Il processo di Gesù: dalla flagellazione alla crocifissione
Anna Bellodi Ansaloni
Professore Associato di Diritto romano, Università di Bologna
Il processo di Gesù: dalla flagellazione alla crocifissione.*
Sommario: - 1. Premessa. Certezze e ipotesi intorno alla flagellazione di Cristo. - 2. I resoconti evangelici della flagellazione. - 2.1 Marco (15,15) e Matteo (27,26). - 2.2 Giovanni (19,1). - 2.3 Luca (23,16 e 22). - 2.4 Il luogo della flagellazione. - 3. La flagellazione come epilogo processuale. - 4. Gli ‘incidenti’ processuali. - 5. Il revirement di Pilato. - 6. Conclusioni: i due giudizi.
1. Premessa. Certezze e ipotesi intorno alla flagellazione di Cristo
Nel dibattito inesausto sul processo contro Gesù la flagellazione fatta eseguire dal prefetto della Giudea Ponzio Pilato viene tendenzialmente considerata come un passaggio interinale, propedeutico al supplizio finale, tale da non porre interrogativi di rilievo e, conseguentemente, da non suscitare aspettative sul piano della ricostruzione storica e dell’interpretazione testuale[1].
Tuttavia, se è costante negli interpreti l’assenza di dubbi sulla paternità della flagellazione di Gesù, pena appartenente anche alla tradizione romana[2], deliberata e fatta infliggere iussu iudicis, secondo un iter decisionale che trova in Pilato il dominus indiscusso[3], si registrano incertezze relativamente alla collocazione processuale e, di conseguenza, alla base giuridica ed alla motivazione della decisione attinente al castigo.
Gli stessi evangelisti, peraltro, pur partecipando tutti – con varie sfumature – dell’idea che la flagellazione si collocò in un momento intermedio tra l’interrogatorio davanti a Pilato e la sentenza finale, sembrano fornire resoconti non univoci circa la funzione della stessa, che viene comunque registrata quale fatto accessorio e non entra se non di sfuggita nel quadro delle varie scene[4]. La struttura narrativa neotestamentaria che ripercorre la sequenza del processo criminale svoltosi davanti a Pilato non pare concorde, come vedremo, in merito al collegamento tra la flagellazione e la decisione ultima che chiude la vicenda con la pena capitale, lasciando così inevaso l’interrogativo sulla ragione di questa ulteriore afflizione del Cristo[5].
Sulla base delle fonti antiche (giuridiche, letterarie e testamentarie) che hanno restituito eterogenei esempi di flagellatio, rispecchiandone le plurime forme e finalità, gli studiosi hanno variamente diversificato le ipotesi in merito al ruolo e alla funzione che lo strumento ricoprì nella vicenda evangelica[6].
Perlopiù accantonata l’idea che vede un esempio di flagellazione impiegata come strumento di tortura dalla finalità inquisitoria, funzionale ad estorcere una confessione di colpevolezza[7], gran parte degli studiosi, di diversa specializzazione, ha ritenuto che questo caso di flagellatio illustri una consueta applicazione di pena accessoria alla crocifissione[8], come normale forma di ulteriore e brutale accanimento verso il condannato, utile anche per accelerarne la morte[9].
Josef Blinzler, autore di uno dei più approfonditi studi sulla vicenda giudiziaria di Gesù, ha interpretato la flagellazione del Cristo come una pena autonoma e alternativa rispetto all’esecuzione capitale. Secondo il biblista tedesco, infatti, Pilato “avrebbe provato ripugnanza all’idea della crocifissione, e così si decise per la flagellazione, nella speranza che gli Ebrei si sarebbero accontentati di questa pena draconiana e avrebbero receduto dalla loro pretesa”. Ma si ferma di fronte alla ricerca del fondamento del castigo: “con quale crimen leve Pilato abbia motivato l’ordine di eseguire la flagellazione o se addirittura questa motivazione vi fu, noi non sappiamo”[10].
In tal senso si pronuncia Gustavo Zagrebelsky, che considera la flagellazione di Gesù come una delle strade alternative tentate dal prefetto per evitare la condanna capitale, “una sorta di compromesso in vista di rilasciare Gesù” con il Sinedrio ma che non poteva riuscire perché la richiesta del supremo tribunale ebraico “non prevedeva subordinate”. Tuttavia, il costituzionalista constata che si trattò di “un plateale castigo di cui non si capisce il fondamento ma di cui è evidente l’intenzione: muovere a compassione e quindi placare la folla”[11].
Questo tentativo, secondo Giorgio Jossa, almeno nei Vangeli di Luca e Giovanni, avrebbe chiaramente la finalità “di evitare la condanna a morte”, costituendo quindi un “modo per chiudere il processo” che il prefetto ordina di eseguire perché “pensa che la folla possa accontentarsi di questa soluzione”[12]. Ancor più incisivo il Miglietta, laddove qualifica “la flagellazione quale estremo conato di dare soddisfazione al popolo”[13].
Sulla stessa linea si colloca uno dei maggiori esegeti americani del Novecento, Raymond Brown, il quale da un lato ravvisa nella narrazione di Marco e Matteo elementi che inducono a credere che i due evangelisti ritenessero la flagellazione parte della pena della crocifissione, ma coglie, dall’altro, la diversità del resoconto giovanneo laddove la violenta punizione appare un castigo minore con cui Pilato sperava di accontentare i Giudei, inducendoli a cessare l’accanimento contro un Gesù innocente, “una forma di patteggiamento che cerca una sentenza meno grave”[14].
Posizione originale esprime lo studioso ebreo Chaim Cohn, il quale pur escludendo l’idea della flagellazione probatoria finalizzata ad estorcere una confessione (Gesù aveva infatti già dichiarato la propria regalità: Gv. 18,37), afferma che Pilato fu mosso dal fine di indurre il condannato ad “esprimere rammarico e pentimento e a promettere di rinunciare per l’avvenire a ogni pretesa regale”[15]. Il castigo sarebbe stato comminato in conseguenza della celebre domanda “Quid est veritas?” che Pilato, secondo la narrazione giovannea[16], rivolge a Gesù prima della condanna: “per mostrare a Gesù quanto relativa e mutevole sia la verità … Pilato … fece il tentativo di modificare la concezione della verità professata da Gesù. Se non era riuscito con le parole a convincerlo che al mondo non esiste alcuna verità assoluta, forse sarebbe riuscito con la frusta”. In sostanza, il passaggio punitivo rappresenterebbe una “pena adeguata a una spacconata dimostratasi inoffensiva e priva di importanza”[17]. Inoltre, Cohn ipotizza che probabilmente Gesù non fu sottoposto a questa tortura “in modo così pesante come era la prassi romana abituale, in caso di persone accusate di laesa maiestas, ma tanto lievemente e superficialmente che non restarono segni esteriori visibili. Gesù può aver ricevuto qualche colpo o qualche frustata, non però con lo scopo di estorcergli più ampie confessioni di colpevolezza, ma esclusivamente per costringerlo o indurlo a esprimere rammarico e pentimento e a promettere di rinunciare per l’avvenire a ogni pretesa regale” [18].
A conclusioni analoghe accede, in un recente volume, Aldo Schiavone, il quale motiva argomentando che in caso contrario Gesù non sarebbe stato “in grado di rimanere in piedi, e, più tardi, di riprendere con lucidità il dialogo con Pilato”[19].
Pesante o lieve che sia stata, rimane comunque il dato che la flagellazione venne inflitta per una ragione tutt’altro che chiara[20].
In questa direzione, dunque, si muove questo studio, alla ricerca delle connessioni tra flagellatio e crucifissio. Anticipando alcune conclusioni, a chi scrive pare che le due pene possano costituire l’aspetto esecutivo di due distinti giudizi, scaturiti da due procedimenti che i resoconti evangelici restituiscono come tra loro susseguitisi ed intrecciatesi in maniera apparentemente coesa ed indistinta, ma che una lettura in filigrana può tentare di scindere. In altri termini, la ricostruzione che qui si offre vede l’anomala sovrapposizione di due processi e di due decisioni, ove la seconda si aggiunge alla prima nel volgere di poche ore[21].
Questa ipotesi appare confortata soprattutto dalle narrazioni di Giovanni e di Luca, nelle quali la vicenda appare inquadrata in termini più dinamici, ma appare compatibile anche con i più sintetici testi di Matteo e di Marco, i quali forniscono solo un rapido cenno alla flagellazione.
Le quattro testimonianze richiedono una sia pur rapida lettura.
2. I resoconti evangelici della flagellazione
Anzitutto, la flagellazione di Cristo è attestata come avvenuta da tre evangelisti: il solo Luca annuncia il ricorso ad uno strumento di ‘correzione’, ma tale intenzione non viene poi riferita come attuata. Per il resto, le sequenze neotestamentarie presentano vari elementi comuni: la flagellazione viene situata in successione dopo la mancata collaborazione di Gesù all’interrogatorio del prefetto di Roma[22] e prima della consegna per l’esecuzione capitale, risultando intrecciata alla vicenda della liberazione di Barabba.
(...segue la versione integrale nel pdf allegato)Bellodi Ansaloni Anna
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