fbevnts Veronica Montani, La legge delega sul Terzo settore e le prospettive di riforma del codice civile

La legge delega sul Terzo settore e le prospettive di riforma del codice civile

28.02.2017

Veronica Montani

Assegnista di ricerca in Istituzioni di diritto privato, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

La legge delega sul Terzo settore e le prospettive di riforma del codice civile

 

SOMMARIO: 1. Introduzione - 2. Ambito di applicazione della legge delega. La definizione di Terzo settore - 2.1. (Segue): Problemi di coordinamento tra codice civile e codice del Terzo settore - 3. Le cinque linee di riforma del codice civile: i) il riconoscimento della personalità giuridica - 4. ii) La responsabilità degli amministratori - 5. iii) Diritti degli associati - 6. iv) L’esercizio dell’attività d’impresa stabile e prevalente e le norme applicabili - 6.1 (Segue): L’attività di impresa e il principio causale - 7. v) Le trasformazioni dirette tra enti del libro I - 8. Conclusioni

 

1. Introduzione

A settantacinque anni dalla codificazione e dopo svariati tentativi mai giunti a positiva conclusione, il 2017 dovrebbe conoscere l’attesa riforma del c.d. Terzo settore, che possa costituire risposta organica e sistematica alla disciplina scarna ed obsoleta del codice civile e a quella eccessivamente frammentaria delle leggi speciali.

Il travagliato iter dell’ultimo tentativo di riforma, cominciato nel maggio 2014 con la predisposizione delle linee guida[1], è giunto a conclusione, dopo quasi due anni di lavori e oltre settecento emendamenti, molti dei quali presentati e poi ritirati, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale in data 6 giugno 2016 della legge n. 106 “Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell'impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale”, a cui dovranno ora fare seguito i relativi decreti attuativi.

Duplice è la potenziale linea di intervento: da un lato, una revisione del titolo II del libro I del codice civile; dall’altro un riordino della legislazione speciale in materia. Non stupisce, dunque, che gli operatori del settore guardino con particolare interesse alle potenziali innovatività che potrebbero essere introdotte dai decreti attuativi della legge delega, potendo costituire l’occasione che da molto tempo si attendeva per fornire risposte alle molte incertezze interpretative sorte negli anni e per introdurre una disciplina che tenga opportunamente conto del mutato ruolo degli enti senza scopo di lucro.

Come noto, l’originario impianto codicistico ha risentito della visione degli enti senza scopo di lucro quali corpi morali, che costituivano un “diaframma” tra Stato e cittadino, dediti esclusivamente all’attività di beneficienza e/o assistenza (ai quali era sostanzialmente preclusa l’attività economica) e sottoposti a rigidi controlli statali, anche in ragione dello storico timore per il fenomeno dalla manomorta ecclesiastica.

Alla semplicità concettuale degli enti senza scopo di lucro che ha caratterizzato l’idea dell’inizio secolo scorso, è corrisposta una essenzialità di disciplina del codice civile con la previsione di tre modelli operativi – fondazioni, associazioni, comitati – caratterizzati da un sistema di ingerenti controlli statali sull’operato degli enti intermedi – così l’art. 12 e l’art. 16, ultimo comma ed altresì gli artt. 17, 25, 26, 27, 28, 31, secondo comma, 32, oltre che 600 e 786 del codice civile – e da un riconoscimento di tipo concessorio centralizzato a livello nazionale da parte dello Stato, cui sfuggiva solo il modello dell’associazione non riconosciuta, concepito come residuale e marginale.

Da eccezione a regola, l’art. 36 c.c. è ben presto divenuto norma di "apertura" e di elasticità di sistema che, valorizzando l’autonomia contrattuale dei privati, ha nel tempo assunto un ruolo determinante nella creazione di nuovi enti o di nuove regole di governance degli stessi, rendendo gli enti senza scopo di lucro un “mondo” assai eterogeneo e difficilmente riconducibile a rigidi schemi descrittivi[2]. Da ruolo ancillare, espressione dell’intento del legislatore del 1942, le associazioni non riconosciute hanno ben presto acquisito una funzione centrale quale modello assai duttile e adattabile alle più diverse esigenze dei privati, pur continuando a scontare gli storici problemi legati all’assenza di personalità e al discusso riconoscimento della soggettività giuridica[3], con le forti limitazioni operative anche in termini di acquisti immobiliari e di capacità successoria.

I controlli incombenti sugli enti riconosciuti e le limitazioni imposte anche agli enti di fatto hanno prodotto l'insofferenza sfociata in due diversi fenomeni, apparentemente antitetici (entrambi oggetto di revisione della pendente riforma): così, mentre il codice civile è stato oggetto di una serie di importanti interventi abrogativi[4], definiti di “degenerazione neocorporativa”[5], volti a ‹‹espungere dal codice civile quei profili normativi che più appa(rivano) superati dalla affermazione dei nuovi princìpi e valori in materia di autonomia dei gruppi organizzati»[6] (l’abrogazione dell’art. 17 c.c.[7] e degli artt. 600 e 786 c.c.[8] a cui si deve aggiungere la riforma del procedimento di riconoscimento della personalità giuridica[9]), in parallelo, si è assistito ad una fioritura di leggi fuori codice, la cui frammentarietà e articolazione sono ben rese dall’espressione “groviglio di leggi speciali”[10].

Quest’ultima tendenza alla decodificazione è stata, in particolare, determinata dall’eterogeneità del settore che ha assunto sempre più marcatamente una finalità sociale. Dimostrando un mutamento non solo nominalistico bensì concettuale e ancor più culturale, derivante dalle teorie pioneristiche dei fallimenti dello Stato di Burton Weisbord[11] e del contratto di Henry Hansmann[12], la progressiva ridefinizione degli enti da “corpi morali” a “enti del Terzo settore” descrive, infatti, l’emersione di una nuova realtà alternativa rispetto alla società commerciale e agli enti pubblici, in cui il Terzo settore diviene in una prima stagione sinonimo di ente senza scopo di lucro e, in una seconda, sinonimo di ente caratterizzato da finalità di interesse generale e sociale.

Mosso dall’esigenza di proteggere e promuovere finalità particolarmente meritorie, il legislatore ha, così, risposto alle esigenze degli operatori, attraverso l’introduzione di normative ad hoc[13] che valorizzassero i caratteri peculiari dei diversi tipi di enti e che, al contempo, prevedessero benefici o agevolazioni di carattere fiscale.

Ne è derivata una normativa variegata, frastagliata e disomogenea, spesso originata dalla necessità, di volta in volta, di riconoscere la meritevolezza di una specifica tipologia di ente, operante in specifici ambiti, più che da un intento di regolazione unitaria e coerente dell’intero settore degli enti senza scopo di lucro. Alluvionali gli interventi, talora più strutturati e contenuti in apposite leggi, talaltra in articoli o commi contenuti in leggi finanziarie o di altra natura, che hanno contribuito a creare un sistema normativo farraginoso, nel quale si intrecciano, e in parte sovrappongono, profili di natura civilistica e fiscale generando non poche difficoltà interpretative e operative. Emblematico l’intervento del d.lgs. n. 460/1997 che, operando trasversalmente, ha previsto la figura delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (O.n.l.u.s.), così introducendo una disciplina fiscale che, tuttavia, nel tempo, è stato percepito dagli operatori del settore come nuova ed autonoma categoria civilistica. Una sovrapposizione, dunque, tra concetti civilistici e fiscali non sempre coincidenti[14], nonché tra diverse discipline speciali applicabili allo stesso ente non necessariamente tra loro coerenti che ha certo contribuito ad aumentare la sensazione di confusione regnante nel sistema. Gli enti del Terzo settore – il cui numero ordinale rispecchia l’emersione cronologica dello stesso, ma da molti definito primo settore per l’importanza rivestita nel welfare moderno – costituiscono, dunque, una realtà assolutamente eterogenea, in cui il sistema normativo da “groviglio” è divenuto “nebulosa”[15].

Che il codice civile e la miriade di leggi speciali siano percepite come il riflesso di un sistema inadeguato è, dunque, come detto, sentire unanimemente condiviso sia dal formante dottrinale sia da quello legislativo da oltre un decennio, tanto che dal 2000 ad oggi si contano non poche occasioni[16], tra proposte di legge e commissioni, in cui si è cercato, invano, di revisionare la normativa in questione, facendo emergere la difficoltà di operare nel senso di una riforma organica ed unitaria della materia.

L’approvata legge delega e i decreti attuativi in corso di stesura si pongono, dunque, di fronte ad una sfida ambiziosa. Come si avrà ampiamente modo di argomentare, la riforma del codice civile dovrà riuscire a dettare regole più precise e maggiormente aderenti alla nuova fisionomia degli enti senza scopo di lucro, per i quali, pur nella loro diversità ontologica rispetto agli enti del libro V del codice civile, emerge la necessità di riflessioni circa la compatibilità delle norme dettate per l'impresa ed i modelli societari. Riecheggiano, così, oggi con rinnovata attualità, le parole di un compianto illustre giurista, il quale avvertiva della necessità di creare ‹‹una continuità, pur sempre nella diversità»[17] tra diritto civile e diritto commerciale, rappresentando, emblematicamente, gli enti associativi e fondazionali l’anello di congiunzione tra le due discipline. In tal senso, le norme societarie costituiscono un modello di riferimento legislativamente imposto nell’attuazione delle modifiche che la legge delega introduce con riferimento alla disciplina del codice civile, e in particolare in relazione alle norme da applicare ove l’ente svolga una attività di impresa in modo stabile e prevalente (art. 3, lett. d) e in relazione ai procedimenti di trasformazione e fusione tra fondazioni e associazioni (art. 3, lett. e). Più in generale, il sistema del titolo V potrebbe, poi, costituire un utile terreno di confronto per l’attuazione della revisione del procedimento di riconoscimento della personalità giuridica degli enti di libro I, della previsione di obblighi di informazione, trasparenza e pubblicità nonché di conservazione del patrimonio (art. 3, lett. a); della disciplina del regime di responsabilità limitata degli enti riconosciuti che tenga conto del rapporto tra patrimonio netto e indebitamento dell’ente (art. 3, lett. b); della più articolata previsione dei diritti degli associati (art. 3, lett. c).

La legge delega, inoltre, sembra poi poter costituire anche un’occasione importante di revisione di sistema tra diritto comune e diritto speciale. Fin dalla commissione Galgano[18] e da quella Rovelli[19], si sottolineava, infatti, la necessità di adeguare il diritto comune ai nuovi fenomeni associativi e fondazionali con una tecnica di novellazione del codice che consentisse di non relegare l’applicazione del titolo II del libro I ad ipotesi residuali. Si avvertiva l’esigenza di svolgere un’opera di coordinazione tra codice civile e legislazione di settore, impedendo che i singoli statuti, sempre più speciali e sempre più dettagliati, acquisissero un ruolo primario, persino sostitutivo del diritto comune[20].

Così, mentre nei primi progetti le riflessioni erano incentrate esclusivamente sulle tipologie di ente senza scopo di lucro, in tempi più recenti è emersa un’attenzione gradualmente cresciuta per gli enti che suscitano un affidamento in ordine alla realizzazione di un fine pubblico o collettivo[21], tanto da essere divenuto quest’ultimo, nella proposta di Riforma del 2010[22], parametro di diverse regole applicative.

Non stupisce, dunque, che in questo processo evolutivo l’approvata legge delega n. 106/2016 abbia recepito normativamente la nozione di ente del Terzo settore ed abbia coniugato le doppie esigenze di ammodernamento di sistema, proponendosi il duplice obiettivo di armonizzare e semplificare una legislazione disorganica, attraverso la predisposizione di un apposito Codice del Terzo Settore.

Dopo aver chiarito l’ambito di applicazione della legge delega (art. 1), il presente lavoro si concentrerà, in particolare, sulle cinque linee di intervento dettate per il codice civile – corrispondenti alle cinque lettere dell’art. 3, già prima brevemente ripercorse - e sulle relative possibili modalità di attuazione, per l’importanza della riforma ex se e, al contempo, per il ruolo logicamente preordinato che la revisione del codice civile assume rispetto alla semplificazione e riorganizzazione delle leggi speciali a cui la legge delega si riferisce, in particolare, con gli articoli 4, 5 e 6.

2. Ambito di applicazione della legge delega. La definizione di Terzo settore.

La legge delega si apre con la definizione di Terzo settore[23], quale «complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività d’interesse generale, mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi» (art. 1, primo comma).

Un primo elemento di innovazione è, dunque, la normazione “in positivo” della nozione di Terzo settore; espressione sconosciuta al codice civile, che ha storicamente prediletto formule, scarsamente caratterizzanti e limitative, quali “corpi morali” o, secondo l’art. 12 c.c., “persone giuridiche private”, ma ben nota nell’ambito sociologico al quale appartengono le nozioni di “terzo settore”, “terzo sistema”, “privato sociale”, “economia sociale”[24].

Si evincono, già dal profilo lessicale, le difficoltà incontrate nel definire il fenomeno in esame anche in ragione della diffusa tendenza a ricostruire l’area interessata in termini “residuali”, a cui sopperisce per la prima volta il legislatore. La nozione di Terzo settore[25], utilizzata per la prima volta nel 1973 da Amitai Etzioni nel suo scritto “The Third Sector and Domestic Mission[26] e recepita poi in Europa da Jacque Delors[27] qualche anno più tardi, è stata lungamente impiegata come sinonimo di enti senza scopo di lucro per descrivere un ente diverso da quello societario, in una contrapposizione tra pubblico e privato, allorquando il modello bipolare Stato/imprese for profit poteva considerarsi un dogma.

Come autorevolmente ricordato[28], tuttavia, mentre il sistema statunitense ha, poi, prediletto scelte terminologiche quali non profit per indicare un sistema nato per favorire l’inclusione degli enti senza scopo di lucro nel mercato, in una funzione redistributrice, il sistema francese ed anche inglese ha preferito la formulazione di Terzo settore per identificare, di fatto, un soggetto privato ma sostanziale braccio operativo della pubblica amministrazione, con il quale instaurare un rapporto privilegiato. In ragione di ciò e della peculiarità del sistema italiano, in cui gli enti senza scopo di lucro si sono da sempre caratterizzati per una funzione produttiva, di creazione di valore, vi è chi sottolinea come sarebbe più corretto discorrere di settore dell’economia civile produttivo [29], in un passaggio da terzo a primo settore.

Le differenze concettuali sottese alle diverse scelte terminologiche attengono, più propriamente, all’idea e alla funzione economico-produttiva che il Terzo settore può assumere e non già alla definizione strettamente giuridica, che, come detto, per la prima volta una legge fornisce.

La legge delega n. 106/2016 sceglie di non adottare come medio logico del suo percorso innovativo le fondazioni, le associazioni, i comitati e le altre istituzioni di carattere privato senza scopo di lucro, bensì di recepire una figura più ampia, onnicomprensiva di tali enti; al contempo, di circoscrivere la nozione di Terzo settore ai soli enti senza scopo di lucro che perseguono finalità civiche, solidaristiche o di utilità sociale.

Terzo settore che, dunque, non appare più sinonimo di enti senza scopo di lucro tout court, né di non profit.

Alla definizione in positivo seguono, tuttavia, una serie di esclusioni legislative in relazione a soggetti che, in realtà, da un punto di vista funzionale, ricadono più o meno pienamente nella definizione di Terzo settore così formulata: si tratta, in particolare, delle formazioni e delle associazioni politiche, dei sindacati, delle associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche a cui, con gli emendamenti di coda approvati al Senato, sono state aggiunte le fondazioni bancarie. La scelta parrebbe essere stata determinata, più che da una coerenza sistematica, dalla volontà di mantenere inalterata la normativa “a maglie larghe” che a detti enti esclusi si applica e, con riferimento alle fondazioni bancarie – per le quali un inciso normativo riconosce esplicitamente la loro funzione volta al perseguimento delle finalità tipiche del Terzo settore[30] - di non pregiudicare l’equilibrio raggiunto con l’accordo di autoregolamentazione siglato il 22 aprile 2015 tra il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio S.p.A. (c.d. accordo MEF-Acri[31]).

Soffermandosi sull’aspetto inclusivo della definizione, può osservarsi come la specificazione del requisito della finalità civica, solidaristica o di utilità sociale che l’ente deve perseguire determini la nascita di un sottosistema del non profit. Con una rappresentazione grafica, all’interno dell’insieme degli enti senza scopo di lucro, si individuerebbe un sottoinsieme del Terzo Settore, che non esaurirebbe il primo e che conterrebbe appunto gli enti senza scopo di lucro che perseguono finalità civica, solidaristica o di utilità sociale, in un rapporto di inclusione basato sul profilo finalistico dell’ente. Con l’ulteriore precisazione che si tratterebbe di un sottoinsieme peculiare in quanto le norme dedicate al Codice del Terzo settore (e all’impresa sociale in particolare) prevedono, infatti, che anche gli enti societari possano assumere tale ultima qualifica, con ciò determinando un allargamento “atipico” del Terzo settore anche ad enti caratterizzati da una, seppur limitata, remuneratività del capitale. Nelle indicazioni della legge delega sulla struttura del Codice speciale degli enti del Terzo settore, dunque, i confini della categoria si dilatano, uscendo dall’insieme enti del libro I, per abbracciare, in presenza di determinate condizioni, anche gli enti del libro V, in un’ottica di valorizzazione dell’economia sociale, costituendo una nuova categoria di ente più che una mera qualifica.

Così, mentre nell’ultimo ventennio del secolo scorso di discuteva circa la possibile configurazione dell’autonoma categoria degli “enti non profit[32] e, ulteriormente, del profilo differenziale tra enti senza scopo di lucro e enti for profit, giungendo ad individuare detto discrimen, più o meno pacificamente, nel divieto di distribution constraint[33], il dibattito si è spostato negli ultimi anni verso l’ulteriore specificazione degli enti senza scopo di lucro in ragione della finalità, certamente ideale (rectius: produzione dell’utile oggettivo ma non distribuzione dell’utile soggettivo), ma altresì indirizzata a precipue finalità sociali che divengono, dunque, elemento costitutivo della causa dell’ente del Terzo settore.

La sensibilità mostrata dal legislatore è frutto della nuova concezione degli enti senza finalità lucrative: dagli storici timori e dall’impostazione ingerente della codificazione si è passati ad un innegabile favore per il non profit, dapprima, negli anni sessanta, attraverso il riconoscimento della libertà associativa, poi, a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, con il riconoscimento di tutela del singolo all’interno dei fenomeni associativi, per giungere, infine, alla piena valorizzazione degli enti non lucrativi quali soggetti che, da un lato, si pongono in sostituzione dello Stato in relazione al mantenimento dei livelli del welfare che avevano caratterizzato la seconda metà del secolo scorso, dall’altro, operano anche in ambiti ulteriori, parimenti meritevoli di protezione e incentivo (quali l’ambiente, l’immigrazione, i diritti umani, la cooperazione internazionale, la qualità urbana…); soggetti che, dunque, erogano servizi ma che, al contempo, possono svolgere attività diverse, quali quelle connesse ai temi dell’advocacy e che, al contempo, pur rinunciando al perseguimento del lucro in senso stretto, creano un effetto di traino, in un benefico loop, per l’economia divenendo ‹‹la terza gamba del pubblico e del privato»[34].

La previsione delle finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, unitamente alla necessità che l’ente operi per la realizzazione di attività di interesse generale, costituiscono l’elemento distintivo di questa nuova categoria (ente del Terzo settore). In tal modo, viene recepita, di fatto, una tendenza che già poteva intuirsi nella legislazione speciale, trasversalmente accomunata da una considerazione unitaria delle varie figure di organizzazioni che possono assumere la qualifica specifica di volta in volta introdotta normativamente, incentrata sul ruolo unificante delle azioni svolte dai diversi enti nel settore, latu sensu, della solidarietà sociale. Un tentativo di reductio ad unum, che, pur mantenendo salve le caratterizzazioni di ciascun ente, sembra elevare a criterio unificante le attività e le finalità da questi poste in essere.

Una simile lettura, che troverebbe conferma, oltre che nella stessa definizione di ente del Terzo settore (art. 1), anche nella previsione operativa dell’art. 4, primo comma, lett. b)[35], permetterebbe il superamento della pura distinzione tra enti a finalità autodestinata ovvero eterodestinata[36] e della connessa diatriba relativa alla delimitazione dello scopo non economico di queste sole ultime, riconoscendo quale elemento essenziale il tipo di attività svolta in combinato con la finalità perseguite. Ne consegue che associazioni, fondazioni e comitati potranno assumere la qualifica di ente di Terzo settore se, pur perseguendo obiettivi diretti a procurare vantaggi immediati anche ai soli membri, siano indirizzati al perseguimento delle predette finalità meritorie e realizzino attività di interesse generale (si pensi, ad esempio, a enti di assistenza e di cura di malattie, che indirizzano le loro attività ai propri membri, sofferenti di tali patologie); per converso, la realizzazione di un’attività di interesse generale, pur eterodestinata, potrebbe in ogni caso determinare l’esclusione dell’ente dal Terzo settore ove questa non si qualifichi come costitutiva dell’ente medesimo, giacché il riferimento alle forme di azione volontaria e gratuita, di mutualità e di produzione e scambio di beni e servizi (contenuto nella definizione di Terzo settore) deve intendersi come relativo alle modalità con cui gli enti possono promuovere o realizzare l’attività e non alla qualificazione dell’interesse generale, che dovrebbe coincidere con lo scopo costitutivo dell’ente e non dovrebbe poter essere relegato a momenti di occasionalità o marginalità.

Ovviamente, l’insieme degli enti del Terzo settore sarà tanto più ampio (o più ristretto) quanto più estensivamente (o restrittivamente) si interpreterà, da un lato, la finalità civica, solidaristica e di utilità sociale, dall’altro il concetto di interesse generale.

2.1. (segue): Problemi di coordinamento tra codice civile e codice del Terzo settore.

Se, in decenni passati, la dottrina, concentrandosi sull’individuazione degli elementi essenziali caratterizzanti le comunioni di interessi di fonte contrattuale, aveva ravvisato quali requisiti degli enti l’elemento soggettivo (la pluralità di persone), l’elemento oggettivo (il patrimonio) e l’elemento teleologico, intendendo per esso genericamente lo scopo comune verso cui l’attività tende e che determina il sorgere stesso dell’ente[37], la definizione di Terzo settore sembrerebbe introdurre, come si è visto, una caratterizzazione specifica del predetto scopo e dell’attività svolta che determinerebbe l’individuazione di una sottocategoria trasversale di enti senza scopo di lucro.

Vero è che anche nelle molteplici legislazioni speciali di settore già si assiste alla individuazione di finalità socialmente meritorie; tuttavia, una tale caratterizzazione mira principalmente a riconoscere agli enti, dotati del profilo finalistico solidaristico-sociale normativamente individuato, determinati benefici fiscali e norme di favore.

La nozione di Terzo settore appare, dunque, perfettamente coerente con le finalità del futuro Codice del Terzo settore: la legge delega, infatti, dopo aver individuato principi e criteri direttivi generali (art. 2), dedica, in particolare, le previsioni dell’art. 4 alla revisione e al riordino della legislazione speciale, operando in un trend già individuato ma riconoscendo una soggettività più omogenea e prevedendo che, al favor fiscale, all’erogazione di finanziamenti pubblici e privati attraverso pubbliche sottoscrizioni e allo svolgimento di attività in regime di accreditamento o convenzione con enti pubblici[38], si pongano quale contraltare specifici e graduati obblighi di organizzazione interna, trasparenza, informazione e controllo (art. 4, nonché art. 7).

All’opposto, un profilo di apparente discrasia potrebbe profilarsi tra l’individuato oggetto della legge delega di cui all’art. 1– la nozione di ente del Terzo settore, per l’appunto – e la linea di attuazione relativa al codice civile, cui sono rivolte le previsioni dell’art. 3.

Infatti, non solo il titolo della legge si limita ad indicare espressamente la “riforma del Terzo settore” ma, altresì, l’art. 1, ancor prima di individuare i campi di intervento dei decreti attuativi (secondo comma), identifica l’oggetto della legge nel “Terzo settore” (primo comma), fornendo la definizione già illustrata non più coincidente con la macrocategoria degli enti senza scopo di lucro di cui al titolo II del Libro I del codice civile. Ad una prima lettura, dunque, potrebbe astrattamente ipotizzarsi una limitazione di operatività per il legislatore delegato nella revisione del codice civile ai soli enti caratterizzati dalle finalità di cui al primo comma dell’art. 1, giacché il secondo comma introduce la revisione del codice civile ‹‹con i decreti legislativi di cui al comma 1», ossia con ‹‹i decreti legislativi in materia di riforma del Terzo settore», con il rischio di travalicare la definizione di enti del Terzo settore ove si introducesse una riforma del codice civile estesa a tutti gli enti disciplinati dal titolo II del libro I.

Ove trovasse spazio tale restrittiva lettura, che appare del tutto in antitesi agli intenti e alle esigenze di riforma che hanno portato all’approvazione della legge delega, tre sarebbero le possibili opzioni per il legislatore delegato: prevedere, con un’apposita norma all’interno del codice civile, l’esistenza degli enti del Terzo settore e rinviare al Codice del Terzo settore per la disciplina degli stessi; disciplinare all’interno del codice civile detti enti sotto il profilo organizzativo, funzionale e contabile, prevedendo nell’apposito Codice del Terzo settore esclusivamente la materia fiscale e i rapporti con la pubblica amministrazione; non attuare affatto la linea di riforma relativa al codice civile, disciplinando tout court gli enti del Terzo settore esclusivamente nel Codice dedicato.

Vien da sé che nessuna delle tre scelte risulterebbe soddisfacente e coerente con lo spirito della riforma, non solo per la mancata attuazione di un’occasione tanto lungamente attesa e necessitata da un sistema che sopravvive in un equilibrio evolutivo dettato dagli interventi giurisprudenziali, ma ancor più per gli evidenti problemi di coordinamento sistematico-civilistico, con inutili e sovrabbondanti duplicazioni della discipline generali, delle procedure di riconoscimento della personalità giuridica e dei registri, che se non sapientemente raccordati non potranno che condurre ad un incremento della sensazione di sovrapposizione normativa e confusione applicativa che la legge delega intendeva superare. Senza, da ultimo, considerare il rapporto marcatamente problematico di funzione tra i principi comuni del diritto civile e la normazione speciale di settore, quest’ultima sempre più ricca di regole civilistiche precise e dettagliate che pongono questioni interpretative e sistematiche nei rapporti con gli istituti di diritto comune. In anni passati, un’autorevole dottrina[39] aveva formulato considerazioni, di perdurante attualità, circa il rapporto tra codice civile e legislazione speciale, osservando come, più opportunamente, la disciplina delle organizzazioni e dell’attività dovrebbero essere contenute nel codice civile, delegando alla legislazione speciale esclusivamente la previsione delle caratteristiche specifiche dei singoli sistemi ovvero dei rapporti con la Pubblica Amministrazione.

In realtà, sia il contenuto dei lavori preparatori che una lettura meno focalizzata sul rapporto tra oggetto e linee di intervento, ma egualmente letterale, consentirebbe di attuare la riforma secondo le sue più coerenti direttive.

Se, infatti, l’art. 1, al suo primo comma, sembrerebbe offrire un’interpretazione restrittiva del suo campo operativo, il dato testuale del suo secondo comma parrebbe legittimare un intervento a tutto campo. Nell’indicare le due linee di revisione, la legge delega discorre, da un lato, di ‹‹disciplina del titolo II del libro primo del codice civile in materia di associazioni, fondazioni e altre istituzioni di carattere privato senza scopo di lucro, riconosciute come persone giuridiche o non riconosciute» (art. 1, secondo comma, lett. a), adottando un medio logico onnicomprensivo di tutti gli enti senza scopo di lucro e, dunque più ampio rispetto a quello del comma precedente; dall’altro, di ‹‹riordino e (…) revisione organica della disciplina speciale e delle altre disposizioni vigenti relative agli enti del Terzo settore» (art. 1, secondo comma, lett. b).

Al riguardo, deve osservarsi come le due lettere dell’art. 1, secondo comma, rispettivamente corrispondenti alla revisione del codice civile e a quella del codice del Terzo settore, adottano varianti terminologiche più precise e dettagliate, ciascuna coerente con il proprio oggetto di indirizzo: tutti gli enti senza scopo di lucro in relazione al codice civile; i soli enti del Terzo settore con riferimento all’intervento sulle leggi speciali. Espressioni terminologiche parimenti differenziate anche nelle due rubriche – quella dell’art. 3 e quella dell’art. 4 – che elencano, specularmente alla lettera a) e b), i principi cui attenersi nell’elaborazione delle due direttive di riforma.

Ulteriormente, solo nella lettera b) del secondo comma dell’articolo 1 in questione, allorquando il legislatore delegante fa riferimento al riordino delle normative di settore, l’espressione enti del Terzo settore rinvia alla definizione fornita dal primo comma del medesimo articolo; rinvio, invece, assente nella precedente lettera a) relativa all’intervento di riforma del codice civile. La definizione di Terzo settore, che secondo una lettura restrittiva potrebbe, dunque, limitare l’intera legge delega, è, in realtà, posta in relazione esclusivamente al Codice speciale e non già al codice civile, consentendo così di superare il raccordo mal formulato tra oggetto e linee riforma e garantire la più ampia portata alla revisione del codice civile.

3. Le cinque linee di riforma del codice civile: i) il riconoscimento della personalità giuridica

La legge delega detta cinque criteri e principi indirizzati alla riforma del codice civile. Il primo di essi (art. 3, lett. a), in particolare, è volto alla revisione e semplificazione del procedimento per il riconoscimento della personalità giuridica degli enti del libro I c.c., rappresentando tale linea di intervento una costante anche di tutti i precedenti progetti di modifica. Diversamente da questi ultimi[40], nei quali si prospettava una più puntuale declinazione di revisione di tale profilo, l’approvata legge delega lascia totale autonomia nell’attuazione, fornendo solo la generica indicazione di ‹‹rivedere e semplificare il procedimento per il riconoscimento della personalità giuridica». È indubbio, tuttavia, che l’ispirazione ai precedenti lavori di riforma così come l’avvicinamento tra gli enti del libro I e del libro V dovrebbe condurre il legislatore delegato ad attribuire centralità al ruolo notarile e alla relativa procedura di riconoscimento vigente in ambito societario, completando il percorso storico di definitivo abbandono del modello concessorio[41] e di ingerenza statale nella vita degli enti senza scopo di lucro e di cui il vigente D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361 ha costituito tappa intermedia.

In tal senso, sebbene sia stato di fondamentale importanza tale ultimo intervento normativo con l’introduzione, di fatto, di un meccanismo semi-automatico e con una forte riduzione dei tempi, non può non rilevarsi come l’attuale procedimento risenta di una vecchia impostazione di fondo, risultando ancora centrale il riscontro dell’adeguatezza patrimoniale dell’ente che importa valutazioni non già di sola legittimità ma anche di natura sostanziale.

L’attuale procedimento attribuisce, infatti, alle Prefetture, secondo la competenza per territorio, il compito di valutare, oltre alla sussistenza delle condizioni di legge o di regolamento, ‹‹che lo scopo sia possibile e lecito e che il patrimonio risulti adeguato alla realizzazione dello scopo»[42].

Pur osservandosi come il sistema ‹‹non consente più di subordinare il riconoscimento all’interesse pubblico dell’attuazione delle finalità di utilità sociale, ma consente agli enti di perseguire finalità di qualsiasi natura, anche non spiccatamente utili sul piano sociale, purché lecite e possibili (…apparendo) più in linea con una concezione “mite” dell’intervento dello Stato»[43], la valutazione di adeguatezza patrimoniale, in assenza di parametri legislativamente fissati, ha da sempre determinato un ampio margine di discrezionalità e prassi applicative difformi.

Criticità del sistema che emergevano già sulla carta e ulteriormente accentuate nella declinazione pratica del meccanismo del riconoscimento, assistendosi ad una progressiva e generale difformità tra singole Prefetture ed una importante disomogeneità valutativa, che ha determinato in taluni casi l’imposizione, ai fini del riconoscimento della personalità giuridica, di patrimoni addirittura superiori a quelli necessari per una società a responsabilità limitata o per una società per azioni.

Al permanere della discrezionalità valutativa della Prefettura si deve, poi, assommare il profilo problematico connesso alle tempistiche di rilascio del provvedimento giacché, nei 120 giorni successivi al deposito della domanda, la Prefettura può richiedere “di integrare la documentazione presentata”, così come rilevare “ragioni ostative all’iscrizione”, con conseguente apertura di una fase di contraddittorio interno in cui l’ente dispone di 30 giorni per replicare, a cui seguono ulteriori 30 giorni in cui il Prefetto provvede all’iscrizione ovvero nega l’autorizzazione. Il tutto in un quadro di silenzio diniego.

Peraltro, il sistema vigente consente di delegare alle Regioni il riconoscimento della personalità giuridica degli enti senza scopo di lucro che operano nelle proprie materie di competenza e le cui finalità statutarie si esauriscono nel relativo territorio regionale, determinando tempistiche e valutazioni di adeguatezza patrimoniale ulteriormente diverse da Regione a Regione[44].

Tali criticità, di fatto, scoraggiano la richiesta della personalità giuridica e favoriscono il proliferare delle associazioni non riconosciute[45], di immediata costituzione, prive di patrimonio minimo imposto e sottratte ad ogni forma di controllo.

La legge delega per la Riforma del Terzo settore, a sedici anni dall’ultimo intervento, dunque, potrebbe costituire l’occasione attesa attribuendo, in un'ottica di semplificazione, certezza e celerità, il procedimento di riconoscimento della personalità giuridica alla competenza notarile, come già avviene per i procedimenti di omologazione degli atti costitutivi delle società, assimilandosi, così, sotto il profilo costitutivo, gli enti del libro I agli enti del libro V.

Ne consegue la necessità di introdurre un procedimento esclusivamente di verifica formale, eliminando in radice ogni margine di discrezionalità valutativa in capo al notaio, che dovrebbe essere chiamato a verificare unicamente i requisiti per la valida costituzione dell'ente, quali la legalità sostanziale con riferimento alla liceità dello scopo e al rispetto dei requisiti di legge nell'atto costitutivo e nelle modifiche statutarie.

L’assenza di ogni riferimento all’adeguatezza patrimoniale, per converso, comportando il rischio di una totale mancanza di disciplina circa la costituzione del patrimonio, dovrebbe essere opportunamente colmata dalla previsione legislativa di minimi patrimoniali costitutivi, ancora una volta, di ispirazione societaria. Alternativamente, le regole sul patrimonio minino costitutivo potrebbero prevedere importi patrimoniali obbligatori per scaglioni, rapportati a dimensioni, attività, ambito territoriale nel quale l'ente opera.

La previsione di minimi costitutivi in sostituzione del controllo circa la concreta adeguatezza patrimoniale al perseguimento dello scopo sottende il ridimensionamento della funzione operativa del patrimonio di cui si dota l’ente al momento della sua nascita[46]; visione ormai superata da un punto di vista teorico e pratico, giacché non tiene conto che la concreta operatività di un ente dipende per lo più dalle risorse che questo, nel corso della sua esistenza, sarà in grado di reperire e di attrarre così come dal concreto utilizzo e investimento di queste ultime.

L’omologa notarile e la previsione del capitale (rectius: patrimonio) costitutivo ovvierebbero, dunque, alle maggiori criticità dell’attuale sistema, garantendo una maggiore efficienza, a fronte di tempi brevi e certi e uniformità normativa.

Ne dovrebbe conseguire, ovviamente, un sistema di registrazione basato su una mera verifica formale degli atti trasmessi dal notaio e incentrato esplicitamente sull’efficacia costitutiva dell'iscrizione dell'ente, permettendo così di superare anche i possibili omologhi dubbi sorti in materia societaria circa la configurabilità di società di capitali irregolare e l'efficacia dell'atto costitutivo nelle more dell'iscrizione.

Similmente a quanto già avviene in ambito societario, l'effettività del meccanismo di riconoscimento derivante dall’iscrizione nel registro potrebbe essere garantita attraverso la previsione dell’obbligo di iscrizione stesso in capo al notaio, solidalmente con gli amministratori; mentre, nel lasso temporale intercorrente tra l'atto costitutivo dell'ente e la sua iscrizione nel registro unico, similmente alla previsione di cui all'art. 2331 c.c., per le operazioni compiute dall'ente prima dell'iscrizione dovrebbero rispondere illimitatamente e solidalmente verso i terzi coloro che hanno agito, nonché coloro che hanno deciso, autorizzato e consentito il compimento dell'operazione.

L’indicata revisione e semplificazione del procedimento di riconoscimento passa inevitabilmente anche dal ripensamento del sistema dei registri. Come noto, l’attuale Registro delle Persone Giuridiche, tenuto dai Prefetti, si connota per una base provinciale, mancando, dunque, del tutto un registro unico ed integrato su base nazionale.

L’auspicio è che, dunque, il legislatore delegato, unitamente alla revisione del procedimento di riconoscimento, reimposti anche il sistema dei registri delle persone giuridiche in favore di un registro unico, nazionale e informatizzato (similmente al Registro delle Imprese), che consenta, dunque, una pubblicità unificata di tutti i dati dell’ente e dei relativi atti rilevanti, conformemente alla previsione della legge delega relativamente al Codice del Terzo settore secondo cui gli atti fondamentali, incluso il bilancio, devono essere resi noti ed accessibili ai terzi attraverso adeguate forme di pubblicità, quale attuazione di un più ampio obbligo di trasparenza e di informazione.

A tal fine, giova rilevare come la legge delega, in relazione alla (seconda) linea di riforma relativa al Codice degli Enti del Terzo settore, preveda espressamente la creazione di un Registro Unico nazionale degli Enti del Terzo settore[47], assolvendo ad una funzione di conoscibilità degli enti che operano in tale ambito, definito all’art. 1, primo comma dalla stessa legge delega.

Coordinando la revisione del procedimento di riconoscimento della personalità giuridica, in piena attuazione degli obblighi di trasparenza e tutela per i terzi, con la previsione del Registro Unico Nazionale degli enti del Terzo settore, appare del tutto conforme alle linee della riforma, anche in un’ottica di semplificazione e ottimizzazione delle risorse e dei costi, l’istituzione di un Registro Unico Nazionale degli enti senza scopo di lucro, tenuto presso le Prefetture, ovvero le Regioni ovvero ancora presso le Camere di Commercio, in cui opportunamente dovrebbero confluire tutti gli enti associativi e fondazionali dotati di personalità giuridica e non solamente quelli che perseguono finalità del Terzo Settore. Il Registro, così, potrebbe prevedere accanto alle sezioni dedicate agli enti del Terzo settore, una sezione autonoma degli enti riconosciuti in cui trasmigrare gli odierni Registri delle Prefetture. Si determinerebbe, per tal via, una unificazione dei sistemi e degli Uffici competenti alla loro tenuta, che, evitando la necessità di creare collegamenti tra diversi Registri, garantirebbe una maggiore semplificazione e uniformità di trattamento e di pubblicità.

Infine, nella consapevolezza che risulta estraneo al perimetro tracciato dalla legge delega, sarebbe stato auspicabile, sempre in un'ottica di pubblicità, trasparenza e tutela dei terzi creditori, prevedere una apposita sezione del Registro Unico dedicata degli enti privi di personalità giuridica (a prescindere dalla caratterizzazione di ente del Terzo settore), con un mero onere di iscrizione così da sopperire all’'ingiustificata incompletezza di informazioni e disparità di tutela del ceto creditorio tra i diversi enti.

A prescindere dalla portata attuativa del registro, l’ipotizzato nuovo regime di riconoscimento dovrebbe inserirsi in un più ampio quadro di meccanismi pubblicitari, che, come indicato nella stessa legge delega, dovrebbero estendersi a tutti gli atti fondamentali della vita dell'ente di cui dovrebbe essere garantita la conoscibilità attraverso un sistema di pubblicità nazionale ed unico, consultabile anche in modalità telematica, includendo tra essi, oltre l’atto costitutivo e lo statuto, ovvero l’atto fondazionale, e i relativi atti modificativi, anche gli atti di nomina delle cariche sociali e di attribuzione dei poteri, di rappresentanza e di limitazione, i bilanci dell’ente, le delibere di trasformazione, fusione e scissione o scioglimento nonché gli atti di estinzione, liquidazione e cancellazione.

4. ii) La responsabilità degli amministratori.

Scarna appare la disciplina codicistica in tema di responsabilità e doveri degli amministratori[48], per i quali l’art. 18 c.c. rinvia alle norme del mandato e l’art. 22 c.c. genericamente alle azioni di responsabilità contro gli stessi. La legge delega interviene, dunque, sul punto offrendo la possibilità di aggiornare e disciplinare più puntualmente il livello di diligenza richiesto agli amministratori, i singoli doveri e le forme di responsabilità (art. 3, lett. b).

Quale sia la diligenza cui sono tenuti gli amministratori degli enti senza scopo di lucro è tema, da sempre, ampiamente discusso dalla dottrina che, rilevando la differenza tra l’art. 18 c.c. e l’art. 2392 c.c., si è interrogata se al divario terminologico corrispondano anche forme e graduazioni diverse di responsabilità.

La tematica è stata oggetto di importanti riflessioni anche oltreoceano. Le posizioni[49], in breve, si articolano tra quanti ipotizzano una completa equiparazione tra la diligenza richiesta all’amministratori, siano essi di enti non profit, siano essi di enti societari; tra coloro che si sono espressi in favore di un livello di diligenza e responsabilità attenuato in favore del non profit, in ragione della finalità, scoraggiandosi, altrimenti, una partecipazione attiva dei privati e quanti, infine, all’opposto, si esprimono in favore di una responsabilità aggravata, proprio per il particolare fine sociale e di interesse generale.

Così, per esempio, mentre la scelta italiana di inizio del secolo scorso si attesta su un livello di diligenza attenuato, tipico del mandatario, richiamandone l’attuale art. 18 c.c. le relative norme, salvo poi i correttivi interpretativi di matrice dottrinale[50], diversamente, nel sistema statunitense, accanto ai duty to obedience[51] e of loyalty (che si estrinseca in una disciplina del conflitto di interessi[52]), la scelta normativa prevalente[53] è stata nel senso di prevedere un duty of care sostanzialmente coincidente con quello delle Business Corporation, la cui violazione corrisponde al corporate standard della c.d. gross negligenge.

La riformulazione dell’art. 2392 c.c. che ha introdotto in capo agli amministratori un obbligo di adempimento dei doveri con la «diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze» potrebbe essere utilmente trasposta anche nel campo degli enti senza scopo di lucro, ripristinando la simmetria tra regole di enti del libro I e del libro V.

Ancorché le coincidenti formulazioni degli artt. 18 c.c. e 2392 c.c. ante riforma, che richiamavano entrambe la diligenza del mandatario[54], siano state largamente interpretate nel senso di valutare quest’ultima in relazione alla natura dell’attività esercitata ai sensi del secondo comma dell’art. 1176 c.c.[55], la riforma societaria del 2003 sul punto ha optato per una riscrittura chiara ed esplicita della regola.

I decreti attuativi della legge delega, dunque, potrebbero costituire l’occasione per superare il generico richiamo dell’art. 18 c.c. alla disciplina sul mandato che tanti problemi ha posto in termini di qualificazione del rapporto tra ente ed amministratore[56] e compatibilità di norme applicabili, introducendo anche per gli amministratori degli enti senza scopo di lucro un obbligo di adempimento dei doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto secondo un livello di diligenza da articolarsi in base a diversi parametri, passando, così, dalla “diligenza del mandatario” alla “diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze”. In particolare, le dimensioni dell'ente, lo scopo e la componente patrimoniale potrebbero costituire tre profili in ragione dei quali temperare ovvero incrementare il livello di diligenza richiesto, salvaguardando, così, quelle realtà del non profit di carattere più limitato dal punto di vista dimensionale, territoriale e strutturale.

Gli amministratori dovranno, quindi, gestire diligentemente l'ente nel primario rispetto dello scopo da questo perseguito, potendosi prevedere espressamente, tra i diversi doveri, anche un obbligo di conservazione del patrimonio.

Alle regole legate al profilo patrimoniale di formazione dell’ente (art. 16 c.c.; art. 2 DPR. 361/2000 ed ora l’ipotizzato nuovo meccanismo di riconoscimento) e di estinzione (norme in tema di devoluzione del patrimonio), si potrebbero, auspicabilmente, assommare previsioni più puntuali anche in relazione alla fase di esistenza e operatività dell’ente. Così, oltre alla già vigente regola di non ripetitività dei contributi degli associati, di rendicontazione e di insufficienza patrimoniale quale causa di estinzione o di trasformazione per le fondazioni, si potrebbe prevedere il divieto espresso di distribuzione degli utili tra gli associati e di autodevoluzione dei beni dell’ente nonché obblighi di contabilità più articolati, che tengano conto della possibilità per l’ente di svolgere anche attività economica, e un obbligo in capo agli amministratori di conservazione del patrimonio durante la vita dell’ente.

A tale ultimo proposito, l’art. 3 lett. b) prevede di disciplinare il regime di responsabilità limitata degli enti riconosciuti e la responsabilità degli amministratori, ‹‹tenendo anche conto del rapporto tra il patrimonio netto e il complessivo indebitamento».

La disposizione non è del tutto nuova, essendo già contenuta, pur con varianti sintattiche di non poco conto, in progetti di riforma passati, nei quali si prevedeva di ‹‹collegare il perdurare della limitazione della responsabilità al rispetto di un adeguato rapporto tra i mezzi propri della persona giuridica e il suo complessivo indebitamento»[57], con la possibilità di mantenere l’autonomia patrimoniale perfetta nonostante il mancato rispetto di tale rapporto attraverso la stipulazione di una polizza assicurativa a copertura dell’indebitamento.

Il chiaro dato letterale di tali progetti è stato, peraltro, recepito in relazione alla disciplina dell’impresa sociale contenuta nel d.lgs. 155/2006, il cui art. 6 dispone che ‹‹nelle organizzazioni che esercitano un'impresa sociale il cui patrimonio sia superiore a ventimila euro, a far tempo dalla iscrizione nella apposita sezione del registro delle imprese, delle obbligazioni assunte risponde soltanto l'organizzazione con il suo patrimonio»e prosegue prevedendo che ‹‹quando risulta che, in conseguenza di perdite, il patrimonio è diminuito di oltre un terzo rispetto all'importo [di euro 20.000], delle obbligazioni assunte rispondono personalmente e solidalmente anche coloro che hanno agito in nome e per conto dell'impresa», secondo la regola dell’art. 38 c.c. dettata per le associazioni non riconosciute. Non poche sono state le critiche mosse dalla dottrina[58] a tale disposizione. Al riguardo, è, infatti, stato osservato come un’associazione non riconosciuta godrebbe del beneficio della responsabilità limitata in presenza dei requisiti ed alle condizioni individuate dall’art. 6 (patrimonio superiore a ventimila euro ed iscrizione nell’apposita sezione del registro delle imprese), tornando a sussistere una responsabilità patrimoniale imperfetta solo in ipotesi di patrimonio sotto soglia. Se, così letta, la norma opera in termini di favor per gli enti di fatto, ma, al contempo, in deroga al diritto comune, priva gli enti riconosciuti, che siano sotto soglia, del beneficio derivante dalla personalità giuridica.

La scelta che si appalesa al legislatore delegato è, dunque, quella di valutare la permanente attualità della distinzione tra enti con e senza personalità giuridica ed il rapporto tra regola (responsabilità patrimoniale perfetta per gli enti con riconoscimento; imperfetta per gli enti di fatto) ed eccezione (responsabilità patrimoniale perfetta oltre una certa soglia tra patrimonio e indebitamento; imperfetta sotto tale soglia), ponderando le ripercussione in termini di diritto generale derivanti dall’introduzione di una disciplina che àncora la limitazione di responsabilità al rapporto tra mezzi dell’ente e complessivo indebitamento. Si dovrebbe, in altri termini, valutare se mantenere l’unica e perdurante differenza tra enti con e senza personalità giuridica quale regola generale ovvero sostituire quest’ultima con una norma connessa al saldo patrimoniale.

Certamente, l’impostazione codicistica del 1942 rispecchiava il dogma della personalità giuridica[59] e sottendeva il difficile rapporto tra questa e la soggettività giuridica, per lungo tempo non riconosciuta a favore degli enti di fatto. Il quadro d’insieme, tuttavia, risulta variato significativamente: la soggettività giuridica è ormai pacificamente riconosciuta anche agli enti privi di riconoscimento[60], essendosi oramai relegate a ricostruzioni storiche le teorie della comunione atipica o germanica[61], e, al contempo, in ambito societario, sono stati introdotti modelli a capitale ridotto e finanche simbolico, facendo, così, vacillare il connubio capitale (rectius: patrimonio degli enti di libro I), garanzia dei creditori e responsabilità patrimoniale dell’ente, tradizionalmente intesa[62].

Occorre, tuttavia, evidenziare come potrebbe sussistere un’opzione attuativa diversa da quella che ha ispirato la descritta e criticata regola di responsabilità patrimoniale dell’impresa sociale. Infatti, il dato letterale dell’art. 3 lett. b) risulta significativamente divergente rispetto a quello dei precedenti progetti di riforma nei quali si prevedeva espressamente il venir meno della responsabilità patrimoniale perfetta in ipotesi di superamento della soglia. Nella attuale formulazione, invece, il legislatore, da un lato, ha imposto solo di “tenere anche conto” del rapporto tra patrimonio e indebitamento, senza collegarlo alla sussistenza del beneficio della responsabilità limitata; dall’altro ha correlato tale parametro anche alla disciplina della responsabilità degli amministratori.

Detta disposizione apre, dunque, alla possibilità di attuare la linea di riforma valorizzando il profilo di responsabilità degli amministratori con l’introduzione di un dovere di salvaguardia del patrimonio dell’ente nella sua entità, imponendosi che, qualora, per effetto della gestione, il patrimonio netto scenda al di sotto di una determinata soglia rispetto al complessivo indebitamento, gli amministratori, sotto la propria responsabilità, debbano provvedere con urgenza alla sua ricostituzione o adottare i provvedimenti necessari per la continuità dell’ente, altrimenti determinandosi una violazione degli obblighi di cui saranno chiamati a rispondere.

È evidente che a una regola di responsabilità degli amministratori similare a quella prevista dall’art. 2392 c.c. debba necessariamente corrispondere una forma di tutela per l’ente stesso, i creditori e i terzi.

Ancora una volta, il diritto societario costituisce utile terreno di confronto. A fianco della previsione dell’art. 22 c.c., dunque, dovrebbe essere opportunamente introdotta una azione di responsabilità in favore dei creditori dell’ente che ad oggi si vedono costretti ad agire con le forme dell’art. 2043 c.c. così come sarebbe auspicabile la previsione dell’analoga azione individuale del terzo, danneggiato da atti colposi o dolosi degli amministratori,

Un meccanismo similare a quello previsto dall’art. 2409 c.c.[63], infine, consentirebbe ai membri dell’ente di denunciare al tribunale gravi irregolarità commesse dagli amministratori nell’adempimento dei loro doveri, con la possibilità per l’Autorità di ordinare l'ispezione dell'amministrazione dell’ente, disporre i provvedimenti provvisori che reputa più opportuni, convocare l'assemblea per le conseguenti deliberazioni e nominare un amministratore giudiziario; legittimazione attiva che dovrebbe essere estesa anche al Pubblico Ministero, quantomeno in relazione agli enti di Terzo settore, secondo la definizione contenuta nella legge delega, in quanto caratterizzati da finalità sociali meritorie.

Da ultimo, diversamente dalla maggior parte dei progetti pregressi, la legge delega nulla prevede specificatamente in merito alle fondazioni, rispetto alle quali, tuttavia, la disciplina del regime di responsabilità degli amministratori di cui all’art. 3 lett. b) dovrebbe consentire, con gli opportuni adattamenti, l’estensione delle forme di tutela per il controllo dell’operato di chi gestisce l’ente fondazionale.

5. iii) Diritti degli associati

L’art. 2 del disegno di legge delega, come presentato alla camera dei deputati il 22 luglio 2014, identificava tra i criteri e i principi guida valevoli sia per la riforma del codice civile sia dell’allora testo unico, la necessità di ‹‹definire forme e modalità di organizzazione e amministrazione degli enti ispirate ai princìpi di democrazia, eguaglianza, pari opportunità, partecipazione degli associati e dei lavoratori e trasparenza, (…) prevedendo appositi strumenti per garantire il rispetto dei diritti degli associati (e di) prevedere una disciplina degli obblighi di controllo interno, di rendicontazione, di trasparenza e d’informazione nei confronti degli associati e dei terzi».

La formulazione dell’approvata legge delega, invece, più opportunamente, elenca detti principi come ispiratori del solo Codice del Terzo settore, riservando alla revisione del codice civile una più snella previsione volta ad ‹‹assicurare il rispetto dei diritti degli associati, con particolare riguardo ai diritti di informazione, partecipazione e impugnazione degli atti deliberativi, e il rispetto delle prerogative dell'assemblea, prevedendo limiti alla raccolta delle deleghe» (art. 3 lett. c), ed è stata epurata del richiamo al principio di democraticità che connota certamente gran parte dell’attuale legislazione speciale, ma della cui validità in relazione a tutti gli enti senza scopo di lucro si è ampiamente discusso, soprattutto in relazione alle associazioni non riconosciute[64].

L’assenza di specifiche finalità legislativamente imposte agli enti privi dello scopo di lucro, infatti, ha determinato l’astratta ammissibilità di enti con finalità esclusivamente egoistica, anche riservata ad un gruppo chiuso di destinatari (si pensi, così, alla discussa ammissibilità di fondazioni private di famiglia) e di associazioni (non riconosciute) organizzate in forma oligarchica[65], costituendo quest’ultima forma organizzativa, secondo un’ampia dottrina[66], un aspetto fisiologico e non patologico degli enti di fatto. La democraticità, rilevata da taluni[67] come tema di discussione esclusivamente italiano, e variamente correlata al metodo collegiale e ai principi maggioritario, di porta aperta, di voto capitario e di parità di trattamento, è stata ritenuta connaturata al solo modello dell’associazione riconosciuta e, successivamente, è stata recepita come principio cardine della legislazione fiscale in materia di O.n.l.u.s. e di alcuni enti speciali. La normazione speciale, infatti, ha da sempre sotteso l’idea che un ente democratico corrispondesse ad un modello organizzativo maggiormente idoneo a tutelare lo svolgimento della personalità degli individui in relazione ad interessi considerati particolarmente meritevoli di tutela. La parziale compressione dell’autonomia statutaria, determinata dall’obbligo di clausole a salvaguardia della democraticità, si è variamente atteggiata quale contraltare di un meccanismo di salvaguardia e valorizzazione del ruolo del singolo all’interno delle formazioni sociali, che maggiormente preserva dal rischio di autoreferenzialità dell’ente stesso e di compromissione di taluni possibili interessi in capo ai singoli associati[68]. La legge delega conferma la predetta impostazione e prevede che i modelli organizzativi degli Enti del Terzo settore debbano essere conformi ai principi di democrazia, eguaglianza, pari opportunità, partecipazione degli associati, limitando, invece, la linea di intervento sul codice civile a previsioni di protezione e valorizzazione dei diritti degli associati.

L’art. 3 lett. c), in commento, costituisce l’unica previsione della legge delega connessa agli ordinamenti interni degli enti del libro I e, discorrendo unicamente di associati e di assemblea, esclude, dunque, un qualsiasi intervento in relazione a fondazioni o comitati. La formulazione appare, poi, in parte ambigua: la legge delega, infatti, diversamente da altri progetti di riforma[69] che prevedevano espresse indicazioni per ciascuna tipologia di ente, non identifica

Montani Veronica



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