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“La capacità giuridica penale” e “La subiettivazione della norma penale”: i primi due volumi penalistici di Aldo Moro

03.11.2019

Caterina Iagnemma

 

Assegnista di ricerca in Diritto penale, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

 

“La capacità giuridica penale” e “La subiettivazione della norma penale”: i primi due volumi penalistici di Aldo Moro*

 

“La capacità giuridica penale” e “La subiettivazione della norma penale”: the first two books on Criminal Law written by Aldo Moro

 

 

 

Sommario: 1. Premessa – 2. La nozione di ‘capacità giuridica penale’ – 3. (Segue) … e quella di ‘subiettivazione della norma penale’ – 4. La ‘capacità giuridica penale’ e la ‘subiettivazione della norma penale’: possibili percorsi di lettura per il giurista contemporaneo.

 

1. Premessa

 

Agli occhi del giurista contemporaneo, i concetti di capacità giuridica penale e quello di subiettivazione della norma penale potrebbero risultare, almeno per certi versi, desueti: trattandosi, in effetti, di nozioni richiamate non di frequente dalla giurisprudenza e dalla dottrina attuali.

A ben vedere, tuttavia, le predette categorie appaiono a tutt’oggi di qualche utilità, consentendo di intendere il diritto penale in senso autenticamente umanistico[1]: ovvero, di considerare «l’ordine giuridico come una funzione, una estrinsecazione della persona, come una manifestazione della sua dignità»[2]. Così da rinverdire l’idea, oggi – almeno per certi versi – trascurata, secondo cui «l’uomo è la ragione d’essere dell’esperienza giuridica, in quanto è l’uomo la ragione d’essere della società, e la società non serve per creare un superuomo, ma per permettere a ogni uomo di realizzare in questo modo la pienezza della sua vita»[3].

Per comprendere se e come il concetto di capacità giuridica penale e quello di subiettivazione possano essere ancora di interesse, è necessario, tuttavia, cogliere il senso di siffatte nozioni. A tal fine, in questa sede, saranno analizzate più da vicino le opere di Aldo Moro dedicate alle suddette tematiche, La capacità giuridica penale (1939)[4] e La subiettivazione della norma penale (1942)[5]: poiché ivi emerge, ben più vividamente che in tutti gli altri contributi dottrinali in materia, la consapevolezza che «il diritto [sia] sempre un fatto umano e personale»[6].

 

2. La nozione di ‘capacità giuridica penale’

 

«Introducendo accanto agli elementi tradizionali, norma, reato, pena, quest’altro [scil. la capacità giuridica]», «la scienza del diritto penale, troppo a lungo ferma nella considerazione esclusiva del reato», osserva Moro, «slarga la sua visione»: poiché il soggetto agente, in tal modo, non è più descritto come soltanto una realtà empirica, ma anche quale entità giuridica formale, la cui soggettività deve essere adeguatamente presa in considerazione al momento dell’accertamento della responsabilità penale e della definizione delle conseguenze sanzionatorie[7].

Il soggetto capace sarebbe, più in particolare, «un’entità giuridica a carattere formale risultante dall’incontro immancabile della norma astratta, che disciplina giuridicamente una determinata situazione, con un soggetto empirico»[8]. Il che, a ben vedere, comporta «la possibilità personale di entrare in situazioni giuridiche che costituiscono il presupposto [di un illecito] e la sua conseguenza (responsabilità)»[9]. Ove tale possibilità viene meno, la «norma non opera per difetto proveniente a parte subiecti»[10]: così che non vi sarebbero in capo all’autore dell’illecito né un obbligo né, tantomeno, una pena.

Secondo questa impostazione, dunque, la capacità giuridica di diritto penale assume un carattere unitario, avendo efficacia sia con riguardo a una situazione giuridica di obbligo, per tale dovendosi intendere «il rapporto tra lo Stato, come titolare del diritto all’omissione del reato, e il singolo obbligato all’osservanza»[11], sia in riferimento a una situazione giuridica di responsabilità, ovvero al «diritto di punire e correlativamente [all’] obbligo di subire la pena»[12]. Di conseguenza, non avrebbe alcun senso parlare di soggetto punibile, come se si trattasse di un concetto del tutto autonomo: poiché «il soggetto punibile non è l’uomo come entità biologica, in quanto sia in contatto con il reato che egli abbia posto in essere, ma il soggetto immanente la norma che stabilisce in astratto la responsabilità»[13].

Altresì, la nozione di soggetto capace non va confusa con quella di soggetto imputabile. Mentre, infatti, la nozione di imputabilità indica i requisiti concreti che «integrano il contenuto sostanziale della qualificazione giuridica della capacità»[14], quest’ultima, invece, opera su un piano puramente formale e astratto.

Per tale ragione, d’altra parte, la categoria de qua non può essere intesa nemmeno come un elemento della colpevolezza. Ragionando in questi termini, infatti, si cadrebbe in un «difetto comune»: quello di «voler porre in relazione la capacità con un elemento della fattispecie giuridica reato, mentre essa, per sua intrinseca natura, attinge immediatamente la conseguenza del diritto, così come la norma, non potendosi considerare la condizionalità di questa come un carattere che ne ponga in questione l’autonoma efficienza»[15].

Rebus sic stantibus, la capacità non sarebbe né un presupposto del reato né tantomeno un requisito dello stesso[16]: «il soggetto capace» spiega Moro «è nella sua essenza espressione dell’efficienza della norma e, in questa sua qualità, presupposto del sorgere di una situazione giuridica in testa a un determinato soggetto». La capacità giuridica penale, dunque, si presenta come «una realtà nuova, autonoma, non riconducibile ad alcuna delle categorie sinora elaborate dalla dottrina in immediato collegamento ad elementi di fatto»[17].

 

3. (Segue) … e quella di ‘subiettivazione della norma penale’.

 

La subiettivazione della norma penale viene descritta da Moro come un «fenomeno di fondamentale importanza, da indagare preliminarmente per poter costruire, su queste basi, tutta la scienza del diritto penale, e non solo sostantivo, ma pure processuale»[18].

Per comprendere a pieno la centralità del tema de qua, pare utile, anzitutto, definire il concetto di subiettivazione: trattandosi, come s’è già detto con riguardo alla capacità giuridica di diritto penale, di una categoria, oggi, poco praticata.

Con il termine subiettivazione si indica «il processo per il quale la norma passa da un modo di essere astratto a un modo di essere concreto, diviene cioè, in presenza di talune situazioni di fatto tipiche, che essa stessa prevede, comando attuale»[19]. Dall’attualizzarsi di tale comando derivano situazioni giuridiche attive o passive, di contenuto diverso: a seconda che esse riguardino la fase antecedente o successiva al concretizzarsi del fatto criminoso.

Prima della commissione del reato, sussistono, in particolare, due situazioni giuridiche soggettive attive, cioè di titolarità pubblica. Esse fanno capo allo Stato amministrazione, ovvero all’entità statale intesa come «soggetto in concreto interessato alla integrità di talune situazioni di fatto», e allo Stato sovrano, vale a dire all’ente statale descritto in una «tipica posizione di estraneità di fronte agli interessi dei singoli e della collettività, alla tutela dei quali esso, per suo compito naturale, provvede»[20]. Nel primo caso, si configura un diritto soggettivo all’omissione del reato[21]; nella seconda ipotesi, invece, un «potere giuridico di sovranità penale»[22] [corsivo nostro].

Alle predette figure giuridiche, corrispondono altrettante situazioni di carattere passivo o privatistico. Il potere giuridico di sovranità penale dello Stato Sovrano collima, infatti, con la condizione passiva di «assoluta e incondizionata soggezione» del destinatario della norma penale, mentre il diritto soggettivo all’omissione del reato, spettante – come s’è visto – allo Stato amministrazione, è in rapporto alla situazione giuridica di «obbligo»[23] [corsivo nostro].

Dopo il verificarsi del fatto criminoso, invece, si avrebbe un’unica situazione soggettiva attiva, di cui è titolare lo Stato giurisdizione[24]: si tratta del «potere di punire»[25]. Secondo Moro, quest’ultima figura giuridica ‘si rifletterebbe’, a livello processuale, nella «posizione di diritto pubblico» rivestita dal P.M.: «proprio per essere in questa sfera, si giustificano i particolari poteri che [gli] spettano nello svolgimento del processo, come pure la posizione di imparzialità, che caratterizza l’operato di questo organo»[26]. Sul lato passivo del rapporto giuridico, invece, si delinea una condizione di «soggezione alle conseguenze giuridiche della commissione del reato»[27].

Per i limiti imposti dall’essenzialità, in questa sede non è possibile indugiare sull’ampio e approfondito dibattito in materia di potestà punitiva statale. Basti qui rilevare, tuttavia, come Moro rifiuti, diversamente dalla dottrina dell’epoca, l’idea che lo Stato possa vantare nei confronti del reo il diritto di punirlo. Alla base di tale impostazione, a ben vedere, v’è l’esigenza di vincolare legislativamente la prerogativa punitiva statale. Se, infatti, si descrivesse la figura soggettiva propria dello Stato giurisdizione come un diritto di punire, il diritto penale non potrebbe essere inteso in senso garantistico: ovvero, «nel senso che il potere sovrano dello Stato possa esplicarsi solo nell’osservanza delle forme e dei limiti da questo ordinamento stabiliti»[28]. Idea, questa, ampiamente espressa, peraltro, ne La capacità giuridica penale, dove si afferma, per l’appunto, che il diritto rappresenta un «sistema a garanzia della persona e della sua capacità di realizzare se stessa nella vita reale»[29].

Questo «sistemare i rapporti fra diritto e Stato»[30] che occupa Moro nell’opera La subiettivazione della norma penale non pare essere, dunque, una mera speculazione priva di risvolti pratici: trattandosi, piuttosto, di un’analisi delle ragioni ‘scientifiche’ per cui l’idea fascista dello Stato etico estraneo alla persona[31]risulta inaccettabile. A ben vedere, infatti, attraverso la teoria della subiettivazione si vuole ricondurre l’ente statale nell’ambito dei soggetti giuridici, così da poter validamente affermare che le prerogative dello Stato hanno il loro unico fondamento e limite nella legge: «abbiamo identificato, cioè, il potere sovrano dello Stato» precisa l’Autore «con il potere della norma, abbiamo posto l’essenza sovrana dello Stato nella sovranità dell’ordinamento giuridico»[32].

 

4. La ‘capacità giuridica penale’ e la ‘subiettivazione della norma penale’: possibili percorsi di lettura per il giurista contemporaneo.

 

In contrasto «con la moda del tempo, che prediligeva nel candidato il cimento con uno o più temi di parte generale e con uno o più temi di parte speciale»[33], sia nel volume La capacità giuridica in diritto penale sia ne La subiettivazione della norma penale sono approfondite questioni attinenti alla teoria generale del diritto: astraendo la riflessione, in larga misura, dal piano della realtà normativa positiva. Ciò, secondo la dottrina penalistica dell’epoca, avrebbe rappresentato il principale «difetto di metodo»[34] delle predette opere: la ragione, cioè, per cui sarebbe stato preferibile «un contributo alla scienza del nostro diritto più aderente alla realtà, meno nebuloso, più efficiente alla precisazione dei rapporti tra diritto e vita»[35].

Il fatto che Aldo Moro, specie nelle due opere testé ricordate, non si preoccupi di analizzare puntualmente il dato normativo si spiega, a ben vedere, alla luce dell’esigenza avvertita dall’Autore di costruire un diritto penale nuovo, attento alle necessità sociali e individuali reali[36]. Del pari, non può trascurarsi che il motivo per il quale la produzione de qua risulta interessante anche al lettore contemporaneo va ricercato proprio nell’attenzione riservata alle tematiche più generali, prima facie astratte, del diritto penale[37]: poiché su di esse, diversamente da molte di quelle di parte speciale, l’opera di riforma del legislatore incide meno di frequente.

Così, se l’analisi, proposta nel volume La subiettivazione della norma penale,circa le figure giuridiche di titolarità statale – diritto, dovere o potestà di punire – può essere di non prioritaria utilità per il giurista della nostra epoca, al contrario, invece, l’idea che alimenta tale teorizzazione – quella inerente, cioè, al diritto penale inteso «come una funzione, un’estrinsecazione della persona, come una manifestazione della sua dignità»[38] – risulta, ove letta nel contesto complessivo del volume, di indubbia modernità. Tale modo d’intendere il diritto penale, infatti, esprime ancora oggi carattere per certi versi rivoluzionario: ponendo l’accento su quanto di umano v’è in ciascunavicenda criminosa.

Consapevolezza, questa, che emerge, senza dubbio, anche dalla monografia in materia di capacità giuridica. In tale opera, infatti, Moro non manca di sottolineare la limitatezza della ben più nota categoria dell’imputabilità, rilevando come avvalendosi di essa si trascuri di considerare adeguatamente la componente soggettiva del fatto illecito: ovvero le condizioni personali (non solo, quindi, la capacità di intendere e di volere) che fanno dell’individuo un valido destinatario della norma penale.

E in effetti, la categoria della capacità giuridica, pur non essendosi ampiamente diffusa, ha prodotto, comunque, frutti fecondi. La concezione secondo cui non si può rispondere penalmente di un fatto illecito senza che prima sia stata accertata la sussistenza del dolo o, almeno, della colpa, proposta per la prima volta nel volume La capacità giuridica penale, è stata, infatti, recepita dalla giurisprudenza, per il tramite di un allievo di Aldo Moro, il giudice Renato Dell’Andro, in una delle più importanti sentenze emanate dalla Corte costituzionale[39].

La strada che conduce alla personalizzazione del rimprovero criminoso, nel senso auspicato da Moro, pare, tuttavia, ancora lunga. Basti pensare alle ipotesi in cui si finisce per rispondere a titolo di dolo sulla base dell’elemento soggettivo della colpa (o comunque, è il caso dell’omicidio preterintenzionale, con una pena ben più elevata di quella prevista per l’omicidio colposo): come accadeper l’aberratio ictus ex art. 82 c.p.; per l’ipotesi di concorso di persone nel reato proprio ex art. 117 c.p. e, ai sensi dell’art. 116 c.p., per la commissione di un reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti.

Ma v’è di più. In vista della effettiva e completa individualizzazione del giudizio di rimprovero, occorrerebbe, altresì, verificare la possibilità da parte dell’agente concreto di porre in essere quanto in suo potere per evitare l’evento avverso. Si tratterebbe, cioè, di compiere un’indagine accurata sulla componente individualizzante della colpevolezza. Il che consentirebbe di ottenere, inoltre, «vantaggi funzionali» dal punto di vista preventivo[40], essendo formulato un giudizio di responsabilità sulla concreta possibilità di agire dell’individuo. In tal modo, infatti, la risposta sanzionatoria sarebbe percepita dal colpevole come «necessaria in rapporto a lui e soltanto a lui»[41] e, di conseguenza, quest’ultimo potrebbe essere maggiormente disposto «a raccogliere l’offerta rieducatrice»[42].

Oltre che l’illecito, tuttavia, Moro descrive altresì la pena in termini individualizzanti: «non solo, cioè, nel senso che nessun altro soggetto (diverso dall’autore dell’illecito) possa esserne destinatario, ma nel senso che essa deve essere esperienza propria del condannato»[43] [corsivo nostro]. Ove si ragionasse diversamente, del resto, la pena non potrebbe in alcun modo tendere alla risocializzazione del reo, poiché questi, sentendosi sottoposto a una pena ingiusta, finirebbe per non aderire al processo rieducativo. Contravvenendosi, in tal modo, all’art. 27, comma 3, Cost.: norma alla cui formulazione Moro ha largamente contribuito[44]. In occasione della seduta del 19 settembre 1946 della c.d. Commissione dei Settantacinque, infatti, Moro stesso propose l’introduzione, all’art. 5 del Progetto di Costituzione, del seguente comma: «Non possono istituirsi pene crudeli e le sanzioni penali devono tendere alla rieducazione del condannato». Né la scelta di votare a favore dell’emendamento proposto, in Assemblea costituente, da Leone e Bettiol contro questo testo vale a segnalare una improvvisa svolta di Moro in senso retributivo: celandosi dietro simile scelta preoccupazioni, recepite da Moro – così Vassalli – con «notevole realismo»[45], derivanti dal timore di lasciar intendere un’adesione da parte dell’Assemblea ai postulati della Scuola positiva.

E in effetti, nel corso della attività politica posteriore, Moro si adoperò molto affinché, sul piano normativo, fossero introdotti strumenti volti ad attualizzare, seppure soltanto nella fase esecutiva, la finalità rieducativa della pena dichiarata dalla Costituzione. Basti pensare, in tal senso, che l’approvazione della l. n. 345 del 1975, il cui art. 1, comma 4, come noto, dispone che il trattamento penitenziario deve tendere alla risocializzazione e deve essere attuato secondo un criterio di individualizzazione, avvenne proprio durante il IV governo da lui presieduto.

Di certo, non può negarsi che l’idea secondo cui la pena potrebbe «assumere un significato per chi la subisce [soltanto] nell’ambito esecutivo»[46] sollevi perplessità: «renden[do], da un lato, poco credibili gli intenti risocializzativi normativamente dichiarati e fa[cendo] sì, dall’altro, che gli strumenti (sospensivi, sostitutivi e alternativi) i quali dovrebbero consentire tale risultato siano percepiti come concessioni sempre revocabili a istanze umanitarie, di per sé in contrasto con l’interesse preventivo della collettività»[47].

Al fine di superare tali incongruenze, occorrerebbe, perciò, che la ‘dimensione umana’ del reo rilevasse, come precisa, peraltro, lo stesso Moro, già al momento di definizione del contenuto delle conseguenze sanzionatorie.

Nel volume sulla capacità giuridica si afferma, infatti, la necessaria sussistenza di quest’ultima anche dopo il verificarsi del fatto illecito: ciò imporrebbe al giudice di comprendere se e come le peculiarità soggettive del reo possano rilevare nella determinazione della pena e, solo successivamente, durante la fase di esecuzione della stessa[48]. Collocando gli «elementi squisitamente soggettivi», «inerenti alla personalità del soggetto», nell’ambito della capacità giuridica penale, si intende, cioè, richiamare l’attenzione sul fatto che «esiste una personalità del soggetto, una caratteristica personale del soggetto»[49], di cui il giudice deve tener conto, anzitutto, nella definizione della pena. Pur nell’ambito, dunque, di una valutazione che attiene, anzitutto, all’oggettività del fatto delittuoso, le peculiarità individuali del soggetto agente dovrebbero comunque essere prese in esame: in modo tale da «commisurare la pena» precisa Moro «non solo in termini quantitativi, ma anche in termini qualitativi»[50].

La sanzione risulterebbe, quindi, personalizzata, essendo articolata – sin dal momento della sua irrogazione – secondo contenuti modulati in base alle condizioni personali del destinatario. Così da essere non un male analogo a quello del reato, ma un progetto che consenta al reo di «scavare nel fondo della coscienza»[51]. Affermazioni, queste ultime, che, seppure in una forma solo abbozzata, si ritrovano nella seconda monografia di Moro: in tale sede, infatti, l’Autore rileva come la pena «non [costituisca] sanzione corrispettiva che si limiti a togliere via, anche quando questo sia ancora possibile, il danno subito del privato immediatamente offeso, ma [abbia] un carattere di riparazione generale e quindi indiretta, che ci manifesta a sufficienza come interessato non sia soltanto il singolo, ma tutta la collettività»[52].

Le categorie della capacità giuridica e della subiettivazione paiono, dunque, stimolare la riflessione del giurista contemporaneo circa l’attuale modello punitivo, suggerendo di rimuovere tutti quegli ‘ostacoli normativi’ che limitano la possibilità di progettare una risposta sanzionatoria davvero orientata alle esigenze rieducative emergenti nel caso concreto.

Sul piano processuale, si tratterebbe, ad esempio, di superare — in prospettiva de iure condendo — la restrizione di cui all’art. 220, comma 2, c.p.p., consentendo al giudice, prima che determini la pena, di studiare la personalità dell’imputato, ove questi acconsenta. Affinché, tuttavia, l’esame della personalità non si trasformi in «un pericoloso strumento utilizzabile addirittura contro l’imputato»[53] risulterebbe necessario disciplinare attentamente la materia, definendo in via legislativa entro quale fase processuale e con quali modalità svolgere l’eventuale perizia[54].

Se, infatti, si consentisse il ricorso alla perizia prima dell’accertamento del fatto, i dati acquisiti sulla personalità dell’imputato potrebbero condizionare il giudice (anche involontariamente) nella valutazione della responsabilità. Per di più, poiché tale indagine riguarderebbe un soggetto da presumersi tuttora non colpevole, si determinerebbe un vulnus rispetto al principio costituzionale previsto dall’art. 27, co. 2, Cost.

Del pari, occorrerebbe, sul piano sostanziale, diversificare le risposte punitive (prevendo, ad esempio, pene di natura prescrittiva): in modo tale da consentire al giudice di modulare la pena — sia nel quomodo, sia nel quantum — in base alla personalità del reo e alle sue esigenze rieducative.

Problematiche, queste, che il giovane Moro, trattando di due categorie peculiari, come – per l’appunto – la capacità giuridica e la subiettivazione della norma penale, aveva già intuito, ponendole all’attenzione della dottrina e della giurisprudenza del suo tempo: incapaci, forse, di coglierne pienamente il senso. Il diritto penale moderno dovrebbe evitare di ripetere lo stesso errore, trascurando di considerare l’umanità che caratterizzaciascun fatto criminoso.

Per la verità, un primo passo, seppur ‘timido’, nel senso dell’umanizzazione del diritto penale è stato compiuto, di recente, con l’introduzione dell’istituto della sospensione del processo con messa alla prova, ex artt. 168-bis ss. c.p. e artt. 464-bis ss. c.p.p.[55]: rendendosi possibile, in tal modo, concepire la risposta al reato – anche se commesso da un adulto e non tra quelli di competenza del Giudice di Pace, sempreché non sia caratterizzato da particolare tenuità ex art. 131-bis c.p. – non più in termini strettamente aritmetici, secondo la logica ‘binaria’ del più/meno male commesso - più/meno carcere, quanto, piuttosto, come un programma da espletarsi tramite affidamento al servizio sociale. Con la possibilità, peraltro, di ricomprendere, nell’ambito di tale programma, condotte volte alla «mediazione con la persona offesa» (cfr. artt. 464-bis, comma 4, lett. c,c.p.p. e art.141-ter, comma 3, att. c.p.p.): cioè, di fare «ricorso», come evidenziato in letteratura, «alla procedura – la mediazione penale – che costituisce l’approdo più avanzato della giustizia riparativa»[56].

A ben vedere, proprio quest’ultimo «paradigma di giustizia», «che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, allo scopo di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettiva»[57], risponde in modo pieno all’idea di Moro per la quale l’esperienza giuridica dev’essere intesa «come manifestazione della dignità dell’uomo»[58].

Soltanto, infatti, abbandonando una costruzione in senso retributivo della pena inflitta (e, dunque, recependo fin dalla definizione legislativa delle sue modalità il dettato di cui all’art. 27, comma 3, Cost.), si può autenticamente riconoscere l’umanità del reo: posto che, altrimenti, si corre il rischio, inaccettabile, di «assimilarlo a un corpo, sul quale in forza della pena inflitta dovrebbe progressivamente dispiegarsi nel tempo la sofferenza espressiva del male compiuto»[59].

E lo stesso, del resto, vale anche per la vittima del reato, dal momento che il sistema sanzionatorio tradizionale non offre a quest’ultima alcuna risposta al suo bisogno più autentico: quello, cioè, di vedere riconosciuta, perfino dal colpevole, l’ingiustizia dell’accaduto e con ciò di essere riconosciuta, perfino dal colpevole, come persona,che ha patito una sofferenza. Quel sistema, anzi, finisce per vittimizzarla ulteriormente, in quanto la orienta a ritenersi appagata (rendendosi in un certo modo una persona peggiore rispetto al passato), del male inflitto a un’altra persona, piuttosto che di un percorso della medesima, pur impegnativo, di affrancamento dal male.

Si tratta, allora, di essere coraggiosi, come è stato, senza dubbio, Moro, e immaginare una giustizia penale nuova, che consenta di ri-stabilire tra tutte le persone coinvolte nella vicenda criminosa una relazione umana.

 

 

Abstract: Despite the lack of interest shown by the judiciary and academics towards the criminal capacity and the so-called “subjectification of the criminal law”, these categories are still useful, allowing to describe criminal law in a sort of humanistic sense.

Therefore, this paper aims to analyse whether and how the contemporary legal experts can use these two concepts. To this end, it focuses on the two monographs on these issues written by Aldo Moro (“La capacità giuridica penale” [1939] e “La subiettivazione della norma penale” [1942]). At a closer look, the idea that criminal law “is always a human and personal matter” emerges much more clearly in his works than in other contributions on the same subject.

 

Key words: Aldo Moro, criminal capacity, the so-called “subjectification of the criminal law”, culpability, criminal sanctions.

 


* Il lavoro, sottoposto a double blind peer review, è occasionato dalla ri-pubblicazione dei due volumi in oggetto, cui chi scrive ha cooperato, nell’ambito della Edizione Nazionale delle opere di Aldo Moro.

[1] Utilizzano quest’espressione per descrivere la concezione morotea del diritto penale, p. es., G. Contento, Il volto umano del diritto penale di Aldo Moro, in Riv. it. dir. proc. pen., 4 (1998), pp. 1151 ss.; P. Troncone, Il diritto penale nel pensiero di Aldo Moro in occasione del centenario dalla nascita, in Diritto e Religioni, 2 (2016), pp. 40 ss.; N. Bobbio, Diritto e Stato nell’opera giovanile di Aldo Moro, in Il Politico, 1 (1980), pp. 7 ss.; G. Barnini, Sul pensiero penalistico di Aldo Moro, in http://www.sintesidialettica.it(7 maggio 2007); L. Perfetti, Sul valore normativo della persona. Appunti su Aldo Moro giurista nel quarantennale dell’omicidio, in P.A. Persona e amministrazione, (2018), pp. 225 ss.; F. Tritto, Il valore della persona umana nel pensiero giuridico di Aldo Moro, in F.S. Fortuna - F. Tritto(a cura di), Atti del Convegno Crisi o collasso del sistema penale?, Università di Cassino 28 maggio 1998, pp. 102 ss.; S. Fortuna, Aldo Moro: la vita, le opere. Il dovere della memoria, in A. Filipponio - A. Regina(a cura di), In ricordo di Aldo Moro, Atti del Convegno di Bari 20 giugno 2008, pp. 27 ss.

[2] A. Moro, La persona umana e l’esperienza giuridica, in Aa.Vv.,Umanesimo e mondo contemporaneo, Roma 1954, p. 51.

[3] Ibid.

[4] Il volume La capacità giuridica penale costituisce il frutto del lavoro di tesi discusso da Aldo Moro nell’anno accademico 1937/1938, relatore Professor Biagio Petrocelli.

[5] A seguito della pubblicazione de La subiettivazione della norma penale, Aldo Moro ottenne presso l’Università di Bari la libera docenza di diritto penale. Oltre ai volumi citati supra nel testo, egli scrisse altre due monografie, dedicate a tematiche del tutto diverse dalle prime: L’antigiuridicità penale, Palermo 1947, con la quale vinse il concorso per la docenza di Diritto penale e venne, poi, nominato professore straordinario presso l’Università di Bari, e Unità e pluralità di reati, Padova 1951, con la quale ottenne, sempre nel medesimo Ateneo, la cattedra di professore ordinario di Diritto e procedura penale. Le predette opere contengono solo brevi cenni ai temi della capacità giuridica e della subiettivazione (cfr. A. Moro, L’antigiuridicità penale, cit., pp. 6ss., e Id., Unità e pluralità di reati, cit., pp. 19 ss.). Diversamente, invece, a queste ultime nozioni è dedicato ampio spazio nell’ambito delle lezioni del corso di Istituzioni di diritto e procedura penale, tenuto presso la Facoltà di Scienza Politiche dell’Università degli Studi di Roma nell’a.a. 1976/1977 (v. A. Moro, Lezioni di istituzioni di diritto e procedura penale, raccolte e curate da F. Tritto, Bari 2005, pp. 236 ss.; pp. 344 ss.).

[6] A. Moro, L’antigiuridicità penale, cit., p. 53.

[7] A. Moro, La capacità giuridica, cit.,p. 177. A formulare, per la prima volta, la nozione di capacità giuridica di diritto penale è stato V. Manzini, Trattato di diritto penale, vol. I, Torino 1942, pp. 453 ss. Secondo questo Autore, la capacità giuridica penale «costituisce la idoneità concreta di volere e di agire con effetti giuridici»: dunque, essa presuppone «la potenzialità di determinazione normale mediante la rappresentazione della pena comminata, rispetto al fatto vietato o imposto dalla legge (capacità a delinquere); la potenzialità di contrappore le proprie facoltà giuridicamente riconosciute a quelle dello Stato, valendosi a proprio vantaggio dell’ordinamento giuridico, nel rapporto processuale (capacità di difesa); la potenzialità di entrare nel rapporto punitivo secondo i presupposti giuridico-psicologici della pena (capacità di punizione)»[7]. In questo senso, tale categoria sarebbe del tutto diversa da quella dell’imputabilità di cui all’art. 85 c.p., dal momento che quest’ultima può riguardare soltanto «un determinato reato concreto». Il che, secondo A. Moro, La capacità giuridica, cit., p. 39, rappresenterebbe il «merito del Manzini»: «l’aver posto, cioè, il problema di una adeguazione della sola categoria soggettiva conosciuta dalla dottrina penalistica, l’imputabilità, alla capacità giuridica in genere». Subito dopo Manzini, si sono occupati del tema, oltre Moro, ancheG. Musotto, Colpevolezza. Dolo e colpa. Parte prima: la dottrina della colpevolezza, Palermo 1939, pp. 16 ss.; D. Pisapia,Contributo alla determinazione del concetto di capacità nel diritto penale, in Riv. dir. pen., 1942, pp. 149 ss.; P. Nuvolone, La capacità a delinquere nel sistema del diritto penale, Piacenza 1943, pp. 53 ss.; B. Petrocelli, La colpevolezza: lezioni introduttive, Padova 1948, pp. 19 ss.; L. Pettoello Mantovani, Il concetto ontologico del reato, Milano 1954, pp. 11 ss. L’interesse della dottrina penalistica per la categoria de qua si è riacceso, successivamente, negli anni Sessanta: v., p. es., F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano 1963, pp. 241 ss.; G. Bettiol, Diritto penale. Parte generale, Palermo 1962, pp. 325 ss.; F. Bricola, Fatto del non imputabile e pericolosità, Milano 1961, pp. 86 ss.; M. Gallo, Capacità penale (voce), in Noviss. Dig. It., vol. II, Torino 1958, pp. 880 ss.; R. Dell’Andro, Capacità giuridica penale (voce), in Enc. dir., vol. II, Milano 1960, pp. 104 ss.; G. Marini, La capacità di intendere e di volere nel sistema penale italiano, in Riv. it. dir. proc. pen., 1961, pp. 733 ss.

[8] Ibid. Il tema dell’«incontro» tra norma astratta e soggetto empirico è affrontato più ampiamente, come si dirà infra, § 3, nel volume La subiettivazione della norma penale, cit., pp. 12 ss.

[9] A. Moro, La capacità giuridica, cit., p. 67.

[10] Ibid.

[11] Circa il concetto di obbligo, Moro osserva come si tratti di «una forma meno appariscente, dal punto di vista pratico, della capacità di diritto penale»: «l’obbligo viene fatto oggetto di una concreta considerazione quando sia stato violato e l’atto di violazione (reato) venga posto appunto nel necessario rapporto con la situazione giuridica che esso presuppone, ai fini dell’affermazione di una responsabilità penale» (ivi, p. 121).

[12] Ivi, p. 116.

[13] Ivi, p. 135.

[14] Ivi, p. 64.

[15] Ivi, p. 159.

[16] Secondo una parte della dottrina (cfr., p. es., F. Carnelutti, Teoria generale del reato, Padova 1933, pp. 100 ss.), la capacità di diritto penale costituirebbe uno dei requisiti soggettivi del reato: per tali dovendosi intendere «il complesso di quel modo di essere dell’agente, dai quali dipende l’esistenza del reato» (ivi, p. 106). Stando a un’altra impostazione del problema, invece, la capacità sarebbe un presupposto della responsabilità e della pena o, in alternativa, un presupposto della colpevolezza: per gli opportuni riferimenti bibliografici v. A. Moro, La capacità giuridica, cit., pp. 29 ss.

[17] A. Moro, La capacità giuridica, cit., p. 175.

[18] A. Moro, La subiettivazione della norma penale, cit., p. 3. Che la subiettivazione della norma giuridica fosse considerata una tematica fondamentale lo si comprende, altresì, dal numero di opere che, in quello stesso momento storico, analizzavano la categoria de qua. Basti pensare, infatti, che nel solo 1942, anno – come s’è detto – di pubblicazione della monografia testé citata, altri tre volumi sull’argomento venivano dati alle stampe: G. Vassalli, La potestà punitiva, Torino 1942; L. Scarano, I rapporti di diritto penale, Milano 1942; A. Regina, La tutela penale degli interessi privati, Bari 1942. Le ragioni di tale diffuso interesse andrebbero ricercate, secondo G. Vassalli, L’opera penalistica di Aldo Moro, in Il Politico, 1 (1980), p. 32, nel fatto che «quella era l’epoca del rapporto giuridico, e cioè, della subiettivazione della norma in ogni ramo del diritto». «In secondo luogo» prosegue l’Autore «per i penalisti esisteva un impegno particolare, nascente dall’incertezza sulla posizione del P.M. (organo del potere esecutivo o del potere giudiziario?) e della necessità di enucleare, dalla vecchia concezione dell’azione penale, un aspetto sostanziale della situazione soggettiva dello Stato nel rapporto punitivo» (ivi, p. 33).

[19] A. Moro, La subiettivazione della norma penale, cit., p. 12.

[20] Ivi, p. 109.

[21] Ivi, p. 112.

[22] Ivi, p. 96.

[23] Ivi, p. 123.

[24] Quando si parla di Stato giurisdizione, «si tratta, precisa l’Autore, pur sempre della fondamentale posizione di sovranità dello Stato nella riaffermazione del dover essere giuridico» (ivi, p. 142, nota n° 2).

[25] Ivi, p. 145.

[26] Ivi, p. 188. Con riguardo al diritto penale sostanziale, invece, la teoria della subiettivazione proposta da Moro produrrebbe effetti assai meno rilevanti: incidendo sulla categoria delle condizioni obiettive di punibilità, sulle cause di estinzione del reato e su quelle di estinzione della pena. Le prime sono descritte come «elementi influenti sul processo di subiettivazione della norma penale in sede di sanzione»: così che, dunque, se esse non si realizzano «la norma non è concreta in forma subiettiva, non c’è potere di punire, né responsabilità, né diritto soggettivo che confluiscano nel processo, il quale ad essi dà tipicamente attuazione» (ivi, p. 202). Quanto alle cause di estinzione del reato, esse impedirebbero, secondo la descritta teoria della subiettivazione, «l’attualizzarsi in forma subiettiva del valore normativo», mentre le cause di estinzione della pena determinerebbero una sorta di ‘risoluzione’ del rapporto subiettivo, con la conseguenza che, al loro verificarsi, la norma torna ad essere «astratta e obiettiva, e quindi inefficace» (p. 204).

[27] Ivi, p. 145.

[28] Ivi, p. 130.

[29] L. Perfetti, Sul valore normativo della persona, cit., p. 229.

[30] A. Moro, La subiettivazione della norma penale, cit., p. 93.

[31] «Bisogna riaffermare che, se lo Stato è, com’è certamente, etico, lo è in quanto in sé accoglie e compone in armonia i valori sviluppati dai singoli e dagli aggregati sociali minori dei quali si compone e senza dei quali non sarebbe»: «va, quindi, fugato il possibile equivoco che induca a vedere lo Stato non già come tutta la vita nel suo significato, ma come un’aggiunta ad essa, quasi che la sintesi caratteristica che esso compie, non già limitandosi a presentare forma di unità, compiuta e ordinata, la totalità dei valori della vita di relazione, partendo invece da essi, in certo modo li superi, ponendosi come una realtà autonoma, nella quale soltanto possa dirsi realizzato il valore dell’uomo» (A. Moro, Lezioni di Filosofia del diritto tenute presso l’Università di Bari. Il Diritto, Bari 1978, p. 218). Sulla concezione di Stato, elaborata da Aldo Moro nelle sue opere politiche e filosofiche cfr., p. es., F.S. Fortuna, Il contributo di Aldo Moro alla Costituente. In particolare sulla funzione della pena, in F.S. Fortuna - F. Tritto(a cura di), Crisi o collasso del sistema penale?, cit., pp. 105 ss.; D. Asterri, Persona, società e Stato nel pensiero politico giovanile di Aldo Moro, ivi, pp. 139 ss.; L. Elia, intervento al convegno Aldo Moro. Commemorazione per i venticinque anni dalla scomparsa, Roma 9 maggio 2003, pp. 31 ss.; S. Suppa, Lo stato della persona e della democrazia in Aldo Moro, in A. Filipponio - A. Regina(a cura di), In ricordo di Aldo Moro, cit., pp. 77 ss.; A. Bixio, L’idealismo realista di Aldo Moro, in A. D’Angelo - M. Toscano(a cura di), Aldo Moro. Gli anni della «Sapienza» (1963-1978), Roma 2018, pp. 73 ss.; G. Campanini, Aldo Moro. Cultura e impegno politico, Roma 1992, pp. 117 ss.; U. De Siervo, Il contributo di Aldo Moro alla formazione della Costituzione repubblicana, in Il Politico, 2 (1979), pp. 199 ss.; A.M. Garofalo, Aldo Moro: il diritto e lo Stato, in Studium, 75 (1979), pp. 677 ss.

[32] Ivi, p. 96.

[33] G. Vassalli, L’opera penalistica di Aldo Moro, cit., p. 27. Nello stesso senso v., p. es., S. Fortuna, Il pensiero giuridico di Aldo Moro, in Civitas, IX (1978), p. 42.

[34] F. Carnelutti, recensione a La capacità giuridica penale, in Riv. trim. dir. proc. civ., (1940), p. 62. Secondo G. Bettiol, recensione a La subiettivazione della norma penale, in Riv. dir. pen., (1942), p. 401, il lettore avvertirebbe «una situazione di disagio»: «nel senso che la mentalità normativistica di Moro porta questi a compiacersi troppo spesso di schemi astratti e lo trascina in un mondo che potrà anche essere il sacro vestibolo del diritto penale [...], ma che in effetti poco rilievo ha per la costruzione di un sistema penale che si vuole realistico». Ciò nonostante, prosegue l’Autore, «qualora ci si ponga nell’ambito della metodologia a sfondo kelseniano del Moro, bisogna convenire che il lavoro è pienamente riuscito e che offre uno dei più veri contributi portati alla trattazione del difficile tema, perché la tesi della subiettivazione della norma penale è organicamente importata e logicamente svolta sino alle sue ultime conseguenze». Con riguardo, invece, alla monografia intitolata L’antigiuridicità penale, R. Pannain, recensione a L’antigiuridicità penale, in Arch. pen., 4 (1948), p. 327, così afferma: «l’Autore ha da decidersi: o fare il filosofo, e allora può ancora affinare la sua eccessiva tendenza all’astrazione, o fare il giurista, e allora deve farlo all’italiana, con maggiore considerazione per il diritto positivo».

[35] C. Guglielmetti, recensione a La subiettivazione della norma penale, in Scuola Positiva, 1 (1943), p. 78. La critica si è mostrata, invece, meno severa con riguardo al lavoro monografico Unità e pluralità dei reati del 1951,in cui Aldo Moro si sofferma, più puntualmente rispetto alle precedenti opere, sull’analisi della norma positiva: in ragione, dunque, di «una maggiore concretezza e [di] una più stretta aderenza al diritto positivo», questa opera segnerebbe, come si legge nella letteratura italiana del tempo, un «netto progresso sulle precedenti» (così R. Pannain, recensione a Unità e pluralità di reati, in Riv. it. dir. pen., 1 (1953), p. 437).

[36] S. Fortuna, Il pensiero giuridico di Aldo Moro, cit., p. 41. Secondo quest’ultimo Autore, nelle critiche mosse a Moro risuonerebbe «l’eco della questione sul ruolo del giurista nelle società moderne […]. Si sostiene, da un lato (è questo il c.d. indirizzo tecnico-giuridico, tuttora prevalente in Italia nella scienza penalistica), che al giurista spetti l’analisi della norma positiva nel significato assegnatole dal legislatore. [Tuttavia] non ci si avvede che, in questo modo, la funzione del giurista rimane circoscritta e subordinata, rinunziandosi a priori a esercitare, verso il legislatore una attività di stimolo, non occasionale, ma costante, prendendo le mosse (verso la collettività) dalla ricognizione di necessità reali, e pure non ancora fornite di garanzie giuridiche».

[37] Come osserva M. Gallo, relazione di sintesi al convegno Crisi o collasso del sistema penale?, cit., p. 171, «il cosiddetto ‘formalismo’ di Aldo Moro […] produce, e suppone, una maggiore libertà dello spirito umano: segnatamente nella valutazione di quei prodotti della cultura che sono poi i singoli contenuti che, a queste nozioni di teoria generale, i vari ordinamenti o i vari settori di un ordinamento, in qualche misura recano». «Quando si aprono certe categorie – prosegue l’Autore – che appaiono prive di riferimenti contenutistici a questo o quello ordinamento, e quando si pone l’accento sulle costanti che queste categorie presentano nelle varie fasi della nostra conoscenza giuridica, ci si rende praticamente liberi nella valutazione alla stregua di un criterio che non è più, solamente, quello di giuridicità, ma che è sovrastante a quello della giuridicità: è il criterio etico».

[38] A. Moro, La persona umana e l’esperienza giuridica, cit., p. 51.

[39] V. Corte cost., 23 marzo 1988, n. 364, in Foro it., I (1988), col. 1385 ss., nota di G. Fiandaca, Principio di colpevolezza e ignoranza scusabile della legge penale: ‘prima lettura’ della sentenza 364/1988, nota di D. Pulitanò, Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, e nota di L. Stortoni, L’introduzione nel sistema penale dell’errore scusabile di diritto: significati e prospettive;in Riv. it. dir. proc. pen., 4 (1988), pp. 1313 ss., nota di T. Padovani, L’ignoranza inevitabile sulla legge penale e la declaratoria di incostituzionalità parziale dell’art. 5 c.p.; in Legislazione penale, 1 (1989), pp. 73 ss., nota di A. Cadoppi, Error iuris: coscienza dell’antigiuridicità extra-penale e ritardo nel versamento delle ritenute; in Riv. trim. dir. pen. econ., 1 (1989), pp. 145 ss., nota di M. Donini, Errore sul fatto ed errore sul divieto nello specchio del diritto penale tributario; in Ind. pen., 3 (1990), pp. 697 ss., nota di M. Petrone, Il ‘nuovo’ art. 5: l’efficacia scusante dell’ignorantia legis inevitabile e i suoi riflessi sulla teoria generale del reato.

[40] G. Fiandaca, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2 (1987), p. 873. A riguardo, cfr. anche G. V. De Francesco, Il ‘modello analitico’ fra dottrina e giurisprudenza: dommatica e garantismo nella collocazione sistematica dell’elemento soggettivo del reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1 (1991), pp. 135 ss.; Id., Sulla misura soggettiva della colpa, in Studi Urbinati, (1977-1978), pp. 340 ss.

[41] T. Padovani, Teoria della colpevolezza e scopi della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 1 (1987), p. 831.

[42] G. Fiandaca, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, cit., p. 873.

[43] G. Contento, Il volto umano del diritto penale di Aldo Moro, cit., p. 1156.

[44] A riguardo v., p. es., U. De Siervo, Il contributo di Aldo Moro alla formazione della Costituzione repubblicana, cit., pp. 199 ss.; A. Loiodice, Moro e la Costituente, Napoli 1984, pp. 21 ss.; N. Antonetti, Aldo Moro: politica e diritto. Premesse alla Costituente, in Dialoghi, 2 (2016), pp. 104 ss.; P. Pisicchio, Pluralismo e personalismo nella Costituzione italiana. Il contributo di Aldo Moro, Bari 2012, pp. 15 ss.

[45] G. Vassalli, Le funzioni della pena nel pensiero di Aldo Moro, in G. Bettiol - M. Martinazzoli - F. Tritto - G. Vassalli(a cura di), Aldo Moro e il problema della pena, Bologna 1982, p. 58. Occorre segnalare, d’altra parte, come il diritto penale dell’epoca fosse profondamente pervaso dalla concezione retributiva della pena: è ovvio, dunque, che Moro sia stato ‘influenzato’, seppure solo in misura limitata, da tale diffuso clima culturale. Così che la pena è intesa dall’Autore, come precisa F. Tritto, La pena nell’insegnamento di Aldo Moro, in G. Bettiol - M. Martinazzoli - F. Tritto - G. Vassalli(a cura di), Aldo Moro e il problema della pena, cit., p. 34, in senso «etico-retributivo»: «essa, perciò, non si identifica solamente in un intervento afflittivo, [ma è] anche una risposta in termini di bene riaffermato».

[46] Così L. Eusebi, Dirsi qualcosa di vero dopo il reato: un obiettivo rilevante per l’ordinamento giuridico?, relazione al Convegno Verità, responsabilità e ravvedimento nel sistema penale e nella memoria di chi ha vissuto, Reggio Emilia, 3 giugno 2010, ora in Criminalia, (2010), pp. 637 ss.

[47] L. Eusebi, Dinanzi alla fragilità rappresentata dall’errore. Giustizia e prevenzione in rapporto alle condotte criminose, in Il regno, (2006), p. 565.

[48] Come osserva F. Tritto, La pena nell’insegnamento di Aldo Moro, cit., pp. 51 ss., «il rifiuto di Moro dei postulati della scuola positiva non implica il non riconoscimento di alcuni dati significativi e importanti introdotti dai positivisti del diritto penale». «E infatti Moro – prosegue l’Autore – ascrive loro il merito di aver posto in particolare risalto la persona […]. L’attenzione dunque è rivolta al momento soggettivo, di fronte all’attenzione prestata dalla precedente dommatica giuridica al momento oggettivo, al momento dell’azione».

[49] A. Moro, Lezioni di istituzioni di diritto e procedura penale, cit., p. 112.

[50] Ibid.

[51] Ivi, p. 123.

[52] A. Moro, La subiettivazione della norma penale, cit., p. 50 s.

[53]G.D. Pisapia, La perizia criminologica e le sue prospettive di realizzazione, in questa Riv. it. dir. proc. pen., 4 (1980), p. 1026.

[54]Secondo G.D. Pisapia, ivi, p. 1032, sarebbe necessaria in ogni caso una precisazione terminologica, dal momento che «all’esame della personalità, sia sotto il profilo psicologico che psichiatrico, come sotto quello criminologico, mal si addice la denominazione di ‘perizia’»: non consistendo quest’ultima «né in un mezzo di prova, né in un mezzo di valutazione della prova».

[55] A riguardo, ex multis, cfr.P. Troncone, La sospensione del procedimento con messa alla prova: nuove esperienze di scenari sanzionatori senza pena, Roma 2017, pp. 113 ss.; R. Bartoli, La “novità” della sospensione del procedimento con messa alla prova, in http://www.penalecontemporaneo.it (9 dicembre 2015); Id., La sospensione del procedimento con messa alla prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, in Dir. pen. proc., 6 (2014), pp. 668 ss.; Id., Il trattamento nella sospensione del procedimento con messa alla prova, in Cass. Pen., 5 (2015), p. 1755 ss;E. Lanza, La messa alla prova processuale: da strumento di recupero per i minorenni a rimedio generale deflattivo, Torino 2017, passim; A. Marandola, La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica criminale, in Dir. pen. proc., 6 (2014), pp. 678 ss.; G. Ubertis, Sospensione del procedimento con messa alla prova e Costituzione, in Arch. pen., 2 (2015), pp. 725 ss. Con riguardo all’istituto de quo L. Eusebi, La sospensione del procedimento con messa alla prova tra rieducazione e principi processuali, in Dir. pen. proc., 12 (2019), pp. 1969 s., evidenzia «l’aspetto problematico, inerente al rapporto tra gli strumenti di probation e il ruolo del processo in materia penale»: «quello per cui l’opzione in favore della messa alla prova implica la rinuncia all’accertamento processuale ordinario (anche con riguardo alla possibilità di impugnazione) dei fatti e delle responsabilità, al quale si perverrà solo allorquando il cattivo esito della prova stessa non avrà permesso l’estinzione del reato».Tuttavia, «si tratta di evitare» prosegue l’Autore «l’inversione metodologica in forza della quale l’intangibilità, senza alcun profilo flessibile, delle garanzie processuali finisca per fare da supporto, paradossalmente, all’inflizione ineludibile della pena detentiva, cioè all’estensione, piuttosto che alla delimitazione, dell’ambito applicativo di quest’ultima» (ivi, p. 1698).

[56] L. Eusebi, La svolta riparativa del paradigma sanzionatorio. Vademecum per un’evoluzione necessaria, in G. Mannozzi - G. Lodigiani(a cura di), Giustizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone, Bologna 2015, p. 102. Come noto, oltre alle norme menzionate supra, sia l’art. 29, comma 4, d.lgs. n. 74 del 2000, sia gli artt. 9 e 28 del d.P.R. n. 448 del 1988 fanno riferimento alla mediazione penale.

[57] A. Ceretti - F. Di Ciò - G. Mannozzi, Giustizia riparativa e mediazione penale: esperienze giuridiche a confronto, in F. Scaparro(a cura di), Il coraggio di mediare. Contesti, teorie e pratiche di risoluzione alternative delle controversie, Milano 2001, p. 309. Sul concetto di giustizia riparativa, peraltro, restano imprescindibili i numerosi lavori di Claudia Mazzucato (v., p. es., Id., Appunti per una teoria “dignitosa” del diritto penale a partire dalla restorative justice, in A. Barletta - L. Eusebi - S. Gentileet al., Dignità e diritto: prospettive interdisciplinari, Piacenza 2010, pp. 99 ss.; Id., Mediazione e giustizia riparativa in ambito penale. Spunti di riflessione tratti dall’esperienza e dalle linee guida internazionali, in L. Picotti - G. Spangher(a cura di), Verso una giustizia penale “conciliativa”. Il volto delineato dalla legge sulla competenza penale del giudice di pace, Milano 2001, pp. 85 ss.; Id.,Ostacoli e “pietre di inciampo” nel cammino attuale della giustizia riparativa in Italia, in G. Mannozzi - G. Lodigiani (a cura di),Giustizia riparativa, cit., pp. 119 ss.; Id.,La giustizia penale in cerca di umanità. Su alcuni intrecci teorico-pratici fra sistema del giudice di pace e programmi di giustizia riparativa, in L. Picotti - G. Spangher(a cura di), Contenuti e limiti della discrezionalità del giudice di pace in materia penale, Milano 2005, pp. 140 ss.).

[58] A. Moro, La persona umana e l’esperienza giuridica, cit., p. 151.

[59] L. Eusebi, Dinanzi alla fragilità rappresentata dall’errore, cit., p. 565.

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