Il caso degli enti privati aderenti a religioni minoritarie. Tra eguaglianza e diversità di trattamento
Rosa Geraci
Dottoressa di ricerca, Università degli Studi di Palermo
Il caso degli enti privati aderenti a religioni minoritarie.
Tra eguaglianza e diversità di trattamento*
English title: The case of private bodies adhering to minority religions minorities. Between equality and diversity of treatment
DOI: 10.26350/18277942_000026
Sommario: 1. L’esplicitazione della problematica. 2. La nozione di confessione religiosa. 3. La funzione guida dell’art. 20 della Costituzione italiana. 4. L’irrisolto problema delle religioni: assicurarne l’uguaglianza nel rispetto delle diversità. 5. I benefici riconosciuti sotto forma di introiti fiscali. 6. Benefici sotto forma di sgravi fiscali. 7. Conclusioni.
1. L’esplicitazione della problematica
La delineazione del trattamento giuridico da attribuire alle confessioni religiose minoritarie costituisce un profilo estremamente critico del complesso problema dei rapporti che devono intercorrere tra uno Stato asseritamente laico come l’Italia, cui si farà preminente riferimento in questo lavoro, e le confessioni di minoranza.
Il tema da affrontare è quello di assicurare alle minoranze religiose adeguate forme di tutela affinché possano esercitare la libertà di religione e di culto analogamente alla religione maggioritaria e, pertanto, in maniera rispondente alle proprie peculiari esigenze. Solo tenendo conto normativamente di tali specificità diviene possibile salvaguardare l’esistenza delle culture religiose minoritarie e assicurare pari libertà religiosa a tutti i diversamente credenti, nel pieno rispetto del principio costituzionale di eguaglianza innanzi alla legge.
In quest’ottica, occorre accedere ad una visione liberale e dinamica del principio di eguaglianza che esige di trattare in maniera eguale situazioni eguali e in modo diverso casi diversi. In altri termini, realizzare in concreto e non solo in astratto il principio di uguaglianza implica la sua attuazione concreta tramite peculiari accorgimenti che lo rendano non già uno sterile esercizio teorico bensì una effettiva tutela giuridica.
Volendo esemplificare, ciò è evidente nella realtà quotidiana in cui la religione e i suoi vari precetti trovano pratica attuazione, condizionando lo stile di vita e le abitudini dei cittadini/fedeli sotto molteplici aspetti. Si pensi al diverso giorno da considerare festivo (venerdì, sabato o domenica a seconda del credo professato), alla ritualità di pratiche religiose e culti, in materia d’impiego del simbolismo religioso e dei precetti in tema di abbigliamento, ecc.
Entro questa ampia tematica – nota, dibattuta e ancora non definitivamente risolta – si scorge un aspetto specifico, assai problematico e spesso trascurato in favore di altre tematiche di più immediato impatto argomentativo come, ad esempio, l’alimentazione rituale.
Si tratta del corretto trattamento da riservare agli enti privati connotati dall’ispirazione a una confessione minoritaria. Sebbene la specificità religiosa di una associazione o istituzione non possa essere oggetto di speciali limitazioni, come recita l’art. 20 della Costituzione italiana, si pongono particolari problemi con riguardo alla fruizione di benefici che mentre vengono riconosciuti senza difficoltà se si tratta di una religione maggioritaria o tradizionale invece sono misconosciuti o, almeno, riconosciuti a fatica qualora si tratti di una confessione con minore rilevanza sociale[1]. L’idea di fondo, condivisibile nel suo impianto di base, è quella di procedere ad una neutralizzazione delle strutture e delle forme giuridiche quale strumento di attuazione pratica del pluralismo e della laicità interculturale[2].
Si tratta, peraltro, di scandagliare modalità e limiti entro cui esercitare legittimamente la libertà di religione avendo premura di evitare che il connotato religioso minoritario dell’ente, piuttosto che reale, sia fittizio, invocato quale mero escamotage per fruire indebitamente di benefici altrimenti non spettanti, come quello di fruire di sgravi fiscali di varia natura e di percepire erogazioni dei contribuenti a titolo di solidarietà al servizio no profit.
2. La nozione di confessione religiosa
La nozione da cui muovere, metodologicamente e logicamente, è quella di confessione religiosa. Tutt’altro che di agevole definizione, di essa non se ne rinviene esplicazione alcuna nelle norme giuridiche positive e pertanto si presta a differenti interpretazioni e molteplici dubbi applicativi che vanno fugati.
Ad aggravare la difficoltà ermeneutica contribuisce la circostanza che esistono credenze nella divinità o nella natura che è dubbio se possano essere qualificate come religiose in senso proprio, configurandosi piuttosto come filosofie naturalistiche, e fenomeni e credenze con una ritualità non marcata e non strutturati in confessioni in quanto privi di organismi rappresentativi unitari tali da potere siglare intese con lo Stato[3].
Nel tentativo di rinvenire una qualificazione di “confessione religiosa”, talora si è individuato il fondamento normativo nell’art. 8 della Costituzione[4]. La norma si riferisce, al primo comma, a tutte le confessioni religiose, ed al comma successivo alle confessioni religiose diverse dalla cattolica, la quale era già la religione di Stato e ha stipulato un Concordato con la Repubblica italiana.
Da più parti della dottrina, resta aperto l’interrogativo se le “confessioni religiose” protette al primo comma dell’art. 8 della Costituzione coincidano con quelle a cui la medesima norma fornisce accesso a una paritaria trattativa con lo Stato attraverso lo strumento dell’Intesa. La questione è di enorme rilievo se si considera che le provvidenze costituzionali riservate a queste ultime sono sicuramente maggiori rispetto alle confessioni prive d’Intese con lo Stato.
Per rispondere al quesito si rivela imprescindibile esaminare l’ambito in cui si esplica l’autonomia organizzativa delle confessioni religiose, sancita dal secondo comma dell’art. 8 Cost., così da esaminare se, per tale via, si possano ricavare indicazioni utili a definire i connotati essenziali della confessionalità.
È da notare come l’articolo 8 Cost. fissi un principio di libertà religiosa che, pur essendo formalmente riferito indistintamente a tutte le confessioni religiose, subisce di fatto un’applicazione differenziata che conduce a rimarcare la distinzione tra confessione religiosa cattolica e confessioni religiose diverse da quella cattolica.
Il significato del predicato “sono ugualmente libere davanti alla legge” fissa, infatti, un principio di libertà e non di uguaglianza in linea formale. In questo contesto l’uguaglianza è da intendersi come misura e modo di esercizio della libertà[5]. Ciononostante, il principio di uguale libertà non può dirsi pienamente rispettato; si consideri che soltanto la confessione cattolica gode del regime concordatario, mentre le altre avrebbero potuto stipulare intese e sempreché vi fosse l’assenso dell’autorità politica.
Inoltre, anche per quanto concerne le intese, vi è stata un’evoluzione disuguale: solo alcune di esse sono state approvate dal Parlamento e vi sono, addirittura, confessioni alle quali, pur avendola richiesta, l’intesa non è stata accordata.
Il comma 2 dell’art. 8 della Costituzione specifica che la libertà di organizzazione delle confessioni religiose diverse dalla cattolica è riconosciuta “in quanto non contrasti con l’ordinamento giuridico italiano”, con la conseguenza che, essendo a livello costituzionale sancito un diritto relativo e non assoluto di organizzazione dei gruppi confessionali, tale libertà deve ritenersi sottoponibile a tutte le restrizioni necessarie per preservare la stabilità e la sicurezza del nostro ordine sociale. Può, pertanto, ragionevolmente escludersi che il dettato normativo in discorso possa identificare un mezzo per individuare le confessioni oltre che scriminarle dalle mere associazioni di persone essendo necessario, a tal fine, fare una valutazione caso per caso onde verificare la sussistenza del carattere della confessionalità in capo all’organizzazione.
Nel coacervo di situazioni giuridiche e fattuali in cui vengono a trovarsi le confessioni religiose di minoranza sarebbe auspicabile, quindi, un intervento del Legislatore volto ad impedire che le differenze possano eccedere i margini dell’uguaglianza. In ogni caso può ritenersi che non vi siano requisiti specifici né indicazioni generali e dunque preclusioni legislative per qualificare come confessionale una credenza, come tale suscettibile di fruire dei benefici previsti dalla normativa di settore in materia fiscale e tributaria.
3. La funzione guida dell’art. 20 della Costituzione italiana
Per affrontare la questione può volgersi lo sguardo all’art. 20 della Carta costituzionale italiana, che si prefigge di proteggere la libertà di religione e di culto in maniera prodromica rispetto all’esercizio dei diritti e delle libertà sancite negli artt. 7, 8 e 19. In merito non pare ozioso richiamare il testo della citata norma costituzionale in base alla quale: “Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”.
Detto articolo, secondo la lettura tradizionale che se ne è fatta, “fa riferimento a un modulo indeterminato e variabile, imponendo al futuro legislatore di fare agli enti con carattere ecclesiastico un trattamento almeno uguale a quello praticato nei confronti di enti privi di tale caratteristica”[6].
In altri termini, l’articolo in commento pone lo specifico divieto al legislatore ordinario di dare luogo ad una normativa discriminatoria, che sarebbe per ciò stesso illegittima in quanto contraria al citato principio costituzionale, oltre che a quello più generale di uguaglianza (art. 3 Cost.).
Sotto altro punto vista, l’art. 20 Cost. non assume a parametro le norme di favore, né agisce come un catalizzatore di norme favorevoli per gli enti, da rendere applicabili a quelli ecclesiastici: più limitatamente, esso opera, per così dire, in negativo; cioè tende ad evitare che detti enti vengano esclusi, a causa della loro specialità, dal poter usufruire di una normativa di favore dettata per la generalità degli enti di diritto comune.
Nel disegno costituzionale l’art. 20 Cost. assumerebbe una rinnovata carica propulsiva in quanto con esso il legislatore costituzionale avrebbe inteso assicurare protezione e promozione a quelle formazioni sociali nelle quali è possibile il libero sviluppo della religiosità individuale e collettiva.
Il precetto identifica chiaramente il fattore religioso quale valore costituzionale meritevole di tutela e promozione da parte dell’ordinamento giuridico. Esso esplicita l’autonomia delle confessioni religiose che naturalmente si esplica attraverso i suoi enti, manifestando un chiaro collegamento con gli artt. 7 e 8 Cost.[7] e senza delineare in quali elementi si ravvisi il carattere confessionale di un ente o di un’associazione.
L’articolo 20 Cost. individua un binomio formato dall’“associazione” e dal “fine di religione o di culto” in cui rientrerebbero tutte quelle formazioni sociali a struttura associativa, con il medesimo scopo e aventi una finalità religiosa (collegamento con l’art. 19 Cost.). Idealmente è possibile scomporre la previsione costituzionale in due parti: una parte rigida, in cui si riferisce agli enti esponenziali delle religioni e, dunque, agli ordinamenti confessionali ed una parte flessibile in cui ha riguardo, in generale, alle associazioni aventi fine di religione o di culto, suscettibile di ricomprendere dentro la sua portata variegati enti indipendentemente dalla forma giuridica utilizzata[8].
L’art. 20 Cost., così inteso, assume la portata di un principio di carattere generale ampliamente utilizzabile per chiarire l’applicazione della normativa positiva. Promuovendo le finalità religiose, stimolerebbe la produzione di norme di condotta direttamente riferibili al fattore religioso, disegnando così una linea guida per il legislatore, nell’elaborazione delle norme, e per gli interpreti, nella prassi interpretativa, volte alla promozione delle formazioni sociali religiose nel loro complesso. Operando secondo tale protocollo, l’art. 20 Cost. potrà forse assumere il ruolo di indicatore di condotte non soltanto per il legislatore e per l’interprete (nel senso sopra indicato), ma anche per tutte le comunità religiose le cui realtà organizzative godranno di un efficace strumento di tutela.
Uno dei fondamentali modi di recupero della dimensione collettiva del fenomeno religioso è promuovere in concreto il dettato Costituzionale. L’art. 20 può recuperare la sua vitalità in questo modo: si legge “fine di religione e di culto” in contrapposizione al “carattere ecclesiastico”, emergendo così chiaramente la funzione promozionale della norma.
Dalle considerazioni esplicitate sembra potersi concludere che, in assenza di specificazioni legislative, non si diano restrizioni per equiparare il trattamento di tutte le tipologie di credenze religiose.
4. L’irrisolto problema delle religioni: assicurarne l’uguaglianza nel rispetto delle diversità
La società attuale si regge ormai su assetti totalmente diversi da quelli tradizionali, improntati al nazionalismo e all’autoreferenzialità, in cui un popolo si riconosceva in una specifica identità religiosa o comunque in più confessioni religiose ampiamente diffuse nel territorio[9].
Infatti, il tessuto sociale della realtà odierna risulta composto, anche per via dei flussi migratori particolarmente intensi negli ultimi anni, da un insieme eterogeneo di gruppi e micro-gruppi allogeni, ciascuno con le proprie tradizioni culturali e religiose, che talvolta faticano a integrarsi con la comunità ospitante e maggioritaria[10]. Queste difficoltà richiedono di trovare degli equilibri funzionali a garantire la coesistenza tra gruppi etnici ospitati e società ospitanti pur nel rispetto e nella valorizzazione dei patrimoni culturali delle minoranze.
L’obiettivo da porsi in una società multiculturale e plurireligiosa, come quella odierna, lungi dall’esaurirsi nel preservare il più possibile le minoranze, almeno negli aspetti compatibili con il sistema sociale d’accoglienza, deve mirare ad evitare che vi possano essere disuguaglianze tra enti appartenenti a confessioni religiose diverse, ancor più nei riguardi delle confessioni minoritarie. Così facendo si scongiurerebbe anche il pericolo di uno scontro tra le varie collettività religiose nonché tensioni e ingiustizie sociali. Ciò è richiesto dal principio di laicità e non confessionalità statale ma anche da quello di eguaglianza delle confessioni religiose e dei rispettivi credenti.
La soluzione concreta del problema è, tuttavia, tutt’altro che semplice se si considera che il principio di uguaglianza, insieme a quello di libertà religiosa, costituisce uno dei principi giuridici più indeterminati ed ambigui nei quali ci si possa imbattere, uno di quelli attorno ai quali maggiormente si accendono tensioni teoriche e dirompono controversie pratiche. Infatti, l’idea di uguaglianza è suscettibile di molteplici interpretazioni, le quali, fondate su presupposti teorici differenti, sono suscettibili di condurre ad implicazioni pratiche altrettanto divergenti.
Per delimitare il significato del principio di uguaglianza avendo riguardo agli enti privati afferenti a diverse confessioni religiose occorre considerarlo nella sua concreta interazione con determinati concetti, quali quelli di laicità, secolarizzazione, tolleranza religiosa, imparzialità e neutralità statale in primo luogo e, più in generale, con il modo di concepire il diritto, i diritti e le libertà, la democrazia e gli altri principi giuridici con i quali può doversi confrontare[11].
In questo scenario composito, l’arduo ruolo cui è deputato il giurista moderno è quello di riuscire a comparare i diversi patrimoni etnico-religiosi coesistenti e fra loro (potenzialmente) configgenti, cercando un contemperamento tra la tutela del diritto “alla cultura” religiosa delle minoranze e la necessità di evitare che un eccessivo particolarismo possa sfociare in discriminazioni e disuguaglianze. La ratio del principio di uguaglianza è, infatti, in linea generale quella di evitare trattamenti discriminatori, e con specifico riguardo ai rapporti tra enti privati di confessione cattolica ed enti privati ispirati a confessioni diverse dalla cattolica quella di incentivare l’adozione di soluzioni normative che garantiscano il più possibile l’uniformazione dei trattamenti giuridici degli stessi enti, oltre che degli individui che ne fanno parte.
5. I benefici riconosciuti sotto forma di introiti fiscali
Particolare importanza riveste in Italia il sistema “dell’otto per mille” sulle imposte dirette ovvero il meccanismo con cui lo Stato italiano consente di destinare tale quota di prelievo fiscale assegnandolo all’eventuale confessione religiosa scelta dal contribuente. Esso verrà esaminato come esempio paradigmatico di benefici suscettibili di essere riconosciuti agli enti privati confessionali.
Numerose e importanti sono le criticità rilevate dalla Corte dei conti. Infatti, una serie di deliberazioni della magistratura contabile, pur avendo registrato qualche lieve miglioramento apportato al sistema, segnalano il persistere e lo stabilizzarsi di rilevanti anomalie[12].
Le criticità segnalate dalla magistratura contabile evidenziano una serie di limiti strutturali e rilevanti distorsioni applicative e riguardano, fondamentalmente: la consistenza dell’incremento dei fondi derivanti alle confessioni dall’otto per mille[13]; l’ancoraggio del sistema a un’imposta progressiva[14]; il criterio di ripartizione delle scelte non espresse allo stato attuale da oltre il 50% dei contribuenti[15]; la subordinazione della possibilità di accedere al beneficio all’esistenza di un’intesa approvata con legge[16]; l’inattività della commissione paritetica Italia-Santa Sede nominata per la valutazione e riponderazione dei contributi concessi e l’inattività dello Stato nell’attivare le procedure di revisione del sistema divenuto sempre più gravoso per l’erario; l’assenza sia di trasparenza e controllo sulle erogazioni e sull’attività di tutti i soggetti coinvolti, sia di par condicio per la pubblicità; l’anticipazione, a favore esclusivo della Chiesa Cattolica, delle somme attese, salvo conguaglio nei tre anni successivi; l’uso della quota dello Stato per finanziare enti religiosi[17].
Sembrerebbe quasi che lo Stato, da un lato abbia accettato di riconoscere l’esistenza di diritti inviolabili da garantire in nome dell’eguaglianza sostanziale, dall’altro abbia poi trascurato di evitare che il principio di ragionevolezza diventasse funzionale alla logica maggioritaria, con grave pregiudizio del principio di laicità pluralista a discapito degli enti delle confessioni minoritarie.
È opportuno, infatti, chiarire subito come a beneficiare dello specifico sostegno economico siano soltanto organizzazioni di tipo confessionale, le quali, a loro volta, abbiano stipulato con lo Stato un accordo o un’intesa recepito in legge ai sensi degli artt. 7, secondo comma, e 8, terzo comma, della Costituzione. Inoltre, il sistema prevede che il gettito complessivo dell’otto per mille IRPEF sia distribuito non solo sulla base del numero dei contribuenti che abbiano indicato il beneficiario, ma anche per la quota derivante dalle scelte non espresse, determinata in proporzione a chi abbia esercitato la preferenza[18].
Il suddetto meccanismo s’ispira impropriamente alle regole della rappresentanza politica; invero, la decisione del contribuente di finanziare attraverso l’otto per mille una confessione religiosa non costituisce l’esercizio di un dovere civico (quale è invece il voto), ma, all’opposto, di una facoltà, alla cui mancata espressione l’ordinamento non può ricondurre effetti alternativi.
Sarebbe auspicabile pertanto un intervento volto a far sì che almeno una parte delle risorse derivanti dalle scelte espresse dai contribuenti a favore dello Stato abbiano un vincolo di destinazione e così siano indirizzate a scopi riconducibili a interessi propriamente confessionali piuttosto che , ad esempio, venire impiegate dalle confessioni beneficiarie per dubbie operazioni finanziarie, speculative, d’investimento o per sovvenzionare attività imprenditoriali, peraltro non sempre in conformità con le regole concorrenziali.
6. Benefici sotto forma di sgravi fiscali
Un ulteriore e significativo fattore che interessa le confessioni religiose minoritarie attiene alla possibilità di godere del beneficio dell’esonero totale o della riduzione di un carico fiscale in ragione della propria qualifica confessionale e altrimenti dovuto. Ancora più che i rapporti commerciali, gli intensi flussi migratori che interessano l'epoca odierna hanno accentuato, all’interno della società, la coesistenza di una molteplicità di movimenti religiosi, spesso molto differenti tra loro, oltre che di enti confessionali che si orientano a svolgere, accanto a quelle di culto e religione, anche attività secondarie, come quelle ricettivo alberghiere, assistenziali, scolastiche o culturali, comportando, a sua volta, un incremento degli interventi giudiziari per la demarcazione, ai fini dell’esenzione del pagamento dell’Imposta Municipale Propria, del confine tra le attività istituzionali, propriamente non lucrative, e quelle effettivamente imprenditoriali.
L’Imposta Municipale Propria, sostanzialmente già Imposta Comunale sugli Immobili e che grava sui proprietari di beni immobili situati sul territorio italiano, si mantiene tutt’oggi al centro dei dibattiti fiscali e di politica legislativa. Sono esclusi dal campo di applicazione, infatti, gli edifici adibiti al culto e in ragione di tale destinazione (a parte il fatto che si pone il problema che le chiese ed edifici annessi sono numerosissimi e storicamente appartenevano allo Stato pontificio o alla Chiesa e furono edificati nel vigore di altri regimi). La questione è se tale beneficio vada esteso agli enti commerciali che vi si affiancano per svolgere attività sussidiaria al mantenimento dell’attività religiosa.
Da una parte si è ritenuto che il riconoscimento dell’esenzione dall’imposta a favore degli edifici ecclesiastici costituisca un’ingiustificata e illegittima disparità di trattamento fiscale tra immobili, richiedendo che il Legislatore modifichi alcuni aspetti della normativa, reputati iniqui e contrastanti con le previsioni di cui agli articoli 3, 53 e 42 della Costituzione, oltre che con il divieto di aiuti di Stato, previsto dall’art. 87 del Trattato di Roma del 1957, istitutivo della Comunità Europea, ed oggi dall’art. 107 del TFUE.
Norme specifiche sull'esenzione dall'ICI, da considerarsi riferibili anche all'IMU, sono dettate per gli enti non commerciali, macrocategoria questa in cui si ricomprendono gli enti ecclesiastici, dall'art. 7, comma 1, lett i), del D.Lgs. n. 504/1992, che subordina la fruizione del beneficio alla presenza dei seguenti requisiti: un requisito soggettivo, per cui l'immobile deve essere utilizzato da un ente non commerciale ex art. 73, comma 1, lett. c), del T.U.I.R., ed un requisito di carattere oggettivo, in virtù del quale gli immobili utilizzati devono essere destinati esclusivamente allo svolgimento “con modalità non commerciali” delle attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di religione o di culto, cioè “quelle dirette all'esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all'educazione cristiana” (art. 16, lett. a), L. 20 maggio 1985, n. 222).
La dottrina e la giurisprudenza, sono intervenute ripetute volte nell’intento d’interpretare la ratio della disciplina di esenzione, escludendola, inizialmente, nell’ipotesi in cui l’attività esercitata dall’ente si qualifichi come «oggettivamente commerciale»[19].
Per la sua rigidità questa interpretazione ha sollevato molte perplessità ed ha indotto il Legislatore tributario, in un primo momento, ad estendere, con l'art. 6 del D.L. n. 169/2005, l'esenzione agli immobili utilizzati per le attività di assistenza e beneficenza, anche se svolte in forma commerciale, per poi limitarla, con l'art. 39 del D.L. n. 223/2006 (c.d. Decreto “Bersani-Visco”), alle attività che non abbiano natura esclusivamente commerciale.
Occorre rilevare al riguardo che, le modalità non commerciali sono definite, ma solo in linea generale, dall’art. 1, lett. p), del D.M. n. 200/2012, come “modalità di svolgimento delle attività istituzionali prive di scopo di lucro che, conformemente al diritto dell’Unione Europea, per loro natura non si pongono in concorrenza con altri operatori del mercato che tale scopo perseguono e costituiscono espressione dei principi di solidarietà e sussidiarietà”[20].
Il successivo art. 3 del summenzionato decreto, inoltre, individua i requisiti generali per lo svolgimento con modalità non commerciali delle attività istituzionali nel: a) divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili, avanzi di gestione, fondi, riserve o capitale durante la vita dell'ente, in favore di amministratori, soci, partecipanti, lavoratori o collaboratori, a meno che la destinazione o la distribuzione non siano imposte per legge, ovvero siano effettuate a favore di enti che per legge, statuto o regolamento, fanno parte della medesima e unitaria struttura e svolgono la stessa attività ovvero altre attività istituzionali direttamente e specificamente previste dalla normativa vigente; b) l’obbligo di reinvestire gli eventuali utili e avanzi di gestione esclusivamente per lo sviluppo delle attività funzionali al perseguimento dello scopo istituzionale di solidarietà sociale; c) l'obbligo di devolvere il patrimonio dell'ente non commerciale, in caso di suo scioglimento per qualunque causa, ad altro ente non commerciale che svolga un'analoga attività istituzionale, salvo diversa destinazione imposta dalla legge.
Una parte della dottrina ha cercato di dare concretezza al concetto astratto di «modalità non commerciale», rilevando come sembri potersi rinvenire la principale espressione della modalità non commerciale di svolgimento dell'attività nella non lucratività. Infatti, per potere fruire dell’esenzione, assume rilievo la natura e il fine non lucrativo degli enti e sono richieste garanzie in grado di preservare completamente la finalità non lucrativa dell’attività nel senso di destinare gli eventuali avanzi di gestione al sostegno dell’attività alla quale è riconosciuto un rilevante valore sociale.
Il requisito della non lucratività del soggetto interessato e dell'organizzazione comporta, dunque, che l'agevolazione sia riservata solo a quelle modalità di svolgimento delle attività che garantiscono un significativo beneficio per la collettività, beneficio che può essere assicurato anche attraverso la previsione di stringenti vincoli operativi e strutturali imposti per legge o in via amministrativa[21].
Al fine d’identificare gli immobili, meritevoli di usufruire dell'esenzione, il concetto di non lucratività si rivela il criterio cardine, cui deve però necessariamente affiancarsi lo strumento degli accertamenti e delle verifiche concrete dei requisiti soggettivo e oggettivo, onde rendere effettiva la garanzia di tutela per gli enti no profit e pienamente efficace il controllo rispetto ad eventuali abusi o violazioni[22]. Al riguardo, per quel che concerne tutti gli enti delle confessioni prive di intesa, preme rilevare che questi si trovano generalmente in una zona grigia per cui - inaccessibili i riconoscimenti come enti ecclesiastici e luoghi di culto in senso proprio – onde scongiurare il rischio di potenziali discriminazioni nell’applicazione di una normativa che dovrebbe agevolare l’esercizio del diritto di libertà dei cittadini e quindi la violazione del principio affermato nel primo comma dell’art. 8 Cost., si rivela necessario, al fine di stabilire se un ente abbia o meno il diritto di beneficiare dell'esenzione, appurare, per ciascun caso concreto, che i costi di gestione non vengano coperti con i corrispettivi[23].
Alla luce delle considerazioni svolte, per gli enti che svolgono anche attività di religione o di culto[24], indipendentemente dalla confessione religiosa di appartenenza, sembra potersi ritenere che non rilevi, ai fini dell'esenzione, lo svolgimento delle stesse con modalità non commerciali, considerato che per queste tipologie di attività non ha senso ipotizzare particolari esigenze di tutela della concorrenza, legate ai contesti dell'“impresa” e del “mercato”, che non afferiscono affatto alle attività in oggetto.[25]
7. Conclusioni
Alla luce di quanto esaminato, sembra potersi affermare che l’attuale sistema di relazioni tra Stato e confessioni religiose appare ancora troppo incentrato sulla Chiesa Cattolica. Invero, la mera possibilità di stipulare intese, peraltro riconoscendo allo Stato un ampio potere discrezionale sulla convenienza ed opportunità di giungere alla conclusione e all’approvazione (non sempre scontata) di intese, finisce con il penalizzare un’ampia fascia del sentimento religioso in Italia. Tale stato di cose è ancora più vero se si tiene conto da un lato dei fenomeni migratori che hanno cambiato la geografia religiosa del nostro Paese e, dall’altro, ove si ponga mente alla progressiva secolarizzazione della società italiana, dando vita ad un quadro complessivo che non appare pienamente aderente con un modello costituzionale liberaldemocratico e ispirato a principi di eguaglianza e non discriminazione.
In effetti, a ben vedere, nel nostro sistema giuridico di relazioni con le confessioni di minoranza si è venuto a realizzare quello che è stato efficacemente e plasticamente raffigurato come una piramide dove in cima si trova la Chiesa Cattolica che usufruisce, per ragioni storiche, culturali e numeriche del trattamento oggettivamente più favorevole, poi in posizione intermedia si trovano le confessioni dotate di intesa che però (essendo fatte “a fotocopia”) finiscono spesso col penalizzare il quid proprium di ogni confessione.
Si può, pertanto, affermare la possibilità - pienamente conforme al nostro dato costituzionale - di una ragionevole ed oggettiva differenziazione di trattamento normativo che comporti una deroga al diritto comune qualora sia basata su elementi oggettivi che la consentano. Probabilmente, più che di un diritto all'uguaglianza in senso stretto e tradizionale occorrerebbe oggi parlare del "diritto alle differenze" .
Non è un caso che la laicità italiana è stata definita da più parti come incompleta. Tale sistema di gestione del fenomeno religioso si è dimostrato incapace di realizzare la tanto declamata e doverosa “uguaglianza nella diversità”, dal momento che i benefici riconosciuti alla Chiesa cattolica sono stati macroscopicamente ben maggiori rispetto a quelli attribuiti alle altre organizzazioni confessionali ammesse alla trattativa bilaterale.
Siffatta situazione ha implicato una continua competizione fra i gruppi religiosi per l’accesso ai privilegi elargiti dalle istituzioni civili e per l’ottenimento della clausola della ‘religione più favorita’. Ne deriva che il modello della disciplina contrattata non possa proporsi come l’unico e il più affidabile strumento di democrazia per la concreta realizzazione della persona umana, dato che esso è destinato a svolgersi nella logica dell’esclusiva tutela della libertà delle istituzioni spirituali, interessando solo in modo indiretto i singoli e le loro esigenze di carattere religioso.
Il problema centrale, a ben osservare, è quello di ripensare il pluralismo religioso alla luce dei principi della democrazia, della laicità e della eguaglianza degli individui e delle religioni in un'ottica inclusiva. Tuttavia, per fare questo, è necessario che il legislatore intervenga al più presto con una legge comune che, raccogliendo “le concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini” che si vanno formando intorno a valori condivisi, ponga le basi per un pluralismo “da negoziazione e di sintesi” in cui lo Stato svolga il ruolo di sistema di riferimento organizzante della complessità della base sociale. In questo modo, infatti, le soluzioni raggiunte, componendo le conflittualità sociali, costituirebbero “elementi di coesione là dove vi era un fattore di potenziale disgregazione”, evitando il rischio che alcune confessioni religiose possano assumere una posizione lobbistica rispetto ad altre. Solo così sarebbe possibile assicurare la generalizzata parità di godimento di un diritto fondamentale quale è sicuramente la libertà religiosa, oltre a valutare la ragionevolezza del diverso trattamento, di favore o di disfavore, dei singoli o dei gruppi.
All’esigenza d’introdurre una legge sulla libertà religiosa hanno cercato di fare fronte le diverse forze politiche succedutesi negli ultimi tre lustri, attraverso la predisposizione di uno schema di disegno di legge che - nonostante alcune modeste modifiche - è stato di volta in volta sostanzialmente ripreso, da ultimo da un gruppo di studio della Fondazione Astrid.
Tale proposta sembra, alla stessa stregua delle proposte di legge che l’hanno preceduta, essere viziata da un eccessivo astrattismo sotto vari profili. Infatti, essa non sembra dare atto dei cambiamenti sociali, dell’evoluzione legislativa, delle riforme dell’ordinamento in materia di pari opportunità già avviate, dello svolgersi della giurisprudenza costituzionale in tema di laicità e libertà religiosa, delle pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sulla necessaria correlazione tra libertà religiosa, laicità e società democratica.
Sarebbe necessaria una legge comune sulla libertà religiosa o, meglio, sul fattore religioso (dal nome politicamente meno scivoloso), come da più parti continuamente proposta negli ultimi decenni, e che, oltre a tracciare le linee guida da considerare come parametro di riferimento nella disciplina delle questioni che afferiscono alla libertà di religione, adempia al compito di dare una doverosa e compiuta attuazione al principio supremo di laicità, quale configurato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 203 del 12 aprile 1989, in cui si sostanzia la garanzia della libertà religiosa in regime di pluralismo confessionale e culturale, per favorire la realizzazione di una società giusta e fondata sull’etica civile del pieno rispetto dei diritti e dei doveri della persona umana.
Giacché le intese non vengono sottoscritte con tutte le confessioni religiose e non sussiste una legislazione unitaria che protegga queste ultime, sembra sostenibile che allo stato attuale tutti gli enti che si definiscono ispirati a una confessione religiosa, eccettuate evidenti finzioni perché si è privi di alcun serio riscontro numerico o circa la natura religiosa della credenza (derivante da pratiche effettivamente seguite e esercitate negli aspetti essenziali della vita), debbano potere accedere a benefici previsti. Vieppiù per ordinare la materia in questo specifico settore, emerge con forza l’esigenza di riformare nei termini esplicitati la disciplina del fattore religioso, così da garantire la sostanziale ed effettiva – cioè non meramente teorica - applicazione del principio costituzionale di non discriminazione.
Abstract: The question of the legal treatment of minority religions needs to face a number of issues, mainly concerning the equality and freedom of individuals and groups, the limits of majority democracy, tolerance, the object of rights and how to exercise them, the protection of pluralism and differences and, finally, the very meaning of law and the principles of legislation. In a globalised world, with a richly diverse population of different beliefs and with the advance of secularisation, the challenge of regulating coexistence is becoming increasingly difficult for the state to manage. With this in mind, the following pages attempt to provide a solution to the problem - specific but significant in terms of its potential methodological generalisability to similar issues - of the state treatment to be reserved to private bodies belonging to minority confessions
Key words: Religious freedom, equality, equal treatment, agreement, religious denominations, tax breaks
* Il contributo è stato sottoposto a double blind peer review.
[1] Cfr. sul punto P. Picozza, Enti ecclesiastici nel diritto tributario, in Digesto delle discipline privatistiche, vol. VI, Torino 1990, p. 250. Sull’art. 20 Cost. cfr., inoltre: F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, Bologna 2015, pp. 173 ss.; R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico. Valori religiosi e società civile, Torino 1998, pp. 307 ss.; P. Colombo, L'articolo 20 della Costituzione e gli enti di assistenza e beneficenza, in AA.VV., Assistenza e beneficenza tra pubblico e privato, Milano 1979, pp. 243 ss.; F. Finocchiaro, Art. 20, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, artt. 13-20. Rapporti civili, Bologna 1977, pp. 301 ss.; C. Mirabelli, L'appartenenza confessionale. Contributo allo studio delle persone giuridiche nel diritto ecclesiastico italiano, Padova 1975, pp. 126 ss.; G.A. Micheli, L’art. 20 della Costituzione e il potere di imposizione, in Riv. dir. finanz., I (1975), pp. 77 ss.; A. Reposto, Eguaglianza costituzionale e persone giuridiche, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 2 (1973), pp. 401 ss.; P.G. Caron, Libertà ed eguaglianza religiosa nell'art. 20 della Costituzione, in AA.VV., Studi in memoria di C. Esposito, II, Padova 1972, pp. 823 ss.; G. Catalano, Osservazioni sull'art. 20 della Costituzione, Milano 1965, pp. 353 ss.; F. Finocchiaro, Uguaglianza giuridica e fattore religioso, Milano 1938, p. 35.
[2] Sul punto A. Fuccillo, L’attuazione privatistica della libertà religiosa, Napoli 2005, pp. 92-93, il quale ricorda che stante “le interrelazioni applicative tra il diritto fondamentale di libertà religiosa e gli strumenti di attivazione proposti all’interno del sistema privatistico”, allora “tale certezza pubblicistica deve quindi tradursi privatisticamente nella neutralità delle norme comuni in materia religiosa, al fine di garantire, in una società variegata come la nostra, un vero pluralismo che quindi deve necessariamente passare attraverso un diritto assolutamente laico”.
[3] In argomento si rinvia diffusamente all’ampia ed esaustiva analisi contenuta in A. Fuccillo - R. Santoro, Diritto, Religioni, Culture. Il fattore religioso nell’esperienza giuridica, Torino 2017, dove si ricorda che “il fattore religioso sta riemergendo con vigore dal sacrario della coscienza. Il giurista, sia esso legislatore che interprete, è quindi sollecitato nella ricerca di adeguati strumenti di composizione delle dinamiche innescate nel crocevia tra diritto, religioni e culture. Essa è la condizione indefettibile per la realizzazione della pacifica convivenza all’interno di una società sempre più declinata in chiave interculturale e multireligiosa” (p. I).
[4] Sul problema si veda S. Berlingò, L’affaire dell’U.A.A.R.: da mera querelle politica ad oggetto di tutela giudiziaria, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale (Rivista giuridica on line), 4 (2014); A. Fuccillo, Lo statuto della Chiesa Taoista d’Italia e l’art. 8, comma II, della Carta costituzionale: epifania sociale di una confessione religiosa, in Diritto e Religioni, 2 (2013), pp. 493-515; M. Canonico, La stipulazione di intese con lo Stato: diritto delle confessioni religiose o libera scelta del Governo?, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale (Rivista giuridica on line), aprile 2012; J.P. Cerioli, Il diritto all’avvio delle trattative per la stipulazione delle intese ex art. 8, 3° comma, Cost., (brevi note a Cons. Stato, sez. IV, sent. 18 novembre 2011, n. 6083), in Stato, Chiese e pluralismo confessionale (Rivista giuridica on line), marzo 2012; D. Bilotti, L’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR), membro associato della International Humanist and Ethical Union, come soggetto stipulante un’intesa con lo Stato, ex art. 8, III Cost., in Stato, Chiese e pluralismo confessionale (Rivista giuridica on line), luglio 2011; V. Tozzi, Le confessioni prive di intesa non esistono, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale (Rivista giuridica on line), gennaio 2011; C. Cardia, Identità religiosa e culturale europea. La questione del crocifisso, Torino 2010; S. Taranto, Diritto e religioni nelle democrazie contemporanee. Una prospettiva normativa, Napoli 2010, pp. 188 ss.; A. Mantineo, Associazioni religiose e nuovi movimenti religiosi alla prova del diritto comune in Italia e del diritto comunitario, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale (Rivista giuridica on line), ottobre 2009; G. Casuscelli, La rappresentanza e l’intesa, in A. Ferrari (a cura di), Islam in Europa/Islam in Italia tra diritto e società, Bologna 2008, p. 285; J.P. Cerioli, I rapporti con le confessioni religiose, in G. Casuscelli (a cura di), Nozioni di diritto ecclesiastico, Torino 2006, p. 36; C. Mirabelli, Confessioni religiose (voce), in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Milano 2006, p. 343; G. D’Angelo, A proposito della natura giuridica della Chiesa di Scientology: una significativa presa di posizione della sezione tributaria della Corte di Cassazione, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 3 (2002), pp. 731-748; A. Guazzarotti, Nuove intese con le minoranze religiose e abuso della formazione simbolica, in Quaderni costituzionali, 2 (2002), pp. 190-215; G. Casuscelli, Pluralismo confessionale, separazione degli ordini e disciplina pattizia dei rapporti: dall’equilibrio del “microsistema” (art. 8 Cost.) alle incognite di una revisione per trascinamento, in Politica del diritto, 1 (1996), p. 85; S. Ferrari, La nozione giuridica di confessione religiosa (Come sopravvivere senza conoscerla), in V. Parlato, G.B. Varnier (a cura di), Principio pattizio e realtà religiose minoritarie, Torino 1996, p. 19; C. Cardia, Stato e confessioni religiose. Il regime finanziario, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XXX, Roma 1994, pp. 4-5; P.A. D’Avack, Intese (voce). II) Diritto Ecclesiastico. Profili generali, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XVII, Roma 1994, p. 401; A. Vitale, Confessioni religiose - Profili generali (voce), in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. VIII, Roma 1994, pp. 1-7; C. Cardia, Stato e confessioni religiose - Il regime pattizio, Bologna 1992; L. Musselli, Le intese con le Chiese avventiste e pentecostali, in Le nuove leggi civili commentate, 1990, p. 44 ss; N. Colaianni, Confessioni religiose ed intese - Contributo all’interpretazione dell’art. 8 della Costituzione, Bari 1990; E. Vitali, Accordi con le confessioni e principio di uguaglianza, in Studi in memoria di M. Petroncelli, Napoli 1989, pp. 951-970; G. Casuscelli, Concordati, intese e pluralismo confessionale, Milano 1974; P. Bellini, Confessioni religiose (voce), in Enciclopedia del Diritto, vol. VIII, Milano 1961; N. Colaianni, Intese (voce diritto ecclesiastico), in Enciclopedia del Diritto, vol. VIII, Milano 1961, pp. 424-486.
[5] In questi termini, cfr. P. Consorti, Diritto e religione. Basi e prospettive, Bari 2014, pp. 12 ss.
[6] In tal senso cfr. G. Catalano, Osservazioni sull'art. 20 della Costituzione, cit., p. 354.
[7] Cfr. A. Bettetini, Art. 20, in R. Bifulco - A. Celotto - M. Olivetti(a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. I, Torino 2006, pp. 441- 450; M. Ricca, Art. 20 della Costituzione ed enti religiosi: anamnesi e prognosi di una norma “non inutile”, in Studi in onore di Francesco Finocchiaro, vol. II, Padova 2000, pp. 1537-1569; P. Di Marzio, L’art. 20 della Costituzione. Interpretazione analitica e sistematica, Torino 1999; S. Berlingò, Enti e beni religiosi in Italia, Bologna 1992, p. 20; G. Dalla Torre, Il fattore religioso nella costituzione, Torino 1995, p. 69; S. Berlingò, Enti e beni religiosi in Italia, Bologna 1992, p. 20; R. Botta, Sentimento religioso e Costituzione repubblicana, Torino 1990, p. 225 ss.; G.A. Micheli, L’articolo 20 della Costituzione e il potere di imposizione, in Rivista di diritto finanziario, 1 (1975), p. 76; F. Finocchiaro, Art. 20, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, vol. II, Bologna 1975, p. 305; P.G. Caron, Libertà ed uguaglianza religiosa nell’articolo 20 della Costituzione italiana, in Studi in memoria di Carlo Esposito, vol. II, Padova 1974, p. 832; S. Landolfi, L’articolo 20 della Costituzione nel sistema degli enti ecclesiastici, in Rassegna di diritto pubblico, 1969, pp. 262-263; G. Catalano, Osservazioni sull’art. 20 della Costituzione, in Il diritto ecclesiastico, 1 (1964), pp. 353-369.
[8] A. Fuccillo, Le proiezioni collettive della libertà religiosa, in Stato, Chiese e Pluralismo confessionale (Rivista giuridica on line), 18 (2019), pp. 1 ss.
[9] M. I. Bianco, Pluralismo religioso e garanzie del diritto penale. Il difficile bilanciamento tra libertà individuali ed esigenze di tutela della collettività,in Stato, Chiese e Pluralismo confessionale (Rivista giuridica on line), 1 (2019), pp. 15 ss.
[10] Per un approfondimento sui flussi migratori in Europa vedi A. Ingoglia, M. Ferrante (a cura di), Fenomeni migratori, diritti umani e libertà religiosa, Padova 2017; F. Cherubini, Le migrazioni in Europa, Roma 2015; A.S. Mancuso, La presenza islamica in Italia: forme di organizzazione, profili problematici e rapporti con le istituzioni, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale (Rivista giuridica on line), 32 (2012); C. Bonifazi, L’immigrazione straniera in Italia, Bologna 1998. Si veda anche: M. D’arienzo, Zucherberg e i nuovi rapporti tra diritto e religioni. A proposito di libertà di coscienza nell’era digitale, in Diritto e Religioni, 1 (2019), pp. 384 ss.; ID., Pluralismo religioso e dialogo interculturale. L’inclusione giuridica delle diversità, Cosenza 2018, pp. 47 ss.; ID., Appartenenza religiosa e reti sociali dei migranti, in Diritto e Religioni, 2 (2016), pp. 270-289; A. Fuccillo, Il cibo degli dei. Diritto, religioni e mercati, Torino 2016, pp. 15 ss.; A. Fuccillo (a cura di), I mercanti del tempio. Economia, diritto e religione, Torino 2011, pp. 5 ss.; S. Marabello, B. Riccio, Migration and Development: Reflections on an Ambivalent Relationship, in M. Benadusi - C. Brambrilla - B. Riccio (eds.), Disasters, Development and Humanitarian Aid: New Challenges for Anthropology, Rimini 2011, pp. 183 ss.; N. Colaianni, La laicità al tempo della globalizzazione, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale (Rivista giuridica on line), giugno 2009, pp. 2 ss.; H. De Haas, Migration and Development: a Theorical Perspective, Working Paper n. 9, International Migration Institute, Oxford 2008, pp. 1 ss.; P. Piccozza - G. Rivetti (a cura di), Religione cultura e diritto tra globale e locale, Milano 2007, pp. 46 ss.
[11] Sul punto cfr. M. Ferrante, Diritto, religione, cultura: verso una laicità inclusiva, in Stato, Chiese e Pluralismo confessionale, (Rivista giuridica on line), n. 35 (2017); A. Spadaro, Laicità e confessioni religiose: dalle etiche collettive (laiche e religiose) alla “meta-etica” pubblica (costituzionale), relazione al Convegno dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Napoli, 26-27 ottobre 2007, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; J.M. Vigil, Le sfide del pluralismo religioso alla fede tradizionale, in ADISTA, n. 14 del 18 febbraio 2006; R. Astorri, Appunti di storia e sistemi dei rapporti tra stato e chiesa, vol II, Milano 2003, pp. 34 ss.; A. Vitale, Ordinamento giuridico e interessi religiosi. Corso di diritto ecclesiastico (1984), Milano 1992, pp. 95 ss.; P. Bellini, Il pluralismo confessionale nell’attuazione della Costituzione, Napoli 1986, pp. 33 ss.; F. Ruffini, Relazioni tra Stato e Chiesa. Lineamenti storici e sistematici, ristampa, Bologna 1985, pp. 42 ss.; F. Margiotta Broglio, Stato e confessioni religiose. Fonti, vol. I, Firenze 1976, pp. 7 ss.; G. Casuscelli, Concordati, intese e pluralismo confessionale, Milano 1974, pp. 19 ss.
[12] V. deliberazioni della magistratura contabile n. 16 del 2014 e n. 8 del 2015, entrambe consultabili all’indirizzo internet www.cortedeiconti.it. Al riguardo si rinvia diffusamente a G. Casuscelli, L’otto per mille nella nuova relazione della Corte dei Conti: spunti per una riforma, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale (Rivista giuridica on line), 39 (2015). Cfr. anche F. Alicino, Un referendum sull’otto per mille? Riflessioni sulle fonti, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, (Rivista giuridica on line), 33 (2013).
[13] Sul punto, vedi meglio anche C. Cardia, Otto per mille e offerte deducibili, inI. Bolgiani (a cura di), Enti di culto e finanziamento delle confessioni religiose, Bologna 2007, pp. 247 e 251.
[14] Sul punto vedi meglio C. Elefante, L’«otto per mille». Tra eguale libertà e dimensione sociale del fattore religioso, Torino 2018,pp. 109-111.
[15] Criterio giudicato irrispettoso dei principi di proporzionalità, volontarietà e uguaglianza. Vedi sul punto C. Cardia, Stato e confessioni religiose. Il regime pattizio, Bologna 1988, p. 267. Vedi anche p. 13 e ss. della delibera n. 16 del 2014, cit.; G. Casuscelli, La crisi economica e la reciproca collaborazione per “il bene del Paese”, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, (Rivista giuridica on line), ottobre 2011, pp. 35-37; G. Vegas, L’otto per mille a vent’anni dalla revisione del Concordato lateranense, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1 (2004), pp. 183-198.
[16] Sull’argomento cfr. F. Alicino, I problemi pratici e attuali della libertà religiosa, in La legge che non c’è. Proposta per una legge sulla libertà religiosa in Italia, Bologna 2019, pp. 239-240, il quale, “considerata l’ipotesi piuttosto remota di un’abrogazione della disciplina dell’8 per mille”, vorrebbe affidare a una nuova legge generale sulla libertà religiosa il compito di “estendere le norme bilaterali di favore a tutte le religioni […] sulla scia del combinato disposto dagli artt. 19 e 20 Cost., […] a istituzioni e associazioni che svolgono attività d’interesse generale e di promozione sociale, comprese quelle filosofiche e non confessionali”.
[17] Vedi meglio I. Pistolesi, La quota dell’otto per mille di competenza statale: un’ulteriore forma di finanziamento (diretto) per la Chiesa cattolica?, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1 (2006), pp. 163-182.
[18] Ad eccezione della Chiesa mormone - che non vi partecipa affatto - e degli evangelici pentecostali, ADI e Chiesa apostolica - che partecipano alla ripartizione solo in ragione delle scelte espresse.
[19] Per la Suprema Corte tanto gli enti ecclesiastici che quelli con fini di istruzione o di beneficenza sono esentati dall'imposta, limitatamente agli immobili direttamente utilizzati per lo svolgimento delle loro attività istituzionali, non lo sono, invece, per gli immobili destinati ad altro. Pertanto, un ente ecclesiastico può svolgere liberamente – nel rispetto delle leggi dello Stato – anche un'attività di carattere commerciale, ma non per questo si modifica la natura dell'attività stessa, né mutano le norme applicabili al suo svolgimento, che rimangono – anche agli effetti tributari – quelle previste per le attività commerciali, indipendentemente dalla circostanza che l'ente svolga, o meno, in via esclusiva o prevalente, l’esercizio del commercio. In questi termini, cfr. Cass., Sez. V, 8 marzo 2004, sent. n. 4645, in banca dati I Quattro Codici della Riforma Tributaria BIG PREMIUM. In dottrina, v. G. Massa Gallerano, Il finanziamento ‘indiretto’ delle confessioni religiose ed il caso delle esenzioni a favore degli immobili ecclesiastici, in N. Fiorita - D. Loprieno (a cura di), La libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di religione nelle società multiculturali, Firenze 2009, pp. 199 ss.La questione della conformità dell’esonero con la normativa comunitaria è stata persino posta al vaglio del Tribunale dell’Unione Europea con due distinti ricorsi proposti contro il regime di esenzione dal pagamento dell’ICI, ora IMU, per le scuole italiane paritarie e per le strutture ricettive del Vaticano. In esito all’istruttoria, i Giudici di Strasburgo hanno emesso il 15 settembre 2016 due sentenze “gemelle” (si tratta delle sentenze emesse nelle cause T-219/13 e T-220/13), con cui hanno rigettato i ricorsi.
[20]Per un’analisi della questione cfr. N. Colaianni, Diritto pubblico delle religioni, Bologna 2012, pp. 115 ss.; A. Carmeni, Le agevolazioni tributarie per gli Enti ecclesiastici, in Dir. ed economia assicur., 4 (2012), pp. 527-543; L. Lovecchio, Decorrenza dei requisiti di non commercialità dell’attività per l’esenzione IMU agli enti non profit, in Corr. Trib., 4 (2012), pp. 307 ss.; G.M. Colombo, Dall’ICI all’IMU, come cambia la disciplina per gli enti non commerciali, in Corr. Trib., 17 (2012), p. 1274, P. Colella, La Chiesa e il pagamento dell’ICI-IMU, in Diritto e Religioni, 13 (2012), pp. 27 ss.; M. Pistilli, Enti ecclesiastici ed esenzione dall’IMU, in Immobili e proprietà, 2 (2012), pp. 103 ss.; A. Mondini, Enti ecclesiastici ed esenzione dall’ICI, in Studium iuris, 6 (2008), pp. 679 ss.; G. Rivetti, La disciplina tributaria degli enti ecclesiastici, Milano 2008, pp. 1 ss.; S. Carmignani Caridi, Il regime tributario dell’ente ecclesiastico, in J.I. Arrieta(a cura di), Enti ecclesiastici e controllo dello Stato, Venezia 2007, pp. 222 ss.; A. Roccella, Gli enti ecclesiastici a vent’anni dall’accordo di modificazione del Concordato, in Jus, II (2005), pp. 539 ss.; P. Ronzani, Il regime tributario degli enti ecclesiastici, Padova 2000, pp. 1 ss.; L. Fuardo, Agevolazioni tributarie ed enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, in Dir. Eccles., 4 (2000), pp. 417-421; A. Fuccillo, Le nuove frontiere dell’ecclesiasticità degli enti. Struttura e funzione delle associazioni ecclesiastiche, Napoli 1999, pp. 115 ss.
[21] Cfr. M. Basile, Enti non lucrativi (diritto civile), in Enciclopedia del Diritto, Aggiornamento, III, Milano 1999, p. 571, il quale ha bene evidenziato come «la “non lucratività” comprende l’aspirazione degli uomini a soddisfare propri interessi diversi dal guadagno», e come vada disattesa «potendo divenire fonte di equivoci, sia nella produzione sia nell’applicazione del diritto, la tesi della coincidenza del “non lucrativo” con l’“altruistico”». V. anche G. Casuscelli, Enti ecclesiastici, in E. Gabrielli (diretto da), A Barba - S. Pagliantini (a cura di), Commentario del Codice civile, Delle persone, vol. III, Leggi collegate, Torino 2013, pp. 291-439; A. Fuccillo, Dare etico. Agire non lucrativo, liberalità non donative e interessi religiosi, Torino 2008.
[22] Cfr. L. Simonelli - P. Clementi, L'IMU e gli enti non profit, in Enti non profit, 5 (2012), pp. 77 ss.
[23]Cfr. G. Casuscelli(a cura di), Nozioni di diritto ecclesiastico, Torino 2015, pp. 309 ss.
[24]Per quel che concerne gli edifici di culto si rinvia diffusamente a R. Santoro, Il regime giuridico degli edifici di culto nella società multi religiosa, in A. Fuccillo, Giustizia e religione, Torino 2011, pp. 67 ss.; G. Casuscelli, Op. cit., pp. 229 ss.; M. Tedeschi, Manuale di diritto ecclesiastico, Torino 2010, pp. 278 ss.; A. Vitale, Corso di diritto ecclesiastico. Ordinamento giuridico e interessi religiosi, Milano 2005, pp. 20 ss.; A. Fuccillo, L'edificio di culto nella normativa catastale e nell'imposizione indiretta, in Riv. not., 4 (1991), pp. 680 ss.; M. Petroncelli, Edifici di culto cattolico (voce), in Enciclopedia del diritto, XIV, Milano 1965, pp. 296 ss.; D. Barillaro, Nozione giuridica di edificio destinato al culto, Modena 1959, pp. 15 ss.
[25] Cfr., sul punto, E. De Mita, Il regime tributario, in D. Persano (a cura di), Gli edifici di culto fra Stato e confessioni religiose, Milano 2008, pp. 245 ss.
Geraci Rosa
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