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I cuori dimenticati dei luoghi. Appunti su trascendenza, comunità e recupero del territorio

29.02.2024

Anna Sammassimo*

 

I CUORI DIMENTICATI DEI LUOGHI.

Appunti su trascendenza, comunità e recupero del territorio **

 

English title: PLACES’ FORGOTTEN HEARTS. Notes on transcendence, community and land recovery

DOI: 10.26350/18277942_000168 

 

Sommario: Introduzione - 1. L’ambientazione de Il fu Mattia Pascal – 2. La riduzione di una chiesa ad uso profano – 3. I caratteri della biblioteca di Monsignor Boccamazza - Conclusioni

 

Introduzione

«Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topi che guardiano di libri nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, nel 1803, volle lasciar morendo al nostro Comune… Del dono anzi il Comune si dimostrò così poco grato al Boccamazza, che non volle neppure erigergli un mezzo busto pur che fosse, e i libri lasciò per molti e molti anni accatastati in un vasto e umido magazzino, onde poi li trasse, pensate voi in quale stato, per allogarli nella chiesetta fuori mano di Santa Maria Liberale, non so per qual ragione sconsacrata. Qua li affidò, senz’alcun discernimento, a titolo di beneficio, e come sinecura, a qualche sfaccendato ben protetto il quale, per due lire al giorno, stando a guardarli, o anche senza guardarli affatto, ne avesse sopportato per alcune ore il tanfo della muffa e del vecchiume».

In queste righe, che fanno parte della prima premessa a Il fu Mattia Pascal, Pirandello introduce subito il riferimento alla chiesetta sconsacrata di Santa Maria Liberale, luogo dove si svolgerà il suo racconto. Anzi, la Prima premessa (prima perché subito dopo se ne incontra una seconda, dal titolo: Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa) viene utilizzata dall’Autore-protagonista narratore proprio per descrivere al lettore il luogo in cui sta redigendo le sue memorie, e dove ha intenzione di lasciare il manoscritto una volta ultimato[1]: la biblioteca posta nella chiesetta sconsacrata. Qui si trova, all’inizio della storia, «il fu Mattia Pascal», che qui lavora da quando ha perso la sua identità, anzi, le sue due identità.

Il romanzo pirandelliano è dunque una lunga analessi di cui il lettore conosce subito la fine e la chiesetta sconsacrata è non solo il luogo dove si svolge la narrazione ma anche il paradigma di un diritto strano, di norme che operano senza che se ne conoscano o se ne comprendano le ragioni e del disordine che ne consegue.

È noto che una delle indicazioni fornite dagli studi di diritto e letteratura[2] è quella per cui il giurista, proprio grazie alla familiarità con opere di letteratura che trattano vicende giuridiche, può trarre «una più esatta percezione dell'impatto delle norme sulla vita delle persone comuni (intendendo con questa espressione le persone che non hanno a che fare professionalmente con il diritto) e forse del funzionamento stesso di alcune istituzioni giuridiche»[3].

Questo permette al giurista (ed al canonista in particolare) anche Pirandello ne Il fu Mattia Pascal: rappresentandogli, infatti, come le autorità civili (il Comune) e la popolazione tutta di Miragno hanno percepito e vissuto la riduzione ad uso profano della chiesetta di Santa Maria Liberale da parte dell’autorità ecclesiastica, gli fa comprendere la percezione dell’impatto del diritto canonico da parte di un piccolo paese siciliano.

 

  1. L’ambientazione de Il fu Mattia Pascal

Il romanzo comincia subito nel segno della “stranezza” e della “diversità”, contesto in cui ben si inserisce una chiesetta (luogo di culto per eccellenza dei cristiani) sconsacrata (non adibita più al culto).

L’io narrante si pone, infatti, fin dal principio, in una situazione del tutto peculiare rispetto al resto dell’umanità, e questo è certo un elemento che contribuisce a destare l’interesse del lettore. L’io narrante, infatti, si presenta ai lettori con nome e cognome, li informa subito di aver sempre avuto poche certezze. Ora non sa nemmeno più quale sia veramente il suo nome, ma ciò non deriva da un problema legato a una nascita illegittima: il suo caso è ben più strano[4].

Tale peculiarità o stranezza costituisce una vera e propria unicità ed è l’elemento scatenante della narrazione. Essa viene ribadita costantemente nel romanzo, a cominciare dalla descrizione (nella seconda premessa) del posto dove l’io narrante si appresta a scrivere le proprie memorie: un luogo chiuso e riposto (l’abside della chiesetta sconsacrata), separato dal resto dell’ambiente da un piccolo cancello di legno; un luogo che sottolinea anche visivamente la separazione e la diversità di Mattia Pascal dal resto dell’universo.

L’effetto che queste strane informazioni e anticipazioni suscitano nel lettore è di spiazzamento e di curiosità (come mai Mattia non è più certo di chiamarsi così? Che significato può avere la duplice morte?). D’altra parte, il modo bizzarro con cui il narratore si presenta non ispira una particolare fiducia: che fiducia può ispirare uno che non sa neanche il suo nome? Il lettore individua subito Mattia Pascal come un narratore sfuggente e inattendibile, che lo metterà di fronte a una vicenda di incerta interpretazione.

La seconda informazione che il protagonista narratore fornisce riguarda la propria attività: egli svolge la funzione di bibliotecario[5] di una biblioteca che un prelato (monsignor Boccamazza) ha donato al Comune di Miragno dopo la sua morte. Vi è, qui, subito un passaggio straniante e di marcata intonazione ironica, in cui lo stesso io narrante non sa dare notizie precise di sé, cioè non sa dire se il proprio lavoro consista nell’essere un cacciatore di topi o un guardiano di libri: attività entrambe assurde e che certamente ridicolizzano il proprio lavoro di bibliotecario.

La donazione di monsignor Boccamazza non è stata gradita né dalle autorità né dalla popolazione, motivo per cui la biblioteca giace in uno stato di totale confusione[6].

Una biblioteca, per sua stessa natura, dovrebbe essere, infatti, il luogo dell’ordine, un ordine che a sua volta dovrebbe riflettere l’armonia del mondo e della conoscenza. Invece questa biblioteca è dis-ordinata, è uno spazio snaturato e rovesciato[7]. Tutto è il contrario di come dovrebbe essere. Come, del resto, la chiesetta sconsacrata in cui la biblioteca è ospitata: uno spazio che non conserva più i caratteri specifici per i quali è stato costruito, che non è più adibito al culto per cui era stato eretto. L’armonia vitale che esiste, nella duplice dimensione di segno e strumento, fra edifici sacri e popolo di Dio si è, in questo caso, interrotta, come sempre si interrompe quando muta l’autocoscienza del popolo di Dio per una rinnovata ricerca di fedeltà alla volontà di Dio e alla condivisione della storia, oppure in un luogo muta il radicamento e la diffusione del popolo di Dio nel contesto della popolazione che vive in quell’area geografica[8].

Pirandello, dunque, per l’ambientazione del suo romanzo non crea un luogo che rifletta un’armonia cosmica, un ambiente coerente e organizzato ma, al contrario, rappresenta una realtà informe, confusa e sostanzialmente incomprensibile[9]: una chiesetta sconsacrata per non si sa quale ragione. Come si è detto, infatti, nella chiesetta di Santa Maria Liberale è venuta meno quella armonia vitale che esiste, nella duplice dimensione di segno e strumento, fra edifici sacri e popolo di Dio.

Sì, perché le chiese, intese come edifici sacri, sono innanzitutto espressione e segno della fede di un popolo: non ne possono essere separate, pena la perdita del loro significato e, lentamente, alla fine, della loro stessa esistenza[10]. Anche la chiesetta di Santa Maria Liberale aveva questa funzione, era anzi sicuramente stata eretta a questo scopo: ora è ridotta a custodire una biblioteca che né la popolazione né l’autorità del posto apprezzano, come – evidentemente – non avevano apprezzato neppure la fede, il sentimento religioso. Si potrebbe affermare che essa sia stata ridotta a bene di interesse culturale, con un’operazione che, però, dà solo un’effimera illusione di protrarre la vita dell’edificio e – forse – neppure quella.

Non solo. Le chiese, intese come edifici sacri, entro certi limiti, sono lo strumento che incentiva la fede di un popolo, avendo questa necessità di luoghi in cui ascoltare la Parola e celebrare. Tali luoghi devono essere confacenti all’ascolto e alla celebrazione e richiameranno intrinsecamente ed estrinsecamente allo stesso ascolto e alla celebrazione. Anche per questo motivo, dunque, non si possono separare edificio sacro e fede, pena la perdita per il popolo della sua coscienza e per i singoli fedeli della appartenenza a un popolo. Ma la chiesetta di Santa Maria Liberale è stata sconsacrata e questo la rende il simbolo di quella – ancora oggi – attuale e delicata questione della cessazione di un edificio sacro.

 

  1. La riduzione di una chiesa ad uso profano

Per il diritto canonico la “cessazione” di un edificio sacro può avvenire per graduale abbandono, da parte della popolazione di un luogo, della pratica religiosa, con conseguente automatica sovrabbondanza di edifici sacri o sproporzione degli stessi rispetto al numero dei fedeli. Oppure può essere indotta dalla pressione di interessi culturali (a volte solo turistici ed economici), che prevalgono sulle esigenze e aspettative della comunità ecclesiale locale, o anche di interessi religiosi di altre Chiese o comunità ecclesiali.

Ancora, può trattarsi di una cessazione spontanea, indotta da una scelta pastorale che privilegia l’investimento apostolico in piccoli gruppi o economico in attività caritative, o, al contrario, forzata, cioè richiesta da esigenze impellenti di carattere economico, legate al mantenimento e alla cura degli edifici stessi[11].

Non sappiamo che tipo di cessazione abbia riguardato la chiesetta di Santa Maria Liberata ma conosciamo solo la conseguenza: essa è sconsacrata, cioè ridotta ad uso profano[12]. Si tratta, della cessazione completa della destinazione al culto soprattutto pubblico di un edificio sacro, qualificato come chiesa, in modo tale che dopo il relativo provvedimento del vescovo diocesano in quell’edificio non possa più celebrarsi il culto e quell’edificio possa essere destinato in forma esclusiva ad altro uso, profano ma non sordido[13], cioè non in esplicito contrasto con la precedente destinazione cultuale[14].

Due sono le ipotesi previste dal Codice di diritto canonico[15]: la prima è quella di un edificio sacro che «non può in alcun modo essere adibito al culto divino, né è possibile restaurarlo» (can. 1222 § 1)[16]; la seconda si verifica «quando altre gravi ragioni suggeriscono che una chiesa non sia più adibita al culto divino, il vescovo diocesano, udito il consiglio presbiterale, può ridurla a uso profano non sordido, con il consenso di quanti rivendicano legittimamente diritti su di essa e purché non ne patisca alcun danno il bene delle anime» (can. 1222 § 2)[17].

È molto probabilmente, anzi sicuramente quest’ultimo il caso della chiesetta di Santa Maria Liberata, essendo la stessa in grado di accogliere ed essere adibita a biblioteca.

In base al § 2 del can. 1222 è il Vescovo diocesano competente a disporre la riduzione di una chiesa ad uso profano non sordido dopo aver consultato il consiglio presbiterale, dopo aver verificato ed ottenuto il consenso di chi legittimamente rivendica diritti sull’edificio e dopo aver attentamente ponderato due circostanze: che non vi sia rischio di danni per il bene delle anime e che vi siano «gravi cause» che suggeriscano la soppressione.

Il riferimento normativo alle «gravi cause» è stato ed è ancora oggetto di un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale[18]. Alcuni Autori hanno ritenuto che si possa parlare di «gravi cause» «se solo con grande dispendio si possa rimediare alla decrepitezza dell’edificio della chiesa, oppure l’esodo di fedeli in seguito all’incisiva suddivisione rinnovata fra comuni del territorio interessato»[19]. Altri le hanno ritenute presenti «nelle zone del centro storico di città che hanno molte chiese, ma poca popolazione, e sono sprovviste di sacerdoti sufficienti per mantenerle aperte»[20]. Altri ancora le hanno individuate nella «mobilità della popolazione dei centri, [ne]l cambiamento della situazione finanziaria dei dintorni, [nel]la nascita di parrocchie e [ne]l decremento del numero dei membri di altre parrocchie»[21].

Opportunamente è stato però sottolineato[22] che nella valutazione delle «gravi cause» capaci di giustificare la soppressione di una chiesa si deve considerare il nesso esistente con la fattispecie prevista nel can. 1222 § 1. Tale nesso si dipanerebbe in una duplice direzione: in via comparativa, quasi alludendo che queste «gravi cause» debbano essere simili alle precedenti per gravità[23], e in via deduttiva, considerando che la previsione di una causa assolutamente grave al § 1 sarebbe stata inutile nel caso in cui il Legislatore avesse considerato generiche «cause gravi» sufficienti per sopprimere una chiesa[24].

Dal canto suo, il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica ha avuto modo di esprimersi al proposito in molteplici occasioni nel corso degli ultimi anni. Spesso le «gravi cause» sono state individuate in base a criteri economici. Così, ad esempio, una sentenza coram Agustoni del 4 maggio 1996[25], nel caso di un’unione di tre parrocchie in una sola con conseguente decisione del Vescovo di ridurre una chiesa ad uso profano, ha ritenuto che la conservazione di tre chiese fosse un peso economico intollerabile per la nuova parrocchia, sorta già indebitata, mentre la vendita avrebbe portato un importante contributo economico per la nuova parrocchia, tanto più che il numero dei fedeli era in diminuzione e la cura delle anime non richiedeva tante chiese aperte al pubblico[26]. La decisione, inoltre, ribadisce che il Vescovo è, forse, l’unico in grado di determinare, in base alle circostanze di natura economica, pastorale ecc., la gravità delle cause di cui al § 2 del can. 1222[27].

In generale, comunque, sono state considerate «gravi causae» la condizione pericolante della chiesa, accertata anche dal giudice civile, nel caso in cui il Vescovo non ritenga opportuno onerare i fedeli della comunità locale con le spese di un restauro ed essendoci, nelle vicinanze, un’altra chiesa abbastanza grande per i fedeli della stessa lingua in buona condizione; l’abbandono di un edificio (palestra) adibito solo in modo provvisorio al culto divino, mentre la nuova parrocchia disponeva di una chiesa abbastanza ampia e abbisognava della palestra per i giovani della parrocchia; l’occupazione di una chiesa da parte di un’altra associazione ecclesiastica; questioni di carattere economico[28].

 

  1. I caratteri della biblioteca di Monsignor Boccamazza

La chiesetta di Santa Maria Liberale è stata dunque ridotta ad uso profano dal Vescovo diocesano, per gravi cause che non è dato conoscere: anzi, l’io narratore dichiara espressamente di ignorarle. Pirandello sembra porre l’accento sui cambiamenti che avvengono in una società senza che questa ne conosca le cause, i motivi e probabilmente senza che questa ne sia minimamente interessata, così come non è interessata alla cultura, alla biblioteca lasciata in eredità da Monsignor Boccamazza. Fede e cultura non sono (o non sono più) valori fondamentali della popolazione di Miragno ma sembrano retaggio di una storia lontana e dimenticata, ora relegata in uno stato di confusione, desolazione e stravaganza.

Sono proprio questi i caratteri con cui viene descritta la biblioteca in cui l’io narrante si trova, caratteri che diventano propri anche della chiesetta sconsacrata, per uno strano processo osmotico.

La bibliotecaè infatti innanzitutto descritta come una babilonia: ed ovviamente non è un caso che essa sia stata posta in una chiesetta sconsacrata, ovvero non più adibita a luogo di culto. Come narra la Bibbia, la torre di Babele venne distrutta a causa dell’orgoglio umano, divenendo così il segno della maledizione di Dio. La chiesa sconsacrata, assimilata simbolicamente a una babilonia, diventa l’immagine maledetta di un mondo decomposto, inconoscibile e in preda alla confusione. Il trasferimento dei libri dall’abitazione di monsignor Boccamazza al magazzino e, successivamente, da qui alla chiesa sconsacrata ha portato la biblioteca a uno stato di totale disordine. La “fusione” per mezzo dell’umidità di due libri dai contenuti opposti è l’emblema della “con-fusione”, del disordine e della casualità del mondo che questa biblioteca rappresenta[29].

La biblioteca è inoltre deformata umoristicamente: sita nell’immaginario paesino di Miragno, la sua rappresentazione è resa ancora più grottesca dalla presenza di “cinque preti della vicina cattedrale e di tre carabinieri dell’attigua caserma” intenti presso un tavolo polveroso “a divorare un’insalata di cocomeri e pomodori”. Ai loro occhi di commensali l’occasionale visitatore, ovvero il fu Mattia Pascal, appare come “una bestia rara e insieme molesta”.

Lo scenario descritto è desolante: privo di identità e di direzioni, il fu Mattia Pascal è finito a lavorare in una biblioteca non frequentata da nessuno, nata dall’illusione di un prete che volle lasciare molti libri ai suoi concittadini, in realtà del tutto disinteressati alla cultura come, del resto, alla fede religiosa: per questo la biblioteca si trova in una chiesa vecchia, sconsacrata e cadente.

Ancora, la biblioteca configura uno spazio separato dalla vita; essa trova il suo riflesso speculare non solo nel cimitero dove il protagonista si reca a rendere omaggio alla propria salma fittizia, ma anche nel letto dove è morta la madre e dove egli ora va a dormire ogni sera. Dalla sua prospettiva intemporale, Mattia non può avviare una vicenda esistenziale, può solo raccontarne una trascorsa. Ricusando ogni impegno identitario, tirandosi fuori dallo spazio diegetico del romanzo per farsi narratore, il fu Mattia Pascal sceglie come palcoscenico della sua prova narrativa una biblioteca in cui non si celebra più il culto che le dovrebbe essere proprio, ovvero quello della memoria.

In un tale contesto il romanzo mette in atto una narrazione centrifuga, digressiva, impossibilitata a ricostruire, a concludere, trovando rifugio tra i bislacchi detriti della memoria culturale, predisponendoli ad un amalgama casuale, illogica dove vige la regola tutto e il suo contrario. Il riordino dei libri inutili ammassati nella biblioteca, si svolge secondo il ritmo parodico di una pantomimica gestualità: «Molti libri curiosi e piacevolissimi don Eligio Pellegrinotto, arrampicato tutto il giorno su una scala da lampionajo, ha pescato negli scaffali della biblioteca. Ogni qualvolta ne trova uno, lo lancia dall’alto, con garbo sul tavolone che sta in mezzo […]».

Il bibliotecario, che dovrebbe officiare il culto della memoria custodita dai libri, fuoriesce dall’abside, in cui si è autosepolto; l’oggetto libro è sconsacrato; in questo senso quella attuata da Il fu Mattia Pascal è una scrittura sotto il marchio del doppio, dove accanto al finto defunto e al finto bibliotecario, nonché fittizio vate dell’arte, è di scena un vero sacerdote, anch’egli custode della biblioteca. Se i nomi dei personaggi rispondono ad un evidente gioco umoristico, quello di don Eligio Pellegrinotto allude al suo essere ligio alla tradizione e questo suo tratto lo rende quasi una nota stonata in una composizione che invece dovrebbe essere proprio da lui intonata e diretta.

 

Conclusioni

L’Italia è ricchissima di edifici di culto (cattolici in gran parte ma non solo), tanto che ogni città vanta di solito, da questo punto di vista, un patrimonio immobiliare, culturale e artistico di pregio. Negli ultimi decenni si è assistito, per cause prevalentemente economiche ma non solo, ad una situazione di abbandono di questi luoghi di culto che per secoli hanno rappresentano centri di aggregazione e di formazione di identità culturali e che oggi rischiano di disperdersi insieme con gli edifici che ne hanno rappresentato la manifestazione e il simbolo più significativi.

Questi luoghi non dovrebbero essere dati via senza le dovute cautele perché sono memoria di un passato condiviso, rappresentano spazi di vita inclusivi e anche virtuosi dal punto di vista estetico ed hanno un potente linguaggio comunicativo, capace di trasmettere non solo emozioni e memoria ma anche tecniche costruttive che, adottate nella nostra contemporaneità, possono essere molto utili nel contesto di una ricercata sostenibilità sociale e climatica. La loro dismissione priva di cautele, o addirittura incontrollata, rischia di far perdere queste importanti caratteristiche e potenzialità.

Ragioni connesse alle circostanze storiche, geografiche e culturali hanno, infatti, spesso compromesso un’immensa eredità culturale le cui tracce, in molti casi, sono state anche definitivamente cancellate per dare spazio ad altri paradigmi culturali. Per tutti questi motivi il tema del riuso degli edifici di culto, una volta cessata la destinazione originaria e la conseguente individuazione di un diverso uso profano “non indecoroso”, implica l’esigenza di una riflessione scientifica multidisciplinare al fine di definire, in aperto confronto con le comunità locali interessate, modelli di trasformazione sostenibili, ispirati a processo di rigenerazione, in linea con i principi di economia circolare e con l’odierno assetto multiculturale delle città.

Ne Il fu Mattia Pascal Pirandello riesce a cogliere l’essenza del problema e a rappresentare situazioni complesse e delicate nonché ancora oggi attuali.

Quella biblioteca nella chiesetta sconsacrata che, stilisticamente, costituisce la cornice della narrazione di cui è protagonista un uomo divenuto estraneo alla vita e delegato al racconto di essa, diventa il paradigma di una realtà incompresa ed incomprensibile per la comunità locale.

Quell’originale cronotopo che rappresenta uno spazio fuori dello spazio e un tempo fuori del tempo, dove il protagonista “defunto” scrive la sua storia, diventa il ritratto del tempo attuale.

E quella comunità che non apprezza la biblioteca e che non sa perché la chiesetta è stata consacrata diventa il simbolo della società odierna, una società che ha perso o forse – addirittura – dimenticato i suoi valori e, assieme ad essi, il cuore, l’essenza, l’importanza dei luoghi che quei valori hanno sempre incarnato ed incentivato.


*   Università degli Studi di Padova (anna.sammassimo@unipd.it)

** Il contributo, sottoposto a double blind peer review, è destinato ad essere pubblicato negli atti del  X Convegno ISLL: Narrazione degli spazi urbani. Attori, Luoghi, Rappresentazioni. Una prospettiva di Law & Humanities.

[1] Cfr. L. Pirola, La biblioteca Boccamazza, in https://prof-pirola.medium.com/la-biblioteca-boccamazza-4c56b7f29cbd, 2020 (ultimo accesso: 23 settembre 2023).

[2] Sia permesso ricordare che il legame tra diritto e letteratura ha cominciato ad essere indagato e valorizzato a partire dagli inizi del XX secolo grazie alle opere di John Wigmore e Benjamin Cardozo. In particolare, nel 1908 John Henry Wigmore pubblica A List of One Hundred Legal Novels, un elenco di romanzi a contenuto giuridico che egli ritiene espressivi dei principi fondamentali della cultura giuridica americana del suo tempo. Wigmore ritiene che le opere letterarie e soprattutto quelle che narrano in vario modo conflitti di natura giuridica possono costituire per i giuristi uno strumento di comprensione della natura profonda della giustizia, cioè qualcosa che il semplice studio dei testi giuridici non sarebbe in grado di fornire con altrettanta intensità ed immediatezza. La sua opera sottolinea l’opportunità di studiare insieme diritto e letteratura perché le opere di letteratura sono capaci di generare una comprensione dell'esperienza umana, del senso del giusto e dell'ingiusto, che nessun testo giuridico può offrire anche se il diritto è indispensabile per fornire la struttura giuridica che regola la vita di ogni persona. Ha scritto al proposito P. Calamandrei, Le lettere e il processo civile, in Rivista di diritto e procedura civile 1 (1924), p. 204, che «dalla lettura di certe pagine di romanzi, nelle quali si descrivono col linguaggio profano i congegni della giustizia in azione, è assai spesso possibile trarre un'idea precisa, meglio che da una critica fatta in gergo tecnico e in stile cattedratico, del modo in cui la realtà reagisce sulle leggi e della loro inadeguatezza a raggiungere nella vita pratica gli scopi per i quali il legislatore crede di averle create».

[3] S. Ferrari, Diritto e letteratura. Uno sguardo dal mondo delle religioni e dei loro diritti, in Rivista di filosofia del diritto 2 (2020), p. 403.

[4] «Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l’atroce cordoglio d’un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt’a un tratto che… sì, niente, insomma: né padre, né madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei costumi, e de’ vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un povero innocente. Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di questo. Potrei qui esporre, di fatti, in un albero genealogico, l’origine e la discendenza della mia famiglia e dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e mia madre, ma e gli antenati miei e le loro azioni, in un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli. E allora? Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo».

[5] «Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topi che guardiano di libri nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, nel 1803, volle lasciar morendo al nostro Comune».

[6] «È ben chiaro che questo Monsignore dovette conoscer poco l’indole e le abitudini de’ suoi concittadini; o forse sperò che il suo lascito dovesse col tempo e con la comodità accendere nel loro animo l’amore per lo studio. Finora, ne posso rendere testimonianza, non si è acceso: e questo dico in lode de’ miei concittadini. Del dono anzi il Comune si dimostrò così poco grato al Boccamazza, che non volle neppure erigergli un mezzo busto pur che fosse, e i libri lasciò per molti e molti anni accatastati in un vasto e umido magazzino».

[7] L. Pirola, La biblioteca Boccamazza, cit.

[8]G.P. Montini, La cessazione degli edifici di culto, in Quaderni di diritto ecclesiale 13 (2000), p. 282.

[9] «Tal sorte toccò anche a me; e fin dal primo giorno io concepii così misera stima dei libri, sieno essi a stampa o manoscritti (come alcuni antichissimi della nostra biblioteca), che ora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere, se, come ho detto, non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poter servire d’ammaestramento a qualche curioso lettore, che per avventura, riducendosi finalmente a effetto l’antica speranza della buon’anima di monsignor Boccamazza, capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo mio manoscritto, con l’obbligo però che nessuno possa aprirlo se non cinquant’anni dopo la mia terza, ultima e definitiva morte».

[10]G.P. Montini, La cessazione degli edifici di culto, cit., p. 282.

[11]G.P. Montini, La cessazione degli edifici di culto, cit., p. 283.

[12]Su tutta la problematica, con insistenza particolare sul procedimento amministrativo, sulla procedura di ricorso e sulla giurisprudenza, per una minima bibliografia, senza alcuna pretesa di esaustività, cfr. P. CAVANA, Gli edifici dismessi, in D. Persano (a cura di), Gli edifici di culto tra Stato e confessioni religiose, Milano 2008, pp. 199 ss.; F. Daneels, Soppressione, unione di parrocchie e riduzione a uso profano della chiesa parrocchiale, in AA. VV., La parrocchia, Città del Vaticano 1997, pp. 85-112 (l’articolo, con brevi integrazioni identificate da un asterisco, è stato riedito col medesimo titolo in Ius Ecclesiae 10 [1998] pp. 111-148 ed è a quest’ultima redazione che si farà riferimento in questa sede); F. GRAZIAN, Riduzione di una chiesa ad uso profano: atti canonici e civilistici, in Quaderni di diritto ecclesiale 29 (2016), pp. 18 ss.; P. MALECHA, Edifici di culto nella legislazione canonica. Studio sulle chiese-edifici, Roma 2002, pp. 29 ss.; ID., Riduzione a uso profano delle chiese e sfide attuali, in F. Capanni (a cura di), Dio non abita più qui? Dismissione di luoghi di culto e gestione integrata de beni culturali ecclesiastici, Atti del Convegno internazionale promosso dalla Pontificia Università Gregoriana in collaborazione con il Pontificio Consiglio della Cultura e l'Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l'edilizia di culto, Roma 2019, pp. 50 ss.; ID., La riduzione di una chiesa a uso profano non sordido alla luce della normativa canonica vigente e delle sfide della Chiesa di oggi, in Jusonline 3 (2018), pp. 173 ss.; G.P. MONTINI, I ricorsi amministrativi presso il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica. Una ricognizione a partire dai ricorsi in materia di parrocchie e di edifici sacri, in AA. VV., I giudizi nella Chiesa. Processi e procedure speciali. XXV Incontro di Studio, Villa S. Giuseppe, Torino, 29 giugno-3 luglio 1998, a cura del Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico, Milano 1999, pp. 85-119.; ID., La riduzione ad uso profano di una chiesa. Alcune applicazioni, in Quaderni di diritto ecclesiale 29 (2016), pp. 37 ss.; G. PARISE, Il dato codiciale in materia di soppressione, unione, modifica di parrocchie (can. 515 §2) e la riduzione ad uso profano di edifici sacri (can. 1222 §2), in Angelicum 4 (2016), pp. 843 ss.

[13] Il prescritto del canone 1222 § 2 richiede che l’uso profano al quale la chiesa è ridotta non sia sordido: è una richiesta supplementare. È pure una richiesta secondaria, rispetto alla prescrizione delle condizioni perché la chiesa non sia più adibita al culto divino. Ordinariamente la clausola di salvaguardia, che l’uso pur profano non sia sordido, non entra in gioco nel momento dell’emanazione del decreto di riduzione della chiesa, in quanto ordinariamente non è allora individuata la destinazione finale della chiesa dopo la riduzione. E non è neppure previsto che nel decreto venga indicata la destinazione finale della chiesa: non è necessaria né per il vescovo che riduce né per i fedeli che impugnano il decreto. Si può dubitare che questa clausola svolga la stessa funzione discriminatoria (condicio sine qua non per la legittimità) delle due clausole finali del can. 1222 § 2, ossia il consenso di chi vanta diritti sulla chiesa e che il bene delle anime non ne scapiti. Se la destinazione finale della chiesa fosse espressa nello stesso decreto di riduzione, i fedeli potrebbero impugnare entrambe le disposizioni (riduzione e destinazione), ma l’autorità che verifica la legittimità potrebbe distinguere, poiché il decreto appare divisibile, e, per esempio, decidere della legittimità della riduzione e dell’illegittimità dell’uso finale. Ciò significa che le condizioni gravi del can. 1222 § 2 non si applicano alla determinazione dell’uso finale della chiesa, che è valutato nella sua legittimità (che sia non sordido) secondo i criteri generali (onus probandi incumbit ei qui asserit: can. 1526 § 1; presunzione di legittimità della decisione, ecc.).

A dispetto di questa impostazione all’apparenza almeno secondaria della richiesta di un uso non sordido, l’opinione pubblica è di solito molto attenta e sensibile alla definitiva destinazione della chiesa che non più adibita al culto divino; Montini, I ricorsi amministrativi presso il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica. Una ricogni-zione a partire dai ricorsi in materia di parrocchie e di edifici sacri, in Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (a cura di), I giudizi nella Chiesa. Processi e procedure speciali. XXV Incontro di Studio, Villa S. Giuseppe, Torino, 29 giugno-3 luglio 1998, Milano 1999, p. 53.

[14]G.P. Montini, La cessazione degli edifici di culto, cit., p. 283.

[15] Il Codice di diritto canonico non conosce la denominazione edificio di culto. Utilizza invece i termini edificio sacro («aedes sacra» can. 1214) o più genericamente luogo sacro («locum sacrum» cf can. 1205), distinguendo tra essi in particolare la chiesa («ecclesia» can. 1214), l’oratorio («oratorium» can. 1223) e la cappella privata («sacellum privatum» can. 1226). La denominazione edificio di culto appare invece privilegiata dalla normativa concordataria e civile italiana.

[16]«Si qua ecclesia nullo modo ad cultum divinum adhiberi queat et possibilitas non detur eam reficiendi, in usum profanum non sordidum ab Episcopo dioecesano redigi potest»: a configurare questo primo caso concorrono simultaneamente due condizioni. La prima riguarda l’edificio che, nella situazione di fatto in cui si trova attualmente, non può svolgere la sua funzione in ordine al culto divino. Non si tratta della semplice inadeguatezza a una modalità di esercizio del culto divino del tutto coerente con le richieste e gli auspici della liturgia o della (nuova) configurazione del popolo cristiano che compone la comunità che frequenta quel tempio (sembra dare un’interpretazione più larga del can. 1187 la lettera circolare dell’allora Sacra Congregazione per il Clero, Opera artis, 11 aprile 1971, n. 6: «Gli edifici ecclesiastici di valore artistico non siano trascurati, anche se non sono più usati per il fine originario». Vero è però che aggiunge: «Dovendoli eventualmente cedere, si preferiscano persone che siano in grado di ben curarli (cf can. 1187)» (AAS 63 [1971] 317). L’altra attiene all’impossibilità di restaurare l’edificio sacro, per renderlo capace di svolgere la sua funzione cultuale. Non basta la semplice inadeguatezza, anche permanente o strutturale dell’edificio. Deve verificarsi insieme l’impossibilità di procedere al restauro. Il can. 1187 del Codice del 1917 si esprimeva in modo diverso per significare l’impossibilità: «Omnes aditus interclusi sint ad eam reficiendam». L’espressione sembra più forte dell’attuale («possibilitas »), in quanto sembra riferirsi a tentativi effettivamente messi in atto e a tentativi determinati, d   esumibili da normative e previsioni codiciali (cf, per esempio, can. 1186). In questo caso, che si identifica con l’impossibilità fisica di (continuare ad) adibire la chiesa alla sua funzione cultuale, il vescovo diocesano può procedere liberamente alla riduzione a uso profano non sordido della chiesa. Non gli sono richiesti né imposti adempimenti o pareri da acquisire. La cosa si impone da sé, come una necessità. Dovrà ovviamente attenersi ai criteri e requisiti generali della emanazione di un atto amministrativo (cf, per esempio, cann. 50-51). La decisione del vescovo diocesano, sia sotto la forma di atto sia sotto la forma di comportamento o azione, è soggetta ai ricorsi previsti dal diritto.

[17]«Ubi aliae graves causae suadeant ut aliqua ecclesia ad divinum cultum amplius non adhibeatur, eam Episcopus dioecesanus, audito consilio presbyterali, in usum profanum non sordidum redigere potest, de consensu eorum qui iura in eadem sibi legitime vindicent, et dummodo animarum bonum nullum inde detrimentum capiat». Al proposito cfr. tra gli altri, cfr. C. Gullo, Brevi note sulla gravità della «causa» necessaria per ridurre la chiesa a uso profano, in Il diritto ecclesiastico II (1997), pp. 7-11.

[18] E anche di uno specifico approfondimento nelle Linee guida emanate, nel 2018, dall’allora Pontificio Consiglio per la cultura proprio sulla dismissione ed il riuso di chiese.

[19]H.J.F. Reinhardt, in Münsterischer Kommentar Codex Iuris Canonici, ad c. 1222, Essen 1987.

[20]J. Manzanares, Ad canonem 1222, in Código de Derecho Canónico. Edición bilingüe comentada por los profesores de la Facultad de Derecho Canónico de la Universidad Pontificia de Salamanca, Madrid 19892, p. 586. Sembra che l’autore nel proporre gli esempi sia rimasto fedele alla sua opinione favorevole alla formulazione del I Schema del Codice.

[21]The Code of Canon Law. A Text and Commentary, commissioned by The Canon Law Society of America, London 1985, p. 847.

[22] Cfr. G.P. Montini, La cessazione degli edifici di culto, cit., p. 287.

[23]Contra F. Daneels, Soppressione, unione di parrocchie e riduzione a uso profano della chiesa parrocchiale,cit., p. 126.

[24] Cfr. G.P. Montini, La cessazione degli edifici di culto, cit., p. 287, il quale rileva che per il noto principio che «quod plus est continet minus» il § 1 diverrebbe superfluo: se il Legislatore non lo ha ritenuto superfluo è certamente a motivo della sua carica interpretativa dell’intera fattispecie della soppressione di una chiesa. L’impostazione del prescritto del can. 1222, e in particolare del § 2, depone chiaramente per «una chiara preferenza della Chiesa per la conservazione delle chiese, a meno che una grave causa non consigli il contrario». Non è tanto il bene del mantenimento e della conservazione di una chiesa che va dimostrato, quanto le ragioni per la sua dismissione: «La riduzione di una chiesa a uso profano è un’eccezione al principio»; Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Notes on the Meeting of 27 November 1995 (prot. n. 26600/95/CA), n. 1, cit. in F. Daneels, Soppressione, unione di parrocchie e riduzione a uso profano della chiesa parrocchiale, cit., p. 126 nt. 32.

[25]Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica,  Decretum 4 maggio 1996, in W.L. Daniel, Ministerium Iustitiae. Jurisprudence of the Supreme Tribunal of the Apostolic Signatura. Official Latin with English Translation, Translated by William L. Daniel Montréal 2011, pp. 488-501; anche in Ius Ecclesiae 10 (1998), pp. 189-195; Forum 7 (1996), pp. 347-357; Il diritto ecclesiastico 108/II (1997), pp. 11-15.

[26] Si legge nella sentenza: «Conservatio trium ecclesiarum intolerabile onus oeconomicum novae paroeciae imponeret. Attento quod curae pastorali fidelium, ob immutatas circumstantias, illae amplius non inserviunt, dum nova paroecia inde ab erectione ingenti aere alieno gravatur, venditio harum ecclesiarum confestim efficax subsidium necessitatibus urgentioribus novae paroeciae praestat, quod secus prorsus deficeret. Nam numerus fidelium, quorum oblationibus nova paroecia praesertim sustinetur, in dies minuit»;Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Sententia n. 9, in W.L. Daniel, Ministerium Iustitiae. Jurisprudence of the Supreme Tribunal of the Apostolic Signatura. Official Latin with English Translation, cit., pp. 514-528; Ius Ecclesiae 10 (1998), pp. 196-203; Forum 7 (1996), pp. 359-371; Il diritto ecclesiastico 108 (1997) II, pp. 3-7. Traduzioni inglesi: W.L. Daniel, Ministerium Iustitiae. Jurisprudence of the Supreme Tribunal of the Apostolic Signatura. Official Latin with English Translation, cit., pp. 514-528; Digest XIV, pp. 1101-1109; Forum 7 (1996), pp. 359-371. Commento: C. Gullo, Brevi note sulla gravità della “causa” necessaria per ridurre la chiesa ad uso profano, in Il diritto ecclesiastico 108 (1997) II, pp. 7-11.

[27]«Difficultas solvitur aequo perpendendo litteram legis, hinc enim confirmat facultatem Ordinariis locorum reducendi ecclesias ad usum profanum non sordidum; inde, usus legitimus facultatis pendet a gravitate causarum ob quas ad reductionem deveniendum est. Causae ergo a lege requiruntur graves, nec gravissimae: excluduntur igitur nugae vel causae quae suapte natura graves haberi nequeunt, dum e contra gravitas causae, etsi apparenter levi innititur fundamento, diversimode aestimari potest si diligenter considerentur circumstantiae vel loci, vel rei oeconomicae vel personarum, quae Ordinario apprime innotescunt: re quidem vera quaestio est facti», Sententia definitiva, X et Y - Congregatio pro Clericis, Reductionis ecclesiae in usum profanum, coram Agustoni, cit., n. 6.

[28] Cfr. F. Daneels, Soppressione, unione di parrocchie e riduzione a uso profano della chiesa parrocchiale, cit., pp. 127-130. Pur non essendo questa la sede per disquisire sulla (mancata) individuazione o esemplificazione di tali «gravi cause» sia permesso condividere quanto sottolinea G.P. Montini, La cessazione degli edifici di culto, cit., pp. 289-290: »Soprattutto in ordine a quest’ultima ragione (il peso economico costituito dal rendere e/o conservare efficiente l’edificio sacro, anche secondo le normative civili) il giudizio circa la gravità sembra lasciato al vescovo diocesano, anche in sede di esame giurisdizionale della legittimità del decreto, sulla base del fatto che il vescovo diocesano più di chiunque è in grado di conoscere il reale stato delle cose: la gravità e la non gravità della causa «si possono giudicare diversamente solo se si considerano le circostanze di luogo, di patrimonio e di persone» (Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, Decretum 4 maggio 1996, nn. 6-9, in Il diritto ecclesiastico II [1997], 3-7). Se sui principi testé enunciati si può convenire, non v’è chi non veda che in tal modo si lascia al vescovo stesso di «denominare» come «graves» le ragioni economiche che lo hanno determinato alla riduzione a uso profano della chiesa, eludendo la verifica della oggettività della gravitas richiesta dalla competenza a giudicare le violazioni di legge in decernendo degli atti amministrativi. Al di là del giudizio sui casi concreti, pare che il Supremo Tribunale della Segnatura abbia trascurato un’occasione propizia per indicare formalmente e giudizialmente in modo autorevole i criteri giuridici in base ai quali giudicare l’esistenza o l’inesistenza di una causa grave, distinguendola da una causa pastorale qualsiasi. Il presupposto di un atto legittimo dell’autorità amministrativa sembra divenire praesumptio iuris ac de iure».

[29] «Temo che non ne verrà mai a capo. Nessuno prima di lui s’era curato di sapere, almeno all’ingrosso, dando di sfuggita un’occhiata ai dorsi, che razza di libri quel Monsignore avesse donato al Comune: si riteneva che tutti o quasi dovessero trattare di materie religiose. Ora il Pellegrinotto humenaa scoperto, per maggior sua consolazione, una varietà grandissima di materie nella biblioteca di Monsignore; e siccome i libri furon presi di qua e di là nel magazzino e accozzati così come venivano sotto mano, la confusione è indescrivibile. Si sono strette per la vicinanza fra questi libri amicizie oltre ogni dire speciose: don Eligio Pellegrinotto mi ha detto, ad esempio, che ha stentato non poco a staccare da un trattato molto licenziosoDell’arte di amar le donne, libri tre di Anton Muzio Porro, dell’anno 1571, unaVita e morte di Faustino Materucci, Benedettino di Polirone, che taluni chiamano beato, biografia edita a Mantova nel 1625. Per l’umidità, le legature de’ due volumi si erano fraternamente appiccicate. Notare che nel libro secondo di quel trattato licenzioso si discorre a lungo della vita e delle avventure monacali».

Sammassimo Anna



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