Il corpo travisato. La rappresentazione pubblica del corpo maschile tra censura sociale e sanzione giuridica
Fausto Giumetti*
Il corpo travisato. La rappresentazione pubblica del corpo maschile tra censura sociale e sanzione giuridica**
English title: Misguided body. The public representation of the male body between social censorship and legal sanction
DOI: 10.26350/18277942_000098
Sommario: 1. Premessa. 2. Forme di regolamentazione del codice vestiario. 3. La ‘stravaganza’ di un senatore. 4. Due emblematiche controversiae di Seneca il Retore. 5. Impudicitia e diritto di parola. 6. Violazione della dignitas e publica autoritas. 7. Considerazioni conclusive.
1. Premessa
Friedrich Hegel ha istituito nell’Estetica un rapporto di significazione tra il corpo umano e l’indumento: il corpo come sensibile puro non può significare se non attraverso la medianità della veste che gli assicura la trasposizione dal sensibile al senso[1].Così, ciascun individuo ogni qual volta s’immette nel flusso relazionale con altri soggetti si immerge in una dimensione caratterizzata dalla discontinuità strutturale che intercorre, rinviando a categorie concettuali elaborate dal pensiero strutturalista di Ferdinand de Saussurre[2], tra la Langue e la Parole; per cui se la Langue (nel caso di specie il corpus) è definibile come un ente astratto e generale, la Parole (la vestis in relazione al corpus) allora rappresenta di questo la parte accidentale che l’individuo attualizza spinto da necessità tra loro eterogenee[3]. E questo legame tra significato e significante trova pieno riscontro, come si vedrà nelle pagine che seguono, nel mondo antico nel quale il vestito concorre a qualificare, assieme ad altri dati, l’appartenenza giuridica e sociale di un individuo. Questi sintetici cenni di matrice linguistica relativi al rapporto che esiste tra corpo e codice vestimentario giustificano il tema del corpo travisato, intendendo con tale sintagma riferirci ad epifanie di travestitismo del maschio romano attraverso l’utilizzo di abiti femminili, che si concretizzano in fenomeni di cross-dressing ante litteram gravidi di interessanti ricadute giuridiche.
L’argomento per sua natura lambisce, com’è intuibile, più campi del sapere, tra cui quello sociologico, antropologico e di storia del costume, e necessita, per una sua esaustiva trattazione, di alcuni avvertimenti di metodo.
Si deve evidenziare, in via preliminare, come se riflettere sulle pratiche di travestitismo nel mondo contemporaneo richieda l’assunzione di non poche cautele al fine di evitare il rischio di ‘scivolare’ su posizioni non “politicamente corrette”, così il pericolo può farsi ancora più grave se volgiamo lo sguardo all’esperienza antica, della quale si può essere indotti a dare una descrizione deformata spinti dall’assunzione di canoni concettuali appartenenti alla modernità. E qui soccorre l’approccio antropologico che invita l’interprete a decifrare il passato, che rappresenta sempre e comunque una «terra straniera»[4], utilizzando criteri interpretativi affatto diversi da quelli elaborati dalla contemporaneità[5]; la lezione più interessante offerta dagli antropologi sta infatti nell’invitare l’osservatore del mondo antico a descrivere le culture per mezzo di criteri quanto più vicini all’esperienza studiata; in altre parole “guardare i Romani con gli occhi dei Romani”[6]. Il livello d’indagine della cultura romana (ma ciò è valido per la cultura del passato tout court) deve essere pertanto quello cosiddetto ‘emic’[7]. Un simile approccio «privilegia il modo di conoscere quella cultura proprio di chi ne fa parte, un modo interno, non esterno di descriverla»[8] e differisce da quello ‘etic’ che «si nutre di concetti considerati in qualche modo universali e introdotti nell’analisi dall’esterno, attingendo al patrimonio intellettuale condiviso dall’osservatore»[9]. Alla luce di ciò, va, innanzitutto, superato l’inveterato cliché che vuole il civis romanus (quasi) sempre in toga, immortalato nella postura granitica e virile dell’adlocutio rivolta alla folla o all’esercito; al contrario la tradizione letteraria ci restituisce immagini di uomini, soprattutto appartenenti all’élites di governo, en travesti[10], scoprendo così aspetti tutt’altro che secondari di quella società, basti pensare che se ne occupa persino Cicerone nel proprio trattato de officiis nel contesto della propaganda politica della Roma tardorepubblicana,
Cic., de off. 1.36: Cum autem pulchritudinis duo genera sint, quorum in altero venustas sit, in altero dignitas, venustatem muliebrem ducere debemus, dignitatem virilem. Ergo et a forma removeatur omnis viro non dignus ornatus, et huic simile vitium in gestu motuque caveatur. Nam et palaestrici motus sunt saepe odiosiores et histrionum nonnulli gestus ineptiis non vacant, et in utroque genere quae sunt recta et simplicia laudantur. Formae autem dignitas coloris bonitate tuenda est, color exercitationibus corporis. Adhibenda praeterea munditia est non odiosa neque exquisita nimis, tantum quae fugiat agrestem et inhumanam neglegentiam. Eadem ratio est habenda vestitus, in quo, sicut in plerisque rebus, mediocritas optima est.
Nella riflessione dell’Arpinate, che si declina in una tassonomia estetica confacente al perfetto cittadino che aspiri agli honores magistratuali, ci sono due generi di pulchritudo che corrispondono l’uno alla bellezza femminile e l’altro a quella maschile: il primo è caratterizzato dalla venustas;il secondo, quello afferente all’uomo, dalla dignitas. Per la bellezza maschile non è dunque essenziale l’armonia dei tratti fisici, essa non ha un contenuto squisitamente estetico, bensì sostanzialmente etico, si potrebbe dire morale, che si deve palesare attraverso un’immagine pubblica che esprima solidità ed equilibrio[11].
La dottrina pare essersi per lo più disinteressata al fenomeno tranne rare autorevoli eccezioni, le quali hanno però indirizzato la più parte della loro attenzione ai costumi sessuali, mancando di fornire una sistemazione teorica al rapporto tra indumento e corpo nei termini presi qui in esame[12]. Innumerevoli, e di notevole fascino, sono invece gli studi compiuti dagli antropologi e dagli storici delle religioni che si sono soffermati sui travestimenti iniziatici o rituali, sull’ermafroditismo e sulla castrazione dei ministri di culto[13]; ricerche che offrono uno sguardo spesso incline a un comparativismo dagli esiti generici, tra iniziazioni e riti di passaggio come decodificati da Arnold van Gennep[14].
Da tutti questi approcci euristici un dato emerge con inusuale certezza: nel mondo antico l’aperta fluidità tra i generi sessuali era pensabile e pienamente giustificabile solo nella sfera del divino[15]. Ciò si riscontra nel mito, ma anche nel rito: così nei casi di castrazione rituale, si riteneva che fosse la divinità a rendere femmine i maschi che avevano rinunciato alla propria virilità, come nel notissimo mito di Attis, narrato, tra gli altri, da Catullo. Attis si allontana con un manipolo di compagni dalla sua comunità verso i boschi della Frigia al fine di poter liberamente celebrare i riti di Cibele, la grande madre, dea casta, di cui i giovani avventurieri vanno alla ricerca “per eccessiva ripulsa del sesso”(Veneris nimio odio); e al termine del viaggio il giovane uomo greco per volere della dea diverrà donna[16].
Volgendo lo sguardo verso il presente, si si può chiedere: quale rilevanza assume in termini giuridici il travestitismo?
Nessuna; se non ogni qual volta, al netto della norma di cui all’art. 726 c.p. “Atti contrari alla pubblica decenza. Turpiloquio”, divenga una forma di travisamento del corpo e in quanto tale passibile di essere sanzionato penalmente ai sensi e per gli effetti dell’art. 85 T.U.L.P.S. La Corte di Cassazione ha statuito al riguardo che: «il mascheramento in abiti femminili, quando non costituisce atto contrario alla pubblica decenza perché non accompagnato da atteggiamenti o parole suscettibili di provocare nei cittadini reazioni di disgusto o di disapprovazione, realizzano per le circostanze che lo caratterizzano, quella situazione di pericolo sanzionata penalmente dall’art. 85 T.U.L.P.S. e che si sostanzia nell’ostacolo frapposto ad un pronto riconoscimento e nella maggiore facilità a compiere azione illecita contro il buon costume e la pubblica moralità, in contrasto con le esigenze dell’ordine pubblico che la legge tende a proteggere con il divieto di cui al citato art. 85» (Cass. Pen., Sez. VI, 26 febbraio 1976, nr. 2489)[17].
Ma passiamo ora al mondo romano.
2. Forme di regolamentazione del codice vestiario
Stando a quanto ci riporta Svetonio (Aug. 40.5)[18], Augusto indignatosi per l’abbigliamento con il quale i suoi concittadini si presentavano pubblicamente nel Foro affidò agli edili il compito di vigilare affinché per il futuro: ne quem posthac paterentur in foro circave nisi positis lacernis togatum consistere, e ciò con lo scopo di restaurare le antiche usanze in conformità alla cura morum cui, il principe dedicò tanta attenzione e fatica[19].
Sulla vicenda Arrigo Diego Manfredini[20], sviluppando un’intuizione che già fu di Theodor Mommsen[21], ritiene che l’imperatore investì gli aediles di un vero e proprio potere di polizia urbana, in forza del quale i magistrati avrebbero potuto chiedere l’allontanamento dai luoghi pubblici dei soggetti che avessero ritenuto non abbigliati in modo a questi consono. Gli stessi magistrati poi, probabilmente esasperati da un malcostume che stava divenendo sempre più generalizzato, stando a quanto ipotizza Thomas McGinn[22], avrebbero chiesto a Tiberio di approvare una disposizione specifica volta a reprimere ogni forma di travestitismo. Ma tale circostanza pare essere smentita da Tacito, che nel riferire in ann. 3.53-54 la relazione svolta dall’imperatore in Senato sulle denunzie degli edili circa le diffuse violazioni della normativa suntuaria non fa alcun cenno ad una simile istanza[23].
Questa non fu l’unica forma di regolamentazione imposta dal principe ai Romani su come dovessero presentarsi in pubblico; anche in un secondo caso Svetonio è d’aiuto (Aug. 44.1-2)[24]. Il biografo dei Cesari narra, infatti, di come Augusto decise di riformare (facto decreto) le regole che disciplinavano i pubblici spettacoli, durante i quali nessuno potesse vestire di nero sedendo nella parte centrale della cavea (sanxitque ne quis pullatorum media cavea sederet); il provvedimento fu adottato dal principe dopo essere rimasto indignato dalla disavventura occorsa ad un senatore (motus iniuria senatoris) il quale durante un’affollatissima rappresentazione pubblica tenutasi a Pozzuoli nessuno aveva fatto accomodare[25].
Probabilmente già in quel tempo il codice vestiario condiviso da parte delle classi più elevate cominciò ad essere violato con eccessiva frequenza e ciò sarebbe provato dal fatto che non molto tempo dopo Giovenale, sull’onda della consueta indignatio[26], si rammaricherà della prassi di indossare la toga in territorio italico solo sul letto di morte[27]:
Iuv., sat. 3.171-172: pars magna Italiae est, si vero admittimus, in qua nemo toga sumit nisi mortuus.
Proprio in ragione di ciò dovrà intervenire Adriano, almeno così narra l’autore dell’Historia Augusta[28], affinché i cavalieri e i senatori fossero obbligati ad indossare in pubblico, tranne quando tornassero da occasioni conviviali, l’antico indumento e ciò ad imitazione del principe che durante la sua permanenza nei confini italici era solito indossarla:
H.A., Vita Hadr. 22.2-3: senatores et equites Romanos semper in publico togatos esse iussit, nisi si a cena reverteruntur. Ipse, cum Italia esset, semper togarus processit.
Successivamente anche Tiberio mise mano alla materia vietando agli uomini di presentarsi in occasioni pubbliche con indumenti di seta che non si ritenevano consoni alla solennità dell’occasione. Così narra Cassio Dione nel seguente brano
Cass. Dio 57.15.1: ὁ Τιβέριος ἀπεῖπε μὲν ἐσθῆτι σηρικῇ μηδένα ἄνδρα χρῆσθαι, ἀπεῖπε δὲ καὶ χρυσῷ σκεύει μηδένα πλὴν πρὸς τὰἱερὰ νομίζειν,
nel quale l’espressione ἐσθῆτι σηρικῇ non pare indicativa del fatto che la normativa possa essere fatta rientrare nella disciplina sul contenimento del luxus.
A tale riguardo, Tacito, in merito al dibattito intrattenuto in senato tra il consolare Q. Aterio e l’ex pretore Ottavio Frontone, che per l’appunto discussero lungamente contro la diffusione del lusso in città, adopera il verbo foedare per indicare che l’utilizzo di vestis Serica sarebbe stato disdicevole per gli uomini che vi avessero fatto ricorso[29]:
Tac., ann. 2.33: Proximo senatus die multa in luxum civitatis dicta a Q. Haterio consulari, Octavio Frontone praetura functo; decretumque ne vasa auro solida ministrandis cibis fierent, ne vestis serica viros foedaret […].
Conferma una simile lettura delle suddette fonti Svetonio, il quale, nel descrivere i monili che Caligola amava sfoggiare, sottolinea come l’abbigliamento dell’odiato principe non avesse non solo nulla di virile ma neppure di umano, e annovera tra simili vesti proprio la seta:
Suet., Cal. 52: Vestitu calciatuque et cetero habitu neque patrio neque civili, ac ne virili quidem ac denique humano semper usus est. Saepe depictas gemmatasque indutus paenulas, manuleatus et armillatus in publicum processit; aliquando sericatus et cycladatus […][30].
Queste testimonianze confermano dunque un dato: la rappresentazione del corpo in pubblico era oggetto non solo di giudizio da parte della comunità ma altresì di dibattito in sede di regolamentazione giuridica[31].
Tutti coloro che si fossero discostati dalla precettistica sociale venivano sarcasticamente dileggiati, come ci informano le fonti, soprattutto satiriche, le quali abbondano d’invettive volte a schernire gli uomini che mutavano il proprio corpo indossando indumenti femminili. Tali strali erano per lo più finalizzati al semplice ludibrio ma talvolta celavano una finalità ben più profonda, di matrice squisitamente politica, sol che si pensi alla scandalosa vicenda della Bona Dea che vide coinvolto il potentissimo tribuno Clodio, che si era introdotto in casa di Cesare fingendosi una donna[32].
Giovenale e Marziale[33], più di altri, offrono moltissimi esempi di travestitismo: in particolare il primo descrive il matrimonio con un altro uomo di Gracchus, il quale durante una farsa ridicolizzante il rito nuziale indossava il tradizionale flammeum riservato alla nupta, circostanza resa ancor più ridicola poiché poco prima lo stesso Gracco era stato descritto a sopportare virilmente sulle proprie spalle il peso degli scudi conservati nel tempio di Marte. E così vestito, senza alcun pudore, sedeva in grembo al novello ‘marito’:
Iuv., sat. 2.117-124:quadringenta dedit Gracchus sestertia dotem
cornicini, sive hic recto cantaverat aere; / signatae tabulae, dictum 'feliciter,' ingens / cena sedet, gremio iacuit nova nupta mariti. / o proceres, censore opus est an haruspice nobis? / scilicet horreres maioraque monstra putares, / si mulier vitulum vel si bos ederet agnum? / segmenta et longos habitus et flammea sumit.
Alcuni uomini, scrive sempre Giovenale, non si limitavano ad indossare vesti femminili ma si spingevano oltre, truccandosi da donna, allungando con un ago ricurvo le sopracciglia, tingendole con fuliggine inumidita, per rendere sempre più femmineo il proprio aspetto:
Iuv., sat. 2.93-97: Ille supercilium madida fuligine tinctum / obliqua producit acu pingitque trementis / attollens oculos; vitreo bibit ille priapo / reticulum comis auratum ingentibus implet / caerulea indutus scutulata aut galbina rasa.
Svetonio ci offre a tale riguardo un dipinto tutt’altro che edificante della casa imperiale: se infatti Giovenale gettava il proprio sguardo sul popolo di Roma, l’erudito, amico di Plinio il Giovane, al contrario apriva le porte dei palazzi del potere e descriveva Nerone bramoso di congiungersi in matrimonio con i propri amanti vestiti per l’occasione con abiti nuziali femminili[34]. Scrive Antonio Guarino: «i Romani avevano modi di vestire e di comportarsi diversi a seconda del loro sesso, della loro età, delle loro occupazioni, del loro livello sociale. Cosa tipica, del resto, di qualunque popolo, sopra tutto nel passato»[35]. E nel descrivere la riprovazione sociale indirizzata verso le forme di mutatio vestis nella sua accezione di mutatio corporis si deve ricordare che vi era una netta diversità di giudizio, in conformità ad una doppia morale, tra coloro che si abbandonavano a simile pratiche[36].
Se si trattava infatti di persone di basso o bassissimo rango sociale il travestitismo non solleticava neppure la fantasia dei poeti; i giudizi, al contrario, divenivano feroci se riferiti ai protagonisti della vita pubblica, sociale e politica, di Roma e ciò conformemente a quanto aveva scritto Seneca il Retore, il quale aveva precisato che l’impudicitia si declina diversamente a seconda del soggetto – uomo libero, servo o liberto – verso cui è diretta:
Sen., contr. 4 praef. 1: impudicitia in ingenuo crimen est, in servo necessitas, in liberto officium.
3. La ‘stravaganza’ di un senatore
I casi di travestitismo che di seguito saranno analizzati sono già stati oggetto di acuta analisi da parte della dottrina antichistica – storica e giuridica – e dei risultati ai quali simile riflessione è giunta verrà fatto in questa sede tesoro.
Notissimo è un parere di Pomponio estratto dal quarto dei trentanove libri ad Quintum Mucium composti dal giurista sotto l’impero di Antonino Pio, in cui la trattazione segue l’ordine tenuto da Quinto Mucio nei suoi libri iuris civilis e che riguarda un legato di vesti:
D. 34.2.33 (Pomp. 4 ad Q. Muc.): Inter vestem virilem et vestimenta virilia nihil interest: sed difficultatem facit mens legantis, si et ipse solitus fuerit uti quadam veste, quae etiam mulieribus conveniens est. itaque ante omnia dicendum est eam legatam esse, de qua senserit testator, non quae re vera aut muliebris aut virilis sit. Nam et Quintus Mucius ait scire se quendam senatorem muliebribus cenatoriis uti solitum, qui si legaret muliebrem vestem, non videretur de ea sensisse, qua ipse quasi virili utebatur”.
Pomponio precisa, in via preliminare, che a livello sostanziale non sussiste alcuna differenza tra abbigliamento maschile e indumenti virili, puntualizzazione resasi opportuna per fugare possibili incertezze lessicali tra i vocaboli vestis e vestimentum. Ciò chiarito, il giurista riferisce di un caso ricordato Quinto Mucio relativo ad un legato redatto da un senatore che era solito indossare abiti femminili in occasione dei banchetti ai quali partecipava (muliebribus cenatoriis). Il quesito che viene portato alla riflessione giurisprudenziale è se la disposizione con il quale tale senatore abbia inteso beneficiare un legatario con il lascito di una veste da donna, dovesse comprendere anche quegli stessi abiti femminili dei quali il de cuius si serviva in occasioni conviviali come se fossero indumenti da uomo; oppure se questi dovessero essere esclusi. A detta di Massimo Brutti “[d]al modo di pensare e di agire del testatore si trae il significato della sua disposizione. Quegli abiti non si considerano muliebri, proprio perché egli era solito usarli. Nell’atto unilaterale prevale l’intento di chi stabilisce la disposizione. Per fissare quale esso sia bisogna rifarsi al costume individuale di chi scrive il legato”[37]. Tutt’altro, evidenzia Brutti, accade qualora l’oggetto del legato sia stato trasmesso tramite stipulatio, circostanza di non poca rilevanza ai nostri fini. Infatti, sull’oggetto del contratto decide lo stipulante, “[e]gli intende la promessa non secondo le particolari usanze del promittente, da cui possa arguirsi il pensiero che questi ha in animo nell’assumere l’impegno, ma secondo i comportamenti comuni, che danno un significato univoco alle parole. Viene scelto il senso che è accessibile e può esser fatto proprio dallo stipulator, mentre su di lui non grava alcun onere di conoscenza dei costumi individuali del promittente”[38]; tanto pare potersi desumere da un frammento dello stesso Pomponio, tratto dal medesimo commento all’opera muciana:
D. 45.1.110.1 (Pomp. 4 ad Q. Muc.): Si stipulatus fuero de te: "vestem tuam, quaecumque muliebris est, dare spondes?", magis ad mentem stipulantis quam ad mentem promittentis id referri debet, ut quid in re sit, aestimari debeat, non quid senserit promissor. itaque si solitus fuerat promissor muliebri quadam veste uti, nihilo minus debetur.
L’utilizzo privato quotidiano di indumenti femminili da parte di un uomo potrebbe comportare ad una confusione tra il vestiario maschile e quello femminile; ma nel contratto stipulatorio questa assimilazione non è recepibile, al contrario di quanto accade nella disposizione unilaterale legataria. La negozialità alla base dell’atto tra vivi, posta a tutela del creditore che ha ricevuto la promessa, «non ammette abitudini e volontà individuali d’eccezione»[39] e ciò conferma la singolarità del costume del senatore ricordato da Quinto Mucio. Ma ai fini che ci siamo qui preposti non rileva entrare espressamente nella controversialità sorta sull’interpretazione del legato e per sciogliere la quale Quinto Mucio Scevola elaborò il proprio responsum. Ciò che il passo testimonia per quanto interessa a noi è la mancanza di stupore da parte dei giuristi nella condotta dello stravagante senatore; la circostanza suggerisce l’idea, come ha scritto Manfredini, «che anche le persone di rango più elevato potessero abbandonarsi a questo genere di trastulli senza che i giuristi si scomponessero, almeno quando lo facevano in privato»[40].
Quanto appena detto non revoca in dubbio il fatto che poco prima, nel medesimo titolo del Digesto, Ulpiano abbia puntualizzato la netta differenza esistente tra vestimenta virilia e vestimenta muliebra, per la quale i primi sono quelli patris familiae parata e i secondi quelli che matris familiae causa comparata e che utilizzare i secondi piuttosto che i primi per un uomo sia fonte di sicuro biasimo sociale. In questo caso sebbene si stigmatizzi l’utilizzo dei vestimenta muliebra da parte di viri comunque il comportamento di questi ultimi si proietta su un piano del solo discredito che si concretizza in una vituperatio,
Ulp. 44 ad Sab. D. 34.2.23.2: Vestimenta omnia aut virilia sunt aut puerilia aut muliebria aut communia aut familiarica. virilia sunt, quae ipsius patris familiae causa parata sunt, veluti togae tunicae palliola vestimenta stragula amfitapa et saga reliquaque similia. puerilia sunt, quae ad nullum alium usum pertinent nisi puerilem, veluti togae praetextae aliculae chlamydes pallia quae filiis nostris comparamus. muliebria sunt, quae matris familiae causa sunt comparata, quibus vir non facile uti potest sine vituperatione, veluti stolae pallia tunicae capitia zonae mitrae, quae magis capitis tegendi quam ornandi causa sunt comparata, plagulae penulae. communia sunt, quibus promiscui utitur mulier cum viro, veluti si eiusmodi penula palliumve est et reliqua huiusmodi, quibus sine reprehensione vel vir vel uxor utatur. familiarica sunt, quae ad familiam vestiendam parata sunt, sicuti saga tunicae penulae lintea vestimenta stragula et consimilia.
Dello stesso tenore nelle Pauli Sententiae si riconosce validità al legato di veste maschile che abbia ad oggetto esclusivamente quegli indumenti utilizzati dal maschio nel rispetto del proprio pudore, inteso come riconoscimento dell’identità di genere (pudor virilitatis):
PS. 3.6.80: “Veste virili legata ea tantummodo debentur, quae ad usum virilem salvo pudore virilitatis attinent. Stragula quoque huic legato cedunt”.
Più di questo le fonti tecniche non offrono e dunque l’utilizzo di indumenti femminili da parte di maschi non avrebbe alcuna conseguenza giuridica, almeno non diretta, in quanto non pare potersi rinvenire neppure casi di comminazione di nota censoria per simili atteggiamenti[41].
4. Due emblematiche controversiae di Seneca il Retore
Quest’ultima precisazione si rende necessaria in quanto due controversie di Seneca il Retore ci informano su alcune ripercussioni giuridiche che il travestitismo avrebbe potuto provocare.
Per attribuire la dovuta attendibilità alle testimonianze senecane è opportuno preliminarmente soffermarsi sulla loro natura letteraria; trattasi infatti di declamazioni nate e maturate in quella città virtuale – ‘Sofistopoli’ come la battezzò Ronald Russel[42] – edificata sul lavorìo di maestri ed allievi impegnati in più o meno fantasiose esercitazioni che si svolgevano nelle migliori scuole di retorica, greche e romane. Si tratta dunque di un luogo immaginario nel quale viene elaborato questo affascinante prodotto della cultura antica, che può essere fruttuosamente esplorato anche dal giurista, trattandosi di una costruzione intellettuale che mira a ‘giuridicizzare’ o ‘legificare’ la complessità delle relazioni sociali proiettandole in una dimensione di controversialità nella quale il diritto viene discusso e per ciò stesso migliorato. Mario Lentano, che ha dedicato alla declamazione latina appassionati contributi, ha parlato altresì di una “città dei giudici”, una ‘Dicastopoli’, «nel senso che la stragrande maggioranza dei conflitti che contrappongono i suoi litigiosi abitanti approdano prima o poi dinanzi ad un pubblico tribunale, nel quale le parti in causa puntano a far valere le loro ragioni proprio appellandosi all’insieme delle norme che disciplinano lo svolgimento di ogni declamazione e ai giudici che devono garantirne l’applicazione»[43]. E sebbene ai temi proposti allo studio degli allievi delle scuole sono state eccepiti contenuti del tutto avulsi dalla realtà, sganciate non solo dalle norme applicabili ma pure dal tessuto sociale proprio per la loro struttura sin troppo fantasiosa, invero la più recente dottrina, non solo il già citato Lentano, ma pure Carla Masi Doria[44], Dario Mantovani[45], Giunio Rizzelli[46], e Bé Breij[47], ne hanno evidenziato la ricchezza per ricostruire il diritto e la percezione che di questo aveva la società coeva, stante un costante, anche se spesso occultato, legame con la legislazione e la giurisprudenza dell’epoca sia de iure condito che de iure condendo. La declamazione diviene così, come nei casi di seguito esaminati, una pratica intellettuale in cui letteratura e diritto intrattengono una interlocuzione del tutto peculiare che, solo se ben codificata, offre molte ed interessanti informazioni[48].
Per volgere più dettagliatamente lo sguardo sulle controversiae di Seneca il Vecchio e meglio comprendere il valore delle due che andremmo ad analizzare è bene precisare che queste devono essere collocate all’interno di uno specifico milieu formato da studenti di consolidata preparazione nel quale le controversiae venivano trattate come i modelli di esercitazione retorica più evoluti[49], che, rispetto ad altri esercizi retorici, raramente facevano appello a vicende o personaggi storici reali. Il loro oggetto era spesso estremamente intricato e il discente era invitato a perorare le ragioni dell’una o dell’altra delle parti opposte in lite; meglio ancora poi se questi si dimostrava capace di argomentare a favore di entrambe, assumendo di volta in volta sia il ruolo di patrono dell’accusatore che di quello dell’accusato. Ai maestri toccava l’onere di proporre il tema di dibattito, ossia la vicenda immaginaria intorno alla quale si accendeva la controversia; presto, peraltro, come ha notato Lentano[50], molti di questi temi si fissarono in formulazioni topiche e li ritroviamo immutati per secoli, instancabilmente riproposti a varie generazioni di allievi.
5. Impudicitia e diritto di parola
Veniamo ora alle due controversie che qui interessano nelle quali il travisamento del corpo maschile produce conseguenze non prive d’interesse per il giurista.
Sen., contr. 5.6[51]: Raptus in veste muliebri. Impvdicvs contione prohibeatvr. Adulescens speciosus sponsionem fecit muliebri veste se exiturum in publicum. processit, raptus est ab adulescentibus decem. accusavit illos de vi et damnavit. contione prohibitus a magistratu reum facit magistratum iniuriarum.Muliebrem vestem sumpsit, capillos in feminae habitum composuit, oculos puellari lenocinio circumdedit, coloravit genas. non creditis? et qui non crediderant, victi sunt sponsione. Et hoc de sponsione forsitan venerit, ut auderet impudicus contionari. Date illi vestem puellarem, date noctem: rapietur. Sic illum vestis sumpta decuit, ut videretur non tunc primum sumpsisse. Facta totius adulescentiae remitto, una nocte contentus sum: sic imitatus est puellam, ut raptorem inveniret. Numquid cecidi, numquid carmen famosum composui aut, ut proprium genus iniuriae tuae dicam, numquid te rapui? Apud patres nostros qui forensia stipendia auspicabantur, nefas putabatur bracchium toga exerere. quam longe ab his moribus aberant qui tam verecunde etiam virtute utebantur! Constat hunc stupratum, cum damnati sint qui rapuerunt.Pars altera. Constat semper gravem, semper serium fuisse, sed hoc iocis adulescentium factum est. ceterum tam nota erat verecundia eius, ut nemo šiam sine sponsioneš crediderit.
Il caso è il seguente: un adolescente accettando una scommessa uscì nottetempo vestito con abiti femminili e, scambiato per una fanciulla, anche in ragione delle forme aggraziate del suo corpo (adulescens speciosus), fu raptus da dieci suoi coetanei. Ma cosa intende il retore con l’espressione raptus? Il significato del vocabolo non pare differenziarsi molto da quello stuprum per vim illatum, e ciò in ragione dell’ambiguità registrata dalle fonti tra l’azione del rapere e quella dello struprare, quest’ultimo inteso come rapporto sessuale connotato da illiceità.; il raptus, o più spesso la rapta, è colui, o colei, che in seguito al rapimento è stato costretto, o costretta, allo stuprum[52]. Rizzelli, osserva che Costantino punì il ratto indipendentemente dallo stuprum e che «in effetti, anche nelle fonti classiche s’incontra l’espressione rapi ad stuprum, in cui i due momenti del rapimento e del rapporto erotico appaiono distinti da un punto di vista etimologico e concettuale (cfr., per esempio, Liv. 26.13.15). Spesso, tuttavia, raptus e stuprum tendono a confondersi, per cui la rapta è colei che, a seguito del rapimento, è stata costretta all’unione: cfr., tra gli altri, Sen., contr. 5.6 exc. Tale significato di ‘raptus’ si coglie bene nel più tardo Isid., orig. 5.26.14»[53].
Fabio Botta che ha dedicato al tema dello stuprum studi fondamentali osserva che: «la fattispecie tipica della violenza carnale è oggettivamente scomponibile in fattori costitutivi ‘semplici’. Accanto cioè all’elemento rappresentato dall’esercizio della violenza (quale costringimento di un soggetto non consenziente) sta l’oggetto della costrizione violenta consistente nella consumazione di un atto sessuale che, in quanto tale, è (senza dubbio da ben prima della legislazione giulia) di per sé illecito, poiché commesso nella persona di chi non può disporre sessualmente del proprio corpo (virgo o vidua di onesta condizione) o di chi del proprio corpo non può disporre sessualmente in quella ‘direzione soggettiva’ (nupta con soggetto diverso dal marito o masculus cum masculo)»[54]. Lo studioso sottolinea come ad un simile schema ricostruttivo siano riconducibile più condotte eterogenee represse talvolta dalla lex Iulia de vi, tal altra da quella de adulteriis coercendis. Non solo, ma alcune manifestazioni del crimen sarebbero state fatte rientrare nel crimen iniuriarum extra ordinem e successivamente, soprattutto tramite alcune disposizioni imperiali, nella fattispecie del raptus. Inoltre in caso di comprovata violenza perpetrata ai danni di una virgo o di un puer – dunque di soggetti considerati fragili – il caso investiva l’intera comunità e veniva di conseguenza rubricato come de vi publica, di cui possediamo testimonianze più tarde, ad esempio in un opera di Marciano[55].
Nella vicenda narrato da Seneca, la violenza subita venne denunziata dal malcapitato con un’accusa de vi, ottenendo la condanna dei suoi violentatori[56]. Ma l’aspetto dell’episodio in questa sede maggiormente rilevante è relativo a quanto accadde successivamente alla sentenza di condanna. Infatti, all’adolescente, nonostante la vittoria conseguita nel giudizio de vi, che ne accertava la sua opposizione alla violenza subita, venne impedito da un magistrato (non è dato sapere quale) di prendere la parola in una pubblica contio poiché ritenuto inpudicus[57].
Indossando abiti del sesso opposto il fanciullo aveva con ciò stesso violato, anche se per una sola volta, il suo dovere di pudicitia; dalla lettura delle fonti si può desumere che la prima manifestazione esterna della pudicitia consistesse proprio nel modo con cui il cittadino si presentava in pubblico e ciò spiegherebbe il tenore dell’editto che un ignoto pretore urbano emise de adtemptata pudicitia[58]. L’editto postulava infatti un nesso tra rappresentazione pubblica del corpo e appartenenza ad una determinata classe sociale, come è confermato dai soggetti tutelati dal provvedimento stesso: non solo le matrone, ma anche i praetextati e le praetextatae. Sebbene il testo edittale non ci sia pervenuto nella sua stesura originaria, seguendo la ricostruzione fattane da Otto Lenel[59], alla luce di Gai 3.220[60], I. 4.4.1[61], Paul. 55 ad ed. D. 47.10.10[62] e di Ulp. 57 ad ed. D. 47.10.15.15[63], il tenore potrebbe essere stato il seguente:
“Si quis matrifamilias aut praetextato praextatatuae comitem abduxisse sive quis eum eamue adversus bonos mores appellasse adsectatusuae esse dicetur”
La toga praetexta era indossata non solo dai magistrati curuli, dai senatori, dai sacerdoti ma anche dai giovani e dalle giovani appartenenti alle famiglie aristocratiche; il fatto che l’adolescente protagonista della controversia abbia chiesto di parlare in una pubblica assemblea fa pensare per l’appunto che si trattasse di un giovane appartenente ad un rango sociale alto ed in quanto tale titolare del diritto di indossare la toga praetexta fino al momento dell’età adulta. È vero che il riferimento ai praetextati non si riscontra nelle diverse ipotesi prese in considerazione da Ulpiano in D. 47.10.15.15 ma, tuttavia, come ha scritto Stefania Fusco quando il giurista «riassume la formula dicendo “si quis eorum appellavisset adsectatusve est”, lascia intendere che si possa riferirlo a persone di sesso maschile, cosa estremamente probabile considerando la diffusione, a Roma, della bisessualità. Il riferimento esplicito a persone di sesso maschile è però riscontrabile in altre fonti, utili per la ricostruzione dell’editto: Gai 3.220 parla espressamente di mater familias aut praetextatus; in I. 4.4.1 più dettagliatamente si adopera l’espressione mater familias aut praetextatus aut praetextata; Coll. 2.5.4 si riferisce invece a matronae vel pratextae»[64].
Sentitosi leso nella titolarità dei propri diritti civili il giovane esperì un’actio iniuriarum verso il magistrato volta ad ottenere dal iudex l’emanazione di una sentenza di condanna in quantum bonum et aequum videbitur, commisurata alla lesione prodotta[65]. Ed infatti, com’è stato osservato, in età classica il termine iniuria stava ad indicare un delitto realizzabile tramite atti di diversa natura ai danni dell’integrità fisica e morale di un essere umano[66]. Oggetto di tutela, oltre che l’integrità fisica della persona, erano anche, come ha evidenziato Paola Ziliotto[67], beni ‘immateriali’ come la buona fama, l’onore, la dignità e l’onestà della persona. Il pretore, ai sensi di un editto generale dove era tipizzata la fattispecie, in termini di punibilità delle eterogenee condotte lesive faceva, tra queste, espresso richiamo: alla divulgazione di notizie false circa la sostanza dei beni di un debitore da parte di chi non vantasse crediti verso di lui; alla distruzione di vestiti altrui; all’ostacolo frapposto all’ingresso in luoghi pubblici; alla violazione di domicilio.
Ebbene nel caso di specie si potrebbe ipotizzare che l’adolescente abbia agito per aver patito un danno di natura non patrimoniale che avrebbe ricompreso non solo il danno morale in senso stretto ma altresì il danno riferibile ai diritti fondamentali del civis[68]. Gisella Bassanelli Sommariva, nel tracciare la linea di una corrispondenza tra il concetto di iniuria e la difesa della persona, evidenzia che nel titolo 11.30 (de appellationibus et poenis earum et consultationibus) del Codice Teodosiano il termine iniuria è utilizzato per riferirsi al comportamento prevaricante e lesivo dei funzionari imperiali nei confronti dei cittadini. La studiosa conclude dunque che sarebbe nata proprio «nel mondo romano, e nella cultura giuridica occidentale l’esigenza di una tutela giurisdizionale dei diritti dell’individuo nei confronti del potere statuale»[69].
Il magistrato si oppone al ricorso e articola la propria difesa sul fatto di non aver leso alcun bene protetto: infatti afferma di non aver mai fatto frustare il giovane (numquid cecidi); men che meno di non aver composto a suo danno versi infamanti (numquid carmen famosum composui)[70]; né di averlo violentato a sua volta. Ed inoltre utilizza un argumentum a persona[71] allude cioè ad una presunta propensione del giovane ad utilizzare abiti femminili (Facta totius adulescentiae remitto, una nocte contentus sum).
Pur non essendo direttamente perseguibile per la sua condotta e pur essendo uscito vittorioso da un giudizio nel quale erano stati condannati coloro che di quella condotta si erano approfittati, al giovane non viene riconosciuto il diritto di parlare in pubblico.
Perché? Probabilmente il magistrato si fece zelante garante dell’austerità per cui ogni atteggiamento socialmente biasimevole da parte dell’uomoromano, che ne mettesse in discussione la virilità, poteva essere censurato attraverso l’esercizio dell’imperium magistratuale proprio in ragione della conservazione dei mores maiorum per i quali la facoltà di prendere la parola in una pubblica assemblea era strettamente dipendente dal modo con cui il cittadino mostrava pubblicamente il proprio corpo (Apud patres nostros qui forensia stipendia auspicabantur, nefas putabatur bracchium toga exerere. quam longe ab his moribus aberant qui tam verecunde etiam virtute utebantur!). Ed infatti ha sottolineato al riguardo Verena Espach: «Der Grund für diese Einschätzung liegt in einem Verstoß des jungen Mannes gegen die gesellschaftliche Ordnung»[72]; il diniego a prendere la parola in pubblico pare essere conseguenza non della violenza subita dal giovane uomo ma del solo fatto che questi abbia minato la propria pudicitia vestendo indumenti femminili. Così la mancanza di virilità caratterizzante la condotta del giovane romano ne ha irrimediabilmente leso la rispettabilità e ha comportato la perdita parziale dei diritti politici. È stato scritto che la dignità personale, l'integrità fisica e il modo di curare i dettagli del proprio aspetto erano tutti fattori nell’autovalutazione individuale e nella valutazione reciproca degli uomini, ecco perché: «elite men of the day were constantly concerned with the maintenance of their (virility), because it both displayed and justified their positions of power. Unlike noble birth, which was immutable, (virility) was a matter of perception»[73].
Ha osservato a tal proposito Andrea Raggi che il termine impudicus ha un preciso significato nel lessico sessuale romano, letteralmente senza pudore è spesso utilizzato come sinonimo di cinaedus, e si traduce nell’upper class romana in soggetto privo di onore e manchevole di mascolinità[74].
Le fonti attestano che i cittadini che si fossero resi autori di atti moralmente deprecabili potessero essere inibiti dal prendere parola in assemblea[75] tanto che Danilo Dalla parla di diminuzione di capacità di diritto pubblico[76], come testimonierebbe la Tabula Heracleensis[77].
Dunque, il presentare in pubblico il proprio corpo con vesti non adeguate alla propria sessualità produsse conseguenze non solo sulla sfera privata del fanciullo – la violenza subita – ma anche sulla sua sfera pubblica. La testimonianza è di particolare interesse in quanto dimostra quanto il riconoscimento dei diritti civili fosse ancorato al giudizio pubblico di cui il civis godeva e a cui il magistrato poteva inibire di parlare in una pubblica assemblea per aver contravvenuto alle regole di costume che lo status sociale corrispondente imponeva. A rafforzare questa lettura v’è l’autorità di Eva Cantarella che ha sottolineato che la pudicitia di un giovane romano nato libero poteva declinarsi sia sostanzialmente che formalmente. E se dal punto di vista sostanziale era il non farsi coinvolgere in una relazione omosessuale rivestendo i panni del partner passivo, da un punto di vista formale era un problema d’immagine, di pubblica rappresentazione del proprio aspetto[78].
6. Violazione della dignitas e publica auctoritas
Il secondo passo di Seneca che assume particolare interesse ai fini della nostra indagine è il seguente:
Sen., contr. 9.2.1-17: Maiestatis laesae sit actio. Flamininus proconsul inter cenam a meretrice rogatus, quae aiebat se numquam vidisse hominem decollari, unum ex damnatis occidit. accusatur maiestatis. […] 13. Montanvs Votienvs has putabat quaestiones esse: an, quidquid in magistratu peccavit proconsul, vindicari possit maiestatis lege […] [14][…] Si non omne non recte factum hac lege vindicari potest, an id, quod sub auctoritate publica geritur. Nam cum adulterium committit, (cum veneficium,) tamquam civis peccat [cum veneficium]; cum animadvertit, auctoritate publica utitur. in eo autem, quod sub praetexto publicae maiestatis agitur, quidquid peccatur maiestatis actione vindicandum est. Dic enim mihi, si, cum animadvertere debeat, non legitimo cultu ac more sollemni usus interdiu tribunal conscenderit convivali veste […] non laedet maiestatem? […] [17] SILO POMPEIVS has adiecit quaestiones: an, si, quod facere ei licuit, fecit, non possit maiestatis lege accusari: potest, inquit; haec enim lex, quid oporteat, quaerit, aliae, quid liceat. licet ire in lupanar; si praecedentibus fascibus praetor deducetur in lupanar, maiestatem laedet, et(iamsi) quod licet fecerit. licet qua quis velit veste uti; si praetor ius in veste servili vel muliebri dixerit, violabit maiestatem. […].
La vicenda narrata dovette suscitare non poco clamore come provano non solo la radiazione dal Senato del suo protagonista ad opera di Catone nel 184 a.C., ma altresì la molteplicità di autori che la registrano: Cicerone[79], Valerio Massimo[80], Plutarco[81] e Livio[82].
Il caso è questo: il proconsole Lucio Quinzio Flaminino fece decollare un condannato a morte durante un banchetto a ciò persuaso da una cortigiana la quale si doleva di non aver mai visto decapitare un uomo. Il magistrato venne per questo suo gesto accusato di maiestas[83].
È lo stesso Seneca ad osservare che in un caso del genere la condotta sotto giudizio è difficilmente giustificabile sul piano morale, e si può al massimo cercare di attenuare la sua natura colpevole[84]; conformemente a ciò, nella divisio della controversia, Vozieno Montano rinuncia a difendere l’imputato in punto di giudizio di fatto, cioè secondo la qualitas dello status causae, ma, come suggerisce Quintiliano[85], si rifugia nel giudizio di diritto, contestando che il proconsole possa essere perseguito sulla base della lex maiestatis[86], ritenendo che il punto essenziale della questione fosse uno solo: se tutti gli errori che commette un magistrato in carica possano solo per questo esser perseguiti in base alla legge sulla lesa maestà. Pompeo Silone osservò al riguardo che il magistrato può incorrere nel reato di lesa maestà qualora pur nel pieno esercizio nel suo officium commetta azioni di per sé lecite ma che se fatte in un determinato contesto – come un banchetto – non sono possono più essere considerate tali. Come scrive Orazio Licandro: «[s]eguendo le argomentazioni del retore Pompeio Silone, secondo Seneca un magistrato doveva sempre stare attento ai doveri che derivavano dalla carica e dallo status di magistrato. Ad esempio, era certamente lecito per un uomo ire in lupanar, ma le cose cambiavano se si trattava di un praetor, giacché in tal caso non poteva recarvisi in veste ufficiale: ciò avrebbe costituito una maiestatis laesio. Allo stesso modo, seppur fosse tollerato vestirsi come si preferiva, un praetor non avrebbe dovuto amministrare la giustizia con indumenti servili e muliebri. Indossare abiti che rappresentavano ruoli sociali inferiori rispetto all’officio ricoperto avrebbe costituito una palese offesa alla maiestas»[87]. Il fulcro del problema dunque sta nel verificare se con la sua condotta il magistrato, si sta parlando dunque di un reato che oggi qualificheremo come proprio, abbia recato disdoro all’immagine dello “Stato” pur tenendo una condotta in sé conforme al diritto.
Un magistrato se può indossare in privato vesti femminili, viola la maiestas del popolo romano ogni qual volta lo faccia nell’esercizio delle sue funzioni[88], ed infatti come si legge nel brano: licet qua quis velit veste uti; si praetor ius in veste servili vel muliebri dixerit, violabit maiestatem. L’utilizzo di vesti femminili comporta l’imputabilità de maiestate per il magistrato che si sia presentato in pubblico, nell’esercizio delle sue funzioni, in modo non consono alla carica ricoperta. Licandro ricava dalla testimonianza senecana, a nostro sommesso avviso in modo del tutto convincente, il fatto che il crimen maiestatis fosse contraddistinto da una «fisionomia volutamente elastica, soprattutto per le ipotesi in cui soggetto attivo del reato fosse un magistrato»[89]; continua lo studioso: «comportamenti tollerati per uomini comuni, diventavano gravi atti lesivi se commessi da un magistrato auctoritate publica»[90].
Quest’ultima controversia pare trovare una proiezione nel mondo contemporaneo, solo se si riflette su quanto statuito dal Consiglio di Stato in merito ad un funzionario uomo delle forze dell’ordine incline ad indossare vesti femminili. Ebbene, la suprema corte della giustizia amministrativa ha stabilito che il travestimento in abiti femminili di un uomo non possa qualificarsi in sé indecoroso se l’atteggiamento assunto non consiste in pose sconvenienti o contrastanti col comune senso del pudore, del rispetto della propria o altrui persona. E che ciò vale anche se tratta di un soggetto che esercita una pubblica funzione, a patto che agisca nella sfera della sua vita privata, senza riconoscibilità del suo status e senza alcun riferimento all’amministrazione di appartenenza; garantendo così che non venga leso il decoro caratterizzante il pubblico ufficio (Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 3 dicembre 2013 - 21 febbraio 2014, n. 848). Il Consiglio di Stato puntualizza che l'idea di ‘decoro’ appartiene alla morale che varia nel tempo e nello spazio, specialmente nella nostra epoca caratterizzata da una rapida e costante evoluzione delle opinioni circa la vita sessuale delle persone. Il concetto di ‘decoro’, invero, dal punto di vista giuridico, è una clausola indeterminata e duttile, la definizione dei cui confini è affidata all’interprete in un determinato contesto storico-sociale, e che risente dell’evoluzione dei costumi e della cultura, tanto che la condotta che poteva essere avvertita come contraria al sentimento pubblico della decenza e offensiva per la sensibilità e moralità sociale alcuni decenni or sono, oggi ha mutato la sua portata lesiva essendo tollerata o accettata dalla coscienza sociale. Come afferma da tempo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, “la libertà di espressione costituisce una delle fondamenta essenziali della società, una delle condizioni sostanziali per il suo progresso e per lo sviluppo di ogni Uomo. Così ogni «formalità», «condizione», «restrizione» o «sanzione» imposta in materia di libertà di espressione deve essere proporzionata allo scopo legittimo perseguito”[91]. Inoltre, sempre la CEDU ha affermato che lo stesso tipo di divieto non costituisce violazione dell’art. 10 della Convenzione, nonostante le restrizioni sull’abbigliamento ben possano integrare violazioni della libertà di espressione, in quanto “ai fini della configurabilità della violazione, deve essere inequivoco che attraverso gli abiti si voglia comunicare una specifica idea o convinzione”[92]. Sicché, per il diritto vivente, come anticipato, il travestimento in abiti femminili non può qualificarsi in sé ‘indecoroso’ se l’atteggiamento assunto non consiste in pose sconvenienti o contrastanti col comune senso del pudore, del rispetto della propria o altrui persona. Orbene, per il Consiglio di Stato ciò vale anche se trattasi di agente di pubblica sicurezza, che agisce nella sfera della sua vita privata, senza riconoscibilità del suo status e senza alcun riferimento all’amministrazione di appartenenza.
7. Considerazioni conclusive
Difficile giungere a delle conclusioni. Sicuramente da parte dell’interprete moderno v’è da superare l’approccio essenzialista tipico dell’oggi, quello per cui ciò che si fa coincide con ciò che si è. Generalizzando, si può dire invece che negli antichi prevaleva un approccio di matrice funzionalista.
Un diverso diaframma che impedisce uno sguardo analitico sul fenomeno era ed è costituito dal moralismo: esso in molte fonti superstiti condiziona lo sguardo sulle pratiche che comportavano fusione o confusione tra maschile e femminile. Dietro quel moralismo e i suoi giudizi negativi, stava in realtà un timore: chi portava abiti diversi da quelli attesi mostrava di voler uscire dall’orizzonte dei comportamenti normali, e di aprire la via a minacciose inversioni di ruoli. Provava la possibile manifestazione del proprio corpo divergente da quella che la comunità pretendeva, secondo parametri codificati della vita pubblica, ed infatti i casi nei quali una simile condotta pare interessare il diritto sono proprio quelli in cui la collettività entra o nella forma dei diritti civili o del pubblico esercizio. Più tardi le ironie dei poeti satirici colpiranno gli uomini molli: ma che in loro l’adozione di usi femminili significasse femminilità era più il frutto di uno stereotipo che un fatto da tutti condiviso.
Come si è cercato di dimostrare dunque simili condotte non erano del tutto indifferenti per il diritto e potevano comportare delle sanzioni che incidevano sulla vita pubblica dei cives sino a privarli del diritto di parola.
Abstract (ENG): The paper carries out a survey on the legal relevance of the public representation of the body of the Roman man; in particular, he dwells on the sources dealing with the discipline relating to men's clothing, which attest to how the clothing code was relevant in the public life of the vir, especially if belonging to the upper class. Precious in this regard are two controversies by Seneca the Rhetor. In a diachronic perspective, a reference is made to recent judgments of both national courts and the European Court of Human Rights on the subject of freedom of expression and this due to the suggestion that such decisions evoke in the expert of ancient law.
Keywords (ENG):vestimenta; clothing; cross-dressing; controversiae; pudicitia; inpudicus; stuprum; vis; iniuria; legatum.
* Università degli Studi di Napoli Federico II (fausto.giumetti@unina.it).
** Il contributo è stato sottoposto a double blind review.
[1] F. Hegel, Estetica, cur. N. Merker, Milano, 1963, parte III, p. 982.
[2] F. De Saussure, Corso di linguistica generale, Bari, 2003, passim, spec. pp. 298 ss.
[3] Cfr. A. Martinet, Elementi di linguistica generale, Bari, 1965, spec. p. I.6.; R. Barthes, Sistema della Moda. La Moda nei giornali femminili: un’analisi strutturale, Torino, 1970, spec. pp. 20 ss.
[4] Come avverte E. Cantanella, Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell'antica Roma, Milano, 2012, pp. 5 s.
[5] Hanno recentemente riportato l’attenzione dei giuristi sulla ricchezza di un approccio ermeneutico che tesaurizzi i risultati ai quali è giunta l’antropologia L. Maganzani, Romanistica e antropologia per un dialogo interdisciplinare, in BIDR, CVI (2012), pp. 137-211; Ead., Per uno sguardo antropologico del giurista: il rapporto padre-figlio nel mondo romano, in Giuristi nati. Antropologia e diritto romano, a cura di A. McClintock, Bologna, 2016, pp. 99-134; spec. pp. 99-102; si è occupata del dialogo instaurato tra le due discipline A. Negri, Il giurista dell’area romanistica di fronte all’etnologia giuridica, Milano, 1983, passim; le ragioni storiche che hanno maturato la pervicace diffidenza della scienza romanistica avverso l’ermeneutica antropologica sono state definitivamente chiarite da L. Capogrossi Colognesi, Dalla storia di Roma alle origini della società civile. Un dibattito ottocentesco, Bologna, 2008, passim; Id., A cent’anni dalle ‘res mancipi’ di Pietro Bonfante, in Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, XVII (1988), pp. 111-154 (= Id.,Scritti scelti, vol. II, Napoli, 2010, pp. 1077-1120, da cui cito).
[6] Cfr. M. Bettini, Dai Romani a noi. Conversazioni con Francesca Prescendi e Daniele Morresi, Bologna, 2019, pp. 143 s.
[7] Si tratta di categorie interpretative elaborate da K.L. Pike, Language in Relation to a Unifed Theory of the Structure of Human Behaviour, Glandele, 1967, spec. pp. 8-15.
[8] A. McClintock, Contributi allo studio della follia in diritto romano. I, Napoli, 2020, pp. 43 s.
[9] A. McClintock, Contributi allo studio, cit., 43.
[10] Anche se per Antonio Guarino «l’inclinazione a travestirsi, salvo che a scopi illeciti o per effetto di penose deviazioni psichiche, era molto minore, sembra, che non al giorno d’oggi» A. Guarino, Le matrone e i pappagalli, in Pagine di Diritto Romano, vol. VI, Napoli, 1995, p. 272; Id., Quinto Mucio e i «boni viri», in Pagine di Diritto Romano, vol. V, Napoli, 1994, pp. 76 s. Di notevole interesse è il tema dell’utilizzo di un rigido codice vestiario da parte dei Padri della Chiesa, tema, questo, finemente trattato in V. Neri, Vestito e corpo nel pensiero dei padri tardoantichi, in An. Tard, 12 (2004), pp. 223-230.
[11] Il tema è stato recentemente discusso da V. Neri, L’apparenza fisica delle élites maschili romane: modelli e realtà, in, Senatori, cavalieri e curiali fra privilegi identitari e mobilità verticale, a cura di O. Licandro – C. Giuffrida – M. Cassia, Roma, 2020, pp. 9-18. M. McDonnel, “Virtus” and the Roman Republic, Cambridge, 2006, spec. pp. 181 s.; K. Olson, Masculinity, Appearance, and Sexuality: Dandies in Roman Antiquity, in Journal of the History of Sexuality, XXIII, 2014, pp. 182 s.
[12] Per una esaustiva ricognizione della sterminata bibliografia in argomento v. C. De Cristofaro, Riflessioni in tema di rilevanza giuridica del legame omosessuale nell’antica Roma, in Il corpo in Roma antica. Ricerche giuridiche, a cura di L. Garofalo, vol. II, Pisa, 2017, pp. 155-242. Lo studioso è tornato in argomento con Impudicus. Il diritto romano di fronte al prisma della sessualità maschile dalle origini al principato, Napoli, 2022, dove in più luoghi tratta, con acume, aspetti di particolare interesse in queste pagine, spec. nei paragrafi 1, 6 e 7 del terzo capitolo della seconda parte della monografia.
[13] Circa i problemi giuridici collegabili all’ermafrodita si rinvia a L. Franchini, Lo status dell’ermafrodita e il problema della determinazione del sesso prevalente, in TSDP, IX (2016), pp. 1-43, con ricco apparato bibliografico in tema.
[14] A. van Gennep, I riti di passaggio, Torino, 2002, passim. Sull’utilità di un approccio antropologico allo studio del diritto romano v. L. Maganzani, Romanistica e antropologia, cit., passim; Ead., Per uno sguardo antropologico del giurista: il rapporto padre-figlio nel mondo romano e degli altri autori nel volume Giuristi nati. Antropologia e diritto romano, a cura di A. McClintock, 2016, Bologna.
[15] Sull’identità di genere nel mondo antico esaminata sub specie iuris v. E. Cantarella, Identità, genere e sessualità nel mondo antico, in “Homo”, “caput”, “persona”. La costruzione giuridica dell’identità nell’esperienza romana. Dall’epoca di Plauto a Ulpiano, a cura di A. Corbino - M. Humert - G. Negri, Pavia, 2010, pp. 78-89 (= Ead., Diritto e società in Grecia e a Roma. Scritti scelti,a cura di A. Maffi - L. Gagliardi, Milano, 2011, pp. 938-951.
[16] Catull. 63.17.
[17] Conforme Cass. Pen, Sez. VI, 29 ottobre 1976, nr. 11339. Riferimenti moderni in tema di travisamento sono pertanto: art. 35 TULPS 1931; Legge nr. 689/1981; artt. 339, 625,628 c.p.
[18] Suet., Aug. 40.5: “Etiam habitum vestitumque pristinum reducere studuit, ac visa quondam pro contione pullatorum turba indignabundus et clamitans: «en Romanos, rerum dominos, gentemque togatam!» negotium aedilibus dedit, ne quem posthac paterentur in Foro circave nisi positis lacernis togatum consistere”. La normazione del codice vestiario era tutt’altro che una novità, basti pensare alla perduta orazione De vestitu et vehiculis attribuita a Catone, sebbene nel caso del Censore l’obiettivo era il contenimento e la riduzione della magnificenza pubblica e privata.
[19] Il principe cercò di realizzare la cura morum soprattutto legiferando, com’è noto, in materia di diritto di famiglia attraverso la lex Iulia de adulteriis coercendis, la lex Iulia de maritandis ordinibus e la lex Papia Poppea nuptialis, sulle quali cfr. P. Jörs, ‘Iuliae rogationes’. Due studi sulla legislazione matrimoniale augustea, con una nota di lettura di T. Spagnuolo Vigorita ([1894,1882] rist. an. in Antiqua, vol. 36, Napoli, 1985.
[20] D.A. Manfredini, Qui commutant cum feminis vestem, in RIDA, 32 (1985), p. 262.
[21] Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, vol. II.1, Berlin, 1887, 3° ed., p. 509 e nt. 2.
[22] T.A.J. McGinn, Prostitution, Sexuality, and the Law in Ancient Rome, New York, 1998, p. 202.
[23] Per quanto riguarda la legislazione sul lusso v. A. Bottiglieri, Le leggi sul lusso tra Repubblica e Principato: mutamento di prospettive, in Mélanges de l'École française de Rome - Antiquité, 128-1, 2016, pp. 1 ss.; Ead.,La legislazione sul lusso nella Roma Repubblicana, Napoli 2002, passim; C. Venturini, «Leges sumptuariae», in Index, 32 (2004), pp. 355 ss.; Id., Ereditiere ed ereditande (appunti a margine di una recente ricerca), in BIDR, 100 (1987 pubbl. 2003), pp. 617 ss.; Id., ‘Leges sumptuariae et obstinatio luxuriae’: semplice carenza di sanzioni?, in Scritti di diritto penale romano, a cura di F. Procchi - C. Terreni, Padova, 2016, pp. 791 ss.; sul tema v. della politica suntuaria v. G. Clemente, Le leggi sul lusso e la società romana tra III e II secolo a.C., in Società romana e produzione schiavistica, III. Modelli etici, diritto e trasformazioni sociali, a cura d A. Giardina - A. Schiavone, Bari, 1981, p. 10, parla di «leggi intese a proteggereil patrimonio romano, e con esso la stabilità della prima classe di censo»;analogamente E. Gabba, Ricchezza e classe dirigente romana fra III e I sec. a.C., in RSI, 103 (1981), pp. 541 ss., ora in Del buon uso della ricchezza, Milano, 1988, pp. 27 ss.; M. Balestri Fumagalli, Riflessioni sulla ‘lex Voconia’, Milano, 2008, pp. 80 ss.; G. Gulina, ‘Cum intellegam legem Voconiam’. Il ruolo del pretore circa l’apprezzamento della ricorrenza dei presupposti di applicazione della legge, in‘Iuris Quidditas’. ‘Liber Amicorum’ per B. Santalucia, Napoli, 2010, pp. 151 ss.; da ultima sul tema A. McKlintock, La ricchezza femminile e la ‘Lex Voconia’, Napoli, 2022, passim.
[24] Suet., Div. Augu. 44.1-2: Spectandi confusissimum ac solutissimum morem correxit ordinavitque, motus iniuria senatoris, quem Puteolis per celeberrimos ludos consessu frequenti nemo receperat. Facto igitur decreto patrum ut, quotiens quid spectaculi usquam publice ederetur, primus subselliorum ordo vacaret senatoribus, Romae legatos liberarum sociarumque gentium vetuit in orchestra sedere, cum quosdam etiam libertini generis mitti deprendisset. Militem secrevit a populo. Maritis e plebe proprios ordines assignavit, praetextatis cuneum suum, et proximum paedagogis, sanxitque ne quis pullatorum media cavea sederet.
[25] Sulla rilevanza sociale e giuridica dell’assegnazione dei posti a teatro cfr. A. Cassarino, Sul divieto di occupare i posti in teatro: il caso delle accuse di Cicerone ad Antonio (Phil. 2.18.44), in SDHI, 83 (2017), pp. 577-589.
[26] Sulla indignatio come canone stilistico e retorico delle satire di Giovenale v. W.S. Anderson, Juvenal and Quintilian, in YClS, 17 (1961), pp. 1-93 (= in Id., Essays on Roman Satire, Princeton 1982, pp. 396- 486 [da cui si cita]); A. Stramaglia, Giovenale, Satire 1,7, 12, 16. Storia di un poeta, Bologna, 2008, pp. 15 s.;
[27] D’altronde la toga era una veste ad esclusivo appannaggio dei cives esplicitamente vietata ai peregrini e ai dediticii: Polyb. 10.4.8 s.; Quint., inst. or. 2.5.19; Hor., sat. 1.5.41; Plin., ep. 4.11.3; 7.11.3; Suet., Clau. 15.2; Marcian. 14 inst. D. 49.14.32. Sul valore identitario della toga v. C. Vout, The Myth of the Toga. Understanding the History of Roman Dress, in Greece & Rome, 43.2 (1996), pp. 204-220; sulla rilevanza socio-politica del colore della toga v. Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, vol. I3, Leipzig, 1887, pp. 408 ss.; H. Siber, Römisches Verfassungsrecht in geschichtlicher Entwicklung, Schauenburg in Lahar, 1952, p. 158 nt. 3; A. Casartelli, La funzione distintiva del colore nell’abbigliamento romano della prima età imperiale, in Aevum, 72 (1998), pp. 109 ss., spec. p. 119, ivi ulteriore bibliografia. Sull’utilizzo della toga nel Tardoantico v. O. Licandro, Legislazione de habitu, ius togae, cittadinanza in età tardoantica, in Koinωnia, 44/1 (2020), pp. 841-861.
[28] Sulle fonti giuridiche utilizzate dagli autori della Historia Augusta vd., con aggiornata bibliografia, F. Nasti, I senatus consulta nella Historia Augusta. Provvedimenti senatori e opere giurisprudenziali, in Rappresentazione ed uso dei senatus consulta nelle fonti letterarie del principato, a cura di P. Buongiorno - G. Traina, Stüttgart, 2019, pp. 245-275; G. Zecchini, Storia della storiografia romana, Roma-Bari, 2016, p. 218 in quale offre una rivalutazione dell’opera a fronte di chi la considera un’opera di finzioni.
[29] Contra E. Nardi, La seta nella normativa imperiale romana, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, vol. VI, Napoli, 1994, pp. 2979–3007, che ritiene che l’alto costo del materiale importato venne vietato proprio per ragioni suntuarie; della stessa idea è J. Edmondson, Public Dress and Social Control in Late Republican and Early Imperial Rome, in Roman Dress and the Fabrics of Roman Culture, a cura di J. Edmondson - A. Keith Toronto, 2008, pp. 32-34; sul punto v. D. Dalla, ‘Ubi Venus mutatur’. Omosessualità e diritto nel mondo romano, Milano, 1987, p. 19.
[30] Collega l’utilizzo di simile vestiario alla pudicitia anche Plin., N.H. 11.27.78: […] nec puduit has vestes usurpare etiam viros levitatem propter aestivam […].
[31] Basti pensare che ad Alessandro Severo è attribuito il proposito di introdurre le uniformi tra i cives dell’Urbe, iniziativa che vide le forti opposizioni di Ulpiano e Paolo (Hist. Aug., Alex. Sev. 27.1-4).
[32] Sullo scandalo della Bona Dea cfr. oltre la fondamentale lettura di Ph. Moreau, Clodiana Religio. Un procès politique en 61 avant J.C., Paris, 1982, passim, v. ora, anche per gli aspetti più squisitamente giuridici della vicenda, D. Campanile, The patrician, the general, and the emperor in women’s clothes: examples of crossdressing in Late Republican and Early Imperial Rome, in TransAntiquity. Cross-dressing and Transgender Dynamics in the Ancient World, a cura di D. Campanile - F. Carlà-Uhink - M. Facella, New York, 2017, pp. 52-64; da ultima, M. Ravizza, Pontefici e vestali nella Roma repubblicana, Milano, 2020, pp. 213 ss.
[33] Mart., epig. 5.11; 5.61; 11.59; 12.38.
[34] Suet., Nero 28-29. Tacito narra che durante le nozze con Pitagora fu lo stesso Nerone a presentarsi vestito da sposa, cfr. Tac., Ann. 15.37.
[35] A. Guarino, Le matrone, cit., p. 272.
[36] Come ha sottolineato A.D. Manfredini, Qui commutant cum feminis, cit., p. 261.
[37] M. Brutti, Interpretare i contratti. La tradizione, le regole, Torino, 2017, p. 65. Il caso del legato in questione è stato oggetto di attenta disamina da parte di R. Astolfi, Studi sull’oggetto dei legati in diritto romano2, Padova, 1969, passim, su cui v. A. Guarino, Quinto Mucio, cit., pp. 73 ss.; v. G. Gandolfi, Studi sull’interpretazione degli atti negoziali in diritto romano, Milano, 1966, pp. 87 ss.; P. Voci, Interpretazione del negozio giuridico, in Enciclopedia del Diritto, vol. XXII, Milano, 1972, pp. 252 ss., spec. p. 256; da ultima M.A. Ligios, Animus adimendi. Ricerche sull’alienazione del bene oggetto di legato in diritto romano, Milano, 2017, passim.
[38] M. Brutti, Interpretare i contratti, cit., 65.
[39] M. Brutti, Interpretare i contratti, cit., 66.
[40] A.D. Manfredini, Qui commutant cum feminis vestem, in RIDA, XXXII (1985), p. 263.
[41] Sulla comminazione della nota censoria v. F. Camacho, La Infamia en el Derecho Romano, Valencia, 1997, passim; L. Pommeray, Etudes sur l’infamie en droit romain, Paris, 1937, passim; A.E. Astin, Augustus and censoria potestas, in Latomus, 22 (1963), pp. 226-235; M. Kaser, Infamia und Ignominia in den romischen Rechtsquellen, in ZSS, 73 (1956), pp. 220-278; interessante la posizione di A.H.J. Greenidge, Infamia. Its place in roman public and private law, Oxford 1977, passim che distingue tra infamia censoria e infamia pretoria. Invero in una testimonianza di Aulo Gellio (Noct. Att. 6.12.4) si fa riferimento al fatto che Publio Sulpicio Gallo oltre ad essere effeminato si mostrava in pubblico con tuniche che arrivavano a coprire le mani, costume del tutto disdicevole in quanto in contrasto con i mores. Ebbene Aulo Gellio qualifica un simile atteggiamento come probum, forse nella sua accezione tecnica che designa l’illecito morale punito dai censori; cfr. Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, cit., p. 382 nt. 8; A.D. Manfredini, Qui commutant, cit., p. 264 nt. 47; circa l’utilizzo di Aulo Gellio come fonte per la ricostruzione degli istituti giuridici v. R. D’Alessio, Note su Gellio, diritto e giurisprudenza, in Seminarios Complutenses de Derecho Romano, XXVII (2014), pp. 447-475 e i contributi raccolti in, Dolabella, gli Areopagiti e l’irragionevole durata del processo.Gellio, Notti Attiche 12.7, a cura di A. Atorino - G. Balestra - R. D’Alessio, Lecce, 2021; sull’analisi del termine probrum si è soffermato G. Greco, Turpitudo. Alle origini di una categoria giuridica, Napoli, 2018, pp. 108 ss.
[42] D. A. Russell, Greek declamation, Cambridge 1983, passim.
[43] M. Lentano, Retorica e diritto. Per una lettura giuridica della declamazione latina, Lecce, 2014, p. 32; Id., La declamazione a Roma. Breve profilo di un genere minore, Palermo, 2017, passim.
[44] C. Masi Doria, «Libertorum bona ad patronos pertineant»: su Calp. Flacc. decl. exc. 14, in Index, 40 (2012), p. 313.
[45] G. Rizzelli, Declamazione e diritto, in, La declamazione latina. Prospettive a confronto sulla retorica di scuola a Roma antica, a cura di M. Lentano, Napoli, pp. 2015, 211-270; Id., Fra Giurisprudenza e Retorica Scolastica. Note sul ius a Sofistopoli, in Iura&Legal Systems, VI (2019/4), pp. 102-114.
[46] D. Mantovani, I giuristi, il retore e le api. Ius controversum e natura nella Declamatio maior XIII, in Testi e problemi del giusnaturalismo romano, a cura di D. Mantovani - A. Schiavone,Pavia 2007, p. 326. Lo studioso si stupisce, pertanto, della “perdurante marginalità, anzi quasi totale assenza delle declamationes dal novero delle fonti che vengono di solito messe a frutto per la storia del diritto» pur essendo ben consapevole che «la rilevanza sotto questo profilo delle declamationes è condizionata (a prescindere dalla dipendenza da modelli greci ed ellenistici) dall’essere prodotti di invenzione, condizione che implica una vera e propria trasformazione della materia, in ottemperanza alle regole di composizione retorico-letteraria che presiedono al genere”, p. 326.
[47] Fondamentali gli studi della studiosa sulla declamazione quintilianea e pseudo quintilianea, tra i quali The Son Suspected of Incest with His Mother (Major Declamations, 18-19), Cassino, 2015, passim.
[48] Più datate rispetto alla dottrina già citata ma utili per una visione d’insieme del fenomeno, restano G. Boissier, The Schools of Declamation at Rome. Tacitus and Other Roman Studies, London, 1906, pp. 163-194; D.L. Clark, Some Values of Roman declamatio, in QJS, 35 (1949), 280-283.
[49] Cfr. M. Lentano, Retorica e diritto, cit., 25.
[50] M. Lentano, Retorica e diritto, cit., p. 25.
[51] Per un esame della controversia nei suoi aspetti essenziali v. Seneca, the Elder, Declamations: Controversiae, books 1-6, (ed.) M. Winterbottom, Cambridge, 1999, passim.
[52] Cfr. S. Puliatti, La dicotomia vir-mulier e la disciplina del ratto nelle fonti legislative tardo-imperiali, in SDHI, LXI (1995), pp. 479 ss.; F. Goria, s.v. Ratto (diritto romano), in Enciclopedia del Diritto, vol. XXXVIII, Milano, 1987, p. 715 nt. 45.
[53] G. Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis. Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, Lecce, 1997, p. 255 nt. 322; Id., Lex Iulia de adulteriis. Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, Lecce, 1997, pp. 254-257; F. Botta, Per vim inferre. Studi su stuprum violento e raptus nel diritto romano e bizantino, Cagliari, 2004, pp. 99-100; R. Lambertini, Stuprum violento e ratto, in Index, 36 (2008), pp. 505-520 spec. pp. 512-513.
[54] F. Botta, Stuprum per vim illatum. Violenza e crimini sessuali nel diritto classico e dell’occidente tardoantico, in, Violenza sessuale e società antiche. Profili storico-giuridici, 2 ed., a cura di F. Lucrezi - F. Botta - G. Rizzelli, Lecce, 2011, p. 88.
[55] Marc. 14 inst. D. 48.6.3.4: “Praeterea punitur huius legis poena, qui puerum vel feminam vel quemquam per vim stupraverit”.
[56] Per una disamina delle varie teorie sulla riconducibilità del ratto alla disciplina dettata dalla lex Iulia de vi privata o a quella prevista dalla lex Iulia de vi publica, v. F. Goria, s.v. Ratto, cit., pp. 709 ss.
[57] Il ruolo della pudicitia nella cultura romana si trova adeguatamente compendiato in S. Fusco, Edictum de adtemptata pudicitia, in Diritto@Storia, 9 (2010), passim; Ead., Specialiter autem iniuria dicitur contumelia, Roma, 2020, pp. 71 ss., con amplia ed aggiornata bibliografia sul punto; J.F. Gardner, Sexing a Roman: imperfect men in Roman law, in When Men Were Men: Masculinity, Power and Identity in Classical Antiquity, (ed.) L. Foxhall - J. Salmon, New York, pp. 136–152. Sul ruolo della pudicitia all’interno dell’elaborazione declamatoria latina cfr. R. Langlands, Sexual Morality in Ancient Rome, Cambridge, 2006, spec. pp. 247-280. Sul rapporto tra morale privata e diritto di parola cfr. P.-B. Smit, Are all Voices to be heard? Considerations about Masculinity and the Right to be heard in Philippians, in Lectio difficilior, 2 (2015), pp. 1-11.
[58] Editto dall’incerta datazione che per D. De La Puerta Montoya, Estudio sobre ed “Edictum de adtemptata pudicitia”, Madrid, 1995, spec. pp. 141-154 doveva comunque essere successivo alla lex Scatinia, databile approssimativamente attorno al 220 a.C., giacché la condotta oggetto della sanzione edittale era più tenue rispetto a quella regolata dal provvedimento legislativo. Della stessa opinione E. Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico2, Roma, 1992, p. 155. Sulla redazione dell’editto M. Bravo Bosch, Algunas consideraciones sobre el ‘edictum de adtemptata pudicitia’, in Actas del II Congreso Iberoamericano de Derecho Romano, vol. II, Murcia, 1998, pp. 245 ss.
[59] O. Lenel, Das Edictum perpetuum, Leipzig, 19273, p. 400 (tit. XXXV, § 192).
[60] Gai 3.220: Iniuria autem committitur non solum, cum quis pugno puta aut fuste percussus uel etiam uerberatus erit, sed etiam si cui conuicium factum fuerit, siue quis bona alicuius quasi debitoris sciens eum nihil sibi debere proscripserit siue quis ad infamiam alicuius libellum aut carmen scripserit siue quis matrem familias aut praetextatum adsectatus fuerit et denique aliis pluribus modis.
[61] I. 4.4.1: Iniuria autem committitur non solum cum quis pugno puta aut fustibus caesus vel etiam verberatus erit, sed etiam si cui convicium factum fuerit, sive cuius bona, quasi debitoris, possessa fuerint ab eo qui intellegebat nihil eum sibi debere, vel si quis ad infamiam alicuius libellum aut carmen scripserit, composuerit, ediderit, dolove malo fecerit quo quid eorum fieret; sive quis matremfamilias aut praetextatum praetextatamve adsectatus fuerit, sive cuius pudicitia attentata esse dicetur: et denique aliis pluribus modis admitti iniuriam manifestum est.
[62] Paul. 55 ad ed. D. 47.10.10: Adtemptari pudicitia dicitur, cum id agitur, ut ex pudico impudicus fiat.
[63]Ulp. 57 ad ed. D. 47.10.15.15: Si quis virgines appellasset, si tamen ancillari veste vestitas, minus peccare videtur: multo minus, si meretricia veste feminae, non matrum familiarum vestitae fuissent. si igitur non matronali habitu femina fuerit et quis eam appellavit vel ei comitem abduxit, iniuriarum tenetur; sulla sua collocazione è stato osservato che: “il frammento porta erroneamente l’inscriptio «77 ed.»”, ma la collocazione nel libro 57 del commento edittale di Ulpiano è sicura: cfr. Lenel, Ulp. 1352»: A. Guarino, Le matrone, cit., p. 262 nt. 1.
[64] S. Fusco, Edictum de adtemptata, cit., p. 9 (= Ead., Specialiter autem iniuria, cit., pp. 91 s.).
[65] Si tratta di una questione molto controversa in quanto, come ha evidenziato F. Lanfranchi, Il diritto nei retori romani. Contributo alla storia dello sviluppo del diritto romano, Milano, 1938, p. 379 s. l’esperimento dell’actio iniuriaum contrastava con D. 47.10.13.6, per cui gli atti compiuti “iure potestatis” non sono soggetti all’actio iniuriarum; cfr. C. De Cristofaro, Impudicus, cit., p. 113 e nt. 41.
[66] Cfr. G. Pugliese, Studi sull’iniuria, Milano, 1940, passim; A.D. Manfredini, Contributo allo studio dell’iniuria in età repubblicana, Milano, 1977, passim; Id., Quod edictum autem praetorum de aestimandis iniuriis, in Illecito e pena privata in età repubblicana, (cur.) F. Milazzo, Napoli, 1992, pp. 65 ss.
[67] P. Ziliotto, Sulla non patrimonialità del danno e dell’interesse nel diritto romano, Alessandria, 2012, passim.
[68] Sul punto v. D.A. Centola, Le sofferenze morali nella visione giuridica romana, Napoli, 2011, passim; A. Sicari, Danno non patrimoniale e legittimazione ad agire, in Parti e giudici nel processo. Dai diritti antichi all’attualità, (cur.) C. Cascione - E. Germino - C. Masi Doria, Napoli, 2006, pp. 247-288, spec. p. 249 nt. 1; Ead., Gli interessi non patrimoniali in Giavoleno. Studio su D. 38.2.36, Bari, 2007, pp. 23 ss. Tra gli studiosi di diritto positivo sul punto si segnala per la sua sensibilità romanistica G. Bonilini, Il danno non patrimoniale, Milano, 1983, pp. 93 ss. Molto opportunamente Maria Floriana Cursi indagando il tema del danno non patrimoniale nel panorama moderno ha evidenziato l’impossibilità di ridurre il danno non patrimoniale al mero patema d’animo: M.F. Cursi, Il danno non patrimoniale e i limiti storico-sistematici dell’art. 2059 c.c., in Aa.Vv., Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato. Obbligazioni e diritti reali, Napoli, 2003, pp. 103 ss., spec. p. 115 e nt. 37.
[69] G. Bassanelli Sommariva, C. Th. 9.5. ad legem Juliam maiestatis, in BIDR, 86-87 (1984), pp. 119 ss.
[70] Interessante questo inciso. Il magistrato si difende affermando di non aver posto in essere nessuna condotta minimamente lesiva dell’altrui persona attraverso un esercizio abusivo del proprio officium, tantomeno di aver composto versi diffamatori; cfr. Gai 3.220; Cic., Tusc. 4.2 dove si ricorda che una simile attività lesiva dell’altrui rispettabilità era vietata dalle XII Tavole, e, al riguardo, Horat., sat. 2.1.82; ep. 2.1.152. A tale riguardo come avviene in Ulp. 77 ad ed. D. 47.10.15.21 dove sono prese in esame le conseguenze derivanti dall’uso di determinate modalità espressive: Qui turpibus verbis utitur, non temptat pudicitiam, sed iniuriarum tenetur. Ulpiano, annotando le disposizioni dell’editto, riferisce che l’uso di parole turpi non comporta la perseguibilità ai sensi dell’editto de adtemptata pudicitia, ma espone comunque all’actio iniuriarum.
[71] Per l’utilizzo di un simile espediente retorico cfr. Cic., de inv. 1.34-35; Quint., inst. or. 5.10.23-25.
[72] V. Espach, Formen und Kontexte sexueller Gewalt gegen Männer in der Antike, München, 2018, pp. 116 s.
[73] J. Larson, Paul’s Masculinity, in JBL, 123 (2004), pp. 85-97 spec. p. 86.
[74] A. Raggi, Cross-dressing in Rome between norm and practice, inTransAntiquity. Cross-dressing and Transgender Dynamics in the Ancient World, a cura di D. Campanile - F. Carlà-Uhink - M. Facella,New York, 2017, pp. 38-51, spec. p. 49 nt. 32; A. Richlin, Not before Homosexuality: The Materiality of the cinaedus and the Roman Law against Love between Men, in Journal of the History of Sexuality, 3 (1993), pp. 523–573 spec. p. 535; C.A. Williams, Roman Homosexuality2, New York, 2010, spec. pp. 191-193. Ciò spiega la difesa del ragazzo integralmente improntata sul fatto che quella condotta era stata adottata per gioco (hoc iocis adulescentium factum est) e che la sua condotta pubblica fu sempre grave e seria (sempre gravem, semper serium fuisse).
[75] F. Pina Polo, Las contiones civiles y militares en Roma, Zaragoza, 1989, spec. pp. 74-75.
[76] D. Dalla, ‘Ubi Venus mutatur’. Omosessualità e diritto nel mondo romano, 1987, Milano, p. 55.
[77] Sulla quale cfr. D. Dalla, ‘Ubi Venus mutatur’, cit., p. 51.
[78] E. Cantarella, Secondo natura, cit., p. 154.
[79] Cic., de sen. 42.
[80] Val. Max. 2.9.3.
[81] Plut., Flam. 18.4, dove il fratello dell’eroe Tito Quinzio Flaminino viene tratteggiato per la sua dissolutezza, del tutto incurante del decoro del proprio atteggiamento:
[82] Liv., ab urb. 29.42-43. Della vicenda Livio offre due versioni, nelle quali la differenza sta nelle persone dell’istigatore e dell’ucciso e in alcuni altri particolari. La prima versione narra che Flaminino aveva condotto con sé in Gallia un giovane ragazzo che rimpiangeva di essersi allontanato da Roma nel periodo in cui si stavano per celebrare dei ludi gladiatorii. Nel corso di un banchetto e a causa di un’ebrietà avanzata Flaminino vide giungere un nobile Gallo, il quale era passato dalla parte dei Romani e desiderava dimostrargli la sua fedeltà. Gli venne in mente che al suo giovane accompagnatore sarebbe forse piaciuto veder morire il Gallo in cambio dello spettacolo gladiatorio perduto e, appena il nobile gli fu vicino, lo colpì alla testa con la spada, poi inseguì lo sventurato che cercò in tutti i modi di sfuggire al suo aguzzino e gli diede il colpo mortale. La versione è tratta dall’orazione tenuta in Senato da Catone quando da censore ne fece radiare il colpevole.
[83] Sul crimen maiestatis si rinvia allo studio di L. Solidoro, Profili storici del delitto politico, Napoli, 2002, passim, che riprende e amplia Ead., La disciplina del ‘crimen maiestatis’ tra Tardo Antico e Medioevo, in Diritto e giustizia nel processo. Prospettive storiche, costituzionali e comparatistiche, a cura di C. Cascione - C. Masi Doria, Napoli, 2002, pp. 361-446. Per lo sviluppo in età tarda del reato v. P. Garbarino, Appunti sulla lex quisquis (CTH. 9, 14, 3), in BIDR, CVII (2013), pp. 137-165.
[84] Sen., contr. 9.2.18: quaedam controversiae sunt, in quibus factum defendipotest, excusari non potest; ex quibus est et haec. Non possumus efficereut propter hoc non sit reprehendendus; non speramus ut illumiudexprobet, sed ut dimittat; itaque sic agere debemus tamquam pro facto nonemendato, non scelerato tamen.
[85] Quint., inst. 7.4.25–26: […] nam iuris leges plerumque quaestiones praecurrere solent, et ex quibus causae non fiat status. Quod tamen facto defendi non poterit, iure nitetur; et quot et quibus causis abdicare non liceat, et in quae crimina malae tractationis actio
[86] Sen., contr. 9.2.13: Montanus Votienus has putabat quaestiones esse: an, quidquid in ma-gistratu peccavit proconsul, vindicari possit maiestatis lege; reus enim, qui tueri se facto non potest, ad ius confugit et dicit hac se lege non teneri. Sulla strategia retorica quivi utilizzata v. E. Berti, Le controversiae della raccolta di Seneca il Vecchio e la dottrina degli status, in Rhetorica, 32/2 (2014), pp. 99-147.
[87] O. Licandro, In magistratu damnari. Ricerche sulla responsabilità dei magistrati romani durante l’esercizio delle funzioni, Torino, 1999, p. 199.
[88] Cfr. J.-L. Ferrary, Lois et procès de maiestate dans la Rome républicaine, in La repressione criminale nella Roma repubblicana fra norma e persuasione, a cura di B. Santalucia, Pavia, 2009, pp. 223 ss.; E. Frézouls, De la maiestas populi Romani à la majesté impériale, European Monarchy. Its Evolution and Practice from Roman Antiquity to Modern Times, a cura di H. Duchhardt - R. A. Jackson - D. Sturdy, Stüttgart, 1992, pp. 17–25.
[89] O. Licandro, In magistratu damnari, cit., p. 199. Piu in generale sulla responsabilità magistratuale v. da diversi punti di vista: C. Venturini, Studi sul «crimen repetundarum» nell’età repubblicana, Milano, 1979, spec. pp. 91 ss.; C. Masi Doria, Spretum imperium. Prassi costituzionale e momenti di crisi nei rapporti tra magistrati nella media e tarda repubblica, Napoli 2000, su cui le rec. di G. Luraschi, Iura, 51 (2000), pp. 195 ss.; F. Cuena Boy, Index, 30 (2002), pp. 315 ss.; R. Bunse, Gymnasium, 110 (2003), pp. 285 ss.; A. Lintott, ZRG RA, 120 (2003), pp. 233 ss.; M. Bentz, Gnomon, 76(2004), pp. 571 ss.; Ead., A proposito di limiti e responsabilità nell’attività del magistrato giusdicente nella tarda repubblica, tra il cd. editto di ritorsione e l’abrogatio iurisdictionis, in Römische Jurisprudenz. Dogmatik, Überlieferung, Rezeption. Festschrift für D. Liebs zum 75. Geburtstag, (ed.) K. Muscheler, Berlin, 2011, pp. 419 ss.; C. Cascione, Appunti su prensio e vocatio nei rapporti tra potestates romane, in Au-delà des frontières. Mélanges W. Wołodkiewicz i, Warszawa, 2000, pp. 161 ss. (= Id., Studi di diritto pubblico romano, Napoli, 2010, pp. 107 ss.); F. Tuccillo, Alcune riflessioni sulla responsabilità del magistrato e dell’adsessor. Dolus, diligentia e culpa, in Culpa. Facets of Liability in Ancient Legal Theory and Practice Proceedings of the Seminar Held in Warsaw 17–19 February 2011, (ed.) J. Urbanik, Warsaw, 2012, 257–272.
[90] O. Licandro, In magistratu damnari, cit., p. 199.
[91] CEDU, Handyside c. Regno Unito, 7 dicembre 1976, nr. 5493/72.
[92] CEDU, Kara c. Regno Unito, 22 ottobre 1998, nr. 36528/97.
Giumetti Fausto
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