moreover, financial resources and specfic training of the Officers are still inadeguate.
Key words: Public Administration, Corruption Prevention and Transparency Officer, Three-year Plan for the Prevention of Corruption and Transparency.
* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] Il riferimento è al sistema sanzionatorio penale e disciplinare. Nonostante quest’ultimo sia spesso considerato poco efficace, può portare a conseguenze il cui impatto per il dipendente pubblico sanzionato sono comunque rilevanti, pur senza coinvolgere la libertà personale. Il coordinamento tra i due strumenti repressivi è ora assicurato dall’art. 55-ter d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Sul punto v. anche M. Delsignore – M. Ramajoli, La prevenzione della corruzione e l’illusione di un’amministrazione senza macchia, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2019, p. 61.
[2] Al riguardo, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, v. la ricostruzione di A. Casabona, Compliance e prevenzione della corruzione nelle amministrazioni pubbliche. Modelli organizzativi e profili di responsabilità, in Jus-online, 2021, p. 63 e ss., spec. pp. 64-65, testo e nota 3.
[3] Aa.Vv., La corruzione in Italia. Per una politica di prevenzione. Analisi del fenomeno, profili internazionali e proposte di riforma, Roma 2012, http://trasparenza.formez.it/sites/all/files/Rapporto_corruzioneDEF_ottobre%202012.pdf (consultato per l’ultima volta il 9 settembre 2021).
[4] Una definizione della nozione si trova nel § 2.1 della versione originaria del Piano Nazionale Anticorruzione approvato nel 2013 http://www.anticorruzione.it/portal/public/classic/Attivitadocumentazione/Anticorruzione/PianoNazionaleAnticorruzione/_piani?id=7bac8baf0a77804244cfd88ec4fb0248 (9 settembre 2021) secondo cui: «il concetto di corruzione che viene preso a riferimento nel presente documento ha un’accezione ampia. Esso è comprensivo delle varie situazioni in cui, nel corso dell’attività amministrativa, si riscontri l’abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati. Le situazioni rilevanti sono più ampie della fattispecie penalistica, che è disciplinata negli artt. 318, 319 e 319-ter, c.p., e sono tali da comprendere non solo l’intera gamma dei delitti contro la pubblica amministrazione disciplinati nel Titolo II, Capo I, del codice penale, ma anche le situazioni in cui - a prescindere dalla rilevanza penale - venga in evidenza un malfunzionamento dell’amministrazione a causa dell’uso a fini privati delle funzioni attribuite ovvero l’inquinamento dell’azione amministrativa ab externo, sia che tale azione abbia successo sia nel caso in cui rimanga a livello di tentativo». Sul tema generale v. già S. Cassese, Maladministration e rimedi, in Foro italiano, 1992, V, c. 243, con indicazioni della principale letteratura (soprattutto straniera) al riguardo, e, più recentemente, F. Merloni, Controlli sugli enti territoriali e maladministration, in Le Regioni, 2009, p. 847; per ulteriori riferimenti alle origini della nozione, M. Delsignore – M. Ramajoli, La prevenzione della corruzione e l’illusione di un’amministrazione senza macchia, cit., p. 62, nota 3. Esprime perplessità riguardo al modo estensivo di intendere i fenomeni in senso lato corruttivi da prevenire S. Torricelli, Disciplina degli appalti e strumenti di lotta alla «corruzione», in Diritto pubblico, 2018, p. 953.
[5] Il riferimento è all’art. 2635 c.c., introdotto dall’art. 1, c. 76, l., n. 190/2012 e successivamente modificato dal d.lgs. 15 marzo 2017, n. 38, di attuazione della decisione quadro UE 2003/568/GAI del Consiglio dell’Unione europea del 22.7.2003 relativa alla lotta alla corruzione nel settore privato, su cui v. E. La Rosa, Verso una nuova riforma della «corruzione tra privati»: dal modello «patrimonialistico» a quello «lealistico» (osservazioni sullo schema di decreto legislativo recante attuazione della decisione quadro 2003/568/GAI relativa alla lotta alla corruzione nel settore privato), in Diritto penale contemporaneo, 23 dicembre 2016; A. Rugani, Riforma della «corruzione tra privati» (d.lgs. n. 38/2017): l’ennesima occasione perduta, in Cassazione penale, 2017, p. 4638; S. Seminara, Il gioco infinito: la riforma del reato di corruzione tra privati (commento al d.lgs. 15 marzo 2017, n. 38), in Diritto penale e processo, 2017, p. 713. Tra le prime riflessioni sull’argomento v. G. Forti, La corruzione tra privati nell'orbita di disciplina della corruzione pubblica: un contributo di tematizzazione, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2003, p. 1115. Per un bilancio recente L. d’Altilia, Dove il leone perde può vincere la volpe: saggio sul ventennio della corruzione tra privati, in L’indice penale, 2020, p. 561.
[6] Il riferimento è innanzi tutto alle misure di trasparenza inizialmente introdotte con il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, poi ampiamente modificato dal d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97, che agli obblighi di trasparenza imposti alle amministrazioni ha affiancato il diritto di accesso civico o generalizzato agli atti delle amministrazioni pubbliche: sul rapporto tra trasparenza amministrativa e prevenzione della corruzione in generale E. Carloni, Alla luce del sole. Trasparenza amministrativa e prevenzione della corruzione, in Diritto amministrativo, 2019, p. 497; sulla prima versione del decreto v. M. Savino, La nuova disciplina della trasparenza amministrativa (commento al d.lgs. 14 marzo 2013 n. 33), in Giornale di diritto amministrativo, 2013, p. 795; sulle successive modifiche e sull’accesso civico generalizzato F. M. Nocelli, L’accessibilità totale nel quadro della trasparenza amministrativa: dinamiche evolutive, in Foro amministrativo, 2020, p. 1979; M. Savino, Il Foia italiano e i suoi critici: per un dibattito scientifico meno platonico, in Diritto amministrativo, 2019, p. 453; N. Vettori, Valori giuridici in conflitto nel regime delle forme di accesso civico, ivi, p. 539; A. Moliterni, La natura giuridica dell'accesso civico generalizzato nel sistema di trasparenza nei confronti dei pubblici poteri, ivi, p. 577; P. Canaparo (a cura di), La trasparenza della pubblica amministrazione dopo la riforma Madia, Roma 2016; per un bilancio dopo i primi anni di applicazione delle disposizioni G. Gardini – M. Magri (a cura di), Il Foia italiano: vincitori e vinti, Santarcangelo di Romagna, 2019; D. Bolognino, Anticorruzione e trasparenza: ridisegnarne l’ambito soggettivo di applicazione? in Giornale di diritto amministrativo, 2020, p. 704.
Seguono le misure che regolano l’accesso agli incarichi esterni da parte dei dipendenti pubblici (art. 53-bis, d.lgs. n. 165/2001) e le disposizioni sul conflitto di interessi dei dipendenti pubblici (attuate dal d.lgs. 8 aprile 2013, n. 39, sull’accesso agli incarichi esterni e sulla incompatibilità e inconferibilità degli incarichi dirigenziali, su cui F. Merloni, Il regime di inconferibilità e incompatibilità nella prospettiva d'imparzialità dei funzionari pubblici, in Giornale di diritto amministrativo, 2013, p. 806; G. Sirianni, La necessaria distanza tra cariche politiche e cariche amministrative, ivi, 2013, p. 816; B. Ponti, La vigilanza e le sanzioni, ivi, p. 821; in una prospettiva generale G. D’Angelo, Conflitto di interessi ed esercizio della funzione amministrativa, Torino 2020; A. Marra, L’amministrazione imparziale, Torino 2018), dal d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235, che regola i casi di incandidabilità e di divieto di ricoprire determinate cariche elettive (su cui N. Lupo – G. Rivosecchi, Le incandidabilità alle cariche elettive e i divieti di ricoprire cariche di governo, in Giornale di diritto amministrativo, 2013, p. 590), nonché dall’art. 53, c. 16-ter, d.lgs. n. 165/2001, che riguarda i casi di incompatibilità successiva alla cessazione del rapporto di lavoro e su cui v. C. Pepe, Lo «strano caso» dell’art. 53, c. 16 ter del d.lgs. 165/01: criticità tra anticorruzione ed efficienza delle gare, in Federalismi.it, 2017, 13 settembre 2017; G. Gargiulo, Il divieto di pantouflage quale presidio dell'imparzialità della pubblica amministrazione, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2019, p. 205.
[7] I codici di comportamento sono strutturati su due livelli, con uno strumento generale e di indirizzo predisposto a livello nazionale, e uno strumento settoriale approvato a livello di singola amministrazione: si hanno così da un lato il codice di comportamento nazionale (introdotto con il d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62) e dall’altro i codici approvati dalle singole amministrazioni (secondo quanto previsto dall’art. 54, c. 5, d.lgs. n. 165/2001). Al riguardo F. Merloni, I piani anticorruzione e i codici di comportamento, in Diritto penale e processo, 2013, supplemento speciale, p. 4; E. Carloni, I codici di comportamento «oltre» la responsabilità disciplinare, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2017, p. 158.
[8] Anche il sistema organizzativo di prevenzione della corruzione è articolato su due livelli, con il Piano nazionale di prevenzione della corruzione (PNA) che stabilisce i contenuti fondamentali e le linee guida da seguire da parte delle singole amministrazioni nel predisporre i propri strumenti di prevenzione, e il Piano triennale per la prevenzione della corruzione approvato a livello di singola amministrazione. Sui profili organizzativi dello strumento R. Giovannetti (a cura di), Il piano triennale di prevenzione della corruzione: contenuti e metodologia di redazione, in Risorse umane nella pubblica amministrazione, 2014, p. 41; S. Amorosino, Il piano nazionale anticorruzione come atto di indirizzo e coordinamento amministrativo, in Nuove autonomie, 2014, p. 21.
[9] Per una trattazione d’insieme v. F. Cerioni – V. Sarcone (a cura di), Legislazione anticorruzione e responsabilità nella pubblica amministrazione, Milano 2019; M. D’Alberti (a cura di), Corruzione e pubblica amministrazione, Napoli 2017.
[10] Anche in questo caso si tratta di una scelta conseguente alla necessità di dare attuazione a specifici impegni internazionali, che rinviano agli Stati aderenti la scelta delle forme organizzative da preferire, purché l’organo o l’istituzione preposto alla funzione sia dotato di una sufficiente indipendenza: così, in termini condivisibili, M. Delsignore – M. Ramajoli, La prevenzione della corruzione e l’illusione di un’amministrazione senza macchia, cit., pp. 62-63. In questa prospettiva, le funzioni di Autorità nazionale anticorruzione sono state inizialmente attribuite alla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (CIVIT), prevista dall’art. 13, d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150. In questo quadro organizzativo, peraltro, le competenze specifiche riguardanti la predisposizione e l’approvazione del Piano Nazionale anticorruzione erano state assegnate al Dipartimento della funzione pubblica dall’art. 1, c. 4, 5 e 8, l. n. 190/2012. In un secondo momento, invece, tutte le funzioni sono state riunite e devolute all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) riorganizzata secondo le disposizioni dell’art. 19, d.l. 24 giugno 2014, n. 90.
[11] Sull’impatto degli strumenti di prevenzione della corruzione sull’organizzazione amministrativa v. C. Tubertini, Piani di prevenzione della corruzione e organizzazione amministrativa, in Jus-online, 2016, p. 141; F. Fracchia, L’impatto delle misure anticorruzione e della trasparenza sull’organizzazione amministrativa, in Il diritto dell’economia, 2015, p. 483.
[12] Per riferimenti all’amplissima bibliografia in materia si rinvia al quadro aggiornato ricostruito da A. Casabona, Compliance e prevenzione della corruzione nelle amministrazioni pubbliche. Modelli organizzativi e profili di responsabilità, cit., p. 85, testo e note 70-71.
[13] Per una riflessione generale sui modelli organizzativi e sull’introduzione nelle pubbliche amministrazioni delle tecniche di gestione del rischio R. Lombardi, Compliance 231 e misure di risk management: la nouvelle vague della «regolazione responsiva» degli attori pubblici economici, in Diritto amministrativo, 2019, p. 125.
[14] Piano Nazionale di prevenzione della corruzione 2013, All. 1, § B.1.1.1, cit.
[15] https://www.iso.org/iso-31000-risk-management.html (9 settembre 2021).
[16] Lo scostamento principale è rappresentato dalla diversa rilevanza che le direttive del Piano Nazionale di prevenzione della corruzione attribuiscono a quello che nel linguaggio dello standard ISO 31000 è identificato come definizione del contesto: questo momento, che viene riservato alle valutazioni dell’organizzazione che predispone il proprio modello di gestione del rischio e nell’ambito del quale l’organizzazione stessa definisce le proprie linee prioritarie al riguardo, nell’impostazione seguita dal Piano nazionale si stempera in modo significativo. Alla definizione del contesto da parte della singola amministrazione, infatti, si sostituisce una strategia unitaria stabilita a livello di Piano nazionale: indirizzo generale di gestione del rischio e criteri di rischio in questa prospettiva costituiscono quindi un elemento comune per tutte le amministrazioni, che dovranno poi procedere all’individuazione delle aree di attività a rischio corruzione (anche in questo caso peraltro non mancano le indicazioni da parte del Piano nazionale), al calcolo del livello di rischio e alla decisione delle priorità di trattamento.
[17] Al riguardo v. S. Cassese, Amministrazione pubblica e progresso civile, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2020, p. 141 ss. spec. p. 147.
[18] In occasione dell’aggiornamento del 2015 al Piano Nazionale di prevenzione della corruzione l’ANAC con la Determinazione 28 ottobre 2015, n. 12 ha rilevato come più della metà dei Piani triennali di prevenzione della corruzione non fossero adeguati rispetto allo standard ISO 31000 e alle indicazioni del PNA.
[19] Sulla figura, in termini generali, M. Lucca, Il responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza: ambiti di competenza e tutele, in Comuni d’Italia, 2017, p. 43 ss.; S. Pilato, Il responsabile della prevenzione della corruzione e le misure organizzative per l'esecuzione del piano anticorruzione: poteri, controlli e responsabilità, in Rivista della Corte dei Conti, 2015, p. 552; G. Martellino, Il Responsabile per la prevenzione della corruzione e la trasparenza (RPCT): ruolo, competenze e responsabilità del “regista della prevenzione”, in F. Cerioni – V. Sarcone (a cura di), Legislazione anticorruzione e responsabilità nella pubblica amministrazione, cit., p. 101.
[20] Si tenga inoltre presente che dal momento che il Piano triennale di prevenzione della corruzione di regola comprende anche le misure dirette all’adempimento degli obblighi in materia di trasparenza stabiliti dal d.lgs. n. 33/2013, strutturandosi quindi come strumento integrato per la prevenzione della corruzione e per l’attuazione della trasparenza (PTPCT), al Responsabile della prevenzione della corruzione sono spesso attribuite anche le funzioni riguardanti l’attuazione delle misure sulla trasparenza. In tali casi l’incaricato viene quindi individuato come Responsabile per la prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT).
[21] Salvo che sia previsto in relazione al raggiungimento di specifici obiettivi di risultato concordati nell’ambito del ciclo della performance.
[22] V. al riguardo la nota 8, con la descrizione della transizione delle funzioni da CIVIT ad ANAC.
[23] Delibera CIVIT 13 marzo 2013, n. 15 https://www.anticorruzione.it/portal/public/classic/AttivitaAutorita/AttiDellAutorita/_Atto?id=05f4fbb50a7780425cbcebd9d92807e3 (9 settembre 2021).
[24] Più che sulla diversa delineazione delle competenze di Consiglio e Sindaco da parte rispettivamente degli artt. 42 e 50 d.lgs. n. 267/2000 e dal paralogismo che fa discendere il potere di nomina del Sindaco dalla competenza a designare il Segretario comunale, la questione rileva(va) in termini di contrasto con la disposizione (art. 50, c. 10 d.lgs. n. 267/2000) che assegna al Sindaco e al Presidente della provincia il potere di attribuzione degli incarichi dirigenziali. Si tratta infatti di una previsione che – come le altre disposizioni del Testo unico degli enti locali – gode della tutela rafforzata stabilita dall’art. 1, c. 4 d.lgs. n. 267/2000 sulla base dell’art. 128 Cost. Tale profilo, d’altra parte, avrebbe eventualmente determinato un vizio dell’art. 1 c. 7 l. n. 190/2012, ma difficilmente avrebbe potuto giustificare una interpretazione della disposizione in aperto contrasto con il suo significato letterale, decisamente inequivoco riguardo alla competenza alla nomina negli enti territoriali.
[25] La norma in questione attribuisce all’ANAC il potere di irrogare una sanzione da 1000 a 10000 Euro «nel caso in cui il soggetto obbligato ometta l'adozione dei piani triennali di prevenzione della corruzione, dei programmi triennali di trasparenza o dei codici di comportamento». Sull’esercizio di tali poteri sanzionatori v. ora la Delibera ANAC 12 maggio 2021, n. 437, che ha approvato il Regolamento in materia di esercizio del potere sanzionatorio dell’Autorità Nazionale Anticorruzione per l’omessa adozione dei Piani triennali di prevenzione della corruzione, dei Programmi triennali di trasparenza, dei Codici dì comportamento.[26] In questo senso v. l’art. 1, c. 12, l. n. 190/2012.
[27] Art. 1, c. 14, l. n. 190/2012.
[28] La possibilità di fornire una prova liberatoria, inizialmente non prevista, è stata introdotta dall’art. 41, c. 1, lett. l) d.lgs. n. 97/2016, che ha modificato l’art. 1, c. 14, l. n. 190/2012. Tale modifica ha attenuato gli effetti disfunzionali della formulazione originaria, che nel configurare la responsabilità in questione aveva come conseguenza pratica quella di disincentivare il Responsabile della prevenzione della corruzione – che pure sarebbe teoricamente tenuto a farlo – dal far emergere le inosservanze e le violazioni del Piano.
[29] In tal senso v. gli artt. 5, c. 7, e 43 d.lgs. n. 33/2013, come modificato dal d.lgs. 97/2016.
[30] In particolare v. l’art. 15 d.lgs. n. 39/2013.
[31] Delibera ANAC 2 ottobre 2018, n. 840 https://www.anticorruzione.it/portal/rest/jcr/repository/collaboration/Digital%20Assets/anacdocs/Attivita/Atti/Delibere/2018/Del.840.2018.pdf (9 settembre 2021).
[32] Delibera ANAC 13 novembre 2019, n. 1064, https://www.anticorruzione.it/portal/rest/jcr/repository/collaboration/Digital%20Assets/anacdocs/Attivita/Atti/Delibere/2019/PNA2019_Delibera_1064_13novembre_sito.pdf (9 settembre 2021). Il quadro normativo è sintetizzato nell’Allegato 3: https://www.anticorruzione.it/portal/rest/jcr/repository/collaboration/Digital%20Assets/anacdocs/Attivita/Atti/Delibere/2019/Allegato%203%20-%20PNA%202019S.pdf (9 settembre 2021).
[33] In particolare, sono ritenute causa di incompatibilità con l’incarico il rinvio a giudizio e le sentenze di condanna penale anche in primo grado per i reati considerati dall’art. 7, c. 1, lett. a-f), d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235 e per i reati contro la pubblica amministrazione e le sentenze di condanna anche non definitive della Corte dei conti per danno erariale in dipendenza di un comportamento doloso. La presenza di sentenze civili di condanna e provvedimenti disciplinari deve essere invece valutata caso per caso. Si tenga inoltre presente che a seguito dell’apertura di un procedimento penale o disciplinare per fatti che integrano la fattispecie di un reato corruttivo è necessario provvedere a disporre la rotazione dell’incarico [art. 16, c. 1, lett. l-quater) d.lgs. n. 165/2001 e delibera ANAC, 26 marzo 2019, n. 215, §§ 3.12-3.13].
[34] In termini simili v. A. Casabona, Compliance e prevenzione della corruzione nelle amministrazioni pubbliche. Modelli organizzativi e profili di responsabilità, cit., pp. 90-91.
[35] Orientamenti sui quali sembrano comunque mancare riscontri evidenti, segno che la questione non ha per ora dato origine a un contenzioso rilevante. Al riguardo v. ancora A. Casabona, Compliance e prevenzione della corruzione nelle amministrazioni pubbliche. Modelli organizzativi e profili di responsabilità, cit., p. 95, che rileva come da un lato non risultino accertamenti di responsabilità da parte della Corte dei Conti a carico di Responsabili della prevenzione della corruzione e della trasparenza e dall’altro la stessa ANAC abbia seguito un approccio collaborativo. In termini critici rispetto a una ricostruzione della responsabilità del Responsabile della prevenzione della corruzione come responsabilità oggettiva, peraltro, v. già S. Pilato, Il responsabile della prevenzione della corruzione e le misure organizzative per l'esecuzione del piano anticorruzione: poteri, controlli e responsabilità, cit., p. 561, secondo cui l’inversione dell’onere della prova non può modificare il regime giuridico d’imputazione delle singole responsabilità pubbliche.
[36] In questo senso, il legislatore pare aver tenuto conto di alcuni dei rilievi formulati rispetto al testo originario della l. n 190/2012 ricordati alla nota precedente.
[37] Delibera ANAC 13 novembre 2019, n. 1064, cit., Parte IV, § 3.
[38] Come esempio v. la Delibera ANAC 2 maggio 2018, n. 408 https://www.anticorruzione.it/portal/public/classic/AttivitaAutorita/AttiDellAutorita/_Atto?id=69ad2f6b0a778042301cc460b4f95db7 (9 settembre 2021).
[39] C. E. Paliero –A. Travi, voce Sanzioni amministrative, in Enciclopedia del diritto, XLI, Milano 1989, p. 345 ss., spec. p. 382; P. Cerbo, Le sanzioni amministrative, in Trattato di diritto amministrativo, (a cura di S. Cassese), Parte speciale, I, Milano 2003, II ed., p. 579; Id., La nozione di sanzione amministrativa e la disciplina applicabile, in A. Cagnazzo – S. Toschei – F. Tuccari, (a cura di), La sanzione amministrativa, Milano 2016, p. 3 ss.; S. Licciardello, I principi che governano la irrogazione delle sanzioni amministrative, ivi, p. 75 ss.
[40] Su tale potere e sui caratteri del relativo procedimento v. Cons. Stato, sez. V, 14 gennaio 2019, n. 299.
[41] Tar Lazio, sez. I, 14 novembre 2016, n. 11270, in Giurisprudenza italiana, 2017, p. 744, con nota di R. Micalizzi, Il ruolo dell'Anac nell'accertamento delle fattispecie di inconferibilità di incarichi pubblici.
[42] Cons. Stato, sez. V, 11 gennaio 2018, n. 126; in termini simili v. anche Tar Lazio, sez. I, 11 aprile 2019, n. 4780. A commento dell’orientamento espresso dal Consiglio di Stato G. Palmieri, Le linee guida in materia di accertamento delle inconferibilità e delle incompatibilità degli incarichi amministrativi da parte del responsabile della prevenzione della corruzione. Attività di vigilanza e poteri di accertamento dell’A.N.A.C. in caso di incarichi inconferibili e incompatibili, in Giustamm.it, 2018, n. 3/2018; V. Sessa, Funzioni e poteri in materia di accertamento di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e gli enti privati in controllo pubblico, ivi, 2017, n. 2/2017.
[43] Come si è già osservato e come rilevato dalla stessa sentenza. Il potere di ANAC di dichiarare la nullità dell’incarico già conferito è riconosciuto sulla base di una particolare interpretazione del potere di accertamento attribuito dall’art. 16, c. 1, d.lgs. n. 39/2013, un accertamento con connotazioni peculiari, considerato espressione di una valutazione che «non si esaurisce con un opinamento, ma è produttiva di conseguenze giuridiche, perciò ha carattere provvedimentale».
[44] Eventualità sulla quale la motivazione della sentenza dichiara di non dover prendere posizione.
[45] Tar Abruzzo, sez. I, 9 agosto 2018, n. 330.
[46] Tar Lazio, sez. I, 15 maggio 2020, n. 5188.
[47] Tar Campania, Salerno, sez. II, 9 settembre 2016, n. 2077.
[48] Come rilevato in sede d’appello: Cons. Stato, sez. V, ord. 27 giugno 2017, n. 2693.
[49] Al riguardo v. M. Cavanna, La fondazione di partecipazione: “modello” atipico a struttura tipica, in Il nuovo diritto delle società, 2020, p. 287; C. Ibba, Dall'impresa-organo alla fondazione di partecipazione: modelli vecchi e nuovi dell'iniziativa economica pubblica, in Rivista di diritto privato, 2019, p. 327.
[50] V. in particolare §§ 1.3 e 3.1.1.
[51] https://www.anticorruzione.it/portal/public/classic/AttivitaAutorita/AttiDellAutorita/_Atto?ca=6170 (9 settembre 2021).
[52] L. Bertonazzi, Società in controllo pubblico e normativa in materia di responsabile e piano di prevenzione della corruzione, in Giustamm.it, 2016, n. 6/2016; contra D. Damiano, Le società partecipate e gli obblighi di trasparenza finalizzati a scongiurare il verificarsi di fenomeni corruttivi, in Munus,2014, p. 487; F. Elefante, Società pubbliche e normativa anticorruzione, ivi, p. 467. Sulla disciplina originaria v. inoltre G. Aita – A. Aita – V. Stilla – Z. Patsis, Le determinazioni dell’Anac inerenti all’aggiornamento 2015 del Piano nazionale anticorruzione e al regime applicabile agli enti di diritto privato in controllo pubblico, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2016, fasc. 1, p. 307; G. Aita – A. Aita – S. Boccuni – V. Stilla – Z. Patsis, La legge anticorruzione e la sua applicazione per i soggetti privati in controllo pubblico, ivi, 2015, fasc. 1, p. 281.
[53] In particolare il d.lgs. n. 97/2016 da un lato, con l’art. 41, ha aggiunto all’art. 1, l. n. 190/2012 il c. 2-bis, secondo cui il PNA «(…) costituisce atto di indirizzo per le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai fini dell’adozione dei propri piani triennali di prevenzione della corruzione, e per gli altri soggetti di cui all’articolo 2-bis, comma 2, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai fini dell’adozione di misure di prevenzione della corruzione integrative di quelle adottate ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (…)»; dall’altro, con l’art. 3, c. 2, ha introdotto l’art. 2-bis d.lgs. n. 33/2013, che nel definire l’ambito soggettivo di applicazione dello stesso decreto legislativo, al comma 2 fa riferimento «(…) a) agli enti pubblici economici e agli ordini professionali; b) alle società in controllo pubblico come definite dal decreto legislativo emanato in attuazione dell’articolo 18 della legge 7 agosto 2015, n. 124. Sono escluse le società quotate come definite dallo stesso decreto legislativo emanato in attuazione dell’articolo 18 della legge 7 agosto 2015, n. 124; c) alle associazioni, alle fondazioni e agli enti di diritto privato comunque denominati, anche privi di personalità giuridica, con bilancio superiore a cinquecentomila euro, la cui attività sia finanziata in modo maggioritario per almeno due esercizi finanziari consecutivi nell’ultimo triennio da pubbliche amministrazioni e in cui la totalità dei titolari o dei componenti dell’organo d’amministrazione o di indirizzo sia designata da pubbliche amministrazioni».
[54] http://www.anticorruzione.it/portal/public/classic/AttivitaAutorita/AttiDellAutorita/_Atto?ca=7019 (9 settembre 2021).
[55] Cons. Stato, commiss. spec., 29 maggio 2017, n. 1257/17-650/17, in Foro amministrativo, 2017, p. 1085.
[56] Determinazione ANAC n. 1134/2017, § 3.1.1.
[57] In mancanza di soggetti con qualifica dirigenziale è tuttavia necessario individuare persone con adeguata competenza in materia. In tali casi è inoltre previsto che l’incarico venga svolto sotto il controllo del consiglio di amministrazione o dell’amministratore delegato. Questa previsione, d’altra parte, pone il problema di attribuire un potere di controllo e sorveglianza a soggetti o componenti di organi a loro volta sottoposti all’attività di vigilanza del Responsabile della prevenzione della corruzione.
[58] Per questa soluzione v. F. Petrillo, Il responsabile della prevenzione della corruzione ex l. 190/2012 e l’organismo di vigilanza ai sensi del d.lgs. 231/2001: ruoli e responsabilità - Due figure sovrapponibili?, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2014, fasc. 1, p. 95 ss., spec. pp. 110-111; sulle modalità di integrazione v. inoltre M. F. Artusi, Odv e responsabile per la prevenzione della corruzione: interazioni possibili, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2015, fasc. 3, p. 117 e, dopo le indicazioni delle linee guida dell’ANAC, Id., Odv e responsabile anticorruzione: un rapporto in continua evoluzione, ivi, 2018, fasc. 3, p. 149.
[59] In tali casi, infatti, si ritiene che non vi sia distinzione tra patrimonio della società e patrimonio dell’ente pubblico socio, ostacolo principale alla configurabilità del danno erariale: sul punto, Cass., sez. un., 25 novembre 2013, n. 26283, in Giurisprudenza italiana, 2014, p. 1990, con nota di A. Bartolini, La società in house perde il corporate veil: un ritorno all’organo impresa; in Società, 2014, p. 55, con nota di F. Fimmanò, La giurisdizione sulle «società in house providing»; per un’applicazione di tale principio in materia di responsabilità per danno erariale degli amministratori Cass., sez. un., ord. 27 dicembre 2019, n. 34471; ord. 12 dicembre 2019, n. 32608; ord. 11 settembre 2019, n. 22713; ord. 11 settembre 2019, n. 22712, in Foro italiano, 2020, I, c. 1308, con nota di G. D’Auria, Ancora sulla giurisdizione in tema di responsabilità degli amministratori di società a partecipazione pubblica: le regole generali e alcuni casi inusuali.
[60] Per una riflessione che evidenzia anche gli effetti potenzialmente negativi, in particolare in termini di inerzia dei processi decisionali, v. M. Delsignore – M. Ramajoli, La prevenzione della corruzione e l’illusione di un’amministrazione senza macchia, cit., pp. 69-70.
[61] In questo senso v. anche A. Casabona, Compliance e prevenzione della corruzione nelle amministrazioni pubbliche. Modelli organizzativi e profili di responsabilità, cit., p. 89, testo e nota 81.
Sigismondi Giammarco
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