La legge come dimora, come presente e come parola L’esperienza giuridica ebraica interpella il diritto contemporaneo
Rosa Palavera
Dottoranda in Diritto penale, Università Cattolica del Sacro Cuore
La legge come dimora, come presente e come parola
L’esperienza giuridica ebraica interpella il diritto contemporaneo*
Law as Dwelling, Present and Word. Jewish Juridical Experience Challenges Contemporary Law
SOMMARIO: I. Il confronto con l’esperienza giuridica altra nella pretesa ineluttabilità direzionale del postmoderno. - II. Dimorare nel testo, contemplandolo da altrove: le promesse identitarie mantenute di un diritto senza terra. - III. L’umanità di un diritto divino: il destinatario-persona e la pervasività della natura dialogica del precetto. - IV. Pluralità e paideia tra pari: l’orizzont(al)e ermeneutico. - V. La presenza di un diritto eterno: perpendicolarità del precetto rispetto alla storia e rivitalizzazione giuridica del tempo nel possibile.
זְ֭מִרוֹת הָֽיוּ־לִ֥י חֻקֶּ֗יךָ בְּבֵ֣ית מְגוּרָֽי[1]
I. Il confronto con l’esperienza giuridica altra nella pretesa ineluttabilità direzionale del postmoderno.
L’osservazione di un diritto differente da quello in cui ci si è formati è un’esperienza complessa, che diviene gradualmente ancor più delicata se si rivolge a culture distanti e a contesti linguistici poco conosciuti. La scarsa disponibilità delle fonti accessibili o una sproporzionata prevalenza, all’interno di quelle a disposizione, di testi mediati perché afferenti a tradizioni giuridiche terze o provenienti da autori originari che scelgono però di rivolgersi all’esterno – quindi già con una selezione di peculiari sensibilità – comporta rischi ulteriori rispetto al pur sempre impegnativo approccio a materiale giuridico in una qualsiasi lingua straniera[2]. Se poi il baricentro del sistema giuridico osservato pare anche temporalmente remoto (o comunque il suo svolgersi storico particolarmente esteso), vacilla persino la capacità di leggere i punti di riferimento cardinali, le minute esemplificazioni e, tra quelli e queste, tutto il tessuto connettivo implicito dei rapporti sociali quotidiani in cui il diritto prende forma.
Nondimeno, con le estreme attenzioni dovute a una galleria di specchi che si snoda nella storia e anzi proprio nel moltiplicarsi delle rifrazioni di cui il confronto richiede consapevolezza, l’esperienza della riflessione comparatistica[3] riserva stimoli inediti, perché in grado di cogliere autentiche realtà e ancor più interessanti, nonché altrettanto genuine, potenzialità dell’ambiente giuridico osservato o osservante che possono sfuggire alla stessa analisi nativa[4]. Nel difficile equilibrio del rispetto tra interazione e riconoscimento, del resto, è la portata identitariamente costruttiva di una comparazione che non voglia ridursi a mera disamina differenziale.
Con questo spirito, in ragione delle distanze che il pensiero deve percorrere, i risultati di un confronto tra il diritto penale cd. postmoderno e l’esperienza giuridica ebraica possono essere offerti in qualità di mere proposte o, come forse più si addice al contesto che ci si accinge a visitare, come segnalazione di luoghi di soglia ove sedersi[5]per possibili, brevi o infinite, interlocuzioni. Come ogni incontro con il diverso, peraltro, la riflessione sul diritto ebraico del giurista contemporaneo richiede apertura alla modificabilità della propria prospettiva. L’ipotesi, qui, è che possa esserne messo in qualche misura in discussione quello che appare come il solo tratto univoco, indibattuto[6] e ineluttabile della postmodernità: la sua direzione di fuga dal precetto.
Il diritto postmoderno (anche penale, con una compenetrazione di piani d’altronde non estranea al diritto ebraico[7] e che richiede ulteriori dosi di cautela) si presenta in effetti mobile e pluridirezionale sotto ogni altro aspetto. La moltiplicazione delle fonti e la proliferazione delle sedi di giustiziabilità lo ha deterritorializzato, reso atopico, senza luogo[8] e così, inevitabilmente, ha generato spaesamento[9]: identità in crisi sono rimosse come ostacoli escludenti e precludenti la convivenza plurale ovvero sono oggetto di appropriazione strumentale, che le devasta al pari di ogni sacco[10], da parte del populismo simbolico, politico e non[11]. Nello spazio frammentato, il diritto giustiziato diventa mutevole e scolora, come pure perde di importanza la fonte, legata a territori (e a equilibri) sempre più instabili e relativi[12].
La crisi della democrazia rappresentativa, unicamente sulla quale la legge ha per troppo tempo fondato la sua legittimazione, soffoca il dibattito nella ricerca di consensi pressoché istantanei o lo sterilizza in pluralismo incomponibile, secondo il paradigma della molteplicità. La partecipazione alla costruzione della norma slitta allora in sedi diverse da quella legislativa, spesso conflittuali, come quella giudiziale, dominata dalla prevalenza persuasiva, o indifferenti ai valori, come possono essere quelle di impianto privatistico-convenzionale o di visioni pervertite della giustizia riparativa, aperte a soluzioni di mera monetizzazione del valore in risarcimento. Le gerarchie esistono ancora, anzi si generano di continuo, ma non si dispongono lungo una piramide, bensì si stabiliscono in una rete orizzontale[13], non già sulla base di gradi ordinamentali riconoscibili, ma in esecuzione di mutevoli rapporti di forza. Il precetto cede allora alla norma applicata, ossia quella tra più che guadagna per prevalenza una (temporanea) legittimazione.
Avanza l’interpretazione e, precipuamente, l’ermeneutica giurisprudenziale del cd. diritto “vivente”, rispetto al quale il precetto è ritratto come un’idea ancora priva di espressione[14], quando non lettera morta di un diritto «puntinista e lineare», tra i cui «fotogrammi normativi», in assenza di interpretazioni applicative, «non ci sarebbe che un tempo passivo e giuridicamente improduttivo»[15]. È la frammentazione del tempo, in cui il precetto non scorre ma cristallizza, nello stesso scriversi è già passato,incapace di parlare al presente. Gli effetti sono noti. Non si tratta tanto della perdita di “sicurezza giuridica” (precedentemente detta “certezza del diritto e delle garanzie”), vulnus comunque grave e non sanabile dai succedanei che la law in progress si affanna ad approntare, quant’anche della mutilazione della politica criminale e del portato comunicativo valoriale del precetto che un sistema tutto calibrato sul momento applicativo comporta. Nondimeno, la direzione verso un diritto d’elezione, del momento e della prevalenza sembra restare l’unica nota immutabile della postmodernità, in cui il precetto appare destinato, inevitabilmente, a spegnersi.
II. Dimorare nel testo, contemplandolo da altrove: le promesse identitarie mantenute di un diritto senza terra.
Gli esiti sono diametralmente opposti nella storia (anche giuridica) del popolo di Israele, che certo non sconosce le problematiche della pluralità o della deterritorializzazione. Quest’ultima è anzi un carattere non già accidentale, bensì fondativo dell’esperienza giuridica ebraica, che tuttavia non vive di un diritto senza luogo: al contrario, proprio il luogo del patto normativo vede radicarsi una simbologia profonda.
In essa, la legge non è proclamata dal re sul territorio, ma «proclamata nel deserto prima che il popolo entrasse nella terra»: la dazione del diritto a Israele (rectius, il darsi del diritto nel patto) ha un intermediario non sovrano, Mosè, che «precede la monarchia e non ha mai vissuto nella terra promessa»[16]. Mosé, il nomade, guida il popolo nell’uscita dall’Egitto del Faraone, sedentario e sovrano: in questo atto, che non a caso è stato definito un «presentimento della legge», è «la libertà che si mette in marcia»[17]. Nell’abbandono del territorio come oggetto di dominio, governo e amministrazione è la premessa di libertà necessaria al diritto dell’alleanza, un diritto così peculiarmente relazionale[18].
Il diritto di Israele nasce quindi nel “deserto”, un luogo che non è un territorio[19], e proprio per questo diventa «il diritto degli ebrei ovunque essi vivano»[20]. Lo stesso rapporto tra osservanza del Patto e purità della Terra[21] – e la conseguente «responsabilità dell’adunanza di Israele a fronte dell’illecito compiuto anche da un solo individuo» – si rapporta a un «concetto di “cittadinanza”, sia per nascita nell’Alleanza sia per “residenza” in Israele» in cui l’elemento della territorialità non è né fondante né particolarmente emergente[22].
Anche l’incontro del diritto ebraico con la differenza e la pluralità è di ampio respiro[23], precocissimo[24] e macroscopicamente accentuato dai fenomeni di diaspora[25]: «un ordinamento giuridico cresciuto nel corso di due millenni senza poter fare ricorso ad un apparato statale»[26], in condizione di perdita di «sovranità politica»[27] e poi anche della insistenza su un territorio non discontinuo, che nondimeno anzi proprio perciò consegue l’elaborazione – anche quella, peraltro, influenzata da contatti interculturali – dell’idea di «diritto orale (…) suscettibile di trascrizione», cioè dell’esigenza di supportare, con la scrittura, la trasmissione della mishnah come memoria altrimenti irradunabile[28].
Così, nel susseguirsi delle vicende storiche del popolo di Israele, «il testo è diventato la Patria»[29]: «questo “logocentrismo”, questa identificazione dello spirito con la lettera sono quasi una definizione della coscienza ebraica e del gravido miracolo della sua sopravvivenza»[30], ma anche dello sviluppo del suo diritto. La diaspora è infatti dispersione, in cui però l’incontro desovranizzato con molteplici altri[31] ribadisce (anziché diluirla) un’identità normativa, quella di un popolo di «autoctoni soltanto della parola e della scrittura. Della Legge»[32]. La diaspora è altresì, al tempo stesso, disseminazione non violenta di elementi della tradizione ebraica nella cultura giuridica mondiale[33]. Infine, la diaspora è il cammino che genera lo sguardo identitario all’origine condivisa: verso la legge, una contemplazione che viene ancor prima dell’obbedienza[34] e si fa continua rifondazione informazionale della casa originaria, “casa del pensiero”, «punto di partenza coerente» e ancoraggio per resistere all’entropia, ma anche e soprattutto «sguardo da un altro luogo»[35], di cui il testo costituisce il punto focale in cui ogni traiettoria converge. In ogni epoca e in ogni luogo, così, Israele si presenta «sul palcoscenico della storia con un libro di leggi in mano»[36].
III. L’umanità di un diritto divino: il destinatario persona e la pervasività della natura dialogica del precetto
Ancora oggi, «la torah mantiene la sua validità nonostante l’assenza di enforcement»[37] e «qualche autore si rallegra del fatto che adesso sia solo l’amore per Dio, e non il potere punitivo, a motivare l’ottemperanza»[38]. Tuttavia, la discontinuità di territorio e sovranità nelle vicende del popolo ebraico non spiegano che in parte la sorprendente indipendenza dell’autorità e della pregnanza del precetto rispetto alla sanzione. La forza del precetto “puro” può comprendersi nella sua pienezza unicamente alla luce della sua peculiare natura dialogica, che permette di considerare la trasgressione come un episodio eventuale, in un ambito di apprendimento interattivo, perché rivolto all’uomo.
La legge pervade tutto l’universo, la cui creazione è un comando sul regolato avvicendarsi del giorno e della notte: un ordine di amore, che, nondimeno, non attende che perfetta esecuzione. Sul Sinai, invece, si manifesta una «concezione multidimensionale della legge divina», che non si esaurisce in una «volontà di sovranità commanding»[39], ma si schiude in comunicazione interpersonale, «in un contesto faccia a faccia»[40]. Lungo il cammino di libertà con cui Israele è uscito dalla schiavitù d’Egitto, «un Dio si rivolge in prima persona a un popolo e – fatto inaudito – gli propone un’alleanza»[41]: le dieci Parole, cui il popolo risponde, nel darsi dialogico di un «diritto consensuale»[42].
La struttura dialogica del diritto ebraico è originaria, ubiquitaria e permanente. A livello dottrinale, può cogliersi «nelle modalità pratiche della sua trasmissione» e, primariamente, nell’assenza di giudizi terminativi in tutto il Talmud[43]. Il suo studio ha natura relazionale[44], è costituito da una «lettura interattiva»[45], ossia da «un’interazione nella discussione con coloro che vi hanno già dedicato molto tempo, oltre che con coloro i quali (…) stanno iniziando appena ora, o che sono in qualche modo all’opera», e, in questo senso, «genera un gran rumore collettivo»[46]. Benché in occasione delle sue singole stesure, «quando il Talmud fu redatto, gli Ebrei smisero di scriverlo», esso «non intendeva chiudere il dibattito, bensì fornire i mezzi per continuarlo, nel solco della tradizione»[47]: è concepito, scritto e letto come «uno strumento per avviare una conversazione»[48]. Anche per questo motivo, «il Talmud non sarà mai completato e si continuerà a scriverlo generazione dopo generazione»[49]. «Mitzvat talmud Torah», lo studio del diritto, che è un dovere per ogni ebreo, in ogni tempo[50], è un dovere di interlocuzione con il precetto: di talché il dialogo non conosce fine[51].
La natura dialogica pervade, in modo ancor più peculiare, l’amministrazione giudiziale del diritto, nel cd. principio dell’appello, ossia nel «dovere vincolante»[52] e nella «possibilità pressoché illimitata»[53], in capo a ogni giudicante, di correggere i propri errori. La conseguenza caratteristica è la mancata istituzionalizzazione delle corti di appello: «l’effetto di un giudizio del bet din in un certo senso è indicato dall’assenza di corti d’appello. Se una parte è convinta che il giudizio sia erroneo, il rimedio consiste nel chiedere alla corte di correggerlo: poiché la corte è ancora disponibile, non c’è alcun bisogno di corte d’appello»[54]. Si tratta di un principio generale: anche per i processi penali, che, nello specifico, possono essere riaperti esclusivamente dall’imputato[55], «in ogni caso», il ricorso può essere presentato «solo alla corte originaria, non a un’altra»[56].
Nonostante l’apparente frustrazione dei diritti di difesa, che sensibilità successive e mutuate hanno, peraltro, in parte emendato[57], la regola si iscrive in una costellazione di misure di favore dialogico verso l’imputato: basti pensare che è prescritto un annuncio pubblico della sentenza finalizzato a propiziare l’eventualità che qualcuno parli in difesa del condannato[58], si prevede che egli stesso possa parlare a propria discolpa anche dopo la condanna, ottenendo una sospensione dell’esecuzione[59], e, affinché la coscienza stessa del giudice possa muoversi a vantaggio dell’imputato, le condanne sono pronunciate il mattino seguente la deliberazione, laddove le assoluzioni sono pronunciate immediatamente, per dare occasione al giudice di «mutare il proprio convincimento durante la notte»[60]. Parimenti, in qualsiasi momento, ogni accusatore può cambiare opinione (ma non invece chi ha parlato in difesa dell’imputato)[61].
La natura dialogica della giustizia, prima ancora che dell’accertamento, disegna «il processo come sviluppo di un campo dei possibili»[62]. E un ulteriore “campo dei possibili” si stende come prevenzione dialogica da esercitarsi nell’imminenza del fatto e ritorna nel processo, almeno per i casi di pena capitale, come oggetto di necessaria prova: i testimoni non devono solo aver assistito al fatto, ma altresì avere avvisato del precetto e della sanzione il trasgressore[63], in una sorta di nullum crimen sine lege[64] che scaturisce però da una legge relazionale e, quindi, è personalizzato[65].
Con ogni evidenza, il «principio dell’appello», che nei «molteplici piani del processo di Sodoma e Gomorra» è ben rappresentato dai reiterati forse di Abramo in difesa della città, «si inscrive in uno spazio giuridico e mentale differente dal piano unico, dalla giustizia geometrica del taglione», giacché il processo «non pregiudicato da una struttura, una logica e una reattività predeterminata»[66] consente – anzi, promuove – il superamento della legge-misura[67]. Il din,diritto in senso stretto, si contrappone al diniego di giustizia, espressione di una legislazione perversa cui segue una perversa giurisdizione, che trasforma il giudice «in complice della violenza pura»[68]. Esso tuttavia non esaurisce il giudizio: al contrario, l’incapacità di andare oltre lo stretto diritto porta, come il diniego di giustizia, alla distruzione[69]. Ecco quindi il «carattere comune del din e dello tzedeq: sono midot», mentre «una giustizia sterile, conflittuale o distruttrice non potrà chiamarsi mida»[70].
Soltanto in questa cornice può leggersi l’impostazione secondo la quale il perdono, sempre richiesto da un insegnamento biblico che preclude vendetta e rancore[71], non può di per sé assorbire, come atto eventualmente unilaterale[72], questo «spazio di vita infinita», questo progetto tzedeq, che si trasforma in percorso tzedaqà, di misericordia e pietà, rispetto al quale parrebbe«voler vanificare qualsiasi idea di percorso, sia del reo che della vittima»[73], con il rischio di precludere al tempo stesso il pentimento e la ricostruzione di «relazione e dialogo»[74] nella perdurante esigenza di dire il male commesso per raggiungere la pace[75].
Tuttavia, dove si esercita la giustizia non è pace e viceversa: «l’applicazione del din è indissociabile da un contesto intenzionalmente conflittuale. (...) Ma, anche applicato al diritto penale, il principio riprende le esigenze dianzi segnalate: proporzionalità, presa di coscienza, copertura del senso di responsabilità»[76]. Non è, invece, d’ostacolo alla misericordia che Dio esercita e che richiede ai suoi giudici di esercitare[77]: «il Dio del basta, il Dio dei limiti e dei sobborghi» siede sul trono della misericordia per rendere giustizia[78]. Il precetto non nega la misericordia, come la misericordia non nega il precetto[79].
Ancora una volta, si toccano gli antipodi del postmoderno diritto fuzzy o flou[80], la cui asserita flessibilità e apertura sarebbe conseguita tramite norme dai confini mobili o sfocati. Nell’idea di misura propria del pensiero giuridico ebraico, la distanza è finalizzata a consentire la relazione identitaria, lo scopo del limite è rendere possibile il dialogo, la norma è soglia (con-fine)[81] come luogo di quel dialogo, il diritto è ponte verso il possibile[82]: «ancorato ai rapporti di forza e di interesse che segnano la società “così com’è”, guarda nondimeno al versante dei valori e degli ideali ai quali aspira la società così come “dovrebbe” o “vorrebbe essere”»[83], ma soprattutto a come potrebbe essere. Una possibilità insita nell’umano, che resta al centro del progetto del diritto[84].
IV. Pluralità e paideia tra pari: l’orizzont(al)e ermeneutico.
La virtualmente perpetua impossibilità di chiusura del giudizio, unita all’assoluta preminenza del precetto sulla sanzione e, quindi, sul carattere del tutto eventuale del momento applicativo, esclude che il diritto ebraico possa considerarsi un esempio di case law[85]. Benché quella talmudica sia una notevolissima «tradizione interpretativa»[86], tutto il diritto ebraico riposa sulla centralità e sulla solidità delle sue fonti. Inoltre, nonostante i rilievi sullo stile espressivo tradizionalmente riluttante all’astrazione[87] e sulla rilevanza identitaria delle sedi, ove riconosciute, di una sua applicabilità in action[88], il baricentro della comunità ermeneutica ebraica non è e non è mai stato giudiziale, bensì tutto racchiuso nel continuo dibattito della dottrina[89].
Da ogni punto di vista, quindi, il sistema giuridico non è caratterizzabile come un diritto giurisprudenziale[90] e resta, pertanto, piuttosto indifferente alle problematiche dei due estremi della stabilità e del cambiamento, la tensione tra i quali costituisce, invece, di ogni nomofilassi dei giudici, l’autentico fulcro nevralgico. Sotto il primo profilo, infatti, non può darsi una sentita preoccupazione per la stabilità dell’interpretazione: se non c’era nel pensiero giuridico ebraico, sin dal suo impianto originario, «alcuna nozione dottrinale di cosa giudicata», né essa si formava nella prassi giudiziaria, nemmeno all’interno di un singolo processo, «che spazio poteva esservi per il precedente o per lo stare decisis?»[91]. Quanto al secondo tema, un reale cambiamento della legge non è pensabile, né desta concreto allarme, perché «tutto ciò che avverrà è stato contemplato»[92].
È agevole riconoscere che il diritto ebraico ha un bagaglio ermeneutico estremamente ricco rispetto al dato testuale. L’interpretazione, tuttavia, non si propone in alcun modo di mutare o correggere la legge. Lacune e antinomie dei sistemi moderni nascono da carenze e altri difetti originari della legge. La natura incompleta di ogni tradizione, che sussiste nella misura in cui essa «non può controllare interamente il complesso di tradizioni catturato dai suoi aderenti»[93], è relativa a elementi che erano conosciuti nel passato e che si sono persi nel trasferimento informazionale. Lo sforzo ermeneutico continuo del diritto ebraico, invece, integralmente rivolto al futuro, nasce dalla consapevolezza di perenne incompletezza dell’interpretazione rispetto a una legge completa e perfetta[94]. Il patrimonio giuridico può arricchirsi senza che la legge debba cambiare, perché l’interpretazione si limita a disvelare ciò che nel precetto è già presente: un diritto sacro e quindi «intoccabile, inalienabile, immutabile», «sottratto alle istanze umane», ma che al tempo stesso «rinvia al popolo la propria responsabilità» anche in merito alla legge[95].
Per questo motivo, nonostante la preminenza quantitativa dell’ermeneutica sul testo[96], il diritto ebraico poggia integralmente sulle sue fonti, in una struttura che è piramidale, ma a piramide rovesciata e aperta, e nella quale la base della Torah regge «un peso via via crescente man mano che la tradizione prosegue»[97]. Nonostante il carattere spesso competitivo del dibattito dottrinale[98], la superficie della piramide può dirsi genuinamente orizzontale: «il Talmud comprende (…) le voci di molti ed è aperto a tutti»[99], secondo la regola per cui «il maestro non deve sedere sulla sedia e gli allievi a terra»[100]. Per causa della derivazione divina del vertice che la regge, la struttura piramidale del diritto ebraico non ne fonda la gerarchia, bensì rende qualsiasi gerarchia impossibile: «nell’Antico testamento, dunque, la democrazia nasce nel medesimo tempo della teocrazia»[101].
L’orizzontalità teocentrica del piano ermeneutico talmudico è caratterizzata anche dal superamento del problema della gerarchia tra norme, ossia della scelta tra fonti tramite soppressione di diritto, o di uno tra più diritti in conflitto, che caratterizza l’attività delle giurisdizioni contemporanee[102]. L’intero processo giusgenetico del diritto ebraico, infatti, ha la forma della «mitosi giuridica», ossia di una riproduzione con conservazione del patrimonio genetico identitario[103]. L’approccio alle varietà delle interpretazioni talmudiche che ne derivano – tale da non potervi rinvenire «nulla di cui fidarsi»[104] – si connota per una gestione della pluralità secondo il modo della paideia, uno studio condotto sul tema dell’unità: «il suo motivo psicologico primario è l’attaccamento»[105], ossia un’adesione guidata da fiducia nella coerenza e completezza della legge originaria, di cui l’esegesi può farsi rifrazione. Certamente, l’unità interpretativa dell’ideale paideico esiste solo per un istante immaginato, ma questo «istante immaginato di significato unificato» si fa seme e tempio dell’«insieme integrato di narrazioni» che impregna le norme[106]. L’osservato «carattere conciliatore e multivalente»[107] dell’ermeneutica ebraica è quindi piuttosto differente dal pluralismo disorientato attualmente in voga, perché trova nel testo «il centro paideico per le tradizioni interpretative»[108].
Allo stesso modo, non si pone in questo contesto il problema della prevalenza tra diritti. Nella loro vicenda di affermazione tramite azione, «i diritti sono accompagnati dalla propensione alla violenza e sono garantiti dallo Stato» (ovvero, oggi, da istituzioni sovranazionali cui gli Stati aderiscono), in regime di monopolio della forza[109]. Tuttavia, nel pensiero ebraico, si riscontra «un’argomentazione che non accetta l’usuale retorica dei diritti, né il loro carattere autoevidente, e che offre qualcosa di cui viene affermata la superiorità e che è inoltre più antica e migliore. (…) Gli obblighi, non i diritti, hanno in mano la carta vincente; essi sono quel che ci serve, se abbiamo diritti, affinché i diritti siano rispettati. La tradizione talmudica arricchisce il pensiero occidentale sul modo di pensare i diritti, ovvero di criticarli»[110] e lo fa secondo modalità potenzialmente libere dal bisogno di sanzione.
V. La presenza di un diritto eterno: perpendicolarità del precetto rispetto alla storia e rivitalizzazione giuridica del tempo nel possibile.
Poiché il testo è in ogni interpretazione, l’unità ermeneutica si sviluppa anche in senso diacronico, nella permanenza dell’interlocuzione con il precetto: ma trattandosi, appunto, di un dialogo, il precetto è sempre presente[111]. E ciò, si badi, non significa affatto fuori dal tempo. Al contrario, «la tradizione giudaica descrive la consegna delle leggi come atto singolare, avvenuto nel tempo e in un luogo – monte Sinai – specifici»[112], come pure è temporale «il cammino storico che, nella ricorrenza dei testi e nella fedeltà di una pratica, srotola il filo di un’Alleanza interpersonale»: niente di tutto ciò ha a che fare con la «fascinazione del sans-histoire»[113].
La permanenza della legge nella storia, del resto, è parte integrante del Patto, che è «un’alleanza e una promessa»[114]. Così, nel reiterarsi dello Shemittah o «nell’avvenimento del giubileo c’è come una promessa di durata», perché non si tratta semplicemente di decidere l’eco da riservare all’evento fondatore nel presente del tempo ripetuto: «entra in gioco una struttura temporale dinamica, aperta verso il futuro della trasmissione piuttosto che verso il passato della restituzione», che peraltro non si può nemmeno immaginare[115]. Anche in questa “trasmissione”, tuttavia, la legge mosaica, pur precetto dialogico per eccellenza, non dipende dalla comunicazione (che è piuttosto il modo in cui si manifesta o un segno esteriore di fedeltà).
Così, il diritto ebraico non è una tradizione. Quanto meno, non lo è nel senso di alleanza identitaria con il passato, secondo l’istinto naturale della memoria[116], o di mera informazione comunicata, della quale la normatività, espressa dalla ripetizione dei comportamenti, sarebbe solo l’effetto[117]. Contrariamente a quanto potrebbe dirsi del diritto romano nella tradizione di civil law, il diritto ebraico non può descriversi in termini di (peraltro intrinsecamente mutevole) «presenza del passato»[118]. Ogni discorso sull’esperienza giuridica ebraica riguarda piuttosto il passato di una presenza: potrebbe pertanto dirsi, al più, che il diritto ebraico ha una tradizione, nella quale si testimonia il darsi – consensuale e interpersonale – del Patto nella storia e la longevità del suo svolgersi, in un «eterno ieri» che pur merita deferenza[119]. Il passato, del resto, rende una testimonianza di non poco momento: «i più venerandi monumenti legislativi dell’epoca moderna messi accanto alla Torà restituirebbero l’immagine di arbusti ai piedi di una sequoia»[120]. Il diritto ebraico, tuttavia, non diviene mai passato, perché i suoi precetti vivono e parlano, generazione dopo generazione. La “sequoia” non è solo viva[121], ma anche tutta presente.
Perpendicolare al tempo della storia, la legge è in grado di trasformarlo: il tempo normato sabbatico e giubilare, «un ritmo (…) che pare assicurare il respiro dei tempi», si oppone al tempo puntuale e mortifero dell’entropia istituendo una continuità di cui le Scritture stesse si fanno garanti[122]. Ancora una volta è il precetto, pur nella sua immutabilità, che consente lo schiudersi del possibile. E, ancora una volta in modo antitetico rispetto alle tesi della postmodernità, la promessa di durata della legge e l’irrevocabilità del patto – che assicurano questo ciclico e sempre nuovo fiorire del diritto rivolto all’uomo – è affidata al testo, cui proprio la forma scritta conferisce «una dimensione nuova: quella della permanenza o della perennità»[123].
Il darsi nel testo del diritto ebraico, peraltro, si differenzia altrettanto profondamente dalle codificazioni antiche, incorporando un monito che pare molto attuale. Nel corso della storia la scrittura è stata strumento di dominio e dimostrazione di status, se non, ai primordi della sua diffusione, di monopolio da parte del potere in carica: «solo i ricchi e i potenti erano in condizioni di mantenere classi di scribi che lavoravano al loro servizio. (…) Il possesso di scritti e la costituzione di archivi o di biblioteche sottolinea dunque la potenza di un monarca e aumenta il suo prestigio. Questa sottolineatura ben si iscrive nella teoria che vede nei codici delle leggi opere di “propaganda reale”»[124].
Nel deserto del Sinai, invece, la vicenda si sviluppa secondo canoni completamente diversi: le tavole della legge sono destinate al popolo, che le custodirà con sé. La “testimonianza contro di lui” è consegnata alle sue stesse mani. Su stanghe rivestite d’oro l’arca si muove con la sua gente e la legge scritta non resta muta. Nell’insegnamento mosaico del Deuteronomio, la sua lettura si fa obbligo dialogico nel ciclo settennale dello Shemittah: la legge si perpetua come parola viva,pronunciata di fronte a tutto Israele[125]. Questa pronuncia accade, nuovamente, non nel segno della sanzione, bensì inaugurando il tempo sabbatico della rimessione.
Un ulteriore passaggio conferma il completo capovolgimento della logica delle antiche codificazioni, proprio con riferimento al periodo in cui, con la monarchia, anche Israele avrà un sovrano per applicare le sue leggi. Ebbene, non solo la legittimazione fondativa resta nel testo scritto e non nel potere del monarca che ne governa l’applicazione[126], ma il testo costituisce per lui oggetto di un dovere rafforzato, persino rispetto a quello che riguarda tutto il popolo: «il re deve farsi redigere una copia della legge e leggerla ogni giorno (…). Il re deve dunque possedere una “biblioteca” e questa biblioteca deve contenere almeno un libro, quello della legge»[127], cui dedicare quella lettura interattiva che perpetua la presenza (qui, quotidiana) del precetto nel dialogo. La previsione, volta a contrastare la superbia del re, esprime di fronte alla monarchia che verrà la natura bilaterale (e, quindi, ancora una volta, relazionale, anche per chi amministra la giustizia) degli obblighi racchiusi nel precetto[128].
Così, proiettandosi in un futuro possibile, la legge del Deuteronomio parla anche alle istituzioni della postmodernità[129] e sollecita, in chi vuole leggerla, una risposta. Non si tratta di concludere questo breve percorso tentando ipotesi circa la derivazione divina del diritto ebraico[130] o questionando se essa sia reale o percepita[131] oppure se ne sia più o meno effettiva la pregnanza nel diritto applicato che eventualmente la riconoscesse[132]. Interessante sembra piuttosto aprire il dialogo circa il possibile contributo culturale, spirituale e tecnico che un diritto religioso può offrire al diritto secolare laico[133]. Come, ad altro proposito, ha detto un giurista ebreo contemporaneo, le cui riflessioni sono state definite un «pellegrinaggio verso il futuro»[134], «dovremmo smettere di circoscrivere il nomos: dovremmo invitare nuovi mondi»[135].
Abstract: The analysis takes place in the horizon of the confrontation with other’s legal experience as a critical resource against the postmodern alleged directional inevitability, with particular reference to the trend of flight from the precept, in the crisis of state sovereignty. Jewish law is observed in its identity dimension, independent of territorial roots of sovereignty, in its pervasively dialogical nature and in the peculiar relationship between hermeneutic development and preserved precept centrality, aimed at guaranteeing the presence of the norm in the cyclical revitalization of the time of history. The paper closes on the idea of juridical reflection as a pilgrimage to the future, in a dialogue to which every possible world is welcome.
Keywords: comparative criminal law, hebrew law, sovereignty, territoriality, ermeneutics, postmodernity, law as dialogue.
* Il Contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] «Sono stati canti per me i tuoi precetti, nella dimora del mio pellegrinaggio» (Tehillim, 119:54).
[2] Nella letteratura sul tema, ampia e in continua espansione, R. Sacco, Antropologia giuridica. Contributo ad una macrostoria del diritto, Bologna 2007, p. 203 ss.; Id., La traduzione giuridica, in U. Scarpelli - P. Di Lucia (a cura di), Il linguaggio del diritto, Milano 1994, p. 475 ss.; P. Grossi, Un dialogo con i comparatisti su lingua e diritto, in Riv. int. fil. dir., 2014, p. 409 ss.; J. Husa, Translating Legal Language and Comparative Law, in Int. J. Semiot. Law, 2017, p. 261 ss.; B. Pozzo, La traduttologia giuridica ieri, oggi e domani, in L. Antoniolli - G. A. Benacchio - R. Toniatti (a cura di), Le nuove frontiere della comparazione: atti del I Convegno nazionale della SIRD, Milano, 5-6-7 maggio 2011, Trento 2012, p. 53 ss.; T. Mazzarese, Interpretazione e traduzione del diritto nello spazio giuridico globale, in Diritto & questioni pubbliche, 2008, p. 88 ss. Per una panoramica sulla varietà delle problematiche più specifiche, cfr. i contributi raccolti in R. Sacco (a cura di), Le nuove ambizioni del sapere del giurista: antropologia giuridica e traduttologia giuridica. Convegno internazionale, Roma, 12-13 marzo 2008, Roma 2009; B. Pozzo (a cura di), Lingua e Diritto: Oltre l’Europa, Milano 2014; nonché nei volumi monografici The Process of Translabiliting. Translating and Transferring Law e Legal Translation and Jurilinguistics, rispettivamente in Int. J. Semiot. Law, 2013 e 2015.
[3] Sia consentito il rinvio a R. Palavera, “Riflessioni” dal diritto penale islamico. Comparazione, dialogo, frammenti di verità, in P. Lobiati - R. Palavera - A. Sammassimo (a cura di), Itinerari di diritto islamico. Tra pluralità e alterità, Milano 2018, p. 285 ss.
[4] R. Sacco, risposta a P. Legrand, Questions à Rodolfo Sacco, in Rev. int. droit comp., 1995, p. 943 ss., p. 947.
[5] Riporta H. P. Glenn, Legal Traditions of the World. Sustainable Diversity in Law, 4a ed. Oxford - New York 2010, tr. it. Tradizioni giuridiche del mondo. La sostenibilità della differenza, Bologna 2011, p. 193, che le stanze dove si studia il Talmud sono chiamate yeshiva, dal verbo “sedersi”. Si osservi come pure nella tradizione islamica la zona dedicata allo studio (anche) degli hadith presso la moschea (che nel suo insieme è chiamata masjid, «dal verbo sajada, prosternarsi»), è detta «majlis, da jalasa che significa prendere la posizione seduta e raddrizzarsi» (così D. Scolart, La madrasa, luogo del sapere religioso e giuridico, in D. Novarese, a cura di, Accademie e scuole. Istituzioni, luoghi, personaggi, immagini ella culture e del potere, Milano 2011, p. 55 ss., p. 64).
[6] Robuste, ancora, si intende resistano le voci critiche (spesso molto autorevoli e sufficientemente numerose e note per non doversi qui menzionare), che lamentano le conseguenze del fenomeno e si propongono di apprestarvi rimedio: pare piuttosto estinta, per unanime e sempre cursorio rilievo, l’idea che il processo potesse o possa essere arginato, arrestato o invertito di rotta.
[7] H. P. Glenn, op. cit., p. 186, sottolinea come nella tradizione talmudica non vi sia «alcuna divisione netta tra illecito e reato. L’insegnamento dottrinale è in larga misura il medesimo per entrambi». Cfr. pure A. Steinsaltz, The Essential Talmud, New York 2006, p. 155 e 163. Il mancato sviluppo dell’idea di reato nel senso moderno del termine è ricondotto all’assenza di un’autorità istituzionale deputata alla repressione (L. Kravitz, What Is Crime?, in W. Jacob - M. Zemer, a cura di, Crime and Punishment in Jewish Law. Essays and Responsa, Oxford 1999, p. 22 ss.), ma altresì alla natura intrinsecamente secolare del concetto (S. M. Passamaneck, The Concept of Crime in the Jewish Tradition, in W. Jacob - M. Zemer, op. cit., p. 3 ss., p. 17 ss.). Per ulteriori riflessioni, sia consentito il rinvio a R. Palavera, Un interlocutore millenario per il diritto postmoderno. Precetto, interpretazione e giudizio nell’esperienza giuridica ebraica, in P. Lobiati - R. Palavera - A. Sammassimo (a cura di), Itinerari di diritto ebraico, di prossima pubblicazione.
[8] È il «diritto senza Stato», descritto da S. Cassese, Il mondo nuovo del diritto. Un giurista e il suo tempo, Bologna 2008, 29 ss., il nichilista diritto «senza un “dove” e un “perché”» di A. Cosseddu, L’orizzonte del diritto “luogo” delle relazioni, in A. M. Baggio (a cura di), Caino e i suoi fratelli. Il fondamento relazionale nella politica e nel diritto, Roma 2012, p. 132 ss., p. 133.
[9] A. Bernardi, Il diritto penale tra globalizzazione e multiculturalismo, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2002, p. 485 ss.
[10] L’«animale feroce» del discorso sulla pena (D. Brunelli, Il disastro populistico, in Criminalia, 2014, p. 254 ss.). Ampiamente, S. Anastasia - M. Anselmi - D. Falcinelli, Il populismo penale. Una prospettiva italiana, Padova 2015.
[11] D. Pulitanò, Populismi e penale. Sulla attuale situazione spirituale della giustizia penale, in Criminalia, 2013, p. 123 ss.; G. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2013, p. 95 ss.; L. Violante, Populismo e plebeismo nelle politiche criminali, in Criminalia, 2014, p. 197 ss.; A. Bernardi, Populismo giudiziario? L’evoluzione della giurisprudenza penale sul kirpan, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 671 ss.
[12] M. R. Ferrarese, La globalizzazione del diritto dalla “teologia politica” al diritto “utile”, in M. Vogliotti (a cura di), Il tramonto della modernità giuridica. Un percorso interdisciplinare, Torino 2008, p. 49 ss.
[13] F. Ost - M. van de Kerchove, De la pyramide au réseau? Pour une théorie dialectique du droit, Bruxelles 2002, p. 43 ss.; G. Bombelli, Sfera giuridica e scenari contemporanei: intorno al diritto come “rete”, in Jus, 2012, p. 261 ss.; C. Garbarino, Un modello di rete di produzione di norme basato su agenti differenziati, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2014, p. 85 ss.
[14] Come nelle metafore musicali di V. Nitrato Izzo, Diritto e musica: performance e improvvisazione nell’interpretazione e nel ragionamento giuridico, in M.P. Mittica (a cura di), Diritto e narrazioni. Temi di diritto, letteratura e altre arti, Milano, 2011, p. 111 ss., nonché di J.M. Balkin - S. Levinson, Performance Notes on “The Banjo Serenader” and “The Lying Crowd of Jews”, in Cardozo L. Rev., 1999, p. 1513 ss., p. 1657.
[15] M. Vogliotti, La “rhapsodie”: fécondité d’une métaphore littéraire pour repenser l’écriture juridique contemporaine. Une hypothèse de travail pour le champ pénal, già in R.I.E.J., 2001, p. 1 ss., ora in Diritti & questioni pubbliche, 2002, p. 195 ss., p. 199.
[16] J. L. Ska, Le droit d’Israël dans l’Antique Testament, in F. Mies (a cura di), Bible et droit. L’esprit des lois, Bruxelles 2001, p. 9 ss., p. 28 ss. Sovrani non sarebbero, peraltro, nemmeno gli angeli, che – non senza ripercussioni sull’idea di autorità nell’ermeneutica normativa – talune tradizioni vorrebbero come intermediari della Rivelazione (cfr. H. Najman, Past Renewals: Interpretative Authority, Renewed Revelation, and the Quest for Perfection in Jewish Antiquity, Leiden - Boston 2010, p. 121 ss.).
[17] F. Ost, Du Sinaï au Champ-de-Mars. L’autre et le même au fondement du droit, Bruxelles 1999, p. 37.
[18] Perché di natura costantemente dialogica, già nel suo manifestarsi e nel suo primissimo consolidarsi: cfr. oltre, § 3.
[19] «In effetti, il deserto non è un “territorio” nel senso proprio del termine. È piuttosto il non territorio per eccellenza poiché non è amministrato né rivendicato da “nessuno”. Da quando Israele esce dall’Egitto, non attraversa un altro paese governato da un sovrano. Non conquista più territori dove potrebbe proclamare il suo proprio diritto e vivere secondo le proprie leggi. Vive attraverso un periodo simbolico di quarant’anni in un territorio che è letteralmente una no man’s land, il territorio di “nessuno”» (J. L. Ska, op. cit., p. 29).
[20] H. P. Glenn, op. cit., p. 180. «È questo che spiega perché il diritto: Israele può ricostituirsi dopo la monarchia e senza la monarchia perché è più antico della monarchia e più antico dell’entrata nella terra. Quello che ha potuto esistere prima della monarchia può anche esistere dopo la sua sparizione» (J. L. Ska, op. loc. cit.). N. J. Zohar, Contested Boundaries: Visions of a Shared World, in M. Walzer (a cura di), Law, Politics, and Morality in Judaism, Princeton – Oxford 2006, § 6, ipotizza che l’essenza stessa del diritto ebraico militi verso un superamento della partizione territoriale del mondo.
[21] Sulla dimensione “ecologica” della giustizia prescritta dal ritmo giubilare, F. Ost, “Vous sanctifierez la cinquantième année”, cit., p. 52 ss.
[22] D. Piattelli, Libertà individuali e sistemi giuridici, Torino 1997, p. 181 ss.; per l’accentuazione della responsabilità del singolo, cfr. pure p. 193 ss.; per una cittadinanza in cui l’adesione alla comunità valoriale prevlae sul territorio, anche D. Novak, Land and People, in M. Walzer, op. cit., § 5. È il trasposto giuridico collettivo del filosofico e individuale «esodo da sé» dell’«io sono di carne e di sangue la cui libertà vira, sin da subito, in responsabilità» (F. Nodari, Altrimenti che Sartre e al di là di Heidegger. Dal “Dasein” all’“être juif”, in Iride, 2018, p. 67 ss., p. 79 e 82).
[23] Tanto da rendere «una profonda esperienza della differenza» il tratto caratteristico della tradizione ebraica (H. P. Glenn, op. cit., p. 220).
[24] Cfr. D. Friedmann, Ha-raysahta ve-gam yarashta, Tel Aviv 2000, tr. it. Diritto e morale nelle storie bibliche, Milano 2008, p. 16 ss.; per una sottolineatura dei contatti con le altre tradizioni precedenti lo stesso Pentateuco, A. Fitzpatrick-McKinley, The Transformation of Torah from Scribal Advice to Law, Sheffield 1999, p. 64 ss.
[25] I contatti, che con la diaspora divengono non solo più capillari e frequenti, ma altresì inevitabili[25] e sono studiati sotto il profilo della reazione della tradizione talmudica ad essi (H. P. Glenn, op. cit., p. 211 ss.). Quale esempio, guardando agli atti processuali dell’Accademia ebraica, può rivelarsi «un riferimento costante a fonti ebraiche, ma anche un costante riferirsi al diritto locale, e alle consuetudini» (P. L. Bernardini, L’Accademia ebraica mantovana (1791-1804). Materiali per una nuova valutazione dell’autonomia giurisdizionale ebraica alla fine della prima età moderna, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2009, p. 307 ss., p. 312). In questo senso, il movimento sionista e lo stesso Stato di Israele «si comportarono in molti casi come avevano fatto gli antichi israeliani – vale a dire, essi adattarono i costumi e i governi di altre società contemporanee» (D. Friedmann, op. cit., p. 455. Cfr. pure, con rilievi critici circa il peculiare contesto dell’incorporazione del diritto internazionale contemporaneo, M. J. Broyde, The Foundations of Law: A Jewish View of World Law, in Emory L.J., 2005, p. 79 ss.).
[26] Nè «al lavoro di una Corte Suprema (il Sinedrio) in grado di operare una reductio ad unum delle interpretazioni giuridiche» (M. Goldoni, Il diritto fra autorità e interpretazione, introduzione a R. Cover, Nomos e narrazione. Una concezione ebraica del diritto, Torino 2008, p. 1 ss., p. 3).
[27] Così, sin dalla conquista dei Babilonesi, per H. P. Glenn, op. cit., p. 175.
[28] H. P. Glenn, op. cit., p. 175 n. 10; T. Fishman, Becoming the People of the Talmud: Oral Torah As Written Tradition in Medieval Jewish, Philadelphia 2011, passim. Nel suo insieme, tutta la legge ebraica nasce dalla scrittura di un’originaria comunicazione orale e tale scrittura è poi oggetto di lettura reiterata. Si tratta di un modello che taluni reputano in questo senso alternativo a quello legislativo (A. Fitzpatrick-McKinley, op. cit., p. 81 ss.), ma a molteplici componenti scritte. Del resto, altre fonti scritte, tra cui i responsa rabbinici e le ordinanze del Sinedrio, una forma di «legge del territorio» (proveniente però da una fonte non statuale e, anzi, esclusa poi dalla legislazione dello Stato di Israele), contribuirono al patrimonio giuridico ebraico con «conseguenze importanti tanto all’interno della tradizione, quanto per le relazioni con le altre tradizioni» (H. P. Glenn, op. cit., p. 178 ss.). Inoltre, come pure per le codificazioni antiche extraebraiche, deve rendersi conto della (quanto meno parziale) autonomia del testo della sua scrittura rispetto alle origini – eventualmente consuetudinarie o giurisprudenziali – dei contenuti in esso raccolti (cfr. A. Fitzpatrick-McKinley, op. cit., p. 16; J. L. Ska, op. cit., p. 22).
[29] H. P. Glenn, op. cit., p. 208.
[30] G. Steiner, Grammars of Creation, New Haven 2001, tr. it. Grammatiche della creazione, Milano 2003, p. 256, che aggiunge: «Nessuna tradizione morale e intellettuale, nessuna storia etnica, è stata più accanitamente attaccata all’autorità della parola – come testo rivelato, come legge, come commento ininterrotto – del giudaismo. Spesso senza radici e cacciato via di luogo in luogo, l’ebreo ha fatto del testo orale e scritto la sua patria. La minuziosità filologica, la conservazione dell’eredità lessicale-grammaticale e della purezza, sono state al cuore dell’esistenza ebraica, ben oltre le costrizioni della liturgia e dell’insegnamento rabbinico. (…) Più di tutti gli altri, quindi, gli ebrei si sono percepiti come “il popolo del Libro”».
[31] Secondo J. Gaakeer, Close Encounters of the ‘Third’ Kind, in K. Stierstorfer - D. Carpi (a cura di), Diaspora, Law and Literature, Berlin - Boston 2017, p. 41 ss., p. 42, è in questo senso diasporico ogni studio comparatistico, compreso l’approccio interdisciplinare e, quindi, anche il filone “Law and…”.
[32] J. Derrida, L'écriture et la différence, Paris 1967, p. 102: «il Poeta e l’Ebreo non sono nati qui, ma là-bas. Errano, separati dalla loro nascita autentica. (…) “Race issue du livre” perché figli di una Terra a venire. Autoctoni del Libro. Autonomi, anche, diciamoci». Sul (conseguente, ma differente) profilo della negoziazione della soggettività legale da parte delle comunità diasporiche, E. Patchett, Overlapping Sovereignties. Legal Diaspora Studies and the Literary Text, in K. Stierstorfer - D. Carpi, op. cit., p. 135 ss., p. 141 ss.
[33] Sono quanto meno percepite come ebraiche le radici del pensiero giuridico europeo di rielaborazione cristiana: cfr. E. Wiesnet, Die verratene Versöhnung: zum Verhältnis von Christentum und Strafe, Düsseldorf 1980, tr. it. Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita, Milano 1987; L. Eusebi (a cura di), La funzione della pena: il commiato da Kant e da Hegel, Milano 1989, R. Mazzola, Le radici cristiane e laiche del diritto penale statuale, in Riv. it. dir. proc. pen, p. 1309 ss.; D. Piattelli, op. cit., p. 214 ss.; ma cfr. pure i risalenti V. Aptowitzer, The Influence of Jewish Law on the Development of Jurisprudence in the Christian Orient, in The Jew. Quart. Rev., 1910, p. 217 ss.; J. J. Rabinowitz, The Influence of Jewish Law upon the Development of Frankish Law, in Proceedings of the American Academy for Jewish Research, 1946, p. 205 ss. Per diversi profili in contesto di common law, B. J. Meislin, Jewish Law in American Tribunals, in Jewish Law Review, 1972, p. 349 ss.; Id., Maimonides and American case law, in N. Rakover (a cura di), Maimonides as Codifier of Jewish Law, Yerushalayim 1987, p. 269 ss.; D. G. Ashburn, Appealing to a Higher Authority: Jewish Law in American Judicial Opinions, in U. Det. Mercy L. Rev., 1993, p. 295 ss. In particolare, per il risveglio di interesse in contesto accademico, S. J. Levine, Emerging Applications of Jewish Law in American Legal Scholarship: An Introduction, in Journal of Law and Religion, 2007, p. 43 ss. e 375 ss.; Id., Applying Jewish Legal Theory in the Context of American Law and Legal Scholarship: A Methodological Analysis, in Seton Hall L. Rev., 2010, p. 933 ss.; ma già E. H. Rabin, Foreword al simposio The Evolution & Impact of Jewish Law, in U.C. Davis J. Int'l L. & Pol'y, 1995, p. 49 ss.
[34] Anche questo, insegnamento rabbinico tradizionale: cfr. D. Seeman, Reasons for the Commandments as Contemplative Practice in Maimonides, in The Jewish Quarterly Review, 2013, p. 298-ss.
[35] H. P. Glenn, op. cit., p. 109 ss., che aggiunge come, in questo senso, «molti di noi, se non la maggioranza, possono voltarsi indietro a guardare a un certo tipo di diaspora».
[36] D. Friedmann, op. cit., p. 13.
[37] B. S. Jackson, Studies in the Semiotics of Biblical Law, Sheffield 2000, p. 143. Ci si riferisce qui al diritto ebraico tradizionale. Per quanto riguarda lo Stato di Israele, che ha un diritto moderno in buona parte mutuato dagli ordinamenti occidentali, è, al più, «controverso se la tradizione talmudica sia utilizzabile come fonte di principi generali e in materia di interpretazione» (H. P. Glenn, op. cit., p. 214 n. 115). Il tema è stato comunque oggetto di prese di posizione diversificate (cfr. A. M. Rabello, Introduzione al diritto ebraico. Fonti, matrimonio e divorzio, bioetica, Torino 2002, p. 86 ss.). Per una panoramica sul dibattito attuale, S. L. Stone, Law without Nation? The Ongoing Jewish Discussion, in A. Sarat - L. Douglas - M. Merri Umprhrey (a cura di), Law Without Nations, Stanford 2014, p. 102 ss., p. 111 ss. Cfr. pure J. Faur, op. cit., p. 301, circa il precoce rigetto ebraico «della nozione che l’autorità sia l’effetto del potere; che la violenza, provenga essa dalla parola di europaischen Menschentums o dalla spada del potente meriti compliance».
[38] H. P. Glenn, op. cit., p. 188. Pure J. L. Ska, op. cit., p. 38 ss., sottolinea la predilezione del diritto ebraico per lo stile esortativo (e spesso pedagogico) della parenesi, fino all’estremo in cui «le leggi non prevedono più sanzioni in caso di omissione o di infrazione». Si osservi come anche il profilo dell’effettività diviene relazionale, risiedendo nell’eterno amore (ahavat olam) di Dio per l’uomo (cfr. E. N. Dorff, For the Love of God and People, Philadelphia 2010, p. 16 e 96 ss.).
[39] C. Hayes, What’s Divine about Divine Law? Early Perspectives, Princeton 2015, p. 66.
[40] B. S. Jackson, op. cit., p. 145.
[41] F. Ost, op. ult. cit., p. 49.
[42] J. L. Ska, op. cit., p. 33 ss.; l’Autore definisce il diritto ebraico «consensuale o contrattuale», opzione preferibile forse al termine negoziato, usato
Palavera Rosa
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