Maintenance of affectionate ties in foster care and in adoption. A legal analysis

La continuità degli affetti nella disciplina dell’affidamento e dell’adozione. Significati, sistema e prospettive

25.10.2021

Carlo Rusconi

Assegnista di ricerca in Diritto privato,

Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano

 

La continuità degli affetti nella disciplina dell’affidamento e dell’adozione. Significati, sistema e prospettive*

 

English title: Maintenance of affectionate ties in foster care and in adoption. A legal analysis

DOI: 10.26350/18277942_000049

 

SOMMARIO: 1. La continuità degli affetti. Unicità e pluralità di significati. – 2. La continuità degli affetti realizzata. Nell’affidamento temporaneo. – 2.1 Segue. Gli affidamenti sine die. – 2.2 Segue. Affidamento e kafalah. – 2.3. Il c.d. affidamento a rischio giuridico. – 2.4. La legge n. 173/2015. 3. L’adozione in casi particolari ex art. 44, co. 1 lett. d) l. 184/1983. L’adozione c.d. mite.– 3.1. L’adozione del figlio del partner nella coppia omosessuale. – 4. La continuità degli affetti da realizzare. L’adozione piena. – 5. Conclusioni.

 

  1. La continuità degli affetti. Unicità e pluralità di significati

 

La legge 19 ottobre 2015, n. 173 ha posto a tema e obiettivo, nella sua stessa intitolazione, la protezione della continuità degli affetti del minore nel passaggio tra affidamento temporaneo e adozione, in particolare nel senso di qualificare l’affidamento di un minore come esperienza da valutare in modo privilegiato per l’adozione dello stesso, piena o in casi particolari, da parte degli affidatari. In realtà, benché il valore della continuità degli affetti prima delle modifiche apportate dalla l. 173/2015 non fosse esplicito nella l. 4 maggio 1983, n. 184[1], esso già da tempo vi apparteneva e fornisce la chiave di lettura di diversi snodi centrali della disciplina. Una visione d’insieme delle declinazioni della continuità degli affetti nella l. 184/1983, come ricavabile dalle norme e dalla giurisprudenza, è quanto questo contributo si propone di esporre e valutare.

La ricognizione sistematica delle diverse situazioni in cui si manifesta l’istanza di protezione della continuità degli affetti del minore rivela anzitutto come il nucleo di significato si specifichi in una molteplicità di prospettive a seconda del contesto. Il dato essenziale e costante, reso manifesto dalla l. 173/2015, risiede nel riconoscimento del diritto alla continuità affettiva alla persona del minore: ciò implica che solo nel suo l’interesse la soluzione del caso può essere orientata tenendo conto di un rapporto affettivo instauratosi[2]. Il diritto alla continuità affettiva non è dunque attribuito all’altro soggetto della relazione, sia esso la famiglia di origine o gli affidatari temporanei, anche se, indubbiamente, almeno di riflesso, viene protetta anche la loro aspirazione a conservare il rapporto con il minore.

Nel più generale ambito del diritto di famiglia, il diritto alla continuità degli affetti nella l. 184/1983 compone quasi un dittico con il diritto alla bigenitorialità nella crisi della famiglia: anche questo è infatti un diritto del minore[3] che, come tale, non può essere oggetto di disponibilità incontrollata da parte dei genitori, rispetto ai quali il valore della continuità affettiva si manifesta anzi essenzialmente come dovere di presenza nella vita del figlio[4]. Mentre peraltro il diritto alla bigenitorialità mira a mantenere uniti il rapporto di filiazione e la relazione affettiva e di cura con il genitore, nella riforma apportata dalla l. 173/2015 alla l. 184/1983[5], la continuità affettiva emerge come elemento che è in grado di contribuire a fondare un nuovo rapporto di filiazione mediante adozione. In altre parole, mentre nella crisi della famiglia, il rapporto di filiazione è il tronco a cui dovrebbe rimanere legato il permanere della relazione affettiva, nella disciplina della l. 173/2015 è la relazione affettiva maturata nel corso dell’affidamento che può dar luogo ad un rapporto di filiazione adottiva dopo il venir meno della capacità di cura della famiglia di origine.

Nella l. 184/1983 la continuità degli affetti si manifesta in contesti e con significati piuttosto vari. Ad esempio, nei profili introdotti dalla l. 173/2015 vale essenzialmente come continuità del rapporto con la famiglia affidataria sia nel senso forte di favorire l’instaurazione della filiazione adottiva, qualora si creino i presupposti, sia come mantenimento del rapporto con gli affidatari, nel caso di rientro del minore nella sua famiglia o di adozione da parte di una famiglia diversa da quella affidataria. Ancora nel contesto dell’affidamento temporaneo, ma secondo l’impostazione tradizionale della l. 184/1983, continuità affettiva significa preservare la relazione con la famiglia di provenienza. Nel quadro dell’adozione in casi particolari e, specialmente, dell’art. 44, co. 1 lett. d), soprattutto quando intesa come adozione c.d. mite, la continuità degli affetti salvaguarda il rapporto con la famiglia di origine. L’art. 44, co. 1 lett. d), riferito invece al partner omosessuale del genitore, viene letto alla luce della continuità affettiva per fondare formalmente il rapporto di fatto esistente tra il minore e il partner del genitore, che regolarmente è anche genitore d’intenzione del minore.

Pur nella varietà di prospettive in cui la continuità degli affetti viene declinata, la realtà presenta tuttavia situazioni nelle quali l’istanza alla continuità affettiva non riesce a riflettersi in una forma di protezione legale: sorge in tali ipotesi una sorta di conflitto, non raro nel diritto minorile, tra la valutazione generale di protezione del minore che è sottesa alle norme sull’adozione e i bisogni del caso concreto[6].

Acquisito che il concetto di continuità affettiva si irradia nella legge 184/1983 in una pluralità di proiezioni, è nondimeno possibile esaminare il tema intorno ad alcuni nuclei problematici unificanti. Uno di questi riguarda l’affidamento temporaneo, la cui applicazione è spesso lontana dalla funzione che la legge gli assegna, incrinando l’idea alla base della l. 184/1983 di mantenere separati affidamento e adozione. Tale visione si è mostrata troppo schematizzata davanti ai bisogni sociali emergenti e l’istituto dell’affidamento viene forzato nel limite temporale, senza tuttavia conseguire esiti del tutto adeguati. Una seconda area in cui l’istanza alla continuità degli affetti si manifesta – oggi forse quella più controversa – riguarda l’adozione in casi particolari, il cui conciso e sobrio dato normativo è stato creativamente esteso dalla giurisprudenza a nuove situazioni non riconducibili pianamente o per nulla alla l. 184/1983. Per un verso, si tratta di stati di disagio familiare intermedi tra l’affidamento e l’adozione, in quanto non possono dirsi temporanei, ma nemmeno connotati da una radicale inidoneità della famiglia di origine, per l’altro l’istituto è divenuto lo strumento di emersione di nuove forme di filiazione, intrecciandosi con le discipline delle tecniche di procreazione medicalmente assistita e di riconoscimento delle unioni tra coppie dello stesso, in un caleidoscopio normativo che supera i confini nazionali. Infine, ma solo in ordine di esposizione e non di importanza, si staglia la questione della continuità degli affetti nell’adozione piena. L’idea della rottura radicale e definitiva dei rapporti con la famiglia di origine è infatti ormai valutata come soluzione estrema e tendenzialmente controproducente. Riflesso di ciò sono l’irrigidimento dell’interpretazione dello stato di abbandono e la postergazione dell’azione piena nel sistema delle adozioni, esiti non privi di problematicità.

 

2. La continuità degli affetti realizzata. Nell’affidamento temporaneo

 

Nella l. 184/1983, l’ambito in cui il tentativo di assicurare la continuità affettiva è più determinato non può che essere quello dell’affidamento temporaneo, avendo questo istituto lo scopo di favorire il rientro del minore nella sua famiglia di origine, la quale ha nel frattempo diritto di ricevere e dovere di accettare gli interventi necessari al recupero della capacità di cura del figlio. Questa forma di assistenza dei minori è stata di recente condizionata restrittivamente nei presupposti procedurali: l’art. 9 della l. 29-7-2020, n. 107[7], seguita come reazione a vicende che hanno suscitato clamore, ha integrato l’art. 2 con un nuovo comma 3-bis in base al quale i provvedimenti di affidamento ad una comunità devono anzitutto chiarire espressamente le ragioni per cui non si ritiene possibile la permanenza del minore nel nucleo familiare d’origine e devono inoltre dare conto dell’impossibilità di ricorrere all’affidamento ad una famiglia.

Il principio della partecipazione della famiglia di origine si manifesta in particolare nell’art. 5, co. 1, che prevede la formazione condivisa delle decisioni tra affidatari e genitori che non siano decaduti o limitati nella responsabilità genitoriale[8] (affido consensuale): all’affidatario è infatti rimesso il compito di «provvedere al mantenimento e alla educazione e istruzione» del minore, condizionando però tale funzione a due vincoli, ovvero anzitutto «tenere conto» delle indicazioni dei genitori e osservare le prescrizioni dell’autorità affidante.

L’intensità dell’obbligo di «tenere conto»[9] delle indicazioni dei genitori si può ricavare in modo indiretto, ma abbastanza preciso dal criterio di soluzione dei conflitti tra affidatari e famiglia di origine[10]: l’art. 316 c.c., a cui rimanda l’art. 5, co. 1. Come spiegò Mengoni[11], il significato e il valore di tale disposizione risiedono nel fatto che il contrasto viene superato non con una decisione eteronoma alla famiglia, bensì con una soluzione interna alla famiglia del minore e, nel caso dell’art. 5, co. 1, comunque espressiva delle figure più prossime nella contingenza (la famiglia di origine o gli affidatari). Né si può ricavare dall’art. 316, co. 3 c.c. un giudizio negativo rispetto al soggetto escluso dalla decisione: si tratta infatti di stabilire, rispetto alle concrete circostanze in cui si presenta lo specifico problema, quale sia la preferibile tra due soluzioni che in astratto potrebbero essere parimenti meritevoli.

Nel quadro di tale regola generale, l’art. 5, co. 1 attribuisce in ogni caso agli affidatari la competenza ad assumere le decisioni inerenti agli «ordinari rapporti con la istituzione scolastica e con le autorità sanitarie». Il modulo qui scelto dal legislatore tende ad avvicinarsi alla struttura e al contenuto delle regole fissate con riferimento all’esercizio della responsabilità genitoriale nella crisi della famiglia in caso di affidamento condiviso (art. 337-ter, co. 3 c.c.), salvi due elementi di differenziazione. Mentre nell’affidamento familiare, è direttamente la previsione normativa, come appena riscontrato, ad attribuire agli affidatari la competenza ad assumere le decisioni ordinarie circa la salute e l’istruzione del minore, in base all’art. 337-ter, co. 3 c.c. è il giudice a poter stabilire un esercizio esclusivo (separato) rispetto, peraltro, alla generalità delle questioni di minore importanza[12]. Il confronto tra la due previsioni induce l’impressione che le competenze degli affidatari siano stabilite dall’art. 5, co. 1 in modo forse troppo limitante e che possa essere più appropriato rimettere all’affidatario la generalità delle questioni di minore rilievo, presentandosi altrimenti il rischio che l’affidamento si risolva in un’impasse rispetto ai bisogni della vita quotidiana del minore. È pur vero che nell’affidamento familiare si assiste al subentro di un terzo nella cura del minore, a differenza dell’affidamento nella crisi della famiglia dove rimane la presenza di un genitore[13], tuttavia i bisogni del minore nelle due situazioni non sono sostanzialmente diversi; si può anzi presumere che proprio nell’affidamento temporaneo vi sia una maggiore necessità di istituire una cura stabile delle esigenze anzitutto ordinarie del minore. Si potrebbe così prevedere la generale competenza degli affidatari sulle questioni quotidiane[14], mantenendo un riferimento espresso e particolare ai rapporti scolastici e sanitari[15]. Inoltre, a somiglianza dell’art. 337-ter, co. 3 c.c. ai genitori dovrebbe essere comunque assicurato il diritto di vigilanza e di ricorrere al giudice qualora reputino che l’affidatario abbia assunto decisioni pregiudizievoli per il figlio.

Anche quando vi sia decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale, la continuità degli affetti con la famiglia d’origine deve essere in linea di principio preservata, come prescrive l’art. 5, co. 2 che enuncia tra i compiti dei servizi sociali quello di agevolare i rapporti con la famiglia di provenienza[16].

 

2.1 Segue. Gli affidamenti sine die

 

Muovere dall’affidamento familiare nella ricostruzione della continuità affettiva nella l. 184/1983 spiega le ragioni dell’introduzione della l. 173/2015, le quali devono essere individuate proprio nell’applicazione che l’affidamento spesso riceve nella prassi[17].

L’intenzione del legislatore era indubbiamente quella di costituire l’affidamento come misura di protezione di durata definita e breve, tanto da essere correntemente noto anche come affidamento temporaneo. Il dato normativo è infatti univoco sul punto. Richiamando i riferimenti essenziali[18], l’art. 2, co. 1, in apertura della disciplina dell’affidamento, individua come destinatario «il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo»; da ciò si ricava anche la finalità della misura consistente nell’accudire i minori nel periodo in cui la famiglia d’origine è incapace di provvedere e dovrebbe essere sostenuta nel recupero. Tale indicazione è in tutta evidenza non compatibile con l’idea di un affidamento sine die: questo renderebbe infatti difficilmente programmabili e comunque di scarso successo gli interventi a favore dei genitori d’origine, i quali non sarebbero motivati a conformarsi in assenza di un orizzonte temporale definito. Il protrarsi  dell’affidamento tende inoltre favorire il radicarsi di una relazione affettiva tra il minore e la famiglia affidataria, fatto in sé certamente non negativo, ma che al momento della separazione – sia in vista del rientro nella famiglia di origine sia in vista dell’adozione – diviene nuova causa di sofferenza per il minore.

Più specificatamente, l’art. 4, co. 4, nel riferirsi al contenuto del provvedimento, dispone che «deve inoltre essere indicato il periodo di presumibile durata dell'affidamento che deve essere rapportabile al complesso di interventi volti al recupero della famiglia d'origine. Tale periodo non può superare la durata di ventiquattro mesi ed è prorogabile, dal tribunale per i minorenni, qualora la sospensione dell'affidamento rechi pregiudizio al minore»[19]. La fissazione del termine di ventiquattro mesi, per quanto prorogabile, esprime indubbiamente una sollecitazione a circoscrivere l’affidamento nel tempo[20]. Altri indici dell’art. 4, co. 4 connotano l’affidamento come essenzialmente temporaneo. In particolare, è significativo il fatto che il termine possa essere prorogato sul presupposto che la sospensione dell’affidamento rechi pregiudizio al minore. A questo riguardo, si è notato che «il rilievo determinante, anche se non esclusivo, della temporaneità esce rafforzato dallo specifico riferimento al "pregiudizio del minore", anziché al suo interesse (formula, di certo, più elastica) in caso di sospensione dell'affidamento»[21]. Oltre che con tali scansioni formali, il legislatore ha poi cercato di rendere effettiva la temporaneità nel disciplinare l’insieme delle competenze dei servizi sociali nell’affidamento[22].

Come noto, il termine di ventiquattro mesi è però nella realtà spesso prorogato. Tale discrasia tra la previsione normativa e la sua applicazione produce situazioni molto problematiche, soprattutto quando si tratta di minori di tenera età per i quali, a fronte dell’irrecuperabilità in tempi ragionevoli delle capacità della famiglia di origine, le buone possibilità di inserimento in una nuova famiglia attraverso l’adozione corrono il rischio di essere vanificate se l’affidamento preadottivo si protrae a lungo, lasciando inoltre la persona in una situazione precaria quando l’affidamento perdura fino al compimento della maggiore età[23].

L’ordinaria connotazione dell’affidamento come soluzione temporanea è un aspetto sottolineato anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Esemplare fu il caso Scozzari e Giunta c. Italia, 13 luglio 2000, n. 39221 nel quale l’Italia venne condannata, in relazione all’art. 8 della Convenzione, per aver interrotto in modo prolungato e senza adeguata ragione i rapporti tra un minore affidato e la madre. La Corte rimarcò che il reinserimento del minore nella famiglia di origine costituisce lo scopo fondamentale dell’affidamento (par. n. 169): ciò implica altresì che l’interruzione assoluta dei rapporti tra il minore e la famiglia di origine, protrattasi nel tempo nel caso oggetto di giudizio, debba essere ridotta a circostanze eccezionali. La Corte biasimò in particolare il ruolo dei servizi sociali (par. n. 176 s.) e del tribunale per i minorenni (par. n. 180) nella vicenda, rimproverando il fatto che i servizi avrebbero sostanzialmente, con eccessiva discrezionalità, svuotato i provvedimenti del tribunale che disponevano contatti tra il minore e la madre e che il tribunale non avrebbe esercitato adeguata vigilanza sull’attività dei servizi[24]. In questo ambito sembra che la giurisprudenza della Corte europea abbia esercitato una sollecitazione efficace, non registrandosi negli anni successivi, o almeno con la stessa frequenza, altre condanne a carico dell’Italia per situazioni simili[25].

 

2.2 Segue. Affidamento e kafalah

 

Se l’affidamento dovrebbe dunque essere a tempo determinato, vi sono peraltro situazioni peculiari nelle quali l’affidamento sine die è risultato essere pressoché l’unica soluzione per accogliere minori in difficoltà. Si tratta in particolari dei minori affidati, nei loro paesi di origine, in kafalah[26]. La kafalah, istituto tipico dei paesi di cultura islamica, consiste nell’affidamento di un minore ad una persona o ad una coppia disponibile a prendersene cura, senza estinguere la relazione con la famiglia di provenienza[27]. Usualmente si tratta della principale forma di assistenza per l’infanzia abbandonata, venendo ricavato dal Corano il divieto di adozione.

La questione è stata esaminata in giurisprudenza anzitutto rispetto al ricongiungimento familiare. Dopo un periodo di contrasti, si è affermato l’orientamento che reputa che la kafalah consenta il ricongiungimento familiare del minore in Italia non solo quando i richiedenti sono originari di un paese che questa forma di protezione dell’infanzia prevede, ma anche cittadini italiani[28]; successivamente, il ricongiungimento è stato accordato anche nelle ipotesi in cui la kafalah è di natura convenzionale, ovvero prescinde dall’accertamento di una situazione di bisogno per il minore, purché sia stata giudizialmente omologata e sul presupposto della verifica della corrispondenza all’interesse del minore[29].

Quanto alla qualificazione della kafalah nel diritto italiano, l’indirizzo che si è consolidato nelle pronunce ha assunto come riferimento l’affidamento familiare[30], apparendo questo istituto allo stato l’unica via per rispettare il divieto coranico di adozione[31].

Si tratta in ogni caso di una soluzione di carattere precario, mentre appare opportuna la previsione di uno specifico modello adottivo che tenga conto in particolare del contesto multiculturale della kafalah[32], occasione questa con la quale sarebbe auspicabile anche una precisa presa di posizione legislativa circa la kafalah negoziale[33].

 

2.3. Il c.d. affidamento a rischio giuridico

 

Una ulteriore realizzazione giurisprudenziale della continuità degli affetti si è avuta facendo applicazione, in verità piuttosto frequente[34], del c.d. affidamento (o collocamento, secondo la terminologia legislativa) a rischio giuridico, ricavato in via interpretativa dall’art. 10, co. 3, introdotto dalla l. 149/2001, in base al quale «Il tribunale può disporre in ogni momento e fino all'affidamento preadottivo ogni opportuno provvedimento provvisorio nell'interesse del minore, ivi compresi il collocamento temporaneo presso una famiglia o una comunità di tipo familiare…»[35].

Il provvedimento si situa nel corso del giudizio di adottabilità del minore, che può protrarsi nel tempo, con esiti incerti, quando la sentenza che dichiara l’adottabilità viene impugnata secondo quanto previsto nell’art. 17. Ponendo il minore in collocamento presso una coppia che possiede i requisiti per l’adozione, se l’adottabilità viene confermata in via definitiva, il minore permane nella stessa famiglia nella forma dell’affidamento preadottivo, evitando un nuovo sradicamento da un contesto in cui possono essersi creati significativi legami nel tempo del giudizio sull’adottabilità[36].

L’affidamento a rischio giuridico è una figura non particolarmente esplorata, la cui peculiarità risiede nella circostanza di porsi al crinale tra un accertamento dello stato di abbandono che è stato compiuto, ma non ancora in forma definitiva. Come si è notato, ciò condiziona la posizione dei collocatari nel senso che, a differenza dell’affidamento familiare, non sono tenuti a curare il rapporto con la famiglia di origine, e, tuttavia, in pari tempo non dovrebbero determinare l’insorgere di una situazione che renda difficile il ritorno[37].

Nella concisione legislativa, un aspetto definito riguarda i requisiti soggettivi previsti nel collocamento a rischio, i quali pure in un certo modo sembrano risentire della sedes materiae della misura. Per un verso, le categorie soggettive sono meno numerose di quelle previste per l’affidamento temporaneo, esprimendo l’idea che la situazione del minore, formalmente riconosciuta come abbandono, pur non definitivamente, necessiti di una forma di tutela più specifica, per l’altro, la non raggiunta stabilità del provvedimento non vincola alla coppia coniugata come nell’affidamento preadottivo. L’art. 10 prevede così che il collocamento possa essere disposto presso una famiglia o una comunità di tipo familiare[38]. Di fatto, il tribunale per i minorenni, quando intenderà dar corso alla prospettiva qui in esame, cercherà una coppia che soddisfi i requisiti per l’adozione per garantire la continuità affettiva del minore.

Tale applicazione dell’art. 10 è oggetto di valutazione contrastanti. Se da alcuni viene sottolineato il merito di predisporre in tempi brevi una forma di protezione per il minore già potenzialmente definitiva, altri, proprio per questa prospettiva, temono che si anticipi una decisione che dovrebbe venire in un tempo successivo e per questo si suggerisce la sua applicabilità subordinatamente a presupposti stringenti circa sia la valutazione dello stato di abbandono sia l’urgenza di inserimento del minore in un contesto di tipo familiare[39]. Anche dal punto di vista psicologico, in un quadro generale che sembra di propensione verso la figura, sono nondimeno state manifestate riserve sull’opportunità che il minore trascorra lunghi periodi in tale situazione[40].

La limitatezza del dato normativo lascia incerti numerosi aspetti e in particolare ci si interroga se il periodo decorso in affidamento a rischio giuridico possa essere considerato come valido per la maturazione del richiesto anno di affidamento preadottivo. In generale, l’orientamento dei tribunali per minorenni si manifesta favorevole a tale soluzione, specie quando, se si attendesse il compimento dell’anno di affidamento preadottivo, l’adozione sarebbe preclusa in quanto il minore raggiungerebbe nel frattempo la maggiore età[41].

 

2.4. La legge n. 173/2015

 

Come ricordato, la visione tradizionale della l. 184/1983 considerava l’affidamento familiare e l’adozione come fasi da distinguere in modo rigoroso. Il frequente protrarsi degli affidamenti familiari ben oltre i tempi previsti dall’art. 4 ha però provocato un’alterazione dell’equilibrio originariamente pensato tra i due istituti: la rigida separazione dell’affidamento dall’adozione diviene causa di ulteriore pregiudizio per il minore, quando l’affidamento dura così da favorire il costituirsi di una relazione affettiva tra il minore e la famiglia affidataria che verrebbe sacrificata con l’adozione da parte di un’altra famiglia. Inoltre, l’assunto per cui l’adozione doveva fondarsi sul segreto rispetto alle origini del minore, che sconsigliava di procedere all’adozione nei riguardi degli affidatari, avendo probabilmente avuto contatti con la famiglia di origine, è andato incrinandosi[42].

Anche in questo ambito talune vicende giudiziarie sono pervenute all’esame della Corte europea dei diritti dell’uomo[43] che ha ravvisato una violazione dell’art. 8 della Convenzione a fronte dell’obliterazione del vissuto, qualificato rapporto di vita familiare, del minore in collocamento.

Con la l. 19.10.2015, n. 173 il legislatore ha riorientato il rapporto tra adozione e affidamento, pensandolo non più in termini di separazione, ma, quasi all’opposto, di speciale collegamento, nel senso che l’affidamento familiare è divenuto criterio di importanza centrale per l’adozione piena o in casi particolari. Due sono i presupposti che rendono l’affidamento familiare[44] titolo preferenziale per l’adozione: la costituzione di un rapporto affettivo significativo tra minore in affidamento e famiglia affidataria e il decorso di un certo tempo, che la legge qualifica come «protratto»[45]. La valorizzazione del rapporto affettivo con gli affidatari non procede peraltro solo verso la costituzione di un eventuale rapporto adottivo, ma si dispiega anche nella prospettiva del rientro del minore nella famiglia di origine: l’art. 4, co. 5-ter prevede infatti che «è comunque tutelata, se rispondente all'interesse del minore, la continuità delle positive relazioni socio-affettive consolidatesi durante l'affidamento».

Nel rendere l’affidamento familiare condizione privilegiata per l’adozione, la legge non ha però introdotto alcun automatismo tra i due momenti, come indica in particolare l’art. 25, co. 1-bis in base al quale la previsione del co. 1 (del medesimo art. 25) si applicano anche «all’ipotesi di prolungato periodo di affidamento ai sensi dell’articolo 4 comma 5 bis»[46]. Con questa previsione il legislatore ha preso posizione sul problema, che vedeva la giurisprudenza dei tribunali per minorenni divisa, se, in caso di adozione da parte deli affidatari temporanei, il periodo di affidamento familiare potesse essere considerato valido al fine dell’anno di affidamento preadottivo previsto dall’art. 25, co. 1. La previsione dell’art. 25, co. 1-bis sembra dunque rispondere positivamente ed esigere che il periodo di affidamento preadottivo debba svolgersi nella durata ordinaria prevista. Tale soluzione deve essere approvata: in questo modo si evita che l’opportuna valorizzazione del vissuto come affidamento preadottivo possa risolversi in una riduzione delle garanzie a favore del minore, alle quali appartiene il decorso di un congruo periodo di affidamento preadottivo[47].

La legge sulla continuità degli affetti ha inoltre predisposto garanzie processuali volte a rendere effettive le previsioni in essa sancite. L’art. 5, co. 1 prevede in particolare che gli affidatari debbano essere convocati a pena di nullità nei procedimenti di affidamento e di adottabilità dei minori loro affidati, senza peraltro che con ciò divengano parte del giudizio[48]. La caratteristica fondamentale della l. 173/2015, ovvero la creazione di un ponte tra affidamento e adozione, ha indotto la giurisprudenza ad escludere che l’obbligo di convocazione e la facoltà di presentare memorie possa estendersi agli enti affidatari[49]. Se ciò peraltro è appropriato rispetto ai giudizi di adottabilità, non potendo divenire l’ente soggetto adottivo, sarebbe invece opinabile intendere come non imposta la convocazione anche ai giudizi de potestate, nei quali gli enti possono offrire un contributo di rilievo alla valutazione del giudice.

La l. 173/2015 ha inoltre istituito un collegamento tra l’affidamento e l’adozione in casi particolari limitatamente all’ipotesi prevista dall’art. 44, co. 1 lett. a), soluzione che, peraltro, potrebbe portare a ritenere che questo sia l’unico dei casi particolari in cui gli affidatari possono adottare[50].

La logica della continuità degli affetti è stata ripresa dalla l. 11 gennaio 2018, n. 4 dedicata ai minori vittime di violenza domestica integrando con due ulteriori commi l’art. 4 l. 184/1983. Nel caso di omicidio volontario del genitore da parte del coniuge, partner dell’unione civile o convivente, «il tribunale competente… provvede privilegiando la continuità delle relazioni affettive consolidatesi tra il minore stesso e i par1enti fino al terzo grado. Nel caso in cui vi siano fratelli o sorelle, il tribunale provvede assicurando, per quanto possibile, la continuità affettiva tra gli stessi»[51].

 

3. L’adozione in casi particolari ex art. 44, co. 1 lett. d) l. 184/1983. L’adozione c.d. mite

 

 Nella giurisprudenza recente la norma attraverso la quale è stata principalmente realizzata l’idea della continuità affettiva, in varie forme, è l’art. 44, co. 1 lett. d). Tale previsione era stata pensata come forma residualedi adozione in casi particolari – istituto di per sé inteso dal legislatore storico già come marginale – e precisamente per l’ipotesi in cui l’adozione piena non perveniva a compimento per difficoltà di fatto legate a condizioni soggettive del minore[52]. Nel suo preciso tenore giuridico-linguistico, «impossibilità di affidamento preadottivo» infatti significa – o almeno dovrebbe significare – che è stato riconosciuto come presente lo stato di abbandono del minore[53], ne è stata conseguentemente dichiarata l’adottabilità, ma non è possibile dar corso con successo all’affidamento preadottivo, per ragioni di fatto, o «endogene»[54], come si desume anche dai presupposti per la sua revoca che l’art. 23 determina in «difficoltà di idonea convivenza ritenute non superabili»[55]: in definitiva, il concetto di impossibilità di affidamento preadottivo presuppone che il minore sia stato dichiarato come adottabile. Senza adottabilità, non si può discorrere perciò di affidamento preadottivo e di sua impossibilità.

Col tempo è maturata l’impressione, non priva di fondamento, che tale assetto normativo risultasse non soddisfacente rispetto a situazioni di bisogno assistenziale che emergevano in modo più frequente, ma che non corrispondevano ai presupposti per l’adozione piena e nemmeno propriamente per quella in casi particolari.

Invero, il percorso verso l’adozione piena viene impostato dalla giurisprudenza recente con crescente restrizione in ragione di una nuova concezione sia del sistema delle forme di adozione sia dei presupposti propri dell’adozione (piena). Da una parte, l’adozione viene intesa sempre più come rimedio postremo[56] a cui ricorrere solo se falliscono soluzioni meno radicali, dall’altra, il presupposto dello stato di abbandono è qualificato dalla definitiva e assai grave irrecuperabilità della capacità di cura[57]. Questa tendenza si è normativamente cristallizzata attraverso la modifica apportata dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 all’ art. 15, co. 1 lett. c) che, come richiesto dalla delega contenuta nell’art. 2 lett. n) della l. 10 dicembre 2012, n. 219 che impegnava a precisare la nozione di abbandono, ha introdotto per la dichiarazione di adottabilità il parametro della «provata irrecuperabilità delle capacità genitoriali dei genitori in un tempo ragionevole», alternativamente a quello del mancato rispetto, per responsabilità dei genitori, delle prescrizioni date in base all’art. 12[58].

A fronte di tale quadro normativo e interpretativo, invero piuttosto problematico[59], nella realtà la situazione di fatto che sembra più di sovente ricorrere[60] risulta caratterizzata dalla presenza di uno o entrambi i genitori non in condizione di accudire il figlio in modo stabilmente adeguato, ma al tempo stesso non radicalmente inidonei[61]. Si è fatto ricorso in merito alla nozione di semiabbandono[62], per esprimere l’idea che si tratta di vicende nelle quali non si manifesta uno stato di abbandono nel senso in cui viene correntemente inteso (e conseguentemente nemmeno si può dichiarare l’adottabilità e disporre l’affidamento preadottivo), e tuttavia la famiglia non è in grado di assistere in modo sufficiente il minore. Rispetto a tali situazioni, per tentare di comporre lo iato tra norma e circostanze della realtà, da circa vent’anni è stata elaborata la figura della adozione c.d. mite, la quale ha come presupposto un riorientamento, attraverso una forzatura, del concetto di impossibilità di affidamento preadottivo nell’art. 44, co. 1 lett. d) che viene inteso non più in termini di impossibilità di fatto, bensì di impossibilità giuridica.

Come risaputo, fu il Tribunale per i minorenni di Bari ad introdurre questa lettura dell’art. 44, co. 1 lett. d) il cui dato portante è posto nell’assunto che tale norma non presuppone lo stato di abbandono. Secondo il Tribunale, «la disposizione dell’art. 44 lett. d) va coordinata con quelle degli artt. 45 e 46 della stessa legge, in base alle quali, in questa, come in tutte le altre ipotesi di cui all’art. 44, non si esige il presupposto della situazione di abbandono morale e materiale del minore…». Si conclude che il semiabbandono, non essendo abbandono, impedisce l’adozione piena e pertanto giustifica l’adozione ex art. 44, co. 1 lett. d) attraverso una riqualificazione del concetto di impossibilità che da situazione di fatto viene intesa come impossibilità in senso giuridico[63]: essendo giuridicamente impossibile l’adozione piena, ecco allora che si integrerebbe il presupposto dell’impossibilità di affidamento preadottivo. Il campo elettivo di applicazione della figura viene trovato negli affidamenti sine die[64].

Già in punto di dato letterale, questa interpretazione non persuade[65]. Se è vero che l’art. 44 non richiede in assoluto lo stato di abbandono, questo presupposto è recuperato dal comma 1 lett. d), in modo implicito ma preciso, quando fa riferimento all’impossibilità di affidamento preadottivo. Nel sistema della l. 183/1984 la prospettiva dell’affidamento preadottivo si apre solo in esito alla verifica della adottabilità del minore[66]. In realtà, nelle situazioni che sono riportate all’adozione mite, ciò che propriamente è “impossibile” non è il solo affidamento preadottivo, che costituisce solo una fase interinale, ma in radice la stessa adozione (piena), sicché se la legge avesse voluto ammettere l’applicazione in esame dell’art. 44, co. 1 lett. d), avrebbe dovuto semplicemente parlare di impossibilità di adozione (piena). In simili ipotesi, ovvero quando manca lo stato di abbandono, il procedimento è infatti destinato ad arrestarsi già con la dichiarazione di non luogo a provvedere sull’adottabilità sicché l’affidamento preadottivo non viene ad essere contemplato.

L’adozione c.d. mite ha conseguito ampio riconoscimento in giurisprudenza, venendo espressamente avallata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo[67] e dalla Corte di cassazione, la quale ha segnato in tempi recenti una sorta di ulteriore definizione dei presupposti dell’adozione c.d. mite: il criterio discretivo fondamentale rispetto all’adozione piena sembra ora venir individuato non tanto nel semiabbandono, quanto nell’opportunità di conservare il rapporto con la famiglia di origine, ovvero di garantire la continuità affettiva con quest’ultima. Esemplare è in particolare la sentenza della Cassazione 16-4-2018, n. 9373[68] che ha tracciato una sorta di statuto dell’adozione c.d. mite affermando che l'art. 44, co. 1, lett. d), a differenza dell’adozione piena, non rappresenta una extrema ratio, bensì, con un ribaltamento di prospettiva rispetto alla visione storica, «integra una clausola di chiusura del sistema, intesa a consentire l'adozione tutte le volte in cui è necessario salvaguardare la continuità affettiva ed educativa della relazione tra adottante ed adottando, come elemento caratterizzante del concreto interesse del minore a vedere riconosciuti i legami sviluppatisi con altri soggetti che se ne prendono cura, con l'unica previsione della condicio legis della constatata impossibilità di affidamento preadottivo, che va intesa, in coerenza con lo stato dell'evoluzione del sistema della tutela dei minori e dei rapporti di filiazione biologica ed adottiva, come impossibilità di diritto di procedere all'affidamento preadottivo e non di impossibilità di fatto, derivante da una situazione di abbandono (o di semi abbandono) del minore in senso tecnico-giuridico».

L’idea che l’adozione in casi particolari sia la forma di adozione elettiva quando si tratta di garantire la continuità degli affetti trova peraltro uno sviluppo solo parzialmente coerente nell’attuale testo della l. 184/1983. In linea con questa prospettiva può dirsi ad esempio la norma relativa all’attribuzione del cognome che prevede in ogni caso il mantenimento del cognome della famiglia di origine, pur posposto a quello dell’adottante (art. 55 che richiama l’art. 299 c.c.)[69].

Piuttosto problematica rispetto a tale quadro risulta invece la disposizione dell’art. 48, co. 1 inerente all’esercizio della responsabilità genitoriale; a tenore di tale previsione, «se il minore è adottato da due coniugi, o dal coniuge di uno dei genitori, la responsabilità genitoriale sull'adottato ed il relativo esercizio spettano ad entrambi». Tale norma non corrisponde in modo coerente alla peculiarità dell’adozione in casi particolari di consentire il mantenimento del rapporto con la famiglia di origine e potrebbe risolversi in un ostacolo alla realizzazione dell’adozione stessa in particolare nel caso dell’art. 44, co. 1 lett. b): estromette il genitore d’origine dalla responsabilità genitoriale sul figlio[70], a prescindere dalla valutazione sulla sua idoneità a prendersi cura dello stesso, può determinare una riserva non superabile rispetto al consenso all’adozione in casi particolari[71].

Si tratta allora, come è stato proposto, di trovare una soluzione equilibrata che eviti la radicale sostituzione di un genitore, come pure l’obliterazione del ruolo assunto dal nuovo coniuge dell’altro genitore[72]. In tale prospettiva dovrebbero essere considerati i modelli predisposti da altri ordinamenti nei quali da tempo si è tentato di impostare normativamente la cura del minore in caso di crisi della coppia genitoriale, con soluzioni che, all’opposto dall’esclusione di una figura, tendono all’inclusione, seppur con diversa incisività, ovvero dalla possibilità fino alla doverosità di compartecipare alla cura dei figli dell’altro. Tale ultimi schemi sarebbero espressivi del tentativo di valorizzare rapporti di fatto, mentre la soluzione del diritto italiano rivelerebbe un’idea di responsabilità genitoriale fondata essenzialmente sul presupposto genetico[73].

La difficile conciliabilità dell’art. 48, co. 1 con l’idea dell’adozione aperta risulta ancora più manifesta se confrontata con le norme che regolano l’affidamento dei figli nella crisi della famiglia: in tale contesto, l’affidamento esclusivo, che pure presuppone una valutazione di inidoneità del genitore, non ne comporta una esclusione radicale dall’esercizio della responsabilità[74].

 

3.1. L’adozione del figlio del partner nella coppia omosessuale

 

Un ulteriore, rilevante campo applicativo dell’art. 44, co. 1 lett. d) è quello che riguarda l’adozione del figlio del partner omossessuale. Questa applicazione dell’art. 44, co. 1 lett. d), dopo aver conseguito crescente consenso nella giurisprudenza di merito, è stata avallata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione[75]. Nonostante la diffusa approvazione giurisprudenziale, tale interpretazione non appare persuasiva, ostandovi sia indici puntuali sia storico-sistematici.

Puntualmente, come si è già avuto modo di mettere in evidenza, nell’art. 44, co. 1 viene dato rilievo alla relazione che esiste tra il genitore ed il proprio partner, come presupposto per l’adozione da parte di quest’ultimo del figlio del primo, esclusivamente nei termini del matrimonio (lett. b). Prima dell’introduzione della legge sulle unioni civili, l’adozione nei confronti del partner omossessuale del genitore non poteva dunque essere ammessa per la stessa ragione per cui, come non si è mai dubitato, non era consentita nei confronti del convivente (eterosessuale) more uxorio: in nessuna delle due ipotesi sussiste infatti il requisito del matrimonio.

L’adozione ex art. 44, co. 1 lett. d) del figlio del partner introduce così, in via surrettizia, un elemento – la relazione tra il partner e il genitore – spurio rispetto alla ratio dell’art. 44, co. 1 lett. d), essendo tale previsione orientata sulla condizione del minore per sé considerata.

L’entrata in vigore della legge sulle unioni civili non offre argomenti per accreditare un esito diverso. Non si deve anzitutto trascurare che nella fase finale di approvazione della legge venne soppresso l’articolo che proponeva di modificare l’art. 44 lett. b) nel senso di prevedere l’adozione in casi particolari anche nei riguardi del partner dell’unione civile[76]. Ora, il tenore dell’originaria proposta legislativa è indicativo del fatto che il legislatore avvertiva che la disciplina allora vigente non prevedeva, e perciò non consentiva, l’adozione del figlio del partner omosessuale. Si deve pertanto concludere che la mancata modifica dell’art. 44, co. 1 lett. b) ha lasciato il quadro normativo in questo punto invariato. Né sembra che tale esito possa essere messo in discussione dalla clausola di chiusura del co. 20[77] , anche se il tenore ridondante della previsione può forse dare un ulteriore pretesto all’orientamento giurisprudenziale in esame.

Ma c’è un ulteriore elemento, il cui valore viene eccessivamente trascurato dalla giurisprudenza, ovvero la circostanza che nei casi in esame il rapporto di filiazione, che si vorrebbe estendere al genitore sociale mediante l’adozione in casi particolari, si è costituito in intenzionale violazione della legge italiana, ovvero ricorrendo all’estero a pratiche di procreazione medicalmente assistita, fuori dai presupposti soggettivi della l. 19 febbraio 2004, n. 40, oppure – e in questo caso anche dalle coppie eterosessuali – alla surrogazione di maternità, vietata dall’art. 12 l. 40/2004. Ora, se nonostante tale trascorso, può effettivamente corrispondere al bene del minore la costituzione del rapporto di filiazione con il partner del genitore in presenza di taluni presupposti[78], l’aver accreditato questa soluzione come ordinaria non è accettabile, portando in contraddizione l’ordinamento giuridico.

L’irricevibilità dell’interpretazione in parola con riferimento alla filiazione da maternità surrogata trova un interessante riscontro anche sul terreno del diritto comparato e precisamente in un caso dell’ordinamento svizzero, piuttosto rilevante come termine di confronto per la prossimità normativa con il diritto italiano in materia. La questione aveva tratto origine dalla vicenda di due cittadini svizzeri, residenti stabilmente in Svizzera, partner di un’unione registrata, i quali si erano recati in California dove, mediante ricorso alla surrogazione di maternità, erano stati dichiarati genitori del bambino che attraverso tale pratica era nato. Uno dei due genitori committenti era anche padre genetico. Rientrata in patria, dove la surrogazione di maternità è vietata, la coppia chiese il riconoscimento della doppia genitorialità alle autorità dello stato civile e, a fronte del rifiuto di queste rispetto al genitore sociale, ebbe luogo un contenzioso giudiziario con esiti alterni fino ad approdare al Tribunale federale[79].

Nella sua decisione, il Tribunale sente la necessità di sgombrare immediatamente il campo da equivoci e di rendere chiaro che la coppia ricorrente non ha alcun legame stabile con l’ordinamento statunitense, del quale chiede il riconoscimento di un provvedimento di attribuzione della filiazione. Rilevato questo dato, per un verso viene ritenuta in sé non contrastante con l’ordine pubblico svizzero il riconoscimento della possibilità di adozione del figlio del partner (Stiefkindadoption), anche perché in quel periodo era in corso il dibattito parlamentare sulla riforma del diritto dell’adozione che introduceva questa possibilità. In ogni caso al momento della pronuncia, il diritto svizzero, esattamente come quello italiano, consentiva l’adozione piena esclusivamente alla copia unita in matrimonio[80], allora[81] istituto riservato alla coppia eterosessuale, e consentiva al (solo) coniuge di adottare i figli dell’altro[82]. La legge sulle unioni registrate, di contro, non prevedeva la possibilità di adozione, ma impegna ciascun partner a collaborare nella cura dei figli dell’altro[83]. Significativamente per il tema qui in considerazione, è poi prevista la possibilità di intrattenere una relazione tra il minore e il partner del genitore in caso di rottura dell’unione[84].

A differenza della tendenza della giurisprudenza italiana, il Tribunale svizzero è stato però risoluto nell’affermare che non può passare in secondo piano come il rapporto di filiazione si sia costituito (5.3). In particolare, il Tribunale, senza indulgere, assevera che ci si trova di fronte ad una elusione della legge (Rechtsumgehung; n. 5.3.2), data dal fatto che la coppia si era recata all’estero precisamente per violare i principi del diritto svizzero, ovvero per attuare una pratica che il diritto nazionale vietava[85]. Degno di nota è in particolare il passaggio nel quale il Tribunale statuisce che «il rifiuto di far applicazione dell’ordine pubblico comporterebbe che l’ufficiale di stato civile debba accettare come fait accompli un rapporto di filiazione costituito mediante elusione di legge, con il che verrebbe incoraggiato il turismo procreativo e il divieto di diritto interno di surrogazione di maternità rimarrebbe pressoché senza effetti»[86] (n. 5.3.3). Il Tribunale intende dunque in modo rigoroso la difesa dei valori dell’ordinamento, soprattutto quando riguardano i più deboli, evitando che la sua funzione conformativa venga sostanzialmente elusa e finanche annullata.

Negli anni successivi il Parlamento svizzero ha poi effettivamente modificato la legge sull’adozione prevedendo espressamente che il partner possa adottare i figli dell’altro[87], senza però avallare automatismi: la procedura, anche in punto di indagini istruttorie sulla persona dell’adottante, è la medesima dell’adozione piena. Le soluzioni approntate dall’ordinamento svizzero possono offrire ad un legislatore responsabile e accorto dei modelli per conciliare il rispetto delle scelte assiologiche di fondo del diritto di famiglia, senza sacrificare a priori la protezione del minore né trascurare il valore della presenza del partner del genitore e la sua capacità di cura[88].

Tornando al nostro ordinamento, ma con riferimento alla p.m.a. eterologa, neppure rilevando che il mancato rispetto dei requisiti soggettivi per l’accesso e quindi il ricorso alla stessa da parte di una coppia omossessuale femminile all’estero, non sia penalmente sanzionato, a differenza della surrogazione di maternità, sembra possibile propendere per una maggiore apertura verso la trascrizione di atti stranieri che stabiliscono la filiazione a seguito di p.m.a eterologa da parte di coppie di donne[89]. La non previsione di una sanzione penale non esclude infatti che l’art. 5 l. 40/2004 contribuisca a definire l’ordine pubblico internazionale. Del resto, l’orientamento giurisprudenziale[90] propenso ad avallare la doppia genitorialità femminile assumeva una nozione di ordine pubblico che le sezioni unite hanno successivamente respinto[91].

La nozione di ordine pubblico è al centro anche della recente sentenza che ha ammesso la trascrizione di provvedimenti stranieri di adozione piena nei confronti della coppia omosessuale (maschile)[92]. La decisione si pone in formale continuità con la nozione di ordine pubblico sancita dalle stesse sezioni unite con la sentenza n. 12193/2019, ma sostanzialmente se ne allontana quanto afferma che i presupposti fissati nell’art. 6 non appartengano all’ordine pubblico internazionale, concludendo per la possibilità di trascrivere il provvedimento straniero di adozione da parte di una coppia omosessuale, purché sia accertato che la filiazione non derivi da un accordo di surrogazione di maternità. La previsione dell’art. 6 appare costituire però un riflesso o tassello di un disegno organico con il quale, a partire dagli artt. 29 e 30 Cost., si fissano i presupposti fondamentali della genitorialità[93].

Due coeve decisioni della Corte costituzionale hanno reso ancor più problematico il quadro. Si tratta delle sentenze n. 32 e n. 33 del 2021[94]. In queste pronunce la Corte costituzionale ha sollecitato il legislatore a provvedere forme giuridiche che riconoscano rapporti di filiazione costituiti all’estero da cittadini italiani fuori dai presupposti che secondo la legge 19-2-2004, n. 40 legittimano il ricorso alla p.m.a. Precisamente, nella sentenza n. 32/2021 la Corte impegna il legislatore ad farsi carico di una disciplina volta a riconoscere la genitorialità (anche) nei confronti della madre intenzionale del nato da fecondazione eterologa praticata da una coppia omosessuale femminile. L’intervento della Corte prende le mosse da situazioni in cui non sia possibile l’adozione in casi particolari ex art. 44, co. 1 lett. d), in quanto le partner della coppia si erano separate sicché la madre biologica non intendeva prestare il consenso all’adozione[95]. La questione non viene peraltro posta contestando la legittimità della norma che precisamente si occupa dei requisiti soggettivi per l’accesso alla p.m.a. ovvero l’art. 5 l. 40/2004, sulla quale del resto la stessa Corte costituzionale si era già espressamente pronunciata di recente[96], ma rispetto agli art. 8 e 9 per fondare il diritto dalla prospettiva apparentemente più persuasiva del nato sostanzialmente secondo la logica del fait accompli. Nella seguente e strettamente connessa sentenza n. 33/2021 la Corte esige dal legislatore una disciplina adottiva che si occupi di attribuire la doppia genitorialità al nato all’estero da coppia omosessuale maschile mediante surrogazione di maternità. Di tale sentenza risulta piuttosto sorprendente, inter alia, il passaggio nel quale la Corte assevera che una simile disciplina sarebbe necessaria per evitare di «strumentalizzare la persona del minore in nome della pur legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata», quando la strumentalizzazione del nato e della donna portante viene anzitutto proprio dall’ammissione della pratica di surrogazione della maternità, che riduce le persone a mezzi[97] e che rischia di essere incoraggiata da una generale legittimazione del rapporto mediante la possibilità di adozione. La surrogazione di maternità oblitera inoltre il tema centrale del rapporto tra identità e origine biologica della persona, dalla cui interazione scaturisce la personalità individuale[98].

Occorre affrontare in modo più problematico il tema del rapporto tra, da una parte, la tutela della dignità, personale e sociale, e degli affetti del nato da surrogazione di maternità e, dall’altra, la necessità, scaturente dall’ordinamento, di non assecondare simile pratica. Un valido stimolo per la riflessione appare la proposta, che sviluppa la menzionata intuizione che muove dall’art. 128, co. 3 c.c., di poter attribuire al minore ex post i diritti propri dello stato di figlio rispetto al genitore di intenzione, senza però formare un corrispondente status in capo a costui, operando così secondo una logica rimediale[99].

 

4. La continuità degli affetti da realizzare. L’adozione piena

 

L’istanza alla continuità degli affetti incontra le maggiori difficoltà di conciliazione rispetto all’adozione piena. Ciò si comprende anzitutto quale conseguenza della concezione storica dell’azione piena come volta all’inserimento del minore in un nuovo rapporto familiare, radicalmente e definitivamente sostitutivo di quello precedente. Si può però pensare che a ciò sospinga anche la comprensione che la giurisprudenza attualmente manifesta dello stato d’abbandono: intendendolo come situazione di gravissima inidoneità della famiglia d’origine a prendersi cura del minore, diventa difficile immaginare che ci possano essere spazi per il mantenimento di una qualche forma di relazione con la famiglia di origine.

Pur in questo contesto, alcune interpretazioni hanno rilevato la presenza di dati che consentirebbe di argomentare la protezione della continuità affettiva con la famiglia di origine anche nell’adozione piena. Un tentativo è stato fondato attraverso gli artt. 19, co. 1 e 2 e 27, co. 3: dalle previsioni per cui l’adozione determina la cessazione dei rapporti giuridici tra l’adottato e la famiglia di origine, si ricava che sarebbe ammesso il permanere di rapporti di fatto[100]. Un altro riferimento è stato individuato nell’art. 28, co. 4 sostenendo che ai «gravi e comprovati motivi» che consentono di ricevere informazioni in merito all’identità dei genitori biologici potrebbe anche essere ascritta la necessità per il minore di mantenere un rapporto con la famiglia di provenienza e tale istanza potrebbe essere presentata già dal momento dell’ingresso del minore nella famiglia adottiva[101]. Ad oggi queste prospettive hanno peraltro ottenuto un’adesione giurisprudenziale assai limitata.

Uno spunto potrebbe forse venire anche su questo fronte dal c.c. svizzero, recentemente riformato in merito. È stata disposta, formalizzando una prassi da tempo consolidata[102], la possibilità che siano mantenuti contatti tra l’adottato e la famiglia di origine, rimettendola anzitutto ad un accordo tra le famiglie[103]; ad esso deve prestare adesione il minore, se capace di discernimento. A protezione del suo interesse, la parola definitiva spetta in ogni caso al giudice, che deve approvare l’accordo.

 

5. Conclusioni

 

L’istanza alla continuità affettiva, insieme a fenomeni di natura sociale e a innovative, spesso forzate soluzioni interpretative, ha destabilizzato l’equilibrio che era stata immaginato tra gli istituti della l. 184/1983 sovraccaricando l’affidamento e l’adozione in casi particolari. Le ragioni che portano a favorire quest’ultimi istituti risiedono nella loro predisposizione inclusiva verso le figure che si prendono cura del minore e in una certa duttilità delle fattispecie. Tali proprietà si sono rivelate propizie per le due situazioni che con maggiore frequenza e pressione sono emerse nell’attualità, ovvero, da una parte, fenomeni di disagio familiare non gravi quanto lo stato abbandono richiesto dall’art. 8 e, dall’altra, il riconoscimento di rapporti di filiazione in nuovi contesti familiari.

Ridurre il significato dell’adozione piena a favore dell’adozione in casi particolari si mostra però una scelta non priva di problematicità, giuridiche e psicologiche. La soluzione auspicabile non sembra allora essere quella dell’abbandono giurisprudenziale di questo istituto intraprendendo percorsi di dubbia plausibilità, quanto il suo aggiornamento secondo una prospettiva che, consapevole delle acquisizioni della psicologia moderna, cerchi di favorire la conservazione dei legami affettivi, con la famiglia di origine.

La stessa adozione in casi particolari necessita, del resto, di essere articolata meglio. Non mancano modelli e proposte circa la condizione delle famiglie c.d. ricomposte. Dovrebbe essere ripensata anzitutto la regola dell’art. 48 che attribuisce la responsabilità al genitore e al suo coniuge adottante, escludendo l’altro genitore. I dati a disposizione hanno poi dimostrato come l’art. 44, co. 1 lett c) abbia un’applicazione estremamente circoscritta. Tale riscontro esige un riesame della previsione per favorire la condizione dei minori con disabilità e in pari tempo di agire con più incisività sul fronte dell’assistenza sociale.

Occorre anche prendere in considerazione interventi che, nell’interesse del minore, riconoscano e valorizzino la presenza del partner omosessuale del genitore nella cura dei figli, rispettando i principi ordinanti il nostro diritto di famiglia, primo tra tutti il rispetto della persona.

Si dischiudono dunque numerosi capitoli della sfida contemporanea a predisporre strutture normative corrispondenti ai bisogni della vita spirituale e materiale della persona[104] e specialmente dei più piccoli.

 

Abstract: The contribution aims to investigate how affectionate ties in foster care and in adoption are protected under Italian foster care and adoption law. The essay focuses in particular on the recent law n. 173/2015 that explicitly allowed fostering families to adopt the children they foster. The kofalah and recent judgments on stepchild adoption for same-sex couples are also examined.

 

Key words: foster care – adoption – stepchild adoption – open adoption – kafalah


* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.

[1] Nel presente saggio gli articoli richiamati sono riferiti alla l. 184/1983, se non è diversamente indicato.

[2] Tale parametro è immanente all’intera l. 173/2015 (L. Lenti, L’adozione, in L. Lenti - M. Mantovani(a cura di), Il nuovo diritto della filiazione, in P. Zatti (dir. da), Tratt. dir. famiglia. Le riforme, Milano 2019, p. 388; cfr. P. Morozzo della Rocca, Sull’adozione da parte degli affidatari dopo la L. n. 173/2015, in Fam. dir., 6 (2017), p. 602 s. In giurisprudenza, Trib. minor. Venezia 29-3-2019, in Fam. dir., 11 (2019), p. 999 s. con nota di C. Diquattro, Affidamento familiare e tutela dell’interesse degli affidatari alla continuità affettiva).

[3] L’art. 317-bis, co. 1 c.c., che si reputa applicabile anche nel contesto della crisi della famiglia (M. Sesta, Manuale di diritto di famiglia8, Milano 2019, p. 319), attribuisce peraltro agli ascendenti il diritto di «mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni». Nonostante la categoria adoperata dalla legge, anche in questo caso non si tratta però di un diritto soggettivo, ma di un interesse che riceve realizzazione se corrispondente al bene del minore (T. Auletta, Diritto di famiglia5, Torino 2020, p. 368 s.; F. Ruscello, Diritto di famiglia, Ospedaletto 2017, p. 185).

[4] Si permetta su questo un rinvio a C. Rusconi, Educazione dei figli e responsabilità genitoriale. L’itinerario del diritto italiano, in Ephemerides iuris canonici, 1 (2021), p. 99 s.

[5] Salvi gli ambiti su cui è intervenuta l. 173/2015, anche nella l. 184/1983 la continuità affettiva tende ad associarsi all’esistenza di una relazione parentale. In particolare, al fine dell’esclusione dello stato di abbandono, la giurisprudenza ha integrato il requisito della parentela con quello della presenza di un rapporto significativo con il minore (A.C. Moro, Manuale di diritto minorile6, curatori vari, Torino 2019, p. 290 s.), salvo si tratti di neonato (Cass., sez. I, 28 gennaio 2011, n. 2102, in banca dati DeJure). Secondo le linee tipiche del moderno diritto per i minori (A.C. Moro, Manuale di diritto minorile, cit., p. 11), tale parametro viene poi interpretato e applicato non in modo rigido, ma secondo il principio dell’interesse del minore (v. F. Bocchini, L’interesse del minore tra garanzie, sostegni e circolazione, in Id., Diritto di famiglia. Le grandi questioni, Torino 2013, p. 235): la mancanza instaurazione di un rapporto non si risolve così in modo automatico in un requisito impeditivo, ma la giurisprudenza tende a verificare le ragioni per le quali il rapporto non è sorto e in ogni caso attribuisce rilievo positivo all’attuale disponibilità del parente (Cass., sez. I, 18 dicembre 2015, n. 25526; tale sentenza, come rileva L. Lenti, Quale futuro per l’adozione? A proposito di Corte eur. dir. uomo, S.H. c. Italia e Cass. n. 25526/2015, in NGCC, 5 (2016), p. 788, è inoltre espressiva di un mutato atteggiamento della giurisprudenza anche circa l’apprezzamento della capacità della famiglia in senso allargato a prendersi cura del minore in quanto, a differenza del passato, l’idoneità dei genitori non si riflette in modo quasi necessitato sulla valutazione della famiglia allargata). Parimenti nell’adozione in casi particolari, i criteri generali di valutazione fissati dall’art. 57, in particolare alla lett. a), valorizzano la capacità affettiva dell’adottante, sicché nel caso dell’art. 44, co. 1 lett. a) il rapporto di parentela non può considerarsi come condizione in alternativa pura alla preesistenza un rapporto stabile e duraturo, in quanto in realtà, anche rispetto alla parentela, assume rilievo l’esistenza o almeno la possibilità di un legame affettivamente accogliente per il minore.

[6] Ciò avviene, ad esempio, nel caso di fratelli unilaterali. Nel caso deciso da Cass., sez. I, 24 novembre 2015, n. 23979, in NGCC, 5 (2016), p. 669 s. con nota di M. Cinque, La continuità affettiva nella legge n. 184/1983 e la posizione dei ‘‘parenti sociali’, a fronte dello stato di abbandono di due fratelli, i nonni avevano manifestato la disponibilità a prendersi cura. Nel corso del giudizio di adottabilità, era però sopravvenuto in altra sede l’accertamento che uno dei due bambini non era in realtà figlio del figlio dei ricorrenti: mancando il rapporto di parentela, non poteva dunque essere escluso lo stato di abbandono con il conseguente rischio di separazione dei fratelli. V. anche nota 21.

[7] Per una valutazione della nuova previsione, v. A. Thiene, Famiglie vulnerabili e allontanamento dei bambini. Note a margine della l. 29 luglio 2020, n. 107, in attesa di una riforma necessaria, in NLCC, 1 (2021), p. 51 s. Oggetto principale della l. 107/2020 è l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sulle attività connesse alle comunità di tipo familiare che accolgono minori.

[8] L’accostamento, in punto di venir meno dell’obbligo di tener conto delle indicazioni dei genitori, del provvedimento di limitazione della responsabilità a quello di decadenza viene criticato come irragionevole da L. Sacchetti, Adozione e affidamento dei minori. Commento alla nuova legge 4 maggio 1983, n. 184, Rimini 1983, p. 51.

[9] Parte della dottrina reputa che l’indicazione dei genitori determini un vincolo per gli affidatari: M. Mantovani, sub art. 5 l. 184/1983, in G. Di Rosa (a cura di), Comm. cod. civ. Gabrielli. Della famiglia. Leggi complementari2, Milano 2019, p. 401; M. Dogliotti, sub art. 5 l. 184/1983, in M. Sesta (a cura di), Codice della famiglia3, Milano 2015, p. 2145. Cfr., problematicamente, A.C. Moro, Manuale di diritto minorile6, cit., p. 255.; V. Barela, L’affidamento del minore tra tutela giurisdizionale e intervento amministrativo, in G. Autorino - P. Stanzione (a cura di), Le adozioni nella nuova disciplina. Legge 28 marzo 2001, n. 149, Milano 2001, p. 108 s; P. Perlingieri - A. Procida Mirabelli di Lauro, sub art. 5, in Dell'affidamento dei minori, in Commento alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori, in NLCC, 1 (1984), p. 37.

[10] Non si tratta però dell’unica ipotesi in cui l’art. 316 c.c. potrebbe trovare applicazione; il conflitto potrebbe sorgere tra gli affidatari.

[11] L. Mengoni, La famiglia nelle delibere del Consiglio d’Europa e nelle recenti riforme: principi e orientamenti, in E. W. Volonté (a cura di), La famiglia alle soglie del III millennio, Lugano 1996, 1.3. Cfr. A. Finocchiaro - M. Finocchiaro, sub art. 316, in Id., Riforma del diritto di famiglia. Commento teorico pratico alla legge 19 maggio 1975, n. 151, Milano 1976, p. 55 s.

[12] Così, infatti, sembra più corretto intendere il riferimento nell’attuale art. 337-ter, co. 3 alle «questioni di ordinaria amministrazione», come precisa A. Renda, Il rapporto di filiazione naturale. Affidamento, mantenimento e assegnazione della casa familiare, in La famiglia di fatto. Terza giornata di studi in memoria dell'Avv. Jaccheri, Pisa 2009, p. 69.

[13] In relazione a tale aspetto, si riscontra nondimeno l’innovazione sostanziale forse più significativa apportata dalla l. 28 dicembre 2013, n. 154 all’affidamento dei figli nella crisi della famiglia. In particolare, all’art. 337-ter, co. 2 c.c. è stato espressamente ripristinato il potere del giudice di disporre l’affidamento del figlio a parenti o ad altri soggetti, spesso i servizi sociali, con collocazione presso uno dei genitori. In quest’ultimo caso non si ha peraltro tendenzialmente un trasferimento in complexu della responsabilità genitoriale, ma il giudice, attraverso l’art. 333 c.c., prescrive al genitore di attenersi alle indicazioni dei servizi (v. in merito, L. Lenti, Diritto di famiglia e servizi sociali3, Torino 2020, p. 293; Id., Gli affidamenti ai servizi sociali, in Fam. dir., 1 (2018), p. 101 s.). In queste ipotesi la giurisprudenza ammette che il provvedimento di affidamento possa essere senza termine, stante la revocabilità in qualunque momento (Cass., sez. I, 10 dicembre 2018, n. 31902, in banca dati DeJure). In dottrina è propenso a questa soluzione F. Danovi, Affidamento familiare, interesse del minore e discrezionalità giudiziale, nota a Trib. Como, 20 giugno 2019, n. 827, in Fam. dir., 12 (2019), p. 1125.

[14] La scarsa chiarezza dell’attuale testo normativo, proprio con riferimento alle scelte della vita quotidiana, viene spesso rilevata nella letteratura, A.C. Moro, Manuale di diritto minorile6, cit., p. 255, 258; G. Costacurta, sub art. 5 l. 184/1983, in A. Zaccaria (a cura di), Commentario breve al diritto della famiglia3, Padova 2016, p. 1562; V. Barela, L’affidamento del minore tra tutela giurisdizionale e intervento amministrativo, cit., p. 116. Un’impostazione simile a quella sopra immaginata è accolta, ad esempio, dall’art. 373-4 code civil, secondo cui «lorsque l'enfant a été confié à un tiers, l'autorité parentale continue d'être exercée par les père et mère; toutefois, la personne à qui l'enfant a été confié accomplit tous les actes usuels relatifs à sa surveillance et à son éducation». La dottrina ritiene che nella «surveillance» non possa non ritenersi compreso il «pouvoir de décider quotidiennement de la vie courante de l’enfant», F. Terré et al., Droit civil. La famille9, Paris 2018, p. 1164.

[15] Così da evitare la riproposizione dei dubbi che erano sorti prima che la riforma portata dalla l. 28 marzo 2001, n. 149 aggiungesse all’art. 5, co. 1 la previsione per cui «in ogni caso l'affidatario esercita i poteri connessi con la responsabilità genitoriale in relazione agli ordinari rapporti con la istituzione scolastica e con le autorità sanitarie» (A. Finocchiaro - M. Finocchiaro, Adozione e affidamento dei minori. Commento alla nuova disciplina (l. 28 marzo 2001, n. 149 e d.l. 24 aprile 2001, n. 150), Milano 2001, p. 47.

[16] In merito vedi in particolare la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo citata nel paragrafo successivo.

[17] Da alcune indagine condotte in prossima della promulgazione della legge era stata già infatti riscontrata una diffusa tendenza giurisprudenziale ad affidare i minori a coppie idonee all’adozione (v. M. Mantione, L’adozione da parte degli affidatari dopo la legge n. 173/2015, in Minorigiustizia, 4 (2018), p. 91). In verità, già pochi anni dopo l’entrata in vigore della l. 184/1983, si rinvengono alcune decisioni nella linea che sarebbe stata assunta dalla l. 173/2015; ne è esempio Trib. minorenni Torino, decr. 11 luglio 1989, in Dir. fam. persone, 2 (1990), p. 533 s.

[18] Più ampiamente sulla temporaneità dell’affidamento, v. G. Manera, L’istituto dell’affido familiare. Aspetti giuridici, in Giur. mer., 7-8 (2005), in particolare p. 1738 s.

[19] Anche dall’attribuzione della competenza circa la proroga si evince la premura nel controllo sulla temporaneità dell’affidamento: essa spetta inderogabilmente al tribunale per i minorenni, anche nell’ipotesi in cui si tratti di affidamento consensuale e quindi autorizzato originariamente dal giudice tutelare. La giurisprudenza ha poi aggiunta la precisazione, conseguenza di quanto ora osservato, che la proroga stessa non può essere disposta a tempo indeterminato, ma deve essere predeterminata la durata (Cass., sez. I, 4 maggio 2010, n. 10706, in banca dati DeJure).

[20] Tale specificazione venne introdotta con la legge di riforma 149/2001, benché già nel vigore del testo originario non fosse dubbio che l’affidamento dovesse avere durata determinata. L’art. 4, co. 3 stabiliva infatti che il giudice doveva indicare nel provvedimento di affidamento anche la sua presumibile durata, per quanto di difficile determinazione (A. Finocchiaro - M. Finocchiaro, sub art. 4, in Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori, cit.,p. 41). Il testo corrisponde, in parte qua, all’attuale comma 4).

[21] L. Rossi Carleo, La nuova legge sul diritto del minore alla propria famiglia: i traguardi mancati, in Familia, 3 (2001), p. 539 nota 19. A riguardo dell’interesse del minore come criterio di soluzione del caso, si è sovente messo in evidenza che non solo sia sfuggente nel significato, ma possa pure produrre effetti eversivi quando entra in conflitto con il principio di legalità (v. A. Nicolussi, Famiglia e biodiritto civile, in Eur. dir. priv., 3 (2019), p. 750 s., 756 nota 93; L. Lenti, Note critiche in tema di interesse del minore, in Riv. dir. civ., 1 (2016), p. 87; M. Sesta, La prospettiva paidocentrica quale fil rouge dell’attuale disciplina giuridica della famiglia, in Fam. dir., 7 (2021), p. 775). Tale questione è di centrale importanza considerando che la discrezionalità giurisdizionale nell’applicare il principio è un processo in piena espansione, nonostante la crescente previsione – tanto nel diritto interno quanto nelle fonti internazionali – di specifiche situazioni soggettive attribuite al minore, che di per sé dovrebbero ridurre gli spazi creativi che la giurisprudenza può ottenere quando ricorre alla clausola del superiore interesse del minore (F. Bocchini, L’interesse del minore tra garanzie, sostegni e circolazione, cit., p. 239). Per una prospettiva propensa ad accreditare l’uso della clausola anche in funzione correttiva o disaplicattiva del principio di legalità, v. invece V. Scalisi, Il superiore interesse del minore ovvero il fatto come diritto, in Riv. dir. civ., 2 (2018), p. 418 s., con peraltro l’avvertenza a non farne un valore tiranno (ivi, p. 430 s.). Nell’esperienza attuale la qualificazione dell’interesse del minore come principio superiore – e non semplicemente come soluzione per lui migliore (best interest) – appare in effetti aver dato luogo non tanto a situazioni di iperprotezione del minore, quanto ad un uso strumentale del principio, raggirandolo a danno del minore stesso (A. Nicolussi, Mediazione e affidamento condiviso, in P. Mazzamuto (a cura di), Mediazione familiare e diritto del minore alla bigenitorialità. Verso una riforma dell’affidamento condiviso, Atti del convegno Nazionale, 31 ottobre 2018 – Università degli Studi di Palermo, Polo di Agrigento, Torino 2019, p. 14 nota 11). Alcuni Autori (M. Paradiso, Lo statuto dei diritti del figlio tra interesse superiore della famiglia e riassetto del fenomeno familiare, in Familia, 3/4 (2016), p. 220 s.; F.D. Busnelli, Il diritto di famiglia di fronte al problema della difficile integrazione delle fonti, ora in Id., Persona e famiglia, Ospedaletto 2017, p. 384 s.) hanno indicato come esempio di questo rischio di distorsione la giurisprudenza sulla step-child adoption, di cui si tratterà infra. Anche dall’analisi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo risulta che il best interest, pur essendo criterio primario, non è escluso dal bilanciamento (S. Sonelli, L’interesse superiore del minore. Ulteriori «tessere» per la ricostruzione di una nozione poliedrica, in Riv. trim. dir. proc. civ., 4 (2018), p. 1396 s.). Sembra così che possa essere relativizzato il timore, rappresentato da E. Lamarque, Il principio dei best interests of the child, in Minorigiustizia, 2 (2017), p. 19 s. che il riferimento al superiore interesse assurga a criterio prevaricatore; più condivisibile è invece la preoccupazione che si risolva in uno strumento di semplificazione argomentativa il cui richiamo consente di nascondere un bilanciamento che in realtà il giudice compie, ma di cui non rende conto.

[22] In base all’art. 4, co. 3, i servizi sono tenuti «a presentare una relazione semestrale sull'andamento del programma di assistenza, sulla sua presumibile ulteriore durata e sull'evoluzione delle condizioni di difficoltà del nucleo familiare di provenienza». La regolarità e la brevità dell’intervallo entro cui i servizi sociali devono presentare la relazione e i suoi contenuti fondamentali – presumibile ulteriore durata dell’affidamento ed evoluzione della situazione della famiglia di origine – cospirano nello sforzo di evitare che l’affidamento sfugga a limiti di tempo. Sempre con riferimento ai servizi sociali, la previsione di cui all’art. 5, co. 2 assegna loro il compito di agevolare «i rapporti con la famiglia di provenienza ed il rientro nella stessa del minore secondo le modalità più idonee». Per una riflessione, dal punto di vista psicologico, sulle relazioni del minore in affidamento, v. M. Chistolini, I legami dei bambini adottati in forme aperte e in affido sine die con i genitori: alcune note psicologiche, in Minorigiustizia, 4 (2014), p. 50 s.

[23] E. Battelli, Il diritto del minore alla famiglia tra adottabilità e adozione, alla luce della giurisprudenza Cedu, in Dir. fam. pers., 2 (2021), p. 850.

[24] In dottrina, sulla circostanza che nella prassi l’attività dei servizi sociali è talora non del tutto adempiente dei provvedimenti giudiziali nonché sulla necessità di controllo dell’operato dei servizi, ha richiamato l’attenzione P. Perlingieri, Conclusioni, in F. Ruscello (a cura di), Diritto alla famiglia e minori senza famiglia, Padova 2005, p. 132.

[25] Lo rileva J. Long, Il diritto italiano della famiglia e minorile alla prova della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in Eur. dir. priv., 4 (2016), p. 1093.

[26] Una estesa ricostruzione della figura nel diritto islamico e nella giurisprudenza italiana ed europea è stata di recente condotta da M. Orlandi, La kafala di diritto islamico, tra diritto internazionale privato e diritto europeo, Torino 2021. Sui caratteri della kafalah, v. anche M. Baktash, I giudici italiani alla prova con l’istituto della kafalah, in Fam. dir., 3 (2018), p. 300 s.

[27] A titolo di esempio, nella legislazione del Marocco il Dahir n. 1-2-172 du 1 rabii II 1423 (13 juin 2002) portant promulgation de la loi n. 15-01 relative à la prise en charge (la kafala) des enfants abandonnés, all’art. 2 definisce la kafalah come «l'engagement de prendre en charge la protection, l'éducation et l'entretien d'un enfant abandonné au même titre que le ferait un père pour son enfant. La kafala ne donne pas de droit à la filiation ni à la succession». Nelle fonti internazionali, fanno espressamente riferimento alla kafalah l’art. 20 della Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 20 novembre 1989 (ratificata dall’Italia con l. 27 maggio 1991, n. 176) nonché l’art. 3 Convenzione dell'Aja del 1996 sulla protezione dei minori (ratificata dall’Italia con la l. 18 luglio 2015, n. 101).

[28] Cass., sez. unite, n. 16 settembre 2013, n. 21108, in Corr. giur., 12 (2013), p. 1492 con nota di P. Morozzo della Rocca, Uscio aperto, con porte socchiuse, per l’affidamento del minore mediante kafalah al cittadino italiano o europeo, critico in particolare rispetto ai presupposti normativi per il ricongiungimento che la Corte fonda nel riferimento agli «altri familiari» contenuto nell’art. 3, co. 2 lett. a) d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare), superando la posizione di Cass., 1 marzo 2010, n. 4868, in NGCC, 1 (2010), p. 831 s. con nota di J. Long, Kafalah: la Cassazione fa il passo del gambero, che aveva invece escluso che il minore affidato in kafalah potesse considerarsi «familiare» agli effetti del d.lgs. 30/2007. L’itinerario giurisprudenziale italiano è stato ripercorso da R. Senigaglia, Il significato del diritto al ricongiungimento familiare nel rapporto tra ordinamenti di diversa “tradizione”. I casi della poligamia e della kafala di diritto islamico, in Eur. dir. priv., 2 (2014), p. 564 s.; C. Peraro, L’istituto della kafala quale presupposto per il ricongiungimento familiare con il cittadino europeo: la sentenza della corte di giustizia nel caso S.M. c. Entry Clearance Officer, in Riv. dir. int. priv. e proc., 2 (2019), p. 319 s.

[29] Cass., sez. I, 2 febbraio 2015, n. 1843, in NGCC, 1 (2015), con nota di M. di Masi, La Cassazione apre alla kafalah negoziale per garantire in concreto il best interest of the child; ultimamente, Cass., sez. I, 11 novembre 2020, n. 25310, in banca dati DeJure.

[30] Cass., sez. I, 20 marzo 2008, n. 7472, in banca dati DeJure, senza che occorra istituire altre forme di protezione del minore, come la tutela (v. Trib. Mantova, 10 maggio 2018, in Fam. dir., 1 (2019), p. 42 s. con nota di R. Gelli, Rappresentanza e cura del minore sottoposto a kafalah tra funzioni del kafil ed esclusione della tutela).

[31] Inizialmente alcune decisioni avevano invece richiamato l’adozione in casi particolari nell’ipotesi dell’art. 44, co. 1 lett. d). Ad esempio, Trib. min. Trento, 11 marzo 2002, in Dir. fam. pers., 1 (2004), p. 135 s. con nota di A. Galoppini, L’adozione del piccolo marocchino, ovvero gli scherzi dell’eurocentrismo. La sentenza argomenta tale prospettiva postulando una nozione di impossibilità di affidamento in senso giuridico.

[32] In merito I. Garaci, Identità culturale e best interest of the child, in Dir. fam. pers., 4 (2020), p. 1681 s; cfr. A. Galoppini, L’adozione del piccolo marocchino, ovvero gli scherzi dell’eurocentrismo, cit., p. 149 s.

[33] Come fatto notare da M. Orlandi, La kafala di diritto islamico, tra diritto internazionale privato e diritto europeo, cit., p. 220 s., 355 s.

[34] Almeno per quello che dimostrano i limitati dati a disposizione. Uno studio ha rilevato che nel periodo compreso tra il 2006 e il 2014 nelle province di Vicenza e Padova gli affidamenti a rischio giuridico hanno rappresentato il 44% del totale delle adozioni nazionali (Aa. Vv., Adozioni a “rischio giuridico” in Veneto: 10 anni di esperienza, in Minorigiustizia, 4 (2016), p. 226).

[35] Nella prassi si registravano però applicazioni di affidamenti a rischio giuridico già prima della metà degli anni ’80, come risulta da alcune circolari regionali richiamate de C. Scivoletto, Affidamento “a rischio giuridico” del minorenne. Il (difficile) diritto alla famiglia, in Soc. diritto, 2 (2017), p. 156.

[36] La dimensione nel rischio giuridico risulta ancora più accentuata nell’applicazione dell’affidamento di minori stranieri non accompagnati; accennano al problema, Aa. Vv., II. La metodologia dell’abbinamento nel gruppo adozioni del Tribunale per i minorenni di Palermo, in Minorigiustizia, 4 (2018), p. 165.

[37] Sui caratteri di specificità del collocamento a rischio, v. A. La Spina, Il collocamento temporaneo del minore presso una famiglia, in Fam. dir., 7 (2009), p. 721 s.

[38] Rispetto all’affidamento preadottivo non è dunque previsto che il collocamento possa essere operato nei confronti di una persona singola.

[39] G. Salito, Della dichiarazione di adottabilità, Le adozioni nella nuova disciplina. Legge 28 marzo 2001, n. 149, cit., p. 192. Cfr. però M. Dogliotti - F. Astiggiano, Le adozioni. Minori italiani e stranieri, maggiorenni, Milano 2001, 2014, p. 87.

[40] C. Scivoletto, Affidamento “a rischio giuridico” del minorenne, cit., p. 157 s.; Aa. Vv., Adozioni a “rischio giuridico” in Veneto: 10 anni di esperienza, cit., p. 227 s.

[41] Trib. minor. L'Aquila, 6 marzo 2002; Trib. minor. L'Aquila, 3 febbraio 1997, in banca dati DeJure.

[42] L. Lenti, L’adozione, cit., p. 390 s.

[43] Moretti e Benedetti c. Italia, 27 aprile 2010, n. 16318/07. Nel caso di specie, una neonata venne posta in collocamento presso una coppia che propose domanda di adozione in casi particolari. Nonostante la tempestività della domanda, non venne presa in considerazione dal tribunale per i minorenni che diede corso, nel frattempo, all’adozione piena presso un’altra coppia, senza informare la coppia collocataria.

[44] Alla luce dello scopo che la legge si propone, appare convincente l’opinione secondo cui l’affidamento debba essere inteso, estensivamente, come riferito anche alla famiglia collocataria, posto che dalla distinta cornice formale non scaturiscono sostanziali differenze nel rapporto che si costituisce tra il minore e la famiglia accogliente. V. L. Lenti, L’adozione, cit., p. 390.

[45] Su tale concetto, v. P.M. della Rocca, Sull’adozione da parte degli affidatari dopo la L. n. 173/2015, cit., p. 606 s., dove viene in particolare posta la questione della vincolatività del termine «durante», in particolare nell’ipotesi in cui, dopo il rientro del minore nella famiglia di origine, subentri una situazione di stato di abbandono.

[46] Così anche A. Morace Pinelli, Il diritto alla continuità affettiva dei minori in affidamento familiare. Luci ed ombre. Dalla legge 19 ottobre 2015 n. 173, in Dir. fam. pers., 1 (2016), p. 305, 307 s.

[47] L’effettività di tale previsione dipenderà in gran parte anche dai criteri organizzativi dei servizi sociali. Come suggerito da A. Cordiano, Affidamenti e adozioni alla luce della legge sul diritto alla continuità affettiva, in NGCC, 2 (2017), p. 262, sarebbe in particolare raccomandabile che la fase di affidamento preadottivo sia valutata da un sistema di servizi referente diverso da quello che si è occupato della fase di affidamento temporaneo.

[48] Cass., sez. I, 10 luglio 2019, n. 18542, in banca dati Dejure. Criticamente su questo aspetto della legge, v. L. Lenti, L’adozione, cit., p. 395 s.

[49] Trib. Milano, 26 novembre 2015, in banca dati Dejure.

[50] P. Morozzo della Rocca, Sull’adozione da parte degli affidatari dopo la L. n. 173/2015, cit., p. 610. Cfr. L. Lenti, L’adozione, cit., p. 392 s. che conviene nelle conclusioni, ipotizzando che la scelta legislativa volesse impedire aperture verso l’adozione alla persona sola e la stepchild adoption nella coppia omosessuale.

[51] In merito a tale previsione, F. Tribisonna - F. Baraghini, Legge in materia di protezione degli orfani per crimini domestici: un ulteriore passo avanti nella tutela dei minori?, in Familia, 2 (2018), p. 130 s.

[52] Per un inquadramento dell’adozione in casi particolari e, specialmente dell’ipotesi dell’art. 44, co. 1 lett. d), si permetta il rinvio a C. Rusconi, L'adozione in casi particolari: aspetti problematici nel diritto vigente e prospettive di riforma, in questa Rivista, 3 (2015), p. 1 s.

[53] Cfr. M. Dogliotti – F. Astiggiano, Le adozioni. Minori italiani e stranieri, maggiorenni, cit., p. 205 s.

[54] Con l’efficace espressione di A. Galoppini, L’adozione del piccolo marocchino, ovvero gli scherzi dell’eurocentrismo, cit., p. 140.

[55] Oltre alle ipotesi di rinuncia da parte della coppia o di revoca del consenso del minore (v. M. Dogliotti, sub art. 23, Codice della famiglia3, cit., p. 2202; A. Fusaro, sub art. 23 l. 184/1983, Comm. cod. civ. Gabrielli. Della famiglia. Leggi complementari2, cit., p. 499 s.).

[56] Nella recente giurisprudenza, tra le molte, vedi in particolare Cass., sez. I, 13 febbraio 2020, n. 3643, in Fam. dir., 11 (2020), con nota di A. Thiene, Semiabbandono, adozione mite, identità del minore. I legami familiari narrati con lessico europeo, decisione che, significativamente rispetto al tema qui in esame, ritiene possibile accedere all’adozione piena solo quando non si riscontra più alcun interesse del minore a mantenere un rapporto con la famiglia di origine.

[57] Tra le molte, Cass., sez. I, 17 febbraio 2021, n. 4220; Cass., sez. I, 13 febbraio 2020, n. 3654; Cass., sez. I, 3 ottobre 2019, n. 24791; Cass., sez. I, 13 gennaio 2017, n. 782; Cass., sez. I, 7 ottobre 2014, n. 21110, tutte in banca dati DeJure.

[58] Il significato che appare più plausibile attribuire all’aggiunta è quello per cui l’adozione deve essere disposta anche quando le prescrizioni sono state rispettate, ma lo stato di abbandono non è stato superato, come ipotizza M. Dogliotti, sub art. 15, in Codice della famiglia3, cit., p. 2190. Nello Schema di decreto legislativo recante revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione - Schema di D.Lgs. n. 25, curato dalla Camera dei deputati, si prevedeva in verità che tale parametro fosse aggiuntivo a quello dell’inadempimento delle prescrizioni impartite in base all’art. 12, benché nell’articolato comparisse già la disgiuntiva “ovvero”. In ogni caso, la previsione appare rafforzare la valutazione in termini oggettivi dello stato di abbandono, come nota M. Renna, Forme dell’abbandono, adozione e tutela del minore, in NGCC, 6 (2019), p. 1366.

[59] V. di recente J. Long, In morte dell’adozione?, nota a Cass. 25 gennaio 2021, n. 1476, in Familia, 4 (2021), p. 587 che mette in evidenza gli effetti distorsivi dovuti alla recente tendenza giurisprudenziale a preferire l’adozione in casi particolari (l’ordinanza n. 1476/2021 è stata commentata anche da F. Zanovello, Semiabbandono e interesse del minore alla conservazione dei legami familiari. La Cassazione ribadisce il ricorso all’adozione “mite”, in Fam. dir., 6 (2021), p. 590 s.; da A. Mendola, Stato di abbandono semipermanente e diritto alla continuità affettiva nell'adozione c.d. 'mite', in Foro. it., 6 (2021), c. 2122 s.; da U. Salanitro, L’adozione mite tra vincoli internazionali e formanti interni, in Corr. giur., 8/9 (2021), p. 107o s. che sostiene la possibilità di applicazione analogica delle ipotesi dell’art. 44). Le ultime rilevazioni statistiche messe a disposizione dal Ministero della Giustizia (Dipartimento giustizia minorile e di comunità - Sezione Statistica) risalenti al 2018, confermano che l’adozione in casi particolari stia divenendo sempre più diffusa come adozione interna, per quanto l’adozione piena sia ancora prevalente. Secondo i dati, nel 2018 sono stati pronunciati dai Tribunali per i minorenni 850 provvedimenti di adozione piena e 667 di adozione in casi particolari. Di questi ultimi, l’ipotesi di gran lunga più frequente è quella della lett. b) (421 sentenze), mentre il caso della lett. d) annovera 224 sentenze. Si tratta in ogni caso di una frequenza estremamente maggiore rispetto alle altre due fattispecie: per il caso della lettera a) si contano 20 sentenze e solo 2 per la lettera c). Tale riscontro induce a riconsiderare il timore che la norma della lett. c) possa prestarsi ad un’applicazione poco controllabile a causa dell’ampia nozione di disabilità contenuta nell’art. 3 l. 5 febbraio 1992, n. 104, a cui l’art. 44, co. 1 lett. c) rinvia (M. Dogliotti, sub art. 44, in Codice della famiglia3, cit., p. 2262 s.). Sembra invece che la previsione abbia mancato il suo obiettivo di favorire minori che si possono trovare in una condizione di peculiare bisogno e per i quali l’adozione piena risulta di difficile compimento (nonostante la previsione dell’art. 6, co. 7). Alla luce dell’esperienza, si dovrebbe dunque riflettere se il presupposto della condizione di orfano prescritto dalla norma operi effettivamente a favore del minore disabile, considerando altresì che prima della riforma portata dall'art. 25, co. 1, l. 149/2001, quando la condizione del minore con disabilità era riportabile all’originaria lettera c) (oggi lett. d), il presupposto della mancanza dei genitori non era richiesto.

[60] L. Sacchetti, L'adozione semplice del minore adottabile all'estero tra diritto e interesse, nota a Trib. min. Bologna, 7 febbraio 2003 e Trib. min. Salerno, 19 luglio 2002, in Fam. dir., 6 (2003), p. 607.

[61] Nella sentenza del Trib. minor. Bari, 7 maggio 2008 che diede avvio all’interpretazione dell’art. 44, co. 1 lett. d) come adozione mite si descrive il semiabbandono come «situazioni in cui la famiglia del minore è più o meno insufficiente rispetto ai suoi bisogni, ma ha un ruolo attivo e positivo che non è opportuno venga cancellato totalmente. Nello stesso tempo, non vi è alcuna ragionevole possibilità di prevedere un miglioramento delle capacità della famiglia, tale da renderla idonea a svolgere il suo compito educativo in modo sufficiente, magari con un aiuto esterno, curato dai servizi sociali».

[62] Come si è ricordato, la nozione di semiabbandono era presente prima che fosse posta a fondamento per l’adozione c.d. mite per descrivere «una situazione, diversa dall’abbandono, tale sì da richiedere un impegno costante dei servizi territoriali», ma «che… non doveva però condurre, se non eccezionalmente, all’adozione in casi particolari e nemmeno ad affidamenti reiterati sino anche alla maggiore età» (P. Morozzo della Rocca, Abbandono e semiabbandono del minore nel dialogo tra CEDU e corti nazionali, in NGCC, 4 (2020), p. 830). Al semiabbandono può essere accostato anche l’abbandono ciclico da parte del genitore, che ad esempio soffre di periodiche ricadute da dipendenza da sostanze (J. Long, I confini dell'affidamento familiare e dell'adozione, in Dir. fam. pers., 3 (2007), p. 1435).

[63] In realtà, già prima dell’orientamento in esame, nella giurisprudenza si potevano scorgere, seppure in modo non così organico e manifesto, i prodromi di una ridefinizione dell’impossibilità in senso giuridico (v. M. Dogliotti - F. Astiggiano, Le adozioni. Minori italiani e stranieri, maggiorenni, cit., p. 205 s.).

[64] Trib. minor. Bari, 7 maggio 2008, cit.: «nel caso in cui l’affidamento familiare superi la scadenza prevista ed anzi si protragga per vari anni oltre tale termine, gli affidatari del minore vengono invitati a presentare - sempre nel caso in cui il rientro nella famiglia di origine non risulti praticabile - una domanda di adozione c.d. mite come dimostrazione della loro disponibilità a modificare la qualità del rapporto già da tempo esistente con il minore, trasformandolo da affidamento familiare in adozione particolare ai sensi dell’art. 44 lett. d) L. n. 184/1983, oppure in quella legittimante dello stesso minore, se si ravvisano le condizioni per procedere alla sua dichiarazione di adottabilità».

[65] Le criticità si accentuano considerando nel merito la nozione di semiabbandono e il suo accertamento (v. E. Tuccari, Note critiche sulla continuità delle relazioni nelle crisi familiari, in Familia, 3 (2021), p. 299 s.). La stessa idea di mitezza (su cui, F. Occhiogrosso, I nuovi percorsi del diritto mite: dal suo carattere generale nell’area minorile al suo rilievo costituzionale, in Minorigiustizia, 1 (2015), p. 7 s.) appare invero discutibile. Oltre a gettare di riflesso, pur non volontariamente, un’ombra ingiustificata sull’adozione piena, il predicato della mitezza non sembra consono al fenomeno giuridico. Come L. Mengoni, L’argomentazione nel diritto costituzionale, in Id., Ermenutica e dogmatica giuridica, p. 115, nota 1, osservò, «dal punto di vista dell’ordinamento generale, cui è coessenziale la presa di effettività delle regole di condotta che lo costituiscono, la tolleranza nella definizione dei confini della legalità non implica anche la mitezza (che allora sarebbe debolezza) di fronte alla prevaricazione. Da questo punto di vista si dovrebbe poter dire (non contraddittoriamente) che il diritto è tollerante senza essere mite».

[66] Del resto, si è richiamata l’attenzione proprio sulla circostanza che l’adozione ex art. 44, co. 1 lett. d) nei fatti spesso segue alla dichiarazione di adottabilità (P. Morozzo della Rocca, Abbandono e semiabbandono del minore nel dialogo tra CEDU e corti nazionali, cit., p. 833).

[67] È noto in particolare il caso Zhou v. Italia, 21 gennaio 2014, n. 33773/11, nel quale l’Italia è stata condannata per aver proceduto all'adozione piena di una minore, senza aver verificato l’applicabilità dell’art. 44, co. 1 lett. d) nell'interpretazione introdotta dal Tribunale per i minorenni di Bari. La Corte ha ribadito la propria posizione nel successivo caso S.H. c. Italia, 13 ottobre 2015, n. 52557/14. In tale vicenda si era anche consumato un forte contrasto tra il padre e i servizi sociali, che evidenzierebbe la problematicità del doppio ruolo dei servizi, quali assistenti della famiglia e consulenti del giudice (L. Lenti, Quale futuro per l’adozione? A proposito di Corte eur. dir. uomo, S.H. c. Italia e Cass. n. 25526/2015, in NGCC,5 (2016), p. 787).

[68] Si vedano anche Cass., sez. I, 9 aprile 2021, n. 9456; Cass. n. 1476/2021, cit.; Cass., sez. I, 23 ottobre 2019, n. 27206.

[69] La previsione ha superato il dubbio di costituzionalità sollevato in relazione all’unilateralità della soluzione legislativa, che non consente altre opzioni, come il mantenimento esclusivamente dell’originario cognome, o che questo sia anteposto al cognome dell’adottante o divenga l’unico cognome. La Corte costituzionale, sentenza 24 giugno 2002, n. 268, in banca dati DeJure, respinse la questione, muovendo proprio dal fine dell’adozione in casi particolari di conservare i rapporti con la famiglia di origine: «nel disciplinare l'attribuzione del cognome all'adottato, la scelta fatta dal legislatore, nella sua discrezionalità, è stata quella di non eliminare il legame del minore col proprio passato e, perciò, con la sua identità personale come essa è stata ed è conosciuta nell'ambiente sociale di cui egli è, e deve continuare ad essere, parte; per tale ragione, pur essendo astrattamente possibili soluzioni differenziate per i diversi casi, il legislatore ha previsto una disciplina unitaria, rispettosa della personalità del soggetto come tutelata dall'art. 2 Cost., proprio in quanto mantiene il cognome originario, cui aggiunge, anteponendolo, quello dell'adottante, con ciò dando atto dei precedenti e non interrotti legami familiari dell'adottato». La regola prevista dall’art. 299 c.c. è stata però di recente in parte smussata dalla giurisprudenza di merito, traendo argomento in particolare dalla sentenza della Corte costituzionale, 8 novembre 2016, n. 286, in banca dati DeJure, che, quanto all’art. 299 c.c., ne aveva dichiarato l’incostituzionalità nella parte in cui non consente ai coniugi, quando l’adozione è congiunta, di attribuire anche il cognome materno all’adottato. Ne è esempio la decisione del Tribunale per i minorenni di Genova, 13 giugno 2019, in banca dati DeJure, che riguardava una doppia adozione reciproca da parte due donne che avevano contratto un’unione civile. Ciascuna di esse, mediante il ricorso all’estero a fecondazione eterologa, aveva generato un figlio divenendone genitore biologico e, mediante l’adozione in casi particolari, si mirava ad estendere la genitorialità alla partner-genitore sociale. In punto di attribuzione di cognome, ne sarebbe però conseguito, applicando l’art. 299 c.c., che i minori avrebbero sì avuto i medesimi due cognomi, ma con un ordine opposto (il primo dato dal proprio adottante, il secondo dal cognome della madre biologica). Il Tribunale, invocando la menzionata sentenza n. 286/2016 della Corte costituzionale, accolse la richiesta di mantenere lo stesso ordine di cognomi nelle due adozioni. La dichiarazione di incostituzionalità pronunciata dalla sentenza n. 286/2016, riferita all’attribuzione del cognome nella filiazione nel matrimonio, fuori dal matrimonio e adottiva in casi particolari, non è stata però estesa anche all’adozione piena (art. 27, co. 1 l. 184/1983), per la quale sembra dunque ancora valere l’attribuzione del solo cognome paterno, benché peraltro la norma si esprima nel senso che l’adottato assume il cognome «degli adottanti». Per una contestualizzazione della sentenza della Corte costituzionale n. 286/2016 nel quadro dell’attuazione dei principi costituzionali sulla pari dignità dei coniugi e dei genitori nei confronti dei figli, v. G. Di Rosa, Diversità e disparità di genere nel diritto di famiglia, in NGCC 1 (2020), p. 182 s.

[70] In dottrina (R. Mariconda, Dell’adozione in casi particolari, in Le adozioni nella nuova disciplina. Legge 28 marzo 2001, n. 149, cit., p. 357) si è peraltro ritenuto che la previsione, salvo che ci sia stata decadenza dalla responsabilità, non privi il genitore d’origine di una funzione di guida e di controllo e che in caso di contrasto con l’adottante potrebbe trovare applicazione l’art. 316 c.c.

[71] Art. 46. La giurisprudenza ha però affermato che il mancato rilascio del consenso da parte del genitore esercente la responsabilità non impedisce l’adozione in casi particolari, se si accerta che il genitore, per quanto formalmente titolare della responsabilità, non si prende di fatto cura del figlio (Cass. 16 luglio 2018, n. 18827, in NGCC, 1 (2019), con nota di J. Long, Adozione in casi particolari e dissenso del genitore esercente la responsabilità genitoriale). Sulla questione, A.G. Grasso, Oltre l’adozione in casi particolari, dopo il monito al legislatore. Quali regole per i nati da pma omosex e surrogazione?, in NLCC, 3 (2021), p. 484 s.

[72] A. Nicolussi, La filiazione e le sue forme: la prospettiva giuridica, in E. Scabini - G. Rossi(a cura di), Allargare lo spazio familiare: adozione e affido, Milano 2014, p. 19.

[73] F.D. Busnelli, Frantumi europei di famiglia, in Id., Persona e famiglia, cit., p. 369.

[74] Salva l’applicazione dell’affidamento c.d. superesclusivo o rafforzato mediante il quale al genitore affidatario viene attribuita la competenza a decidere in modo esclusivo anche relativamente alle decisioni più importanti per il figlio.

[75] Cass., sez. un., 8 maggio 2019, n. 12193, pubblicata anche in Dir. fam. pers., 3 (2019), p. 1062 s. con nota di A. Spadafora, Procreare semper licet?; in Fam. dir., 7 (2019), p. 653 s. con note di M. Dogliotti, Le Sezioni Unite condannano i due padri e assolvono le due madri e di G. Ferrando, Maternità per sostituzione all’estero: le Sezioni Unite dichiarano inammissibile la trascrizione dell’atto di nascita. Un primo commento; in Familia, 3 (2019), p. 345 s. con nota di M. Bianca, La tanto attesa decisione delle Sezioni Unite. Ordine pubblico versus superiore interesse del minore?.

[76] L’emendamento 1.1000, approvato dal Senato il 25 febbraio 2016, comportò la soppressione dell’art. 5 del testo allora in esame diretto ad introdurre nell’art. 44, co. 1 lett. b) il riferimento al partner dell’unione civile.

[77] Dove, dopo aver stabilito che la generale equivalenza normativa del termine coniuge rispetto a quello di partner nell’unione civile non si applica in particolare alla l. 184/1983, si aggiunge che «resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti».

[78] Quale, nella giurisprudenza della Corte Edu, il link genetico, come messo in rilievo da v. A. Nicolussi, Paradigmi della filiazione, in U. Salanitro (a cura di), Quale diritto di famiglia per la società del XXI secolo?, Pisa 2020, p. 269 s.

[79] BGE 21 maggio 2015, in Raccolta ufficiale delle decisioni del Tribunale federale, 141 III 312.

[80] Art. 264a, co. 1 c.c. svizzero (versione storica): 1 Coniugi possono adottare soltanto congiuntamente; l’adozione in comune non è permessa ad altri.

[81] Il parlamento svizzero ha approvato nel dicembre 2020 una riforma del codice civile che introduce il matrimonio tra persone dello stesso sesso (legge Matrimonio per tutti). La riforma è stata confermata mediante referendum tenuto a fine settembre 2021.

[82] Art. 264a, co. 3 c.c. svizzero (versione storica): Un coniuge può̀ adottare il figlio dell’altro se i coniugi sono sposati da cinque anni.

[83] Art. 27, co. 1 - Legge federale sull’unione domestica registrata di coppie omosessuali: «Se uno dei partner ha figli, l’altro lo assiste in modo adeguato nell’adempimento del suo obbligo di mantenimento e nell’esercizio dell’autorità parentale e lo rappresenta ove le circostanze lo richiedano. I diritti dei genitori rimangono in ogni caso salvaguardati». A differenza della corrispondente previsione che trova applicazione in caso di matrimonio, dove il dovere di assistenza è limitato ai figli dell’altro nati prima del nuovo matrimonio (art. 278, co. 2 c.c. svizzero), per escludere che si estenda ai figli nati da relazioni adulterine durante il nuovo matrimonio, nell’art. 27, co. 1 tale ultima limitazione manca. Secondo alcuni (A. Büchler - R. Vetterli, Ehe Partnerschaft Kinder3, Basel 2018, p. 178) tale più ampia formulazione asseconderebbe, con una protezione giuridica minima, la prospettiva di una filiazione comune per coppie femminili.

[84] Art. 27, co. 2 - Legge federale sull’unione domestica registrata di coppie omosessuali: «In caso di sospensione della vita comune o di scioglimento dell’unione domestica registrata, l’autorità tutoria può, alle condizioni di cui all’articolo 274a CC, conferire il diritto di intrattenere relazioni personali».

[85] Così esattamente il Tribunale «im Bereich des internationalen Privatrechts besteht gesetzlich viel Gestaltungsfreiheit (wie durch Wahl von Forum und Recht) und längst nicht alle rechtsgestaltenden Handlungen sind rechtlich relevante "Gesetzesumgehungen". Wenn indes die Beschwerdegegner - als schweizerische Staatsangehörige mit Wohnsitz in der Schweiz, ohne weiteren Bezug zu Kalifornien - die Leihmutterschaft gerade zur Vermeidung des schweizerischen Verbotes in Kalifornien durchgeführt haben, stellt ihr Vorgehen eine rechtlich relevante Rechtsumgehung dar. Grund dafür ist, dass die Rechtsordnung offensichtlich um die von ihr beabsichtigte Wirkung ihrer Vorschriften gebracht werden soll, wobei diese Vorschriften vor der Verletzung der Moral, das öffentliche Interesse und die Menschenwürde schützen sollen».

[86] Traduzione non ufficiale.

[87] Art. 264c. c.c. codice civile svizzero. La norma prevede la possibilità di adottare anche il figlio del convivente di fatto. Con l’entrata in vigore (luglio 2022) della menzionata riforma del codice civile che consente il matrimonio alla coppia omosessuale, sarà possibile anche l’adozione di coppia nonché il ricorso alla fecondazione eterologa da parte della coppia omosessuale femminile mediante donazione di gameti maschili (che non può in nessun caso essere anonima). Restano vietate la donazione di ovuli e la surrogazione di maternità.

[88] Nei casi invece di coppie eterosessuali, nel nostro ordinamento un modello a disposizione, suggerito da A. Nicolussi, Famiglia e biodiritto civile, cit., p. 761 s., può essere l’art. 128, co. 3 c.c. che consente di costituire il rapporto di filiazione limitando però i vantaggi al figlio: in questo modo la condotta dei genitori, infrangente il diritto nazionale, non sarebbe legittimata e, al tempo stesso, l’interesse del minore alla conservazione del rapporto sarebbe protetto. Secondo U. Salanitro, L’adozione e i suoi confini. Per una disciplina della filiazione da procreazione assistita illecita, in NGCC, 4 (2021), p. 948 una simile soluzione potrebbe trovare applicazione già de iure condito rilevando l’esistenza di una lacuna assiologica.

[89] V. E. Bilotti, La tutela dei nati a seguito di violazione dei divieti previsti dalla l. n. 40/2004. Il compito del legislatore dopo il giudizio della Corte costituzionale, in NGCC, 4 (2021), p. 928 s.; Id., La Corte costituzionale e la doppia maternità, in NLCC, 3 (2021), p. 694 s.

[90] Cass. civ., sez. I, 30 settembre 2016, n. 19599, in Dir. fam. pers., 1 (2017), p. 52 s.; Cass. civ., sez. I, 15 giugno 2017, n. 14878, in banca dati DeJure. In merito a tali decisioni e al successivo intervento delle sezioni unite, con particolare riferimento alla definizione di ordine pubblico, v. A. Nicolussi, Famiglia e biodiritto civile, cit., p. 742 s. Della riconoscibilità di un atto di stato civile attributivo della doppia maternità in un ordinamento che non contempla tale possibilità dovrà occuparsi anche la Corte europea di giustizia nella causa C-490/20 introdotta il 2 ottobre 2020. Il caso presenta una peculiarità rispetto a quelli che di recente hanno occupato la giurisprudenza, in particolare la Corte europea dei diritti dell’uomo, in quanto l’istante rifiuta di fornire alle autorità amministrative nazionali informazioni sulla discendenza biologica del nato, rendendo quindi impossibile stabilire chi sia la madre biologica.

[91] Cass., n. 12193/2019, cit.

[92] Cass., sez. un., 31 marzo 2021, n. 9006, in banca dati DeJure.

[93] V., in dottrina, R. Senigaglia, Genitorialità tra biologia e volontà. tra fatto e diritto, essere e dover-essere, in Eur. dir. priv., 3 (2017), p. 971 s. secondo cui i principi di eterosessualità e biologicità della filiazione appartengono al nostro ordine pubblico internazionale.

[94] Corte cost., 9 marzo 2021, n. 32 e n. 33, in banca dati Dejure.

[95] In precedenza, la Corte costituzionale, 20 ottobre 2016, n. 225, in banca dati Dejure, aveva individuato nell’art. 333 c.c. lo strumento mediante il quale garantire la continuità affettiva tra il minore e l’ex partner (omosessuale) del genitore dopo la crisi della coppia, quando l’interruzione del rapporto è di pregiudizio per il minore.

[96] Sentenza 23 ottobre 2019, n. 221, della quale appare particolarmente importante l’affermata distinzione tra la filiazione attraverso l’adozione e la filiazione mediante p.m.a. e in particolare la smentita dell’idea che l’adozione possa ricondursi ad una concezione volontaristica. Per una riflessione su tale sentenza nel quadro della giurisprudenza costituzionale in materia di p.m.a. e omogenitorialità, si v. A. Nicolussi, Paradigmi della filiazione, cit., p. 280. Poco dopo Corte costituzionale, 4 novembre 2020, n. 230, in banca dati Dejure, ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità delle disposizioni che impediscono alle coppie di donne omosessuali unite civilmente di venire indicate come genitori in un atto di nascita formato in Italia, dopo aver fatto ricorso all'estero alla procreazione medicalmente assistita eterologa. Nella stessa decisione si afferma che i principi dell’ordinamento non precluderebbero la giuridicizzazione di rapporti di filiazione per la donna sola o per la coppia omosessuale (n. 7 in diritto), rammentando però, sulla base della propria precedente giurisprudenza, che ciò costituirebbe «una svolta che, anche e soprattutto per i contenuti etici ed assiologici che la connotano, non è costituzionalmente imposta, ma propriamente «attiene all’area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre [...] il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale» (sentenza n. 84 del 2016)» (n. 8 in diritto).

[97] V. A. Renda, La surrogazione di maternità ed il diritto della famiglia al bivio, in Eur. dir. priv., 2 (2015), p. 422 s.; M. Sesta, La prospettiva paidocentrica quale fil rouge dell’attuale disciplina giuridica della famiglia, cit., p. 772 s. Secondo altra visione, il richiamo al valore della dignità non sarebbe del tutto persuasivo nei casi di surrogazione c.d. altruistica (v. A. Federico, Forme giuridiche della filiazione e regole determinative della genitorialità: la maternità surrogata e il superiore interesse del minore, in Quale diritto di famiglia per la società del XXI secolo?, cit., p. 335 s). In tale ipotesi, resta però che il nato è in ogni caso ridotto a mezzo del desiderio di realizzazione di altri. In merito, si permetta di richiamare A. Nicolussi - C. Rusconi, Volti e risvolti della dignità umana. A settant’anni dall’art. 1 della Costituzione tedesca, in Jus, 3 (2019), p. 50 s.

[98] Su tale profilo richiama l’attenzione G. Di Rosa, Relazioni familiari e sviluppo della persona, in NGCC, 3 (2021), p. 645 s.

[99] La proposta è di E. Bilotti, La tutela dei nati a seguito di violazione dei divieti previsti dalla l. n. 40/2004. Il compito del legislatore dopo il giudizio della Corte costituzionale, cit., p. 923 s.

[100] P. Morozzo della Rocca, Abbandono e semiabbandono del minore nel dialogo tra CEDU e corti nazionali, cit., p. 833 s.

[101] P. Morozzo della Rocca, Abbandono e semiabbandono, cit., p. 834 con rinvio a G. Vecchione, L’affidamento, l’adozione mite, l’adozione aperta: una coesistenza possibile, in G. De Marco (a cura di), Cura dei legami e giurisdizione, 2018 p. 171.

[102] Secondo quanto riferiscono A. Büchler - R. Vetterli, Ehe Partnerschaft Kinder3, cit., p. 218.

[103] Così prevede l’art. 268e c.c. svizzero: 1 I genitori adottivi e i genitori biologici possono convenire che ai secondi sia concesso il diritto di intrattenere adeguate relazioni personali con l’adottato minorenne. Tale convenzione e le sue eventuali modifiche sono sottoposte per approvazione all’autorità di protezione dei minori del domicilio dell’adottato. Prima di decidere, l’autorità di protezione dei minori o un terzo incaricato sente personalmente e appropriatamente l’adottato, eccetto che la sua età o altri motivi gravi vi si oppongano. Se l’adottato è capace di discernimento è necessario il suo consenso alla convenzione. 2 Se il bene dell’adottato è minacciato o vi è disaccordo circa l’attuazione della convenzione, decide l’autorità di protezione dei minori. 3 L’adottato può rifiutare in ogni tempo il contatto con i genitori biologici. Contro la sua volontà i genitori adottivi non possono neppure fornire informazioni ai genitori biologici.

[104] Le cui linee sono state delineate da L. Mengoni, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 4 (1982), p. 1135 s.

Rusconi Carlo



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