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Il riconoscimento civile dello scioglimento canonico del matrimonio non consumato e l'attuale regime pattizio: spunti per un ripensamento (in vista d'

20.02.2019

Marco Dell’Oglio

Docente di Diritto ecclesiastico all’Università degli Studi di Palermo

Fabiano Di Prima

Ricercatore di Diritto canonico ed ecclesiastico all’Università degli Studi di Palermo

 

Il riconoscimento civile dello scioglimento canonico del matrimonio non consumato e l’attuale regime pattizio: spunti per un ripensamento (in vista d’un possibile “ritorno”)*

 

The recognition of the civil effects of dispensations super rato and the current concordatarian system: reflections on a potential rethink (in view of a possibile "return")

 

Sommario: 1.1 Premessa. L’approccio a una “macro-tematica”: il dinamismo ‘politico-giuridico’ in chiave cooperativa contrassegnante la dialettica Stato/Chiesa in Italia negli ultimi anni. -  1.2. (segue) Le scelte di continuità della riforma del processo matrimoniale canonico (la saldezza ribadita del principio d’indissolubilità; la via giudiziale) riflesse in modo “peculiare” dalla “singolare” facies della procedura super rato: notazioni a margine sugli spunti “racchiusi” e “nascosti” in alcuni discorsi di Papa Francesco.  - 1.3. (segue)  L’attuale regime pattizio e la mancanza d’una previsione sul riconoscimento civile delle dispense super rato: condizionamenti ‘a monte’ e contraddizioni ‘a valle’. Un’ipotesi di studio: l’affermazione della “laicità collaborativa” (espressa e promossa dall’art. 1 Conc.) focalizza l’urgenza d’un compiuto diradamento di quei “condizionamenti”.  – 2.1 L’origine del problema: l’estensione del divorzio ai matrimoni concordatari, la ri-politicizzazione del tema (in senso opposto al verso del 1929), l’affermazione della teorica “unilateralista” del “dominio” dello Stato (mai perso) sulla regolazione del rapporto. - 2.2.  (segue)L’incidenza di questi condizionamenti politico-ideologici sui negoziati per la revisione del Concordato e sull’intervento della Consulta (sent. 18/1982): l’avallo di quest’ultima alla teorica del (pre)dominio statale sulla sfera del rapporto; il (conseguente) vaglio in senso formalistico sulla procedura super rato; l’approdo all’avviso di un’insufficiente garanzia di tutela giurisdizionale (ivi prestata). – 2.3 (segue) La persistenza del “condizionamento”: l’Accordo del 1984 e la previsione “mancante”. Il (derivante) contrasto con i cardini assiologici, la “filosofia” e la “funzionalità” del ‘nuovo Concordato’. - 3.1.  Gli spunti emergenti -appresso- nell’ordinamento canonico e in quello civile atti (sotto diversi profili) ad agevolare una focalizzazione compiuta della “specificità” delle procedure super rato (e del livello di garanzie ivi prestato).   – 3.2 (segue) l’Istruzione 20 dicembre 1986 della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti; gli apporti (indiretti) del diritto giurisprudenziale italiano. Il principio di laicità «ribadito» dalla Consulta nella sent. 421/1993: il «matrimonio» che origina «nell’ordinamento canonico e che resta disciplinato da quel diritto». – 3.3 (segue) gli apporti (indiretti e diretti) della giurisprudenza civile nella seconda metà degli anni ’90. L’evidenziazione della strada obbligata per la risoluzione del problema: una specifica disciplina bilaterale. – 3.4.   (segue) le innovazioni (ulteriormente) “chiarificatrici” sul fronte ecclesiale: in particolare, il m.p. Quaerit semper del 2011. – 3.5.  (segue) gli ultimissimi apporti della giurisprudenza costituzionale: il conclamato verso “cooperativo” della laicità italiana, promuovente regole pattizie a presidio di specifiche istanze religiose. La problematica mancata focalizzazione di questo peculiare “verso” da parte della Cassazione (in tema di delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità). – 4. Conclusioni.

 

1.1 Premessa. L’approccio a una “macro-tematica”: il dinamismo ‘politico-giuridico’ in chiave cooperativa contrassegnante la dialettica Stato/Chiesa in Italia negli ultimi anni.

Quando s’inizia ad esplorare un vasto campo d’indagine, sulla scorta d’una (o più) ipotesi di ricerca, non mancano ragioni di “economia” (di spazio, tempo, opportunità, ecc.) che inducono a concentrarsi su uno specifico settore (di quel campo), quale “campione” e/o paradigma da analizzare, alla ricerca di conferme di quella stessa ipotesi di partenza. Se, poi, a conclusione dell’indagine ci si avvede che i riscontri ottenuti vanno in questa direzione, è difficile – specie in caso d’un “robusto” riscontro - sfuggire al pensiero che qualcosa di simile sarebbe potuto accadere scrutinando altri (e diversi) settori. Così può accadere che più tardi, rileggendo quelle conclusioni, alla luce – magari - di altre sollecitazioni, quello stesso pensiero prenda “quota”, diventando un “pungolo” che spinge (prima o poi) a riprendere quell’indagine, proiettata stavolta altrove, sempre però sulla scorta dell’originaria ipotesi di studio: con l’auspicio che quei primi riscontri rappresentino – per usare un’immagine incisiva - la “traccia di un percorso ancora da compiere”[1].

Questo è quanto accaduto, di recente, a chi scrive, riguardo a uno studio di taglio ecclesiasticistico chiuso l’anno scorso[2] avente ad oggetto, per l’appunto, una vera e propria “macro-tematica”: e cioè il dinamismo ‘politico-giuridico’ in chiave cooperativa che segna sempre più, da tempo, la dialettica Stato/Chiesa in Italia. 

Riassumendo i punti chiave di questo lavoro, si assumeva anzitutto l’ipotesi di base che l’intensità montante di questo fenomeno fosse correlabile ad uno specifico dato tecnico-giuridico, e cioè al progressivo consolidamento (dal 1984 in poi) del principio cardine dell’Accordo di Villa Madama (art.1), dell’impegno delle due Parti, nel rispetto della “distinzione degli ordini” (art. 7, 1 co., Cost.) «alla reciproca collaborazione» per la «promozione dell’uomo» ed il «bene del Paese». A quest’ipotesi ‘generica’ di partenza, si giustapponeva – dopo una primissima disamina del tema - quella più specifica, che l’indicato inveramento (del principio di cui all’art.1 Conc.) avesse fatto più che sommuovere, in senso cooperativo/proattivo, la predetta dialettica interordinamentale (con immediato vantaggio per la collettività nazionale dei cittadini-fedeli); comportando altresì l’instaurarsi d’una (vera e propria) “cultura della collaborazione”, atta a mutare l’approccio seguito dalle Parti negli ambiti ove l’azione della Chiesa – esercitando «in piena libertà» la sua missione istituzionale (art.2 Conc.)[3] - “incrocia” quella statale: inducendo entrambe, pur nel rispetto delle rispettive competenze e responsabilità, ad andare anche al di là di quanto espressamente prescritto per approdare a soluzioni (quanto più possibile) condivise. Quest’ultima (più circostanziata) ipotesi veniva assunta, segnatamente, vagliando gli spunti in tal senso contenuti nei discorsi ufficiali del Santo Padre e del Presidente Mattarella, resi in occasione della “visita di restituzione” del primo al Quirinale (10 giugno 2017)[4]e prestando particolare attenzione al riferimento “implicito” fatto (da entrambi) al fronte del dopo-sisma dell’Italia centrale (del 2016). Andando a vagliare, infatti, l’articolata scansione di azioni/decisioni assunte (dalle istituzioni dei due Ordini) a presidio dell’interessato patrimonio culturale chiesastico, e – contestualmente – delle investite istanze collettive basilari (legate alla “fruizione” di quel patrimonio), si riscontrava – per l’appunto – in ciascuna di esse l’aderenza al detto “spirito” cooperativo (di cui all’art.1 Conc.), in un clima di sintonia che produceva per l’appunto non solo una sommatoria di “contegni necessitati” (dettati, cioè, dal mero ossequio alle disposizioni), ma un’azione in concerto, rilevante anche sul piano giuridico, decisiva per raggiungere – come nel caso - obiettivi che da soli i due Ordinamenti non apparivano in grado di conseguire autonomamente[5].

Andava considerato, tuttavia, nell’economia dell’analisi sino a lì condotta, il “peso” che in questo primo riscontro ‘positivo’ (della crucialità dell’inveramento del principio di collaborazione) poteva avere avuto la presenza, tra le norme tenute presenti (nell’occasione) dalle competenti autorità, dell’unica direttrice del “nuovo” Accordo, i.e. l’art.12, I co. ove trova puntuale applicazione proprio l’impegno alla collaborazione (verso il “bene del Paese”) di cui all’art.1 Conc. (ivi declinato – congruamente – verso il presidio di tutto il patrimonio culturale nazionale). Da qui, l’idea - sorta pensando al “riferimento identitario/simbolico” proprio di talune componenti del detto patrimonio chiesastico – di prendere a quel punto, a “campione” (dell’indagine) le vicende giuridiche salienti delle fabbricerie, peculiari istituzioni da secoli in connessione con la Chiesa, ‘sovrintendenti’ alla conservazione (e al presidio) di illustri edifici ecclesiastici; e ciò per il loro essere paradigma dell’incontro “dinamico” tra i due Ordini, gravitando – non solo per le loro finalità - anche nell’ordine statale. Ebbene, anche in questo caso lo scrutinio dava un esito positivo, dato dal riscontro di cospicui benefici derivanti dal consolidamento della summenzionata “super-regola” pattizia (della collaborazione): nello specifico, ricavabili dal diradamento progressivo delle “opacità” e dei fraintendimenti e/o pregiudizi ideologici che hanno connotato (la considerazione ‘a monte’ e quindi) il trattamento giuridico di questa tipologia di enti (già storicamente, e) appresso alla Conciliazione, con incidenze avvertibili ancora quando – nell’’85 – si adotta, in sede pattizia, la legge sugli enti ecclesiastici; e ciò per via di sviluppi, anche a livello giurisprudenziale, in entrambi gli ordinamenti, che hanno fatto emergere una più nitida “fisionomia” normativa, figurante i suoi tratti peculiari (non come incongruità, ma anzi) quali manifestazioni di quella “collaborazione effettivamente ricercata”, figlia del (fiducioso) «nuovo modo di guardarsi» rispecchiato nell’art.1 Conc[6]. A corroborare, in conclusione dell’indagine, l’evidenza di quest’ultimo dato, stava soprattutto – per l’appunto - il confronto con l’assetto ben diverso delineatosi nel 1929: con una ricerca di collaborazione da parte del Regime solo declamata[7]; con un’effettiva tensione a comprimere gli ambiti d’azione di realtà altre da esso, in nome dell’«esclusivismo sovrano» dello Stato[8]; con una conseguente strumentalizzazione/politicizzazione del ‘religioso’ cui è estranea, in effetti, sia l’idea d’un “bene comune” (quale “orizzonte” del Concordato) sia il riguardo per le istanze altre, comprese le religiose; e, infine, con un clima di reciproca diffidenza, ove l’approccio governativoalla regolazione delle singole materie risponde, in effetti, alla sola logica del compromesso (ossia concedendo “qualcosa” alla Chiesa, che dica, comunque, d’una attenuazione dei rigorismi della stagione liberale). Così, mentre viene concesso ‘tanto’, nel caso di materie reputate dalla Santa Sede d’essenziale importanza, come ad es. nel caso del matrimonio,  viene concesso molto meno in altri versanti ove ex parte Ecclesiae s’aprono margini di negoziabilità, come quello degli enti ecclesiastici, avendo la meglio l’impulso “esclusivista” del Regime, nel rigettare (l’idea di mostrare riguardo verso un potere “paritetico”, e le sue specificità, e dunque) l’opzione di stendere un regime ad hoc davvero sottratto al diritto comune. Ma può anche non esser concesso alcunché – o quasi – quando su quegli stessi fronti fanno leva più specifiche tendenze “esclusiviste”, come, ad es., quella alla politicizzazione della cultura, che, nel caso dei beni storico-artistici d’interesse religioso, porta a ignorare (ideologicamente) tale interesse– e così l’evidenza d’un campo ove l’accordo è necessario – rendendo il Concordato del ’29, a differenza dell’attuale, privo di una pertinente (adeguata) previsione[9]

 

1.2. (segue) Le scelte di continuità della riforma del processo matrimoniale canonico (la saldezza ribadita del principio d’indissolubilità; la via giudiziale) riflesse in modo “peculiare” dalla “singolare” facies della procedura super rato: notazioni a margine sugli spunti “racchiusi” e “nascosti” in alcuni discorsi di Papa Francesco.

 

Orbene, all’incirca un anno fa – per l’esattezza, il 25 novembre - mentre si rileggevano questi rilievi, sopraggiungeva una sollecitazione nel senso predetto (atta cioè a individuare un nuovo settore da vagliare alla ricerca di ulteriori conferme), originata – a monte - ancora dalla lettura d’un discorso di Papa Francesco, (il cui testo veniva) pubblicato quel giorno dalla Sala Stampa della Santa Sede[10]. In particolare, l’attenzione s’appuntava sul particolare incedere di questo (discorso) che, seppur rivolto ai partecipanti d’un corso (promosso dalla Rota Romana) sul “nuovo processo matrimoniale e la procedura Super Rato”, cessava praticamente quasi subito di far riferimento a quest’ultima, imperniandosi, a seguire, esclusivamente sulla disamina del primo[11]. Come rimarcato dal Papa, infatti, seguitava (e seguita, invero) a porsi la necessità di riservare “grande attenzione e adeguata analisi” alla legge di riforma del 2015[12], avente ad oggetto – per l’appunto – i processi di nullità del matrimonio[13]. Cosa che induceva il Pontefice, nell’occasione, a rendere una serie di “definitive” puntualizzazioni, deputate – espressamente - a favorire un’applicazione della riforma conforme al suo obiettivo precipuo, i.e. la “salus animarum” dei fedeli “feriti nella loro situazione matrimoniale”; e -implicitamente – a delineare con nettezza i margini per un’applicazione davvero fedele, al contempo, alle linee conduttrici della riforma, riassumibili in tre fronti d’urgenza: semplificare e rendere celeri le procedure; implementare la prossimità pastorale e l’economicità; sottolineare la crucialità del ruolo del Vescovo[14]. L’occorrenza della stesura di queste importanti precisazioni, tacitava, inizialmente, la curiosità ‘a margine’ (di chi scrive) per (l’esito del descritto incedere, e cioè) l’assenza nel discorso, anche così incentrato (sulla riforma), d’un fuggevole rilievo ad hoc sull’altra speciale procedura (oggetto del suddetto corso), ossia quella per lo scioglimento del matrimonio rato e non consumato. E questo perché, seppure proprio la riforma del 2015 offriva uno spunto in tal senso, qual è la modificazione apportata – come si vedrà meglio infra[15] – alla disposizione sul passaggio dal processo di nullità alla procedura in parola (can. 1678, par.4); d’altra parte, (è altrettanto vero che) focalizzandosi l’intervento pontificio sul tema (delicato) dell’inveramento (nel quotidiano dell’agire ecclesiale) d’una “reforma de fondo, que afecta al sentido y espíritu” del processo matrimoniale[16] (con i conseguenti, inevitabili, problemi di “metabolizzazione”[17]) il “focus” dell’attenzione ben poteva (comprensibilmente) essere, da questo stesso tema, integralmente ‘catturato’.

Sennonché quella stessa (iniziale) curiosità si ridestava, dopo che a un rapido vaglio effettuato sui discorsi tenuti (dal Santo Padre) a conclusione di (due) consimili iniziative promosse in precedenza dalla Rota - una delle quali, peraltro, incentrata esclusivamente sulla procedura ‘Super Rato’[18] - emergeva che anche allora erano mancate (an)notazioni specifiche su quest’ultima, dandosi un’esposizione parimenti concentrata sulle urgenze alla base della riforma: salvo l’inciso – rinvenibile in uno degli indicati discorsi - sul fatto che la riforma valorizza ulteriormente il ruolo del Vescovo, posto l’accertamento da questo già operato “per via amministrativarato e non consumato[19]. Ma proprio quell’isolato riferimento fatto incidenter tantum all’indole amministrativa dell’indicata (peculiare) procedura, forniva un indizio verso la sussistenza d’una ragione (diversa e) più profonda alla base dell’impostazione scelta da Papa Francesco per stendere i riferiti discorsi. Sembrava cioè che, dietro quel “silenzio” su una procedura - ancorché peculiare – per lo scioglimento del matrimonio, vieppiù dall’impronta amministrativa, stesse un’accorta “strategia” di comunicazione del Pontefice[20], mirata ad azzerare riferimenti che avrebbero potuto ingenerare (di riflesso) perplessità -nell’’arena mediatica’- rispetto alla “effettività” delle scelte di continuità” della riforma[21], mirate non a favorire le nullità, bensì a favorirne l’accertamento e la ricerca, e perciò a “potenziare” lo strumento della dichiarazione di nullità[22] a pro di quanti sperimentano “il dramma del fallimento coniugale[23]ribadendo con forza – sta qui il punto delicato - (‘a monte’) la saldezza del principio dell'indissolubilità[24], e (‘a valle’) la “via giudiziale[25], per accertare la «verità»sull’esistenza del vincolo[26].

Un’opzione “strategica”, questa, (probabilmente) assunta tenendo presente la trepidazione emersa, segnatamente, durante i lavori sinodali (“coevi” alla riforma) per la possibilità che il detto “potenziamento” “aliment[asse] l’idea di un [insorgente] divorzio cattolico[27] – ma soprattutto, poi, in considerazione di talune “infelici”/fuorvianti interpretazioni affiorate nella pubblicistica all’indomani della riforma. E che si risolve (questa medesima “opzione”) nell’omettere rimandi a un processo, come quello “Super Rato”, che può chiudersi con lo scioglimento d’un matrimonio[28]: pur nella piena consapevolezza che detto processo col “divorzio” come inteso civilisticamente ha davvero ben poco a che vedere (già solo per la proiezione esclusiva di quest’ultimo verso un “benessere terreno”, ove il primo ‘guarda’ anzitutto al “destino eterno dell’uomo”[29]); e che anzi si tratta d’una “specificità” canonistica che nella sua eccezionalità conferma (per così dire, la “regola”, ossia) i detti cardini (indissolubilità; “via” giudiziale) del processo matrimoniale (di nullità) “conservati” dalla riforma.

Come è facile dedurre, infatti, dai rilievi posti da una delle voci dell’(allora operativa) “cabina di regia tecnica” della riforma (i.e. la Commissione speciale di studio[30]istituita da Papa Francesco[31]), è senz’altro ben presente il dato che l’eccezionale “fisionomia”della procedura super rato, che contempla la necessità di fornire una risposta calibrata/ad hoc ad una specifica urgenza canonisticamente rilevante (un “nodo coniugale” privo d’attuazione carnale, e perciò della “piena perfezione”, ove splende “per volontà di Dio la massima fermezza e indissolubilità[32]), deriva essenzialmente dal modo in cui questa risposta viene, nel caso, fornita (i.e. mediante l’eventuale “spendita” d’una specialissima prerogativa del Pontefice); risultando, pertanto, la procedura (senz’altro) congruente con l’economia (processual-) matrimoniale del diritto canonico, al punto da finire - ancorché in un modo “peculiare” e poco evidente per i non ‘addetti ai lavori’ - col “rispecchiarla”.

In particolare, da una parte, quanto alla prima apparente “distonia” della procedura, quella voce viene (infatti) a segnalare l’imprecisione della “comune considerazione” per cui la procedura è amministrativa ‘a tutto tondo’, posto che tale impronta la connota (sì ma essenzialmente) perché il suo “provvedimento conclusivo non è una sentenza”, “cioè un accertamento [d’una] situazione di fatto, ma la concessione di una grazia”, (determinante lo scioglimento in parola) da parte del Pontefice, nell’esercizio discrezionale d’una peculiare potestas (derivante dalla specialissima sua posizione di vicarius Christi[33]): così che quest’ultimo non è tenuto a concedere lo scioglimento, anche se risult[i] con certezza” – appresso al vaglio procedurale - l’inconsumazione[34]. E a riprova di questa indole amministrativa solo “relativa” – seguita l’A. – vale l’osservazione che “il procedimento …super rato presenta molte caratteristiche del processo giudiziale, soprattutto nella fase istruttoria che si svolge presso le diocesi”; e che se pure “ufficialmente non è prevista la prevista la presenza degli avvocati, …di fatto vi è pur sempre un consulente che segue ed indirizza le parti”[35]. D’altra parte, quanto alla seconda apparente “distonia”, i.e. quella col principio d’indissolubilità, vale il richiamo operato da questa stessa voce dottrinale ad un’allocuzione del 2002 di San Giovanni Paolo II[36], in un passaggio della quale è chiarito che al contrario i processi super rato sono senz’altro connotati, come quelli che sanciscono la “nullità matrimoniale”, dall’urgenza di difendere quello stesso basilare principio, quale connotazione che contraddistingue la specificità dell’interaattività giudiziaria ecclesiale”: così che vale, segnatamente, per entrambi gli 'ambiti’ il monito“di non arrendersi alla mentalità divorzistica[37]. Una citazione, questa, che giova a rimarcare come anche nei processi super rato, per l’appunto, resta ferma la difesa del bene/valore dell’indissolubilità, e questo perché - come sottolineato dalla suddetta voce dottrinale - da una parte, in essi si pone, prima di tutto l’obiettivo ‘procedurale’ di sgombrare il campo dal dubbio che il matrimonio (oggetto del vaglio) non abbia raggiunto quella “pienezza di significato” che ne fa simbolo dell’imperituro amore di Cristo per la sua Chiesa[38]; e, dall’altra, anche quando si appuri che così in effetti non è (per via dell’inconsumazione), serve anche che si riscontri (la sussistenza d’una) giusta causa, ossia una “ragione che giustifichi siffatta deroga” ad un così capitale principio[39]

Alla luce degli indicati rilievi, ben presenti alla mens riformatrice, appariva dunque verosimile che, dietro il silenzio tenuto dal Papa – nelle anzidette circostanze - sulla procedura super rato, stesse (probabilmente) la scelta di scongiurare in apicibus malintesi riguardo alla ‘effettività’ della scelta di ribadire – come detto – il carattere giudiziario del processo matrimoniale, e la sua vocazione alla salvaguardia del principio d’indissolubilità: una ricostruzione, questa, resa ancor più verosimile dal dato (rimarcato proprio dalla voce dottrinale presente in Commissione, qualche anno prima di assumere detto gravoso impegno) che nei Sacri Palazzi si è soliti tenere un ‘prudenziale’ riserbo rispetto alle procedure super rato[40], appunto per via del “timore” dell’ingenerarsi di cattive interpretazioni e al conseguente insinuarsi dell’idea “che anche la Chiesa, nonostante la strenua difesa del principio dell’indissolubilità, finisca in pratica per ammettere il divorzio”[41].

E non è tutto. Perché, a ben vedere – laddove non si fosse data l’opzione “strategica” in commento (quella cioè presumibilmente adottata dal Papa nell’omettere rimandi alle procedure super rato) -  sarebbero potuti sorgere inopportuni malintesi anche rispetto alle linee conduttrici della riforma in parola assunte (nel 2015) “nel segno dell’innovazione”. Nel senso che, come osservato in dottrina all’indomani della promulgazione del vigente Codex (1983), la disciplina del processo per lo scioglimento del matrimonio non consumato, nel rispecchiare sotto diversi profili lo spirito degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, appare già allora connotata dall’intento (d’implementare la “dimensione pastorale”, e) di ricercare il più possibile la strada della semplicità e della celerità[42]. Il che avrebbe potuto suggerire, a chi (nell’arena mediatica) non abbia bastevole contezza della materia, “equazioni” affrettate e conclusioni fallaci del tipo appena visto (quelle cioè che paventano la “mutazione”, dopo la riforma del 2015, delle cause di nullità in un inusitato, ‘sollecito’ rimedio “simil-divorzile”): conclusioni cui è – per il vero – improbabile arrivare se già solo si consideri la persistente, macroscopica differenza sussistente tra le due tipologie di processi, a partire da quella più evidente, recando l’uno (i.e. il processo matrimoniale) – come detto - natura propriamente giudiziaria, giacchè mirato all’accertamento della validità d’un atto costitutivo d’uno status[43]; e l’altro – quello ‘super rato’ - natura essenzialmente amministrativa, ancorché dotato di formalità e garanzie d’impronta giudiziaria, muovendo dalla richiesta di ottenere una grazia: quella, per l’appunto, “della dispensa dal matrimonio” inconsumato[44]. Ma il vero è che, purtroppo tra i non addetti ai lavori, può di base talvolta apparire sfocata finanche la differenza concettuale tra nullità e scioglimento, per cui il primo rimanda a un’invalidità originaria dell’atto (che laddove accertata conduce a un provvedimento dichiarativo); e il secondo, invece, a una ‘disfunzione’ del rapporto (che implica l’adozione eventuale d’un provvedimento con effetti costitutivi, ex nunc). Mentre, nella prospettiva consapevole del cultore, è agevole individuare il tema saliente che sta sullo sfondo rispetto al punto in questione, connesso al peculiare declinarsi dell’esperienza giuridica nella Chiesa: e cioè (il fatto) che il codificatore postconciliare, già consapevole dell’urgenza di inverare gli insegnamenti del Vaticano II, considera il Codex come “una legislazione programmaticamente aperta al continuo rinnovamento della vita ecclesiale”[45], pronta – per mutuare le parole di San Giovanni Paolo II - ad “adegua[rsi] e rispecchia[re di volta in volta] la nuova temperie spirituale e pastorale”, ispirandosi “sempre più e sempre meglio (...) alla legge-comandamento della carità”[46]; talché non può sorprendere che rispetto all’ambito processual-matrimoniale da quello stesso Codex regolato, si sia manifestata – giusta la riforma del 2015 - la propensione a dar (ancora maggiore) seguito allo specifico insegnamento conciliare per cui la Chiesa deve incarnarsi, come Cristo, nella realtà del mondo, sovvenendo (quanto più e quanto meglio può) alle fragilità dell’uomo[47]: e dunque riformando – per l’appunto - il processo di nullità matrimoniale per accentuarne la “snellezza”, l’agilità e la prossimità pastorale, ma come “innovazione nella tradizione”[48].

Un consapevole discernimento, quello che porta a visualizzare quest’ultimo aspetto, che invece – per l’appunto - può facilmente latitare, quando il tutto passa attraverso il “filtro” della comunicazione mediatica. Potendosi dare, in altri termini, un esito interpretativo ‘infelicissimo’, del tipo registrato dai padri della Civiltà cattolica già all’inizio degli anni ’70, quando, appresso alle prime innovazioni apportate alla procedura super rato - giusta l’Istruzione del 7 marzo 1972, dunque ‘a Codice invariato’ – già per secondare le nuove esigenze pastorali del Vaticano II - si dava conto dell’inquadramento di “certi commentatori di organi di stampa…talmente fuori strada” rispetto alla “natura e la finalità del documento”, da palesarsi “grossolanamente male informati fino alla deformazione, come quando, ad es., hanno voluto vedervi una corsa ai ripari contro il divorzio in Italia[49] (con la sommessa osservazione che quella “deformazione” lasciava perlomeno il dubbio che i commentatori avessero comunque -ancora – contezza della distinzione tra nullità e scioglimento).

Le diverse annotazioni sin qui stese, e in particolare quelle particolarmente “frustranti” appena riportate, se confermavano, da ultimo (ancora una volta) l’opportunità del silenzio tenuto da Papa Francesco sulla procedura super rato – e a fortiori, dello spazio lasciato viceversa alle precisazioni utili a una retta comprensione (del senso e delle finalità) della riforma (del processo di nullità matrimoniale) - corroboravano al contempo la convinzione che – stando diversamente le cose - non sarebbero mancati spunti al Pontefice per marcare i tratti specifici di quella stessa procedura e la sua (altrettanto particolare) congruenza con l’economia (processual-)matrimoniale canonistica, (vieppiù come) ‘ravvivata’, appresso alla riforma, dalla (descritta) ‘incrementata’ affinità dei criteri-guida d’ispirazione conciliare, rispettivamente assunti (dai due regimi processuali) onde meglio sovvenire al benessere spirituale dei fedeli/figli della “Santa Chiesa”[50]. Rilievi, questi, ai quali si sarebbe potuta soggiungere -ad es. - l’importante notazione ‘pratica’ che le ipotesi di scioglimento (ancorché numericamente incomparabili con le nullità matrimoniali) si sono “notevolmente intensificate in questi ultimi anni”, riaffermandosi così quale strumento d’intervento ecclesiale “tutt’altro che trascurabile…per aiutare i fedeli vittime di una infelice vicenda coniugale”[51].

  

1.3. (segue)  L’attuale regime pattizio e la mancanza d’una previsione sul riconoscimento civile delle dispense “super rato”: condizionamenti ‘a monte’ e contraddizioni ‘a valle’. Un’ipotesi di studio: l’affermazione della “laicità collaborativa” (espressa e promossa dall’art. 1 Conc.) focalizza l’urgenza d’un compiuto diradamento di quei “condizionamenti”.

 

Ponendo mente a detti spunti, da una parte, e riflettendo, dall’altra, sulla (amara) citazione (della Civ.Cattolica) supra riportata, evocativa delle ‘fratture’ (tra Stato e Chiesa; tra società civile e religiosa) prodottesi in Italia con l’introduzione d’una legge divorzile (n. 898/70) che investe anche i c.d. matrimoni concordatari, emergeva in tutto il suo profondo rilievo - la problematica evocata in apertura di lavoro, che appariva meritevole d’una disamina ad hoc, nel senso predetto.

Si è a dire, cioè del sacrificio patito – da lì a poco - dalla Chiesa (e di riflesso dai cives-fideles) anzitutto in vista della “ricomposizione” di quelle fratture, nel lasciare che il Concordato revisionato (nel 1984) risultasse, com’è tuttora, privo della previsione conferente (dal ’29) rilievo giuridico civile al provvedimento pontificio di scioglimento de qua.

Un sacrificio, questo, il cui (gravoso) peso s’avvertiva già nel ’79, ossia a metà del percorso di revisione (bilaterale) che avrebbe portato alla stipula dell’Accordo di Villa Madama, quando per la prima volta una delle “bozze” che segnano il procedere di quei negoziati non contempla(va) più la previsione in parola. Un’assenza sorprendente, che diceva da subito d’una sofferta risoluzione della delegazione vaticana, presumibilmente dovuta – come si vedrà meglio infra – all’approccio tenuto dalla controparte statale rispetto alla definizione della regolazione pattizia della materia matrimoniale. E in particolare, in premessa, alla (probabile) presa d’atto che questa stessa controparte dava per assodata la teorica giuridicamente fallace sostenuta (all’incirca) dieci anni prima dal fronte divorzista (e che è all’origine delle anzidette fratture tra i due Ordini), secondo la quale anche dopo le ampissime concessioni in materia operate (nel ’29) ex parte Status in sede concordataria (e segnatamente, il riconoscimento integrale del matrimonio canonico, con tutte le sue connotazioni essenziali, tra le quali quella dell’indissolubilità; e la rinuncia alla giurisdizione su di esso a pro della giurisdizione ecclesiastica), lo Stato aveva comunque mantenuto la competenza sulla “disciplina del vincolo"; e in secondo luogo, alla conseguente (altrettanto probabile) presa d’atto che per questo motivo - figurando questa stessa teorica una ripartizione rigida di competenze (la Chiesa, sull’atto matrimoniale; lo Stato, sull’insorgente rapporto) - quella medesima controparte veniva a guardare al riconoscimento di un’ipotesi di scioglimento prevista (non dal diritto statuale, bensì) dal diritto canonico, come una “invasione di campo” difficilmente tollerabile. Dandosi così un presumibile scenario che conduceva la delegazione vaticana, per l’appunto nello sforzo di comporre “assunti tra loro” ancora “contrastanti”[52], e onde placare più cospicue brame della controparte statale (ideologicamente informate al “recupero della sovranità”, finanche sulla “sfera dell’atto”), a lasciare cadere, obtorto collo, l’efficacia civile della dispensa per inconsumazione, così secondando un primo (informale) disconoscimento ex parte Status della rilevanza d’una (plurisecolare) specificità dell’ordinamento canonico, e del suo peculiare declinarsi ‘accanto’ alle cause matrimoniali.

Ma il peso di questo sacrificio si avvertiva ancor di più un lustro più tardi, quando le Alte Parti siglavano (il 18 febbraio 1984) l’Accordo di modificazione del Concordato Lateranense. Ed oltre che per il fatto lampante che il relativo testo rimaneva (riguardo alla materia matrimoniale) “mutilo”[53] nel senso predetto (contemplandosi in esso la delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale (art.8) ma non parlandosi più d’effetti civili per le dispense pontificie da matrimonio rato e non consumato); anche per la circostanza che si veniva così a dare una (percezione di) rispondenza a quanto (d’inappagante[54] e severissimo[55]) deciso dalla Consulta due anni prima, con la sent. 18/1982, e cioè che la previsione (lateranense sulla dispensa pontificia super rato) era comunque da reputarsi costituzionalmente illegittima, per il rilievo dato a un provvedimento assunto al termine d’un procedimento non idoneo a garantire il “principio supremo” del diritto alla tutela giurisdizionale, nemmeno considerando quest’ultima “nel suo nucleo più ristretto ed essenziale” (quando il vero è che questa specifica decisione – come si avrà modo di vedere meglio infra - risultava frutto d’un vaglio condotto essenzialmente in senso formalistico, in ragione, eminentemente, del gravante condizionamento politico-ideologico che pesava sulla Consulta, e cioè quello di dovere secondare l’anzidetta teorica (ideologicamente “forte”, ma giuridicamente “debole”, all’origine dello strappo del 1970) che proprio la stessa Consulta aveva avallato dieci anni prima (con la pronuncia 169/1971 sulla legge divorzile), per cui compete esclusivamente allo Stato la regolazione del vincolo, in termini sostanziali e processuali, anche laddove si tratti di matrimoni canonici trascritti).

Con alcuni esiti paradossali che si venivano a dare, per via di quest’espunzione, come il fatto che nel testo del Protocollo Addizionale dell’Accordo di Villa Madama ricorreva, e tuttora ricorre, una clausola che indica la necessità di «tener conto della «specificità del diritto canonico» che regola «il vincolo matrimoniale» (art. 4, lett. b)[56]: una clausola che (valicando la mera rilevanza processuale, a pro del giudice italiano chiamato a delibare le sentenze canoniche, invece) fungeva già allora (e seguita a fungere) da “indirizzo interpretativo cogente” che segnala la volontà delle Parti di riconoscere effetti civili ai matrimoni “contratti” secondo le norme canoniche, e quella implicita/conseguenziale di garantire “l’ordinaria apertura dell’ordinamento italiano alla recezione di atti…provenienti dall’ordinamento canonico, seppure nei termini e nei limiti previsti dall’Accordo”[57] (col paradosso, per l’appunto, che quest’ultimo chiudeva a monte l'ingresso al provvedimento – la dispensa super rato - che per eccellenza dice della “specificità” della regolazione canonica del vincolo). O come l’altro aspetto paradossale, per cui il Preambolo dell’Accordo medesimo recava (e tuttora reca) l’esplicitazione che a dare impulso alla revisione – tra l’altro -  sono stati gli «sviluppi promossi nella Chiesa dal Vaticano II» e l’avvento in essa della «nuova codificazione»: quando s’è visto supra che i primi e la seconda hanno apportato nello specifico caso della procedura super rato innovazioni mirate a rispecchiare, conformemente alle peculiarità di quest’ultima, la propensione conciliarea rispondere a una “domanda di giustizia più attenta alle esigenze della … persona” umana[58]. Per non dire poi, a tale ultimo proposito, dell’ulteriore (correlato) paradosso, per cui una pattuizione da subito definita quale “Accordo di libertà”, con la descritta “espunzione” determinava (e seguita a tutt’oggi a determinare), di riflesso, una (altrettanto problematica) contrazione della libertà delle persone, ossia quella di vedere tutelata appieno nell’ordinamento civile la decisione, coerente col proprio credo, di affidarsi all’altro ordinamento (i.e. quello confessionale) a fronte d’una infelice vicenda coniugale.   

Orbene, posto che:

 a) come s’è evidenziato all’inizio, quest’Accordo reca un innovativo principio cardine (art. 1) che chiama le due Parti a un’inedita collaborazione reciproca a pro (non solo del “bene del Paese”, ma anche) della “promozione dell’uomo”;

 b) che – come s’è già avuto modo di constatare – il consolidamento di questo principio, specialmente negli ultimi anni, ha contribuito a creare un inedito stile di compresenza attiva dei due Ordini, e un (conseguente) proficuo clima di (fiduciosa) “sintonia” inter-istituzionale;

c) che quest’ultima novità appare aver diradato – in alcuni campi - talune “scorie” della vecchia visione “unilateralista”, rivitalizzata negli anni ‘70 da tensioni ideologiche analoghe a quelle appena accennate, e perciò ancora presente al momento della sigla dell’Accordo stesso;

 e considerato che:

a) queste tensioni hanno avuto un particolare influsso nella stesura delle (relative) direttrici in materia matrimoniale[59], e segnatamente nel determinare la summenzionata (sofferta)’“espunzione” della previsione del ‘29 sul riconoscimento della dispensa pontificia super rato;

b) (e che ciò pare essere suggerito, segnatamente – tra l’altro – già dal fatto che, ad es.) in altre esperienze concordatarie, analogamente connotate da una (più o meno) ‘recente’ revisione del sistema matrimoniale (Spagna, Portogallo, Malta, ecc.), com’è noto, l’espunzione in parola non s’è data affatto, conservandosi la possibilità del riconoscimento (dei provvedimenti pontifici in parola) ‘accanto’ a quello delle sentenze ecclesiastiche di nullità;

tutto ciò posto e considerato, onde fare luce – anzitutto - sulle motivazioni della (perdurante) problematica in parola, e verificare da ultimo l’incidenza degli appena descritti fattori innovativi (connessi al consolidamento dell’art.1 Conc.) – a (pre)figurarne una possibile risoluzione, si addiveniva all’avviso di compiere l’agile disamina che occupa le pagine a venire.

Una disamina mirata, in primo luogo, a focalizzare l’origine, la misura e l’incidenza degli indicati “condizionamenti” politico-ideologici che incidono sui negoziati e sull’intervento della Consulta del 1982, e che conducono – nei termini già sommariamente anticipati - all’espunzione in parola; e a porre in luce appresso, le contraddizioni e i contrasti che si producono, in ragione di tale espunzione, rispetto all’assiologia, alla “filosofia” e alle finalità dell’Accordo del 1984. Una prima analisi, questa, a cui fa seguito – nella seconda parte del lavoro - la focalizzazione di quelle evoluzioni/innovazioni riscontrabili dopo la sigla dell’Accordo sui due fronti ordinamentali, e che agevolano, sotto diversi aspetti, una più compiuta delineazione della specificità delle procedure super rato (e della portata effettiva delle garanzie in esse fornite), finendo così col segnalare l’urgenza d’un compiuto diradamento di quella persistente “ombra” (politico-ideologica) gravante sull’Accordo.

Guardando in particolare, da un parte, al fronte (ordinamentale) statale ove - talvolta anche a dispetto delle apparenze – sembra affiorare nel tempo, anche riguardo a questa specifica problematica, uno “sguardo” mutato ex parte Status, senz’altro ancora genericamente ‘rigido’ (come mostrano gli ultimi discutibili approdi in materia di delibazione delle sentenze di nullità) ma in un verso ‘post-ideologico’ che si rivela, ad es., negli ultimi apporti della giurisprudenza costituzionale, sulla delineazione delle implicazioni del principio di laicità nel segno d’una disponibilità all’apertura a valori/contenuti confessionali (coerente con lo spirito di “servizio” proprio della Repubblica a pro delle istanze religiose dei cittadini); e che appare avvantaggiarsi, in particolare, della più netta focalizzazione operata (di recente) dalla Consulta del principio di cooperazione “sintetizzato” (insieme ad altri) nello stesso principio di laicità: così da potere visualizzare quanto rimarcato nel 2017 da Papa Francesco, e cioè che l’impegno alla collaborazione reciproca di cui all’art.1 Conc., esprime e promuove la laicità italiana[60] (in un circolo “virtuoso” ottativamente beneficiante la comunità dei cives-fideles). E guardando, poi, d’altra parte, alle innovazioni datesi – nel frattempo - nell’ordinamento ecclesiale, le quali, risultando atte a conferire ulteriore nitidezza alle anzidette peculiarità (della procedura super rato, e dell’effettiva portata delle garanzie ivi prestate), appaiono utili ad agevolare questo potenziale rinnovato “scrutinio” da parte statale.

Una disamina, questa che occupa le pagine a venire, che oltre ad essere sospinta da quella “costante tensione” che connota in generale la disciplina ecclesiasticistica (mai paga degli esiti teorici raggiunti, specie quando variano le contingenze della concreta esperienza giuridica[61]); viene a essere mossa, soprattutto, dalla considerazione (del dato tecnico ‘cruciale’) che l’innovata (fiduciosa e dinamica) visione della “duplice sovranità”, espressa nell’art.1 dell’Accordo di Villa Madama, oltre a guardare – in partenza - con favore all’ipotesi di norme di garanzia che assicurino “un più concreto esercizio della libertà religiosa”[62], suggerisce anche la disponibilità -  nel tempo - delle Alte Parti a “riesaminare materie disciplinate da norme concordatarie, che abbiano assunto aspetti imprevisti dagli originari negoziatori”, e di farlo “alla luce di quella “promozione dell’uomo” e “bene del Paese”, menzionati dall’art. 1”[63]. Talché, porre in luce i diversi aspetti che segnalano, per molti versi – come si ribadisce - l’urgenza d’un compiuto diradamento di quella persistente “ombra” (politico-)ideologica gravante sull’Accordo (che porta all’espunzione della previsione sulla dispensa super rato) significa anche, al contempo, segnalare l’urgenza (della prospettazione) d’una modificazione dello stato attuale delle cose, che si dipani lungo i canali della negoziazione bilaterale: una modificazione che, nel rendere – nel campo specifico de quo - ancora più concreta ed operante l’investita libertà religiosa (riconosciuta in via generale dalla Carta repubblicana), risulti atta ad implementare la descritta (specifica) funzionalità dell’Accordo medesimo a sovvenire (anche) alle istanze soggettive basilari dei cittadini-fedeli. 

 

2.1 L’origine del problema: l’estensione del divorzio ai matrimoni concordatari, la ri-politicizzazione del tema (in senso opposto al verso del 1929), l’affermazione della teorica “unilateralista” del “dominio” dello Stato (mai perso) sulla regolazione del rapporto.

 

S’è anticipato che a monte dei fattori che conducono alla scelta drastica che si opererà nel 1984 (i.e. l’anzidetta espunzione della previsione lateranense sulla dispensa super rato) sta la (ricordata) decisione del Legislatore italiano del 1970, d’estendere la cessazione degli effetti civili al c.d. matrimonio concordatario; come pure s’è accennato al fatto che tale decisione è sospinta dall’adozione d’una teorica (politicamente ‘salda’ ma) giuridicamente inappagante, che non rispecchia, sotto diversi profili, la realtà delle cose. Si può adesso specificare che l’adozione di questa teorica è figlia, eminentemente, della scelta ‘a monte’ operata ex parte Status di non accedere (nel detto frangente cruciale del ‘70) a soluzioni negoziate: come dimostra la mesta conclusione delle “conversazioni” con i vertici italiani, che la S. Sede chiede - e ottiene in extremis, nel 1970 (sulla scorta dell’art. 44 Conc.[64]) - ma che s’arrestano a un mero scambio di note, senza l’ombra d’una (anche solo embrionale) trattativa[65]. È essenzialmente per via di quella scelta, infatti, che scaturisce l’elaborazione d’una peculiare mens legis (a sostegno del d.d.l. divorzista) volta a interpretare in chiave “separatista” o meglio “unilateralista” (a pro dello Stato) i contenuti pattizi, e dunque – in sostanza - a contenerne la potenziale estensione pratica: un animus, questo, la cui affermazione non manca di avere ricadute negative nei successivi anni, sino alla sigla dell’Accordo (che, in qualche modo, vale a “indebolirne” la sorprendente “vitalità”); salvo, poi, nel tempo e sino ai giorni nostri - come si vedrà infra – riaffiorare (ispirando, in particolare, il riferito filone giurisprudenziale sulla delibazione “speciale” prevista dall’Accordo del 1984).

Per comprendere il senso di questa scelta infelice a monte (i.e. quella del 1970), è utile focalizzare i punti essenziali della questione. E cioè, in particolare, da una parte, l’evidenza – ben “fotografata”, con “profonda amarezza”, dal Papa allora regnante[66] – che la decisione di estendere il divorzio al matrimonio concordatario viola l’impegno assunto dallo Stato nel ‘29, giusta l’art. 34 Conc., di riconoscere effetti civili «al sacramento del matrimonio [come] disciplinato dal diritto canonico», e perciò con le sue regole e i suoi principi, a cominciare da quello “altissimo” dell’indissolubilità[67]. Dall’altra, quanto di fallace (pervicacemente) sostenuto dall’Esecutivo, che pur di negare l’evidenza (di questo contrasto, nonché quello col pertinente precetto di cui all’art.7, II co., Cost.[68], che impone, in assenza d’una “soluzione concertata”, la strada della revisione costituzionale) – asserisce, nell’ordine: a) che la violazione sarebbe solo apparente; b) che non s’è inquadrata la “ben diversa” e (assai più) ridotta portata del medesimo art. 34 Conc.[69]; c) che questa sarebbe sempre valsa solo a “unificare il rito della celebrazione”; d) che, pertanto, sarebbe sempre rimasta “intatta” la possibilità per lo Stato – colta nell’occasione - di stendere, nel proprio ordine, una “regolamentazione giuridica indipendente” sul vincolo, quale realtà avente in detto ordine vita propria ed autonoma[70]. Il che è come dire che nella fattispecie del ‘29 in commento sarebbe stato sin da tutto principio possibile distinguere concretamente due insorgenti vincoli, uno dei quali rimesso – per l’appunto - alla legge civile. Rinvenendosi così, nella “immaginifica” ricostruzione governativa, l’idea di fondo che le norme concordatarie (non si sa bene in che modo) siano valse a perpetuare, nonostante tutto (e soprattutto la chiara volontà opposta delle Parti[71]) la separatezza tra i due ordinamenti tipica della stagione liberale, prevedendo che, nel caso del ‘matrimonio concordatario’, sia il diritto canonico a dettare la “regola dell’atto”, ma non anche quella del rapporto.

Sembra importare poco, al Governo, che tutto ciò non stia in piedi, anzitutto dal punto di vista storico-giuridico; posto che l’art. 34 manifesta chiaramente la “resa” di Mussolini, il quale, pur di non vedere sfumare l’obiettivo della sigla dei Patti, conoscendo la crucialità del tema[72] (e la rivendicazione che farà la Chiesa del principio dell’esclusiva sua competenza sul matrimonio-sacramento[73]) ben sapeva di dover concedere molto (più della semplice “unificazione” del rito), a partire – per l’appunto - dal riconoscimento (congruente col detto principio) dell’efficacia civile all’istituto nella sua interezza, come canonisticamente inteso e regolato (riservandosi la competenza solo sugli effetti mere civiles[74]): derivandone – quanto rimarca allora F. Vassalli, già esperto di parte governativa nella Commissione mista per l’esecuzione del Concordato[75], i.e. –  che lo Stato “riconosce come marito e moglie coloro che come [tali] sono riconosciuti ai termini del diritto canonico”, essendo a tale diritto lasciata “…la competenza di determinare questo “stato delle persone” […] costituito dal vincolo matrimoniale[76]. E non è tutto. Perché a questa rinuncia - a disciplinare l’atto (matrimoniale) e lo scaturente rapporto - il Regime fa qui seguire (con una logica speculare che il Governo italiano quarant’anni dopo mostra d’ignorare) una specifica rinuncia, non meno ragguardevole, all’esercizio della “giurisdizione” (art. 34, IV co.)[77] col riconoscimento (a pro della Chiesa) d’una apposita riserva sulle cause di nullità, che s’incentrano sul medesimo atto matrimoniale, e sui processi “super rato”, che s’incentrano sull’insorgente rapporto[78]; e con la previsione d’un mero vaglio formale (da parte del giudice italiano) affinché i relativi provvedimenti finali acquistino effetti civili.

Al Legislatore del ’70, tuttavia, questa serie di evidenze, che smentiscono nettamente i suoi assunti, sembrano non interessare granché. Come pure, del resto, sembra quasi non vedere (nella sua gravità) l’improprietà tecnico-giuridica che quegli stessi assunti implicano, e cioè che sia possibile ragionare dell’indissolubilità come se si trattasse di uno degli “effetti civili” scaturenti dal matrimonio, e non quale elemento costitutivo dello stesso, com’è invece congruente rispetto alla tradizione legislativa italiana (tant’è che, ad es., il codice civile vigente nel ‘29, come pure quello del ’42, collocano la norma sull’indissolubilità fuori dal capo che regola gli effetti civili[79]), oltre che ovviamente a quella canonistica.

Il vero è che queste contraddizioni e incongruità interessano poco, perché, in singolare corrispondenza alla “politicizzazione” del Concordato operata quarant’anni prima da Mussolini, e segnatamente al suo declinarsi nella materia matrimoniale, da parte statale – come già anticipato - si torna a politicizzare il tema, ma stavolta all’inverso, ossia figurando, da una parte, un recupero – in materia - della sovranità ex parte Status e, dall’altra, rifuggendo l’incontro con i Sacri Palazzi. Un indirizzo, questo, che prende piede – in un modo o nell’altro, e non senza distinguo - per via di convergenti fattori/fenomeni che fomentano, anche nella c.d. “società civile”, la “brama” di un’autonoma regolazione in materia[80]: tra i quali sta l’idea-anelito di quanti vorrebbero (addirittura) abbattere il Concordato[81] (in nome dell’allora fibrillante “contestazione diffusa”[82]), e che trovano nella campagna divorzista un volano da sospingere con tutta la forza possibile, perché idonea a infrangere la “chiave di volta”[83] di quella stessa pattuizione, e cioè – per l’appunto - il descritto sistema matrimoniale. Il che spiega, complessivamente, perché non si hanno remore, anzitutto, a difendere un’argomentazione fallace, ma dall’alto tasso “politico”[84], come quella della ‘signoria’ dello Stato mai persa sul(la regolazione del) rapporto coniugale; a determinare, poi, in tale maniera, una serissima impasse nei rapporti Stato/Chiesa (che porta a congelare le surriferite trattative per la revisione); e da ultimo, a non mostrare effettiva considerazione – come già nel 1929 - per le correlate istanze dei (cittadini) credenti[85] (con l’aggravante che nel frattempo il presidio costituzionale delle stesse s’è oltremodo irrobustito, e in un’evidente chiave garantista[86]).

Tale è l’impeto della montante rivendicazione descritta, che si giunge, in particolare, nel testo della l.898 in parola, a realizzare un inusitato “trapianto”[87], i.e. quello che si configura con la ricomprensione, tra le cause di divorzio, di un’ipotesi d’inconsumazione (art. 3, n.2, lett. f) che, come esplicita la relazione allegata al d.d.l., trae spunto da quella prevista nel diritto canonico: dandosi così rilievo nell’ambito civile a un elemento - “il perfezionarsi dell’atto costitutivo mediante la copula coniugalis” – che “in passato era sempre stato considerato estraneo onde determinare una maggiore solidità del vincolo”[88]. Il Legislatore difende l’innovazione, attribuendole il fine di “sanare” (quella che è ritenuta una) “sperequazione” insorta nel ‘29, per l’eventuale possibilità in più “offerta”, in caso d’inconsumazione, a chi ha contratto matrimonio concordatario (con riferimento all’eventualità della concessione d’una dispensa super rato, cui faccia seguito l’esecutività ai sensi dell’art. 34 Conc.). Ma l’argomento è fiacco, a dir poco, nel secondare un’accezione incongrua dell’eguaglianza, e del principio di specialità, visto che la norma pattizia, in quanto regola speciale che sovviene ad una peculiarità/tipicità di un ordinamento confessionale (qual è la dispensa super rato), non sortisce in effetti alcuna sperequazione (che si sarebbe data se il diverso trattamento fosse stato carente d’una ragionevole ed oggettiva ‘allegazione’[89]). Mentre convince di più, per l’appunto, l’avviso che la “singolarità”[90] così introdotta - tra molte perplessità[91] - sia frutto del descritto, crescente impeto “rivendicazionista”; e questo per una serie di ragioni. La prima è che questa stessa singolarità “non compare nei precedenti disegni di legge sul divorzio”[92], ma solo in quello del giugno del ’68, che – rispetto agli altri - prende a guadagnare titoli insolitamente “baldanzosi” nella pubblicistica d’area laica[93]. La seconda è che anche qui non affiorano remore nell’approdare a figurazioni giuridicamente inappaganti: vuoi nell’introdurre, “con tutt’altro significato”, un concetto “in concorrenza con il diritto canonico, in una corsa verso forme di giurisdizionalismo”[94]; vuoi nel rischiare d’ingenerare un singolare “concorso di competenze” in violazione del IV co. dell’art. 34 Conc. (ossia della summentovata riserva di giurisdizione, che agli occhi di chi “relativizza” le differenze - pur considerevoli - tra lo schema d’inconsumazione civilistico e quello canonistico, può apparire sotto alcuni aspetti violata[95]).

Ma la ragione più convincente è un’altra ancora. E cioè che dietro il declamato obiettivo “egualitarista”, - come s’è detto, giuridicamente “precario” – stia in verità l’intento di lanciare una doppia “sfida” ai Sacri Palazzi: una – alla luce del sole - che sta nell’offrire una riprova lampante della forza politica dei propri assunti, ancorché tecnicamente claudicanti, sulla predetta ‘signoria’ dello Stato (sulla regolazione del rapporto), accludendo nello schema (in costruzione, della legge divorzista) un elemento (l’inconsumazione) che “non aveva mai avuto diretta rilevanza giuridica nell'ordinamento statuale”[96], vieppiù “rifacendosi” alla “omonima” fattispecie canonica”[97]; e una seconda – ben più insidiosa e “sotterranea” – consistente nel suggerire, proprio con quel richiamo, che nella “logica” di quegli assunti – per cui il vincolo coniugale vive comunque in soggezione alle sole regole statali – mentre è coerente uno scioglimento dato in forza d’una norma unilaterale dello Stato, lo è meno (o addirittura non lo è affatto) quello risultante dall’applicazione d’un meccanismo normativo pattizio dante rilievo a regole canonistiche, figurando – in quell’ottica – un’anomalia tollerabile a fatica. 

 

2.2.  (segue)L’incidenza di questi condizionamenti politico-ideologici sui negoziati per la revisione del Concordato e sull’intervento della Consulta (sent. 18/1982): l’avallo di quest’ultima alla teorica del (pre)dominio statale sulla sfera del rapporto; il (conseguente) vaglio in senso formalistico sulla procedura “super rato”; l’approdo all’avviso di un’insufficiente garanzia di tutela giurisdizionale (ivi prestata).

 

Da lì in poi, sino al 1982, a decidere sulla risposta da dare a queste (e altre) sfide lanciate da questo (variegato) schieramento d’indole “rivendicazionista”, è il Giudice costituzionale: il quale non appare affatto ignorarne l’impeto (specie più tardi, appresso agli inequivocabili esiti del referendum sulla legge divorzista), ed anzi, ne tiene certamente conto, mentre in quegli anni viene a calibrare il grado d’apertura (dell’Ordine statale) all’Ordine della Chiesa. Ne derivano, così, pronunciamenti essenzialmente di compromesso[98], ma che finiscono, in un modo o nell’altro, per asseverare alcuni degli assunti “unilateralisti” sostenuti quel fronte: e in particolare

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