fbevnts The Ecclesiastical Tribunal at the service of marriage and family. Risks of legal positivism and remedies

Il Tribunale Ecclesiastico a servizio del matrimonio e della famiglia

25.02.2020

Giuseppe Sciacca

Segretario del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica

 

Il Tribunale Ecclesiastico a servizio del matrimonio e della famiglia. I rischi del positivismo giuridico e i rimedi*

 

English title: The Ecclesiastical Tribunal at the service of marriage and family. Risks of legal positivism and remedies

DOI: 10.26350/18277942_000002

 

Sommario: Premessa. 1. Tribunale ecclesiastico al servizio del matrimonio; tribunale ecclesiastico e famiglia. 2. Il processo tra positivismo giuridico ed aequitas. Conclusioni

 

Premessa

 

Il titolo del presente intervento, a tutta prima, potrebbe suonare financo pleonastico o ultroneo, oltre che di generalissimo impianto, ove solo si consideri che la stragrande maggioranza, per non dire la quasi totalità, delle cause che vengono deferite al Foro Canonico è costituita da cause di nullità del matrimonio, se si eccettua quell’ambito di relativamente recente istituzione (conta poco più di cinquanta anni, essendo stato voluto nel 1967 dal Pontefice S. Paolo VI con la cost. Regimini Ecclesiae universae sulla sana spinta personalista impressa dal Vaticano II per la tutela dei diritti soggettivi dei christifideles, laici, chierici e religiosi), che riguarda la giustizia amministrativa presso la Segnatura Apostolica, dove da sei anni presto il mio servizio.

La stragrande maggioranza dei processi canonici, si diceva, è costituita dalle cause matrimoniali al punto che, non inepte, si è parlato – e pure lamentato – di una “matrimonializzazione” del processo canonico, con il conseguente illanguidimento di altre figure ed istituti giuridici, processuali e sostanziali, con il reale, inevitabile impoverimento del sistema canonico.

Si pensi alle cause iurium ed alla ricchezza di spunti che esse offrono, non solo dal punto di vista comparativistico, ma anche, e direi soprattutto, per una più approfondita ed esatta conoscenza storica degli Istituti, senza la quale – come ammoniva Sabino Cassese – una cultura, un pensiero e una prassi giuridica son monchi e difettosi, soprattutto nel nostro ambito canonistico.

 

1. Tribunale ecclesiastico al servizio del matrimonio; tribunale ecclesiastico e famiglia

 

Innanzitutto è d’uopo rivendicare ancora una volta se mai ce ne fosse bisogno – e come si vedrà, tale bisogno c’è – la natura squisitamente ed irrinunciabilmente pastorale del processo canonico e dell’organo giudiziario in cui il processo viene celebrato, che è, appunto, il tribunale.

I sommi pontefici – nelle loro annuali allocuzioni alla Romana Rota, e non solo in quelle – lo hanno ribadito in maniera inequivocabile a partire da Pio XII – che anche per anamnesi e formazione personale e familiare era dotato di esemplare sensibilità giuridica – fino a Papa Francesco, la cui attenzione al vissuto umano, personale e familiare, alle ferite dell’esistenza, da curare con attenzione e autentica prossimità, costituisce come la cifra del suo magistero e del suo apostolico ministero.

«Perché nel vostro foro predominano le cause matrimoniali – così Pio XII nel 1940 alla S. R. Rota – il Vostro ha la gloria di essere il tribunale della famiglia cristiana umile o alta, ricca o povera»[1], cui fa eco fedele Papa Francesco nella allocuzione del 2016, allorquando afferma: «Accanto alla definizione della Rota Romana quale Tribunale della famiglia, vorrei porre in risalto l’altra prerogativa, cioè che essa è il Tribunale della verità del vincolo sacro»[2]. Mi piace qui osservare che in questa sobria indicazione di Papa Francesco è scolpita indelebilmente quella duplice tensione che deve animare ed essere sottesa alla attività giudiziaria di ogni tribunale ecclesiastico esistente ubique terrarum, segnatamente nelle cause matrimoniali: la concreta attenzione nei confronti delle famiglie, la premura a favore di chi postula il ministero della giustizia ecclesiale, che si traduce in ascolto, capacità di farsi prossimo, solerzia nell’intervenire, ecc. – il che è ben diverso da frettolosità e facile accondiscendenza…– , e parimenti il Papa ha chiarissimamente richiamato il dovere veritativo nei confronti del vincolo sacro che è indisponibile alle parti, perché ha Dio stesso come garante supremo. Ancora in questo senso, magistralmente Papa Francesco nel discorso del 2015 alla Rota: «La funzione del diritto è orientata alla salus animarum a condizione che, evitando sofismi lontani dalla carne viva delle persone in difficoltà, aiuti a stabilire la verità nel momento consensuale: se cioè fu fedele a Cristo o alla mendace mentalità mondana»[3].

Quanto alla verità del sacramento, non va dimenticato che il can. 1057, nel mentre che recepisce il principio consensualista quale espressione della libera scelta dei nubendi, evoca, altresì, una dimensione di giustizia reciproca da parte degli sposi. Il Tribunale ecclesiastico, dunque, a servizio della verità del matrimonio, è chiamato ad accertare la validità giuridica di quell’atto. Compito, quindi, autenticamente pastorale, poiché a reale servizio del matrimonio e della famiglia. «In consideranda suorum munerum natura iuris canonici peritus hoc persuasum sibi habeat – così Pio XII nel 1953 –, quemadmodum omnia quae in ecclesia sunt ita ius canonicum omnino in animarum curationem contendere»[4].

Quanto al carattere pastorale del diritto canonico, sono memorabili le parole rivolte da San Giovanni Paolo II  alla Romana Rota nel 1990, quando ammoniva, tra l’altro, che talora, in una improvvida e fuorviante contrapposizione fra diritto e pastoralità, «si dimentica […] che anche la giustizia e lo stretto diritto sono richiesti dalla Chiesa per il bene delle anime e sono pertanto realtà intrinsecamente pastorali»[5].

E con pari vigore si era espresso San Paolo VI allorquando, nel 1973, parlava, alla Rota, dell’«esercizio pastorale del potere giudiziario»[6]. «Questo ministero del giudice ecclesiastico – continuava Papa Montini – è pastorale perché viene in aiuto ai membri del popolo di Dio che si trovano in difficoltà. Il giudice per essi è il buon pastore che consola chi è stato colpito, guida chi ha errato, riconosce i diritti di chi è stato leso, calunniato o ingiustamente umiliato. L’autorità giudiziaria è così un’autorità di servizio, un servizio che consiste nell’esercizio del potere affidato da Cristo alla sua Chiesa per il bene delle anime»[7].

Ancora il Sinodo dei Vescovi del 2005, affrontando sin da allora la delicata questione dei divorziati e risposati e «auspicando che sia fatto il possibile sforzo» per venire loro incontro, – con quella delicatezza e quell’invito al  discernimento che è come  l’orizzonte tracciato dall’Amoris laetitia di Papa Francesco – alla propositio n. 40 insisteva per «assicurare il carattere pastorale […] dei tribunali ecclesiastici per le cause di nullità matrimoniale»[8]. Oppure Papa Bergoglio alla Plenaria della Segnatura Apostolica del 2013, allorquando raccomandava ad ogni operatore della giustizia ecclesiale di piegarsi verso le pecorelle smarrite e ferite, così facendosi evangelizzatore…[9]. E le citazioni potrebbero continuare. Obiter osserviamo che duole, e reca sorpresa, che da parte degli enti civili o statali competenti che si contraffacciano con la CEI, si neghi o si metta in discussione il contributo finanziario proveniente dall’8 per mille dell’IRPEF per i tribunali ecclesiastici poiché – incredibilmente si sostiene – estranei alla cura delle anime e al ministero pastorale!

 

2. Il processo tra positivismo giuridico ed aequitas

 

Ma poniamoci una domanda parimenti semplice e radicale o fondamentale: come deve agire il tribunale ecclesiastico – che è come dire il giudice ecclesiastico – per essere al servizio del matrimonio e della famiglia? Vale a dire per esprimere la natura e il fine pastorale del proprio agire? La risposta è molto semplice: fermo restando quel che la deontologia gli impone, e ricordiamo di passaggio esser la deontologia giudiziaria la theologia moralis accommodata agli uffici e alle figure che entrano, quasi dramatis personae, nel dramma o in quel che Salvatore Satta definiva «il mistero del processo»[10],  il giudice ecclesiastico deve applicare – con molta diligenza e altrettanta intelligenza e lealtà istituzionale – quelle che sono le regole e le possibilità offerte dalla nuova legislazione che disciplina il processo di nullità matrimoniale, vale a dire il motu proprio Mitis Iudex di Papa Francesco.

E mi piace qui – in questo contesto variegato e autorevole di operatori e cultori del diritto canonico – affermare che l’Organo nel quale ho l’onore di svolgere il mio compito, non solo ha aderito (come era naturale e doveroso) alla riforma voluta dal Santo Padre, ma ha offerto ed offre la propria collaborazione – in ragione delle competenze che l’ordinamento gli assegna – per la sua piena e fedele attuazione. E nel Mitis Iudex sono offerti efficaci strumenti processuali nuovi, finalizzati anch’essi all’accertamento della verità sostanziale: non per ultimo, vien valorizzata figura e funzione giudiziaria propria del Vescovo diocesano, soprattutto nel processo breviore; l’introduzione del foro dell’attore quale foro di prossimità; il sensibile mutamento del can. 1678 § 1 circa le dichiarazioni delle parti; il temperamento del contraddittorio processuale in presenza di evidente nullità. E se andrà evitato un appello manifestamente dilatorio, il diritto di appellare, purtuttavia, non dovrà essere conculcato od ostracizzato. Epperò, oggi più che mai, e nello spirito della riforma di Papa Francesco, c’è un rischio dal quale il tribunale ecclesiastico che voglia essere davvero a servizio di matrimonio e famiglia deve  guardarsi, e si tratta del positivismo giuridico e delle sue secche, così come – specularmente – vi è una risorsa propria, anzi tipica dell’ordinamento canonico da valorizzare: l’aequitas.

Ciò che non autorizza ad una applicazione arbitraria, pressappochista, falsificante o dilettantesca della legge, e ciò anche in consapevole sintonia col principio di legalità, un’insopprimibile esigenza o postulato del quale richiede, appunto, l’obbedienza alla legge, cioè la c. d. «soggezione del giudice alla legge». Ebbene, già nel lontano 1949 rivolgendosi alla Rota con autentico spirito profetico, Papa Pacelli avvertiva i pericoli del positivismo giuridico e il rischio  che esso potesse – sensim sine sensu – insinuarsi  anche nell’ordinamento canonico, quindi nella mentalità e nell’attività dei tribunali ecclesiastici, con conseguenza nefaste.

È vero che il Pontefice direttamente parlava del positivismo giuridico connesso – quasi per un rapporto osmotico – con l’assolutismo di stato, la cui memoria e i cui tristissimi effetti erano attuali ed ancora sanguinanti in quegli anni, tuttavia già il semplice fatto che egli rivolgesse tale accuratissima disamina ai Giudici del suo Tribunale ordinario, qual è la Rota Romana, dimostra inequivocabilmente che egli tale pericolo avvertisse, anche se indicava nel diritto divino l’argine invalicabile e l’antidoto più efficace. Diceva il Papa: «Il semplice fatto di essere dichiarato dal potere legislativo norma obbligatoria nello Stato, preso solo e per sé, non basta a creare un vero diritto. Il “criterio del semplice fatto” vale soltanto per Colui che è l’Autore e la regola sovrana di ogni diritto, Iddio. Applicarlo al legislatore umano indistintamente e definitivamente, come se la sua legge fosse la norma suprema del diritto, è l’errore del positivismo giuridico del senso proprio e tecnico della parola; errore  che è alla base dell’assolutismo di stato e che equivale ad una deificazione dello stato medesimo»[11]. Nel 1947, parlando alla Rota, lo stesso Pontefice aveva ammonito: «la potestà giudiziaria non cadrà mai nella rigidezza e nella immobilità, a cui istituti puramente terreni, per il timore della responsabilità, o per indolenza, o anche per una male intesa cura di tutelare il bene, certamente alto, della sicurezza del diritto, vanno facilmente soggetti»[12]. Nel 1998, rivolgendosi alla Rota, Giovanni Paolo II insisteva «sulla necessità che nessuna norma processuale, meramente formale, debba rappresentare un ostacolo alla soluzione in carità ed equità», riprovando nel giudice «uno stato di inerzia intellettuale, per cui della persona oggetto dei giudicati si abbia una concezione avulsa dalla realtà storica ed antropologica»[13]. In altri termini, non si può far del diritto una rete di procedure seppur preziose, o una pura forma separata dai suoi contenuti sostanziali.

Un grande, credo insuperato, autore della scienza giuridica dello scorso secolo, quale Francesco Carnelutti, aveva avvertito il rischio che diritto e legge finissero per il confondersi e quest’ultima prevalesse sul diritto e fosse considerata siccome avulsa dagli atti degli uomini, che la violano, l’applicano, l’hanno formulata, e quindi che le persone finiscano con lo scomparire dal campo visivo del giurista – peggio se del giudice – tutto occupato dalla legge in sé, che si identifica e si esaurisce nel documento, nella norma scritta ossia nelle formule nelle parole che la esprimono, e niente altro[14]. In altri termini: positivismo, che vuol dire formalismo, cioè normativismo, nominalismo quindi per cui la legge  coincide e si esaurisce nella norma scritta, cioè nella formula e nelle parole che la esprimono: quei «cancelli delle parole»[15], o «il salvagente della forma»[16] secondo le fulminanti definizioni di Natalino Irti. Se tutto si riduce alle parole (questo infatti è il significato del nominalismo) basta cambiare o sostituire queste, che l’esito, anzi la deriva verso il nichilismo risulta inevitabile: Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus[17]; e da siffatto rischio non è esente – anzi! – neanche l’esercizio del sindacato di legittimità proprio della giustizia amministrativa. Donde la pretesa, parossistica, che le leggi non dovessero essere interpretate, ma che bastasse lo ius imperii, l’imperativo categorico dell’ordine formulato, di kantiana e poi kelseniana memoria. Ma l’interpretazione – come ogni cultore del diritto sa – è necessaria, costitutiva, strutturale: ecco lo ius rationis, che si affianca allo ius imperii e nel mentre che lo tempera, lo completa. Ne completa cioè le fatali, inevitabili lacune: poiché «la legge – scrive Carnelutti – è assomigliata ad una rete che ha delle maglie troppo larghe, attraverso le quali sfuggono i casi, i quali per evitare la guerra, debbono pur essere regolati»[18]. Ma non tutto il diritto è nelle leggi, e le leggi positive devono trovare la loro fondazione nel diritto naturalee finanche quest’ultimo non gode di un primato astratto e quasi autoreferenziale, ma riporta pur sempre alla verità della persona umana, in grazia della quale ogni diritto è stato stabilito: «la centralità della persona umana nel diritto – ha rammentato infatti S. Giovanni Paolo II – è espressa efficacemente dall’aforisma classico: Hominum causa omne ius constitutum est. Ciò equivale a dire che il diritto è tale se e nella misura in cui pone a suo fondamento l’uomo nella sua verità»[19].

A ragione Francesco D’Agostino evidenzia che questo principio guida è solidamente presente anche nella colossale opera legislativa del Pontefice polacco, in cui «la centralità dell’uomo è palese e ben percepibile, perché è proprio del diritto in generale – del diritto canonico come di quello civile – il riferimento all’uomo. Un riferimento che, se volessimo giocare sul paradosso, si manifesterebbe perfino in eventuali leggi ingiuste, dato che solo utilizzando l’esperienza umana come esperienza paradigmatica del diritto, è possibile valutare, qualificare, tutelare, promuovere le norme giuridiche, così come, se questo fosse il caso, combatterle e cancellarle»[20]. È, peraltro, un antropocentrismo certamente non di marca immanentistica, ma che trapassa del tutto naturalmente in una visione cristocentrica del diritto, come di ogni altra branca del sapere e dell’operare della Chiesa. Osserva al riguardo Libero Gerosa che Giovanni Paolo II ebbe chiaro che l’aggiornamento di ispirazione conciliare fosse «qualche cosa che proviene dal profondo della Chiesa e non da un superficiale adattamento ai gusti della società contemporanea», e che egli si prefisse, trovando una sintesi nella fase più matura del suo pontificato, di «porre le basi solide per un nuovo linguaggio, pastorale e giuridico, grazie al quale ricentrare tutto in Cristo, persino la riforma della struttura giuridica della Chiesa»[21], imponente opera da lui portata avanti efficacemente nei lunghi anni di pontificato.

Per riprendere il filo dell’argomentazione: non si può, detto in altri termini – e lo postula appunto la dignità della persona umana al servizio della quale il diritto, ogni diritto, esiste –, subordinare la giustizia alla legge. Il giudice ecclesiastico non può e non deve dimenticare che il diritto va oltre la legge, anche se questo diritto che oltrepassa la legge è un diritto che non sempre si coglie in maniera immediata e diretta, perché al giudice che deve giudicare – e non produrre un geometrico astratto sillogismo, pur con tutte le cautele e garanzie che l’esigenza della certezza giuridica postula – al giudice parla la sua coscienza, anzi è da essa orientato.

Ecco, allora, giungere al giudice il sussidio della equità, che, come è stato scritto icasticamente, è la giustizia del caso singolo, del caso concreto, dopo accuratissimo discernimento, senza che ciò significhi adesione alla cosiddetta etica della situazione, come taluno forse troppo allarmisticamente paventa. «Equidem justa causa non abstracte et doctrinaliter aestimanda est sed practice in adjunctis peculiaribus facti et personarum, in certo casu...» aveva già scritto magistralmente il cardinale Michele Lega, primo Decano della Rota ricostituita da San Pio X e collaboratore del Gasparri nella codificazione del 1917, nel commento al decreto Catholica doctrina del 7 maggio 1923 sulla procedura di dispensa super rato, facendo leva sul concetto di proporzione e così implicitamente (o forse involontariamente, ma certo a proposito) riecheggiando la bella definizione dantesca di diritto come «realis ac personalis hominis ad hominem proportio»[22]. Invero «il giudice è un uomo che applica ad un uomo determinato una legge fatta per gli uomini»[23], ebbe ad affermare, ancora negli anni cinquanta dello scorso secolo, Monsignor André Jullien, all’epoca Decano della Rota e poi cardinale, riecheggiando la celebre Decretale Ex parte di Onorio III che impone al giudice di integrare lo jus conditum, se del caso, «aequitate servata, semper in humaniorem partem declinando, secundum quod personas et causas, loca et tempora videris postulare» (Liber Extra 1, 36, 11).

«Equità – afferma Paolo Grossi – è lettura obiettiva delle cose, cioè della situazione concreta in cui una singola persona umana, il singolo homo viator, con il suo carico di fragilità si dibatte e combatte la propria vicenda terrena, situazione al di sopra e al di fuori della quale non ci sarebbe giustizia»[24]. «Non vi è – e non vi può essere – all’interno della Chiesa Romana il culto positivistico di ogni norma – è ancora Grossi che così ragiona – che è ancor oggi opprimente almeno nei Paesi di “Civil Law” […]. La norma canonica dello “jus humanum” non può che essere plastica, assecondandosi alle circostanze specifiche e particolari in cui un atto viene compiuto e che lo qualificano intensamente sia sul piano etico che su quello giuridico»[25]. In altre parole, la situazione giuridica che l’ordinamento intende tutelare – anche e, ripeto, direi soprattutto nell’ambito della giustizia amministrativa – non può esclusivamente esser determinata in astratto entro rigide pareti normative, ma va di volta in volta accertata tenendo conto delle circostanze che delineano la fattispecie concreta[26].  E sull’aequitas canonica quale anima del tribunale e del giudice ecclesiastico, parole indimenticabili ebbe a pronunciare San Paolo VI nel 1973 in un discorso – già sopra citato – ai Prelati Uditori, un discorso che – al di là di un prezioso commento in elegante latino, pubblicato su Periodica da Monsignor Innocenzo Parisella[27] e di un successivo saggio del Cardinale M. F. Pompedda[28] – non credo che abbia ricevuto tutta l’attenzione che meritava da parte degli studiosi e degli operatori del diritto canonico. Sentiamone qualche passaggio più significativo: «L’equità rappresenta una delle più alte aspirazioni dell’uomo. Se la vita sociale impone le determinazioni della legge umana, tuttavia le sue norme, inevitabilmente generali ed astratte, non possono prevedere le circostanze concrete nelle quali le leggi verranno applicate. Di fronte a questo problema, il diritto ha cercato di emendare, di rettificare e di correggere il rigor iuris; e ciò avviene per opera dell’equità, la quale in tal modo incarna le aspirazioni umane verso una migliore giustizia. Nel diritto canonico l’aequitas, che la tradizione cristiana ricevette dalla giurisprudenza romana costituisce la qualità delle sue leggi, la norma della loro applicazione, un’attitudine di spirito ed animo che tempera il rigore del diritto. La presenza dell’aequitas, come elemento umano correttivo e fattore di equilibrio nel processo mentale che deve condurre il giudice a pronunciare la sentenza […] addolcisce il rigore del diritto e talvolta aggrava anche certe pene; in ogni caso si distingue dal puro diritto positivo, allorché questo non può tener conto delle circostanze»[29].

 

Conclusioni

 

Sinteticamente – insegna l’Ostiense – l’aequitas canonica è «iustitia dulcore misercordiae temperata». L’aequitas non è un istituto riconducibile ad un nucleo normativo preciso, ma è piuttosto uno spirito, uno principio animatore che pervade e informa di sé l’ordinamento nel suo insieme; recentemente ho avuto occasione, confezionando qualche voto su scottante materia, di far riferimento e rievocare con nostalgia il can. 2214 del Codice del 1917, che ripropone il celeberrimo e nobilissimo commonitorium del Concilio Tridentino, laddove ai vescovi si raccomanda di essere, nei confronti dei loro preti e fedeli che errano «pastores, non percussores […] si quid per humanam fragilitatem peccare contigerit […] saepe plus erga corrigendos agat benevolentia quam austeritas, plus exhortatio quam comminatio, plus caritas quam potestas». E non è senza significato – è stato finemente  notato – che nell’ultimo canone del codice vigente, come a guisa di norma di chiusura, seppur nell’ambito di specifica questione amministrativa, vale a dire la procedura di trasferimento dei parroci, dopo aver richiamato all’osservanza della legislazione vigente, si ribadisce, con l’utilizzo di perentorio e solenne ablativo assoluto, l’osservanza dell’equità canonica, «servata aequitate canonica» per il conseguimento del telos, che è la «salus animarum». «Resta immutata – prosegue il più volte citato Grossi – la diffidenza canonica di sempre per leggi e princìpi che non tengano in debito conto le circostanze particolari del caso, le quali sole possono far luce sul comportamento e sulla sua effettiva peccaminosità. Anche qui la sensibilità del giudice dovrà lasciarsi permeare dall’equità canonica, bussola orientatrice sicura»[30].

E, per concludere, il giudice canonico che affronta le cause matrimoniali, che riguardano il vissuto umano e dolente di persone e famiglie, si sforzerà di essere colui che animato dalla caritas cristiana, per usare le parole di Ivo di Chartres, «saluti proximorum consulens ad finem sacris insititutionibus debitum intervenire intendat»[31], cercherà di essere cioè colui che, come insegnava San Paolo VI, «si lascia penetrare da quel senso umano, al tempo umile e sapiente, che fa del giudice un maestro, una guida, un padre ed un amico»[32].

 

Abstract: Starting from the allocutions of the Popes, the paper shows how the marriage nullity process is a pastoral tool for pursuing the salus animarum. For this reason, in order to reach the truth, the judge is called to go away from the legal positivism which prevents the complete understanding of the affair of the parties and to make use of aequitas, an instrument to be understood as ius rationis for the correct application of the rule to the single case.

 

Keywords: canon law, aequitas, salus animarum, allocution, marriage nullity, process

*Il testo, sottoposto a double blind peer review, riproduce la relazione svolta a Napoli, al convegno dell’Associazione Canonistica Italiana, lo scorso 3 settembre 2019.

[1] Pio XII, Allocuzione alla Rota Romana del 1° ottobre 1940, in L’Osservatore Romano, 2 ottobre 1940, p. 1.

[2] Francesco, Allocuzione alla Rota Romana del 22 gennaio 2016, in AAS 108 [2016], p. 137. 

[3] Francesco, Allocuzione alla Rota Romana del 23 gennaio 2015, in AAS 107 [2015], p. 184.

[4] Pio XII, Allocuzione nel IV centenario della fondazione dell’Università Gregoriana, in AAS 45 [1953], p. 688.

[5] S. Giovanni Paolo II, Allocuzione alla Rota Romana del 18 gennaio 1990, in AAS 82 [1990], p. 873, n. 3.

[6] S. Paolo VI, Allocuzione alla Rota Romana dell’8 febbraio 1973, in AAS 65 [1973], p. 101.

[7] Ibid.

[8] XI Coetus Generalis Ordinarius Synodi Episcoporum, Elenco finale delle Proposizioni, in Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede, 22 ottobre 2005.

[9] Cf. Francesco, Allocuzione alla Plenaria del S. T. della Segnatura Apostolica dell’8 novembre 2013, in AAS 105 [2013], pp. 1152-1153.

[10] Cf. S. Satta, Il mistero del processo, Milano 19943.

[11] Pio XII, Allocuzione alla Rota Romana del 13 novembre 1949, in AAS 41 [1949], p. 606.

[12] Id., Allocuzione alla Rota Romana del 29 ottobre 1947, in AAS 39 [1947], p. 495.

[13] S. Giovanni Paolo II, Allocuzione alla Rota Romana del 17 gennaio 1998, AAS 90 [1998], pp. 784-785, nn. 5-6.

[14] Cf. F. Carnelutti, Il positivismo giuridico, in Eresie del secolo XX, Assisi 1954.

[15] N. Irti, I cancelli delle parole. Intorno a regole, principi, norme, Napoli.

[16] Id., Il salvagente della forma, Bari 2007.

[17] U. Eco, Il nome della rosa, Milano 1980.

[18] F. Carnelutti, op. cit., p. 255.

[19] S. Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Simposio su «Evangelium vitae e diritto», 24 maggio 1996, in AAS 88 [1996], p. 941, n. 4. Il Pontefice ribadì questi concetti nella Lectio magistralis tenuta in occasione del conferimento della laurea honoris causa in giurisprudenza da parte dell’Università di Roma «La Sapienza» (17 maggio 2003): cf. AAS 95 [2003], pp. 767-772.

[20] F. D’Agostino, I fondamenti antropologici ed ecclesiologici dell’attività di Giovanni Paolo II, in L. Gerosa (a cura di), Giovanni Paolo II: Legislatore della Chiesa. Fondamenti, innovazioni e aperture, Atti del Convegno di studio (Lugano 22-23 marzo 2012), LEV 2013, p. 52.

[21] L. Gerosa, La nuova ermeneutica canonistica di Giovanni Paolo II, in Id. (a cura di), Giovanni Paolo II: Legislatore della Chiesa. Fondamenti, innovazioni e aperture, cit., p. 44.

[22] Cf. De monarchia, II, V, 1.

[23] A. Jullien, Cultura cristiana nella luce di Roma, Roma 1958, p. 11.

[24] P. Grossi, Aequitas canonica tra codice e storia, in AA.VV., Famiglia e matrimonio di fronte al Sinodo. Il punto di vista dei giuristi, Milano 2015, p. 286.

[25] Id., art. cit., p. 285.

[26] Cf. G. Villanacci, Al tempo del neoformalismo giuridico, Torino 2016, p. 23

[27] Cf. I. Parisella, Quid docuerit Paulus VI de iustitiae ministerio in Ecclesia hac nostra aetate exercendo, in Periodica de re canonica 65 [1976], pp. 123-140.

[28] M. F. Pompedda, Studi di diritto processuale canonico, Milano 1995, pp. 243 ss. 

[29] S. Paolo VI, Allocuzione alla Rota Romana dell’8 febbraio 1973, cit., pp. 99-100.

[30] P. Grossi, art. cit., p. 291.

[31] P. L. 161, Paris 1889, 47 s.

[32] S. Paolo VI, Allocuzione alla Rota Romana del 25 gennaio 1966, in AAS 58 [1966], p. 153.

Sciacca Giuseppe



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